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Autore: Adeia Di Elferas    19/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Gerolamo Landriani teneva strette le redini del suo cavallo, cercando di restare il più possibile a distanza dai tafferugli che si erano accesi appena sotto al palazzo di via Rugabella, quello in cui, fino a pochi giorni prima era stato abitato dalla famiglia di Gian Giacomo da Trivulzio.

Anche se Gerolamo era il generale degli Umiliati, nemmeno lui poteva dirsi al sicuro, perché quando la gente comune dava sfogo alla propria rabbia, era impossibile contenerla.

Era il 28 gennaio e Milano era sotto attacco fin dal giorno precedente. La sommossa era iniziata quasi in sordina, dai quartieri più poveri, e poi era divampata ovunque, e i francesi sembravano incapaci di farvi fronte. Di quel passo, il Landriani era certo che sarebbe riuscito a preparare il campo all'arrivo del Moro molto più facilmente del previsto.

Era stato infatti lui, assieme agli altri due punti di riferimento degli Umiliati – il gruppo di ribelli che rivoleva gli Sforza a Milano – a orchestrare tutta quella confusione, al solo scopo di sbalestrare il Trivulzio e mettere in difficoltà le poche guardie francesi rimaste in città.

Gerolamo, con Leonardo Visconti, Abate di San Celso, Alessandro Crivelli, protonotario apostolico e prevosto di San Pietro, e Monsignor Battista Visconti non si erano limitati a radunare e armare tutti i milanesi che desideravano il ritorno del Moro, o anche solo la liberazione dagli stranieri: avevano fatto molto di più.

Da settimane inviavano lettere a Ludovico Sforza, incitandolo, pregandolo, promettendogli il loro appoggio. Avevano chiesto il suo intervento in ogni modo e, quando stavano quasi perdendo la speranza di avere una sua risposta, ecco che il Moro non solo inviava loro delle missive in cui assicurava un suo pronto intervento, ma, addirittura, invadeva la Val Tellina e il comasco, deciso a riprendersi il Ducato, alla testa di un esercito di tutto rispetto.

Il Landriani, il giorno prima, si era sentito euforico. Quando aveva visto appiccarsi i primi fuochi e aveva sentito i primi motti dei rivoltosi, il suo cuore si era gonfiato d'orgoglio e i suoi cinquant'anni suonati se n'erano andati, lasciandogli il vigore di un ventenne.

Era dal 30 agosto che aspettava di avere vendetta: suo padre Antonio, che era stato Consigliere del Ducato, nonché Tesoriere Generale e Prefetto dell'Erario, era stato barbaramente trucidato proprio in quella data. Le mani che si erano imbrattate di sangue erano quelle di Simone Arrigoni, un dannato antisforzesco che aveva compiuto atti deplorevoli per preparare meglio la città all'arrivo dei francesi.

Anche se Gerolamo era solo un figlio illegittimo, il padre era stato per lui un esempio e un motivo di vanto. Vederlo uccidere in quel modo, aveva fatto scattare in lui una furia che in fretta si era trasformata in lucida organizzazione, portandolo a capeggiare gli Umiliati.

Quando poi, di recente, aveva potuto ritrovare un suo parente, Gian Piero, arrivato da pochissimo dalla Romagna, dalla quale era fuggito dopo la caduta di Imola, Gerolamo si era sentito ancor più in dovere di vendicare la propria famiglia. Il Landriani esule, infatti, gli aveva raccontato dell'eroica difesa messa in atto da Caterina Sforza, del modo in cui lei sola, in tutta Italia, avesse saputo rendere giustizia al proprio cognome. Gian Piero gli aveva anche detto, tra le lacrime, che probabilmente suo figlio Piero, che era stato fatto castellano di una rocca importante proprio per mano della Tigre, era rimasto ucciso nel corso di una battaglia.

Quello era stato per Gerolamo un dolore – benché non avesse mai conosciuto il ragazzo – ma anche un ulteriore motivo per inorgoglirsi: il povero Piero, nella sua ottica, era una conferma concreta del valore e della fedeltà dei Landriani, disposti a tutto, pur di vedere il trionfo degli Sforza, la famiglia che da sempre servivano e che sempre avrebbero amato e rispettato.

Gerolamo stava ancora ragionando sull'importanza del sangue, su quella delle parentele e sui rapporti di clientela, quando vide una manciata di Umiliati uscire dal palazzo di via Rugabella portando a braccio una ragazza. Indossava abiti da serva e, dalle poche parole che Gerolamo riuscì a intendere, era francese. Probabilmente si trattava di una domestica che non aveva voluto o non aveva potuto seguire la famiglia del Trivulzio nel palazzo di Porta Giovia, dove si erano trincerati.

Il Landriani fu tentato di intervenire, perché sapeva bene cosa le avrebbero fatto. Tuttavia, quando vide gli uomini strapparle di dosso gli abiti e contendersela senza aver cura di non farle male nello strattonarla, non ebbe lo spirito di fermarli.

La ragazza malediceva Milano e il nome degli Sforza. E in più – ammise, a fatica, con se stesso Gerolamo – se si fosse messo in mezzo, ben vestito com'era e con il suo costoso cavallo, avrebbero potuto non riconoscerlo, scambiandolo per un nemico, e piantargli un coltello in pancia.

Un po' vergognandosi di se stesso e un po' dicendosi che non si poteva fare altrimenti, il Landriani diede un colpetto al fianco della sua cavalcatura e lasciò la via, diretto in un'altra zona di Milano, a controllare che anche lì stesse andando tutto come doveva.

 

“Queste lettere – disse la staffetta, guardando Yves d'Alégre dritto negli occhi – sono state copiate in copia uguale identica per il Duca di Valentinois.”

Il francese, preoccupato per l'ufficialità della cosa, annuì, prendendo le missive e spiegando: “Il Duca è a Sant'Arcangelo. Lo troverete lì.”

“Allora, con vostro permesso, parto immediatamente.” disse il giovane.

Yves, che stava già aprendo la prima lettera, chiese: “Non aspettate la risposta?”

Il messaggero scosse il capo, mentre già si rimetteva la berretta: “No, mio signore. Si tratta di ordini, non di domande: una risposta non è prevista.”

Mentre veniva lasciato solo, l'Alégre cominciò a sudare freddo. Ordini diretti dal re di Francia non potevano che significare guai.

Andò vicino alla finestra. Avrebbe voluto che la Murata di Cesena fosse più luminosa. Odiava strizzare gli occhi in controluce per leggere meglio. E a quell'ora – era da poco passata l'alba del 29 gennaio – era anche difficile trovare il giusto bilanciamento tra le candele e il chiarore del sole nascente.

Il francese lesse in fretta e con massima attenzione prima un messaggio e poi l'altro. Ciò che vi era scritto, sostanzialmente, era simile. L'ordine era categorico e non ammetteva repliche: lui, Yves, doveva lasciare immediatamente la Romagna con tutto l'esercito e ricondurre in Lombardia tutte le truppe, al fine di ricongiungersi con i soldati inviati da Venezia e ricacciare indietro Ludovico Sforza che premeva ai confini del Ducato.

L'Alégre si mise a ragionare in fretta. Era vero che buona parte dell'esercito era ancora con lui e che il Borja stava aspettando di avere le idee più chiare riguardo Pesaro, prima di farle spostare, ma alcune colonne erano proprio con Cesare vicino a Sant'Arcangelo.

Doveva mettersi in contatto con lui, intimandogli di restituirgli il dominio sull'esercito? Oppure poteva aspettare che anche il figlio del papa ricevesse i messaggi e agisse di conseguenza?

C'era un'altra questione, collegata a quei fatti... Re Luigi voleva che anche il Balì di Digione cavalcasse alla volta della Lombardia. In quel caso, che ne avrebbero fatto di Caterina Sforza? La si doveva lasciare al Valentino, che, alla fin fine, aveva vinto la battaglia per la custodia, pagando Antonio di Baissay, oppure l'Alégre, in qualità di pacere e garante, avrebbe potuto portarla con sé fino a Milano?

E in tal caso, sarebbe stato prudente portare una Sforza – forse l'unica ancora degna di portare quel nome – nelle sue terre d'origine, rischiando, forse, di sobillare altri gruppi filosforzeschi come quelli che stavano dando del filo da torcere a Gian Giacomo da Trivulzio?

Frastornato da tutte quelle domande, Yves si ritirò nei suoi alloggi, chiedendo di non essere disturbato almeno fino a sera. L'unico motivo per cui avrebbero potuto importunarlo, sarebbe stato un messaggio del Borja. Tutto il resto, quel giorno, per lui passava in secondo piano.

 

Cesare si stava mordendo l'unghia del pollice, domandandosi se le voci che giravano incontrollate tra i suoi soldati – ovvero che Ottaviano Riario fosse giunto in armi in Forlì e avesse iniziato a far strage di quelli che venivano considerati traditori della Tigre – fossero in qualche misura vere.

Da quello che aveva potuto sapere riguardo il primogenito della Sforza, riteneva improbabile che stesse guidando una simile azione, ma era pur vero che molti suoi uomini erano stati liberati su cauzione, o avevano potuto avere dei contatti con altri capitani di ventura...

Era mattina, la luce del sole era ancora incerta, e Cesare stava aspettando che arrivasse l'ora stabilita per l'incontro con i suoi generali: quel giorno avrebbero dovuto decidere in che modo sferrare un primo attacco a Pesaro, facendo sì che Giovanni Sforza, umiliato e in difficoltà, fosse il primo a proporre un accordo per la resa.

Così, quando il Borja sentì bussare, credette che fosse il suo attendente che lo chiamava per la riunione. Invece, nel momento stesso in cui si aprì la porta, si trovò davanti un messaggero, accompagnato da un'altra staffetta, un po' più giovane.

“Che succede?” chiese, scorgendo l'espressione un po' tesa dei due.

“Ci sono ordini dal re di Francia. Una copia identica è stata consegnata questa mattina anche a Yves d'Alégre.” spiegò il messaggero, porgendogli due missive: “Non si aspetta risposta.”

Il Valentino avvertì una scossa lungo la schiena, quasi un presentimento. Proprio ora che la sua campagna cominciava a funzionare, proprio ora che aveva neutralizzato la Tigre di Forlì e si apprestava a fare man bassa di tutti i signorotti romagnoli, riconducendo l'intera regione sotto il dominio pressoché diretto del Vaticano, ecco, proprio ora re Luigi si ricordava di lui e gli mandava degli ordini.

“Se non c'è risposta – disse il Borja, sbrigativo – allora lasciatemi solo.”

Mentre le due staffette facevano come era stato chiesto loro, il giovane sospirò e aprì la prima lettera con un gesto secco. Lesse entrambi i messaggi in fretta, con una rabbia sempre più incontrollata che montava riga dopo riga. E assieme alla rabbia, stava arrivando in fretta anche la paura.

Se la parte più irrazionale del suo cervello gli aveva fatto primariamente registrare un fatto, ovvero che Luigi XII lo stava umiliando, facendo quasi carta straccia degli accordi presi mesi prima con il papa, limitando la sua libertà d'azione richiamando a sé i comandanti francesi migliori e, di fatto, richiamando l'intero esercito al nord, la parte invece più logica e concreta lo metteva davanti a una questione molto meno filosofica, e molto più pratica.

Senza più i soldati francesi, che sarebbero ripartiti, stando alle parole del re, immediatamente verso Milano, per tamponare l'avanzata del Moro, a Cesare cosa sarebbe rimasto? Avrebbe potuto disporre di cosa? Di un manipolo di... Quanti? Settecento, ottocento uomini? Come poteva concludere una campagna militare a quel modo?

Cominciando a ragionare in fretta, il Valentino si mise a camminare avanti e indietro per la camera, senza requie, le gambe che cedevano appena, mentre gli si affacciavano gli scenari peggiori.

Alla fine ebbe un'idea che gli parve geniale: avrebbe fatto di una tremenda disgrazia una perfetta occasione per mettersi in mostra. Prima di tutto, pensò, avrebbe preteso di riavere per sé Caterina Sforza: non poteva certo lasciarla in mano al Balì o all'Alégre, dato che stavano per andare a Milano.

In secondo luogo, avrebbe usato la suddetta prigioniera come una preda di guerra da esibire. Si sarebbe messo in marcia verso Roma e, avvisando per tempo suo padre, avrebbe fatto in modo di entrare in città in modo trionfale, come un imperatore del passato. Tutti avrebbero visto il suo trofeo.

Infine, una volta che i francesi avessero rimesso al suo posto Ludovico Sforza, avrebbe potuto pretendere un loro prontissimo intervento, pena il considerare i patti con il papa infranti. Re Luigi, per quanto arrogante, non avrebbe certo rischiato tanto facilmente una scomunica...

Cesare, improvvisamente esaltato da tutte quelle prospettive, lasciò il salone del palazzo in cui aveva preso alloggio, per cercare i suoi ufficiali. Nel farlo, però, si rese anche conto di un altro dettaglio fondamentale: c'era il rischio di perdere ciò che si era conquistato.

Fu così che, quando arrivò in presenza dei suoi generali, che si erano intanto radunati per la riunione prevista, riguardante la cattura di Pesaro, invece di parlare di come corrompere Giovanni Sforza, il figlio del papa dichiarò: “Lasceremo Ercole Bentivoglio, con cinquecento soldati a cavallo a guardia di Forlì e Forlimpopoli. Mentre Juan da Cardona avrà trecento lance, e resterà saldamente alla difesa di Ravaldino. Noi, invece, dobbiamo andare subito a Cesena. Organizzeremo il campo appena fuori dalla città.”

Un po' frastornati, i generali non dissero nulla per un po'. Anche quando, però, qualcuno azzardò una domanda, il Duca di Valentinois non ammise questioni e così, nell'arco di meno di mezz'ora, l'esercito e i graduati si stavano già preparando a lasciare Sant'Arcangelo.

 

Stava scendendo la sera. Caterina aveva intuito che vi fosse del movimento, tra i francesi, ma più che qualche ordine gridato in modo disarticolato e qualche movimento di truppe appena fuori dalla rocca soprannominata Murata, la Sforza non aveva avuto modo di sentire o vedere.

Aveva come l'impressione che si stessero tutti preparando a partire, e il modo apatico in cui stava prendendo quella novità sorprendeva lei per prima.

Le uniche cose a cui riusciva a pensare con un minimo di trasporto, in quel momento, appartenevano al passato.

Senza volerlo davvero, infatti, nelle lunghe ore passate in solitudine, si era messa a ricordare. In primo luogo, aveva fatto un involontario parallelismo tra quel gennaio e quello in cui lei e Giovanni Medici avevano cominciato ad avvicinarsi davvero. Il paragone era stato così crudele, da indurla a imporsi di cambiare memorie da rispolverare.

Di male in peggio, però, aveva cominciato a ripensare al suo Giacomo, alla prima volta in cui l'aveva baciato, trovandolo fradicio di pioggia e quasi spaventato. Ricordava la sicurezza sempre crescente che il suo secondo marito aveva dimostrato, nel conoscerla, nell'amarla, nel volerla al proprio fianco.

Poteva quasi sentire di nuovo nelle vene la sensazione prorompente della vita che l'aveva chiamata, quando si chiudeva in camera con lui, all'insaputa del mondo, prendendosi uno spazio che, finalmente, non solo le era concesso, ma addirittura dovuto, come risarcimento per aver passato troppi anni sotto al gioco di Girolamo Riario.

La Tigre stava rimuginando sul fatto che, verosimilmente, non avrebbe mai più potuto andare sulla tomba del suo Giacomo – così come non avrebbe potuto farlo nemmeno su quella di Ottaviano Manfredi, ma nemmeno si quella di Giovanni Medici, che era addirittura a Firenze – quando sentì qualcuno aprire la porta.

Yves d'Alégre la stava guardando in modo strano e non sembrava decidersi a parlare. La Sforza, di contro, non aveva intenzione di ascoltarlo, quindi non solo non gli domandò perché fosse lì, ma voltò anche il viso dall'altra parte, facendo quasi finta di non essersi accorta della sua presenza.

Il francese aveva ricevuto, nel tardo pomeriggio, un messaggio categorico da parte del Borja e, ormai, Cesare e i suoi uomini erano accampati appena fuori Cesena. Lui aveva aspettato fino all'ultimo minuto, ma il figlio del papa reclamava i propri diritti.

In effetti, gli ultimi accordi lo davano come il legittimo custode della Leonessa, seppur in termini meno rigidi rispetto alla prima prigionia della donna. Yves aveva provato a cercare un appiglio, ma sapeva che il re pretendeva un'azione rapida: non poteva, quindi, perdere altro tempo per litigarsi la custodia di una prigioniera, quando al nord c'era bisogno di lui e dell'esercito.

“Madonna – disse, a voce bassa, allacciandosi le mani dietro la schiena e abbassando lo sguardo con aria colpevole – avrei dovuto mandarvi subito due vostre dame di compagnia a prepararvi, ma ho preferito prima venire a parlarvi di persona.”

“Stiamo per partire per Roma?” chiese Caterina, ostentando impassibilità, ma avvertendo un tremito nel petto, mentre cominciava a capire, dal tono dimesso del francese, che doveva essere subentrato qualche grave inconveniente.

“Voi probabilmente sì...” rispose, un po' evasivo l'uomo, prima di aggiungere: “Voglio che sappiate che non dipende da me. Ho avuto ordini dal re di Francia, e non posso fare altrimenti. Anche il Balì di Digione non è d'accordo, ma...”

“Di cosa state parlando?” gli occhi verdi della Sforza saettarono verso quelli del suo interlocutore, incrociandoli solo per qualche istante.

“Anche l'Aubigny non è favorevole a lasciarvi di nuovo a lui, ma il Duca ha pagato e...” stava proseguendo l'Alégre, sollevando un po' le spalle, in una posizione di istintiva difesa.

A quel punto la Tigre capì. Incontrollato, un conato di vomito la scossa da capo a piedi, ma riuscì a trattenere nello stomaco la cena frugale che le era stata portata circa un'ora addietro. Non voleva credere di essere sul punto di tornare tra le grinfie del Borja.

A nulla, poi, valevano le parole spizzicate di Yves, che le stava assicurando che il Valentino non avrebbe più osato alzare le mani su di lei, non dopo gli accordi stringenti che aveva preso, specie ora, che si vedeva togliere l'esercito e che doveva ripiegare.

“Lo pensavate anche quando mi avete consegnata a lui quando siamo arrivati qui a Cesena.” fece presente la Leonessa, al mero scopo di far sentire in colpa l'Alégre, ma ben sapendo che ormai la decisione era stata presa e che nulla l'avrebbe cambiata: “Dicevate che il figlio del papa non avrebbe fatto nulla, che avevate un accordo... L'inferno che mi ha fatto passare in una sola notte... Non so se avete figlie, ma se fosse così, non augurerei quello che ho passato nemmeno a una di loro, malgrado l'odio che vi porto in questo momento.”

Il francese accettò quello sfogo, ma, rabbuiandosi, dovette concludere con un semplice: “Questo è quanto deciso, ormai. Volevo solo farvi sapere che non è stato per mio volere.”

Caterina non ribatté più, andandosi a sedere sul letto con fare compito, ricalcando, quasi, la sceneggiata che aveva portato avanti per anni, a Milano, dopo che suo padre l'aveva venduta a Girolamo Riario. Solo che, se per Galeazzo Maria vederla spegnersi e comportarsi come una vera nobildonna era stato un dolore, all'Alégre non fece nessun effetto particolare. Anzi, dall'espressione che fece l'uomo, forse quell'atteggiamento dimesso era stato per lui una sorta di tacito perdono.

Argentina e un'altra ragazza arrivarono dopo pochi minuti. Non avevano nemmeno le parole per incoraggiare la loro signora. Poterono solo farle sapere che, da quello che avevano origliato, buona parte degli ostaggi erano ancora in mano borgiana, ma che, se per certi il trasbordo a Roma era quasi sicuro, per altri si parlava di una liberazione anticipata, a suon di contanti, per alleggerire l'esercito in marcia.

Malgrado la sorte dei suoi fedelissimi stesse molto a cuore della Tigre, in quel momento la donna si sentiva tanto svuotata da non poter nemmeno essere felice per quelli che se la sarebbero cavata con una lauta somma di denaro.

Era ormai buio pesto, quando l'Alégre si vide consegnare dalle due dame di compagnia la Sforza.

L'accompagnò, senza bisogno di tenerla legata, fino al limitare della città. Da lì si potevano vedere le luci dell'accampamento di Cesare. Un piccolo manipolo di soldati francesi stava aspettando per prenderla in consegna e scortarla fino a destinazione.

“Non mi accompagnate?” chiese la Leonessa, capendo che Yves non avrebbe fatto nemmeno un passo oltre la cinta muraria di Cesena.

Il francese schiuse appena le labbra e poi, scuotendo il capo, rispose: “No.”

In realtà l'Alégre avrebbe voluto eccome accompagnarla fino dal Borja, per ribadire i termini del loro accordo. Tuttavia, lo stesso Cesare gli aveva intimato di lasciar andare la prigioniera da sola, e lui non voleva trattenersi un momento di più in Romagna. Aveva già deciso che, nel momento stesso in cui avesse consegnato la Tigre, avrebbe dato ordine di mettersi in marcia per la Lombardia.

Il Balì, invece, avrebbe guidato le truppe restituite dal Borja, e quindi sarebbe partito con qualche ora di scarto.

Caterina non provò oltre a impietosire Yves. Chiese solo se davvero anche il suo seguito sarebbe stato portato al campo del Valentino, e quando sentì il francese dire di sì in modo perentorio, non fece altre domande.

L'Alégre fece un cenno ai soldati francesi. Quattro di loro avanzarono in fretta verso la Leonessa, e le legarono le mani.

“Avete davvero paura che vi ammazzi tutti?” chiese lei, sollevando un sopracciglio, chiedendosi se i quattro uomini che la stavano imbrigliando la capissero: “Mi avete tolto le zanne, mi volete legare gli artigli... Che gusto c'è, ad ammazzare una Tigre così?”

Siccome nessuno commentò, la donna tacque e li seguì, opponendo, però, una sterile resistenza.

Yves la fissava, con il cuore che si stringeva a ogni passo del piccolo corteo che la stava scortando dal suo carnefice. La stavano quasi trascinando, ma lui che poteva fare? Nulla.

Con un sospiro tremulo, le diede un'ultima occhiata e poi, tornando al di qua della cinta muraria, chiamò a sé un paio di ufficiali e diede l'ordine di prepararsi a partire nel giro di venti minuti.

Per quanto lo infastidisse pensare alla Sforza di nuovo in mano al Duca di Valentinois, ormai aveva altro a cui pensare: quella donna, nel bene e nel male, non era più affar suo.

 

Caterina arrivò al campo molto più in fretta di quanto avrebbe voluto. La sistemarono in un padiglione apparentemente vuoto e poi le fecero presente che all'ingresso della tenda ci sarebbero stati ben dieci uomini armati.

“Non scapperò.” disse lei, in rimando a quell'inciso: “State tranquilli.”

Rimasta sola, si era seduta in terra, vicino a uno dei piloni di legno che sostenevano l'intera struttura. C'era poca luce, e faceva freddo. Lei indossava un abito tutto sommato leggero. Si rese subito conto che, a parte un paio di sgabelli e un tavolino, in quel padiglione non c'era nulla, nemmeno un giaciglio per riposare.

In un certo senso, l'assenza di una branda da campo la rincuorava: forse il Borja davvero non avrebbe avuto di nuovo il coraggio di sfruttarla come una schiava da letto. D'altro canto, siccome quella sembrava una tenda da adibire a riunioni o cose simili, cominciava a temere che il Duca sarebbe arrivato e l'avrebbe condotta nel suo padiglione personale.

Dovette aspettare meno di un'ora, per conoscere, almeno in parte il suo destino. Con un lungo mantello nero e un cappello pesante, Cesare entrò nella tenda seguito da un figuro dal volto corrucciato.

“Miguel – gli disse il figlio del papa – aspettami fuori.”

Quello, trattenendo visibilmente un moto di insofferenza per quella richiesta, fece come gli era stato detto.

“Non mi saluti nemmeno?” chiese il Borja, sorridendo mellifluo alla volta di Caterina.

“Non saluto le bestie, a meno che non vi sia affezionata.” ribatté fredda la Sforza, alzandosi da terra e fissandolo.

“Ti hanno dato da mangiare, in questi giorni...” soppesò lui, vedendola più rosea e in forze di come non l'avesse lasciata: “Ti hanno trattata da regina.”

La Leonessa non disse nulla. Avrebbe voluto fare qualche commento sprezzante, ma il Valentino aveva mosso un paio di passi verso di lei, e aveva lasciato scivolare il mantello su una spalla sola.

Quei semplici gesti l'avevano paralizzata. Non voleva, per nessun motivo, che il Borja le si avvicinasse, tanto meno che si mettesse comodo o si spogliasse. Non voleva più che la toccasse, anzi, che la sfiorasse. Quindi non doveva aizzarlo, in nessun modo.

“Domani partiremo per Roma.” disse piano lui, guardandola in modo strano, quasi anche lui cominciasse a sentire una strana paura chiudergli lo stomaco: “Ma ci andremo con calma. Non c'è fretta.”

Lo sguardo interrogativo della prigioniera era esattamente ciò che Cesare attendeva per dare la sua stilettata.

Anche se per il momento non aveva intenzione di usarle di nuovo violenza sul piano fisico – perché temeva in modo molto più concreto l'eventuale reazione diplomatica francese, ora che l'esercito si stava allontanando – non voleva risparmiarle un po' di violenza psicologica.

“Mi farò dire quali città hai toccato, durante il tuo trionfale viaggio da Milano a Roma, quando avevi sposato il nipote di quel cane di Sisto IV...” spiegò Cesare, con un sorrisetto, mentre scorgeva il volto della sua nemica cambiare colore: “Cosicché quelli che ti hanno vista passare come una gran sovrana, tronfia e gongolante, con l'anello di quell'incapace di Girolamo Riario al dito, ora ti vedano strisciare come una larva, in catene, disponibile al mio personalissimo uso, come la più grande put...”

“Quanto sei infantile.” lo interruppe lei, non riuscendo più a tacere: “Vuoi far vedere a tutti il tuo giocattolo nuovo... Stai attento, perché alla fine qualcuno potrebbe infastidirsi...”

“Parli solo perché hai perso tu.” rimbeccò lui, assumendo realmente un atteggiamento puerile: “Se fossi stata tu a vincere, avresti fatto altrettanto.”

Caterina aggrottò appena la fronte e scosse il capo: “No, non avrei fatto così.”

Il Valentino diede in una breve risata gracchiante ed esclamò: “Figuriamoci! Sentiamo! Che avresti fatto?”

“Io ti avrei ucciso subito.” rispose la Tigre di Forlì, sollevando appena il mento: “E ora vattene: sono stanca e non ho voglia di perdere altro tempo a parlare con un ragazzino come te.”

Cesare avrebbe voluto sapere come contrattaccare. Il modo, però, in cui la donna lo fissava, con aperta aria di sfida, mortificava la sua voglia di rivalsa. Se la sua mente stava già immaginando mille modi per fargliela pagare, il suo corpo, inerme, si ribellava a quella prospettiva.

Facendo quasi fatica a muovere un paio di passi in croce, il ventiquattrenne deglutì e, tornando verso l'uscita del padiglione, appena prima di lasciarla di nuovo sola, promise: “Questo viaggio, per te, sarà una vera e propria discesa all'inferno. Quando arriveremo a Roma, non chiederai altro se non la morte.”

 

 

 
   
 
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