Crossover
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Autore: Registe    22/06/2020    3 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 6 - Solitudine







Una rodiana








Settore R, livello centoventidue.
Un’anonima facciata grigia. Poco più di ventiquattr’ore a Coruscant avevano insegnato a Vexen che fermarsi troppo a lungo a fissare qualcosa significava esporsi invariabilmente a spinte e pestoni da parte dei passanti frettolosi, perciò si affrettò a trovare rifugio nell’androne, lasciando cadere a terra lo zaino con un gemito di sollievo. Si concesse un paio di minuti per riprendere il respiro.
Aveva percorso gli ultimi dieci chilometri a piedi, arrancando tra ascensori e piattaforme sospese, perché la sua riserva di crediti si era prosciugata appena prima di poter prendere l’ultimo mezzo, la navetta R-9 che faceva il giro completo del settore e, per qualche ragione incomprensibile, aveva una tariffa più alta degli altri trasporti pubblici dello stesso tipo.
Esausto, si era lasciato andare su uno scalino, incurante degli sguardi stupefatti lanciati da qualche residente di passaggio. Si riscosse soltanto all’idea che Zexion avrebbe potuto trovarlo lì uscendo o rientrando a casa, e con uno sforzo sovrumano comandò alle gambe tremolanti di rimettersi in piedi. Non voleva che il loro primo incontro avvenisse in pubblico. Per la verità, non avrebbe voluto nemmeno presentarsi davanti a suo nipote sporco dopo due giorni di viaggio estenuante e ridotto peggio di un ramingo della Terra II, ma non aveva molta scelta a riguardo.
Il nucleo abitativo R-TY444 occupava il grattacielo su due interi livelli e, con le sue finestrelle tutte rigorosamente uguali, sembrava costruito da tanti piccoli mattoncini da gioco impilati dalla mano di un bambino. A colpo d’occhio, doveva ospitare almeno un migliaio di appartamenti.
All’interno si dipanava un autentico labirinto. Gli bastò un’occhiata alle rampe di scale che si inerpicavano a perdita d’occhio per capire che quella via era fuori questione, a meno che non avesse voluto farsi venire un infarto ancora prima di raggiungere casa di Zexion. Di ascensori, nell’atrio principale, ce n’erano ben quattro, e dopo qualche minuto passato a decifrare contorti pannelli esplicativi lo scienziato riuscì a identificare quello che faceva al caso suo. Le porte scorrevoli si aprirono con un ronzio appena percettibile, rivelando un abitacolo piuttosto largo, foderato di metallo lucido e con un largo specchio sulla parete di fondo. Oltre a lui, non c’erano altri passeggeri. Selezionò il trantaseiesimo piano e l’ascensore partì, rapido e silenzioso com’era arrivato.
Lo specchio gli restituì uno sguardo affilato, guardingo. Non si era minimamente preparato cosa dire. Si era ripromesso più volte di farlo nel corso del viaggio, certo, ma in ogni momento c’era un ostacolo o un problema che richiedeva la sua attenzione, e Vexen aveva sempre tenuto in pausa quel pensiero, crogiolandosi nell’idea di avere tempo. Le porte si spalancarono anche troppo in fretta per i suoi gusti, risputandolo su un pianerottolo asettico, lucido come uno specchio, con la sola compagnia del suo zaino logoro e del battito sempre più fuori controllo del suo cuore.
La verità era che non gli sarebbe bastato tutto il tempo del mondo per trovare le parole adatte.
Il rettangolo grigio della porta di Zexion sembrava farsi beffe della sua insicurezza, rigoroso e impeccabile come ogni singolo dettaglio in quell’edificio. Vexen si avvicinò in punta di piedi, evitando persino di respirare, e controllò il nome sulla targhetta.
Ienzo Whiteflame.
Prese un respiro profondo, soffocò una bestemmia tra i denti e premette il pannello con tutta la forza che aveva. Un trillo prolungato risuonò da dietro la lastra di duracciaio, spegnendosi lentamente nel silenzio.
Vexen spostò il peso da un piede all’altro. Forse aveva sbagliato a presentarsi così. A piombare all’improvviso con la delicatezza di una bomba a orologeria. L’esplosione del Baan Palace era stata largamente pubblicizzata dalla propaganda imperiale (che naturalmente se n’era presa tutto il merito), e il ragazzo sicuramente lo credeva morto, ridotto a un pugno di atomi polverizzati nei cieli del loro mondo natale. Gli sarebbe preso un colpo a vederselo spuntare davanti senza alcun preavviso.
Accostò un orecchio alla porta, cercando di cogliere qualche segno di movimento all’interno. Nessun rumore di passi, nulla. Esitò ancora qualche secondo, poi sfiorò nuovamente il pannello, producendo un secondo trillo all’interno dell’abitazione.
Si rese conto di non aver considerato un’altra possibilità. Magari Zexion non viveva da solo. Probabilmente, dopo tutti quegli anni, si era rifatto una vita, e ora la presenza di un vecchio zio precipitato tra capo e collo sarebbe stata più un fastidio che un piacere.
Al terzo trillo fu chiaro che dentro l’appartamento non c’era nessuno.
Suo malgrado, Vexen si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Mancavano ancora un paio d’ore al tramonto, perciò era verosimile che il ragazzo fosse ancora a lavoro. Avrebbe avuto tempo per imbastire un minimo di discorso, prepararsi uno straccio di scusa. Approfittò di una finestra quadrata al centro del pianerottolo, collocata a pochi centimetri dal pavimento, il cui davanzale era abbastanza largo da potercisi sedere sopra in modo abbastanza confortevole. Da lì poteva tenere d’occhio sia l’ascensore che la porta di Zexion.
Appoggiò la schiena alla lastra di vetracciaio e attese.
Le parole del discorso per Zexion si ingarbugliarono quasi subito nella sua mente, riducendosi ben presto a una fradicia massa di autocommiserazione. Ci rinunciò. Le sue dita, incapaci di rimanere oziose, volarono sullo schermo dell’olopad e richiamarono i file sulle specie senzienti della galassia che aveva salvato in precedenza, nel tentativo di distrarre il cervello con l’afflusso massiccio di nuove informazioni.
Su quel pianerottolo stretto e pulito si sentiva come in una capsula al di fuori dello spazio e del tempo. Solo i raggi del sole provenienti da fuori davano l’idea dello scorrere delle ore, ma il ronzio frenetico di Coruscant era lontano anni luce, tenuto a bada dai materiali isolanti di cui era rivestito il grattacielo. Anche gli abitanti sembravano essersi vaporizzati nel nulla, perché Vexen non udiva passi per le scale né qualsiasi altro segno di vita dietro le tre porte grigie che, insieme a quella di Zexion, si stagliavano lungo le pareti.
Dopo una ventina di minuti si decise persino a recuperare i messaggi di Camus. Il loro numero, contrassegnato da un minaccioso indicatore rosso in un angolo dello schermo, presentava una crescita esponenziale direttamente proporzionale alle ore trascorse senza una risposta. Vexen non era sicuro che la memoria del dispositivo potesse reggere ancora a lungo.
Se non altro, il sacerdote aveva rinunciato quasi subito a giocare al finto offeso per la storia degli oggetti rubati. I messaggi più recenti erano una stringa infinita di raccomandazioni digitate con frenesia, a pochi minuti l’una dall’altra.
12.07: Eviti i livelli inferiori, se può. Sono pericolosi, specialmente di notte.
12.16: Le allego un file sui trasporti pubblici nell’emisfero nord.
12. 20: Mi faccia sapere se le serve qualcos’altro.
12.21: Non si dimentichi di mangiare!
Lo stomaco di Vexen scelse proprio quel momento per manifestare il suo disappunto, ricordandogli che il suo ultimo pasto risaliva ormai al volo da Nakadia. Dopotutto, nutrirsi regolarmente costava troppi crediti. Si rimproverò per aver ceduto alle lusinghe dei manicaretti ribelli durante gli ultimi tre mesi. Si era abituato troppo male.
13.34: Io e i miei amici siamo atterrati su Ithor. Il tempo è bello e presto saremo al campeggio.
Prima della partenza, Vexen aveva concordato con il sacerdote di non menzionare mai direttamente l’Alleanza nelle loro comunicazioni, per paura di intercettazioni imperiali. Lo scienziato non aveva idea di dove si stesse svolgendo la missione di Camus, ma sicuramente non era su Ithor.
Digitò una breve risposta per cercare di ergere una diga contro quel profluvio di raccomandazioni.
Sto bene. Ho trovato casa di Zexion, ma lui è fuori. Sto aspettando che torni.
E concluse tutto con un bel: “Buon campeggio!
Fuori, le cime dei grattacieli si accendevano ormai di bagliori arancioni. Una serie improvvisa di passi lungo le scale accelerò nuovamente il battito del cuore di Vexen, ma era solo una signora che rientrava a casa con due grosse buste della spesa. Grandi occhi senza pupille sopra un muso stretto e allungato, pelle verde e due piccole antenne simili a ventose sulla sommità di una testa rotonda, priva di capelli. Una rodiana, se le sue fonti erano accurate. La signora gli gettò uno sguardo con la fronte corrugata, poi posò le buste davanti alla porta di casa e iniziò a frugarsi le tasche. Trovò la tessera magnetica che fungeva da chiave dell’abitazione e spinse la porta, ma all’ultimo momento sembrò cambiare idea e si voltò nuovamente a guardarlo.
“Cerca qualcuno? Posso aiutarla in qualche modo?”
“No, la ringrazio. Sto aspettando che mio nipote rientri a casa.”
Nei grandi occhi da insetto della rodiana affiorò un bagliore incerto. “Suo nipote… vuole dire il signor Whiteflame? Per forza, è l’unico umano del pianerottolo, ma… è partito un paio di giorni fa.”
Le parole della rodiana impiegarono qualche secondo a farsi strada nel cervello di Vexen. Lo scienziato deglutì e sbatté le palpebre un paio di volte, la gola improvvisamente secca: “Come, prego?”
“Ma sì, l’ho incrociato che scendeva con una valigia… lo mandano spesso in giro per lavoro, credo. Un ragazzo ammodo, molto riservato. Lei è lo zio, ha detto?”
“Sì, ma… abbiamo perso i contatti. Lunga storia” fece un gesto con la mano, scansando l’argomento. La signora aveva tutta l’aria della comare impicciona che non vede l’ora di rallegrare le proprie giornate con nuove indiscrezioni sulla vita privata dei propri vicini. Aveva spinto dentro casa le buste e si era appoggiata con la schiena contro lo stipite della porta socchiusa, pregustando gossip nuovi di zecca.
“Non saprebbe dirmi quando rientrerà? O dov’è andato?”
“Oh, non ne ho idea” la rodiana allargò le braccia e si strinse nelle spalle. “Come ho detto, è molto riservato. Educato sì, ma mai che scambiasse due parole con qualcuno… certo, qui su Coruscant ciascuno si fa gli fa gli affari propri, ma da dove vengo io… “
Vexen si alzò in piedi di scatto, rimettendosi lo zaino in spalla. “La ringrazio molto, signora.”
La rodiana piegò la piccola bocca all’ingiù, evidentemente delusa di essere stata interrotta nel bel mezzo della sua filippica. Vexen non le diede il tempo di replicare, precipitandosi giù per le scale prima che lei potesse pronunciare anche solo mezza parola per trattenerlo.
Le sue gambe si fermarono da sole tre pianerottoli più in basso. Si era ripreso a sufficienza dalla scarpinata di dieci chilometri, tuttavia le ginocchia cedettero quasi di schianto, costringendolo a sedersi sul primo scalino a disposizione. Era in un vicolo cieco. Tanto per dare il colpo di grazia, il suo stomaco protestò ancora, ricordandogli che non aveva il becco di un quattrino né un posto dove andare a dormire. I suoi piani non erano mai andati tanto avanti nel tempo. Aveva scommesso tutto sulla possibilità di ritrovare Zexion in pochi giorni dal suo arrivo su Coruscant.
Aveva perso.
Rimase seduto a lungo, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa incassata tra le spalle. Alle sue spalle, attraverso il vetracciaio dell’immancabile finestra, anche l’ultimo bagliore arancione si spense pian piano sopra i grattacieli, tingendosi prima di viola e infine svanendo inghiottito dal nero di un cielo senza stelle. La superficie del pianeta, per contrasto, iniziò a sfavillare di luci colorate. Su Coruscant era calata la notte.
Alla fine fu costretto ad alzarsi, se non altro per placare il dolore agli arti irrigiditi. Si massaggiò i muscoli del collo indolenziti e guardò in alto, verso le rampe di scale oltre le quali attendeva, inamovibile e silenziosa, la porta di Zexion.
E decise di giocarsi il tutto per tutto.
Disegnare con un gessetto sul duracciaio fu un’impresa eroica. Dovette ripassare ogni linea diverse volte, con precisione maniacale, voltandosi ogni manciata di secondi per controllare, con la coda dell’occhio, che non arrivasse nessuno dall’ascensore o dalle scale. Gli parve di impiegare un’eternità, ma alla fine il cerchio fu pronto. Sfiorò il bordo esterno con le dita e impartì agli atomi l’ordine di allentare i loro legami. Non a tutti gli atomi, però: solo a quelli collocati lungo la linea di demarcazione del cerchio. Come un bambino alle prese con i suoi primi esercizi di geometria, ritagliò un cerchio nel duracciaio della porta.
Il blocco circolare cadde verso l’interno con un tonfo assordante che fece sobbalzare Vexen sul posto. Si affrettò a raccogliere il gessetto e scavalcò l’apertura con una gamba, chinandosi per passare attraverso il buco appena creato. Una volta dentro si avventò sul blocco, ma era più pesante di quel che credesse. Non riusciva a sollevarlo.
Bestemmiò, tendendo l’orecchio verso l’esterno. Un flebile ronzio gli segnalò che l’ascensore era in funzione. Certo, le probabilità che si fermasse proprio a quel piano erano remote, ma Vexen non aveva voglia di restare a guardare se aveva ragione attraverso il buco che lo denunciava ai quattro venti come ladro d’appartamento. In fretta e furia tracciò due rune aggiuntive sul cerchio, e con rabbia ordinò agli atomi di cambiare una seconda volta. Il blocco tremò leggermente e in un istante ne sentì la superficie ammorbidirsi e diventare cedevole e flessibile sotto le sue dita. Sollevò il blocco di gommapiuma e lo collocò nel buco aperto. Non sapeva se fosse uno scherzo dei nervi a fior di pelle o meno, ma gli parve che il ronzio dell’ascensore aumentasse d’intensità.
Impartì l’ordine finale proprio mentre sentiva le porte scorrevoli spalancarsi sul pianerottolo del trentaseiesimo piano. Gli atomi tornarono a legarsi saldamente tra loro, la gommapiuma ridivenne fredda, liscia e impenetrabile. La luce del pianerottolo fu tagliata fuori, facendo piombare l’ambiente in una fitta penombra. La porta era tornata un’unica parete di duracciaio inossidabile.
Ancora seduto sul pavimento, Vexen appoggiò una spalla alla parete dell’ingresso e prese una serie di respiri profondi. Attese con pazienza che gli occhi si abituassero al buio. Da fuori si udirono rumori di passi attutiti, un’altra porta che si apriva. Poi più nulla.
L’odore di chiuso lo assalì prima ancora di qualsiasi sensazione visiva. Dovette avanzare a tentoni nella semioscurità e tastare le pareti per qualche minuto prima di imbattersi in un interruttore. L’illuminazione al neon balenò come una lama crudele, gettando il suo faro asettico su una casa tristemente vuota e fredda. Vexen strizzò gli occhi per il cambiamento improvviso e trattenne il respiro.
Come l’esterno, anche gli appartamenti del nucleo abitativo mostravano uno stile nettamente improntato alla praticità e all’efficienza: colori neutri, linee tondeggianti ed essenziali, arredamento minimalista. Tutto l’appartamento era costituito da un rettangolo compatto suddiviso in quattro ambienti essenziali: stanza da letto, cucina, bagno, stanza da giorno. Malgrado le dimensioni ridotte, non aveva l’aria di un ambiente povero o trascurato: la pelle sintetica del divano nel salottino profumava di nuovo, gli elettrodomestici in cucina scintillavano, il letto aveva un aspetto morbido e confortevole. In effetti, quelle stanze vuote e immacolate sembravano uscite direttamente dalle pagine di un catalogo immobiliare.
Una fitta di nostalgia lo sorprese al pensiero delle loro vecchie stanze al Castello dell’Oblio, accanto all’enorme laboratorio nei sotterranei. Il mosaico colorato dei disegni di Zexion sulle pareti, i cerchi delle tazze di tè sul legno della scrivania, libri e fogli di appunti sparsi su ogni superficie disponibile, l’angolo botanico dove Vexen aveva insegnato a suo nipote i rudimenti dell’erboristeria…
Niente di più diverso da quell’appartamento moderno e anonimo. Non c’era nulla che gli indicasse che Zexion avesse vissuto lì, nulla che lo aiutasse a capire dov’era andato. Persino gli abiti nell’armadio sarebbero potuti appartenere a uno qualsiasi dei miliardi di impiegati che ogni giorno dovevano riempire gli uffici pubblici di Coruscant. In cucina trovò soltanto un frigorifero vuoto e qualche barretta proteica nel ripiano di una credenza. Ne trangugiò un paio per placare i crampi allo stomaco, ma non sapevano di niente.
Quell’intero posto non sapeva di niente.
Alla fine, i suoi passi lo portarono in automatico verso la doccia. Si liberò dei vestiti, appallottolandoli con rabbia e calciandoli sul pavimento, e aprì al massimo il getto dell’acqua fredda, lasciando che lo scroscio gli inondasse il viso e assordasse le orecchie. Rimase a lungo nella piccola cabina, a osservare con la mente anestetizzata i getti d’acqua che gli sferzavano la pelle, portandosi via la sporcizia del viaggio e lasciandosi indietro scie di gelo che sembravano penetrare come lame fin dentro le vene. Si sentiva proprio così, in quel momento: come se tutto il sangue in circolo nel suo corpo fosse stato sostituito da aghi di ghiaccio.
Solo quando infine la sua pelle perse ogni sensibilità si decise a uscire. Si asciugò e si rivestì con gesti lenti e metodici. Rimosse con pazienza i nodi dai capelli e li fece asciugare sotto una pratica ventola che erogava aria calda.
Per la seconda volta nella giornata si guardò allo specchio e, malgrado adesso fosse pulito e in ordine, stentò a riconoscersi nell’individuo sgradevole, dalle spalle curve, che con la sua smorfia sghemba sembrava deriderlo dall’altro lato del vetro. Il suo riflesso gli ricordava con gioia maligna quello che in fondo aveva sempre saputo, da quando la sua strada e quella di Zexion si erano ritrovate per caso, quel giorno sul Baan Palace.
Suo nipote non si era rifatto una vita, su Coruscant. Non aveva trovato qualcuno con cui condividere le proprie giornate e le proprie passioni. Aveva smesso di collezionare libri, non disegnava più. In tre anni non aveva appeso nemmeno una banale decorazione alle sue pareti.
La vita di Zexion era vuota e solitaria come quelle quattro stanze, e la colpa era solo e soltanto sua.
Voltò le spalle all’uccello del malaugurio dentro lo specchio, soffocando l’ennesima imprecazione.
Il freddo, tuttavia, gli aveva fatto bene. Come usciti da una cella criogenica, gli ingranaggi del suo cervello ripresero a funzionare, iniziando a tracciare una rotta, un piano di azione.
Ogni angolo di quell’appartamento gli ricordava il suo fallimento epocale come genitore, ma era anche un rifugio. Un tetto sopra la testa. Il problema soldi e cibo si poteva risolvere rubando, o con le trasmutazioni alchemiche. I crediti imperiali, con il loro sistema interno di chip e filigrane metalliche, erano complessi da riprodurre alchemicamente, ma con abbastanza tempo, studio e tranquillità avrebbe potuto riuscirci.
Doveva solo armarsi di pazienza, e attendere che suo nipote tornasse.
Stava quasi per convincersi che le cose, in fondo, si sarebbero risolte per il meglio, quando una serie di fragorosi colpi metallici contro la porta lo strappò dai suoi sogni ad occhi aperti.
“Polizia di Coruscant! Aprite!” abbaiò una voce stentorea oltre la lastra di duracciaio.
“Arjen Summerwind, è in arresto per spionaggio e violazione della proprietà privata!”
 
 


 
 
Zam era abituata a non contare il tempo. Non aveva alcun senso, anche perché sarebbe andato avanti comunque, che a lei fosse piaciuto oppure no.
Non aveva tenuto il conto di quanti giorni fossero passati da quando aveva riaperto gli occhi nella Caverna del Drago, osservando la luce del giorno andare e venire come un semplice dato di fatto che non aveva nulla a che vedere con le numerose ore di sonno che il suo corpo continuava a richiedere. Per questo motivo rimase piuttosto sorpresa quando il Cavaliere del Drago le annunciò che avrebbe avuto ospiti. E, aggiunse, quegli ospiti avrebbero avuto piacere nel vedere anche lei.
Una novità, pensò Zam mentre era ancora costretta ad alzarsi in piedi con l’aiuto del Generale, visto che non le veniva in mente nessuno che avrebbe provato il benché minimo piacere nell’incontrarla, e questo avrebbe potuto dirlo anche di se stessa.
Fu per questo motivo che non trattenne un sorriso quando vide la figura del Generale Hadler, comandante in capo degli eserciti della famiglia demoniaca, in piedi davanti all’ingresso della caverna in cui dimorava il signore dei draghi. Un lungo mantello scuro gli copriva le spalle e le braccia, ma anche a quella distanza Zam riusciva a notare lo scorrere nervoso delle mani al di sotto della stoffa e l’espressione accigliata che mutò del tutto non appena si accorse della loro presenza; sentì gli occhi scuri del demone su di sé, ma non vi era traccia di quegli sguardi indagatori che era abituata a ricevere a Coruscant.
“Baran … ce l’hai fatta sul serio!”
“Così sembra”.
Le parve di sentire il braccio del Drago irrigidirsi, anche se solo per una manciata di secondi. “Ma credo che il merito sia più della nostra ospite”.
Il Generale Hadler smise di fissarla e sorrise, piegandosi leggermente in avanti. Sotto il mantello scuro indossava una lunga tunica bianca che riprendeva il tono dei suoi capelli: non doveva essere pratico nel portarla, perché a metà dell’inchino questa rimase incastrata sotto un piede e si tese fino a mozzargli a metà il movimento. Si rimise in piedi più in fretta che poté, stavolta con lo sguardo bloccato a terra chiaramente imbarazzato per la pessima entrata in scena. “Baran, tu sei il dio delle leggende della famiglia demoniaca. Se non puoi compiere tu un miracolo, nessuno può”.
L’Imperatore negli ultimi tempi le aveva chiesto numerose volte di performare delle trasformazioni che la rendessero uguale ai demoni; l’esecuzione era stata più lunga del previsto, perché lei stessa aveva bisogno di essere stata diverso tempo a contatto con una creatura per poterne carpire i migliori segreti e creare delle mutazioni accettabili, ma il maggior tempo che aveva trascorso con uno dei loro avversari era stato il duello che aveva sostenuto con il Generale Hadler sui grattacieli di Coruscant ed era stato appena sufficiente a conferirle informazioni utili per una trasformazione basilare.
I demoni, sotto alcuni punti di vista, non erano poi tanto diversi dagli umani. Durante la guerra ne aveva notati numerosi, dagli aspetti più disparati, alcuni alti quanto un wookie ed altri che non le sarebbero arrivati nemmeno alla spalla; avevano incarnati molto chiari, come accadeva a tante creature abituate a vivere lontane dalla luce del sole, ma la loro pelle assumeva toni rosa, azzurri, verdi, in altri casi bianca come la luna della Terra I. Ne aveva visti di robusti ma anche di eleganti e fragili, dunque trasformarsi in uno di loro le aveva richiesto molto più tempo del previsto.
L’unica certezza erano le lunghe orecchie appuntite che ogni membro della famiglia demoniaca ostentava con orgoglio.
Il Generale Hadler era più alto della maggior parte dei demoni che le fosse capitato di studiare. La superava di oltre una testa, e la pelle verde chiara contrastava con il panorama ingrigito delle lande dei draghi. Un segno nero, probabilmente dipinto, gli attraversava la parte sinistra del volto partendo dalla tempia e saettando fino all’altezza del collo, conferendo all’espressione del guerriero un aspetto più severo di quanto lei stessa ricordasse. I capelli chiarissimi gli ricadevano in disordine contro le spalle, ma a differenza degli umani Zam non era sicura che per i demoni il colore fosse un indice valido per stabilirne l’età. Pur sapendo che quelle creature potessero vivere a lungo -persino più di lei- avrebbe paragonato il Generale Hadler ad un umano nella prima metà della propria vita. “È un onore riaverti tra noi. Dico sul serio”.
“L’onore maggiore è mio. Il Generale Baran mi ha detto che la proposta del mio … ritorno …” disse, alla ricerca delle parole più adatte da usare “… viene soprattutto da lei. Non lo dimenticherò”.
“Mi hai salvato due volte. A Coruscant e su quella nave di Canastra. Credo che domandare un favore a Baran non possa essere nemmeno paragonabile a quello che hai fatto per me, per altro un tuo nemico”.
Dopo quel primo sguardo di stupore, notò Zam, il demone aveva difficoltà a fissarla negli occhi.
L’Imperatore aveva i propri mezzi per riportare in vita la gente; quello che per la famiglia demoniaca -e in generale per tutta la Galassia- il solo concetto di risurrezione era considerato qualcosa di oltre la comune comprensione. Non che l’Imperatore concedesse questo privilegio a chiunque, s’intende. Zam sapeva che il sovrano della Galassia aveva fatto sicuramente scandagliare tutti i fondali di Kamino per rinvenire il suo corpo, e non l’avrebbe mai riportata in vita per semplice apprezzamento delle sue capacità combattive.
L’Imperatore permetteva la resurrezione solo delle persone che gli servissero. Probabilmente quanto i normali abitanti dei pianeti del Nucleo decidessero se rottamare il loro droide guasto o portarlo ai centri di smaltimento per averne uno nuovo in cambio.
Le avrebbe restituito la vita solo per farla combattere ancora.
I demoni, al contrario, lo avevano fatto perché … non le era ben chiaro nemmeno a lei. Aveva il sospetto che fossero troppo orgogliosi per dirle che si fosse trattato soltanto di una questione d’onore. Aveva ucciso molti dei loro soldati, dopotutto. Quelle creature che avevano combattuto contro di lei senza quartiere avevano fatto qualcosa che nessun umano avrebbe mai osato anche solo pensare.
Nemmeno Boba, pensò tra sé. Probabilmente nemmeno lui. “A Coruscant ci siamo promessi un duello leale, Generale Hadler. Non vedo l’ora di poterlo onorare”.
“Con tutto il rispetto, signora, siamo un po’ a corto di guaritori. E le mie esperienze in fatto di puzzle non sono abbastanza per rimettere insieme i pezzi del nostro amico verde”.
La voce del nuovo arrivato la prese alla sprovvista.
Dall’interno della caverna uscì una figura coperta dal collo alle ginocchia con una tunica azzurra. Non si trattava di un abito elaborato come quello del demone, non aveva decorazioni a parte una semplice cintura di pelle; una massa di ciuffi disordinati copriva la fronte di quel viso, i capelli di una tonalità tra l’azzurro ed il grigio che Zam sapeva andasse di gran moda tra la nobiltà di Anaxes, anche se era pronta a scommettere che quel colore fosse del tutto naturale. Non era molto più alto di lei, ma l’enorme spada decorata che portava legata alle spalle e che sfiorava le pareti dell’ingresso lo faceva sembrare senza dubbio più imponente. E, sebbene la famiglia demoniaca manifestasse una netta avversione per tutte le altre razze, il giovane guerriero davanti a lei era indubbiamente umano.
Sebbene fosse la prima volta di persona, Zam Wesell aveva studiato in abbondanza i rapporti ed i filmati della battaglia di Coruscant per riconoscere in quella figura dagli occhi chiari il Generale Hyunkel, capo della divisione del Fushikidan del Grande Satana.
Il Cavaliere del Drago fece un lieve cenno con la testa. “Grazie per essere venuto, Hyunkel. So che non è stato facile per te liberarti”.
“E perdermi l’occasione di vedere con i miei occhi il motivo per cui Hadler ha messo l’unica tunica elegante che ha?”
I movimenti erano rigidi, formali, la schiena così dritta da sembrare sull’attenti, ma il fatto che si trattasse di un essere umano non le interessava e, ad essere onesti, non la riguardava. Sapeva che i Servizi avevano svolto delle indagini al riguardo, ma lei era l’ultima a potersi anche solo stupire di una cosa simile.
Ciò che la preoccupò, invece, fu il pendente che il ragazzo portava al collo.
La luce fioca della landa illuminava a malapena la forma piramidale dell’oggetto, la cui superficie era composta unicamente d’oro; anche alla loro distanza poteva intravedere le sottili venature che indicavano i numerosi pezzi che lo componevano, un ingegnoso puzzle che il ragazzo era riuscito a mettere insieme. Nonostante le dimensioni ed il materiale non doveva pesare eccessivamente, perché il Generale Hyunkel lo indossava con una sottile catena metallica che gli girava tutt’intorno al collo. Lungo la superficie esterna campeggiava l’unico pezzo leggermente in rilevo rispetto agli altri, la forma stilizzata di un occhio nero e dorato con delle sottili curve, quasi fossero lacrime, nella parte inferiore. Il guerriero si accorse che l’oggetto aveva attratto la sua attenzione, dunque ne coprì la superficie con la mano. “Sì. Sono stato io a ricomporlo”.
“Dunque … era lei quello su Kamino, Generale Hyunkel?”
“Non posso negarlo, signora” disse “Il Grande Satana mi ha concesso l’onore di usare questo potere per la sua causa”.
Ammirevole, si ritrovò a pensare. Il Grande Satana era morto, ed il suo palazzo ridotto in briciole siderali. Eppure sia il ragazzo che gli altri Generali sembravano parlare di lui come se fosse ancora da qualche parte, seduto sul suo trono a progettare un modo di riprendersi ciò che gli apparteneva dalle grinfie dell’Imperatore. O forse nel cuore dei suoi soldati era ancora vivo, come forse un vero sovrano sarebbe dovuto essere. Per quello che le importava, se l’Imperatore Palpatine fosse morto non avrebbe versato nemmeno una lacrima.
Forse fu per l’ammirazione che provò nell’entusiasmo del Generale Hyunkel che non riuscì a dare voce immediatamente ai propri pensieri, e quando il Cavaliere del Drago prese parola si accorse di avere ancora molte cose da dire. “Se i convenevoli sono terminati, riaccompagnerei la nostra ospite. Appena torno inizieremo la riunione”.
Zam capì di essere di troppo, ma per quanto avesse scambiato solo qualche frase con quelle figure ammise tra sé di sentirsi meglio, come un bicchiere d’acqua fresca dopo una lunga giornata su Tatooine; sempre aggrappata al braccio del Generale salutò le due figure, anche se il Generale Hadler sembrava aver assunto una tinta molto più rosea rispetto al suo normale color verdino.
Si voltò persino indietro per guardarli ancora, osservando il giovane umano rientrare con la stessa fluidità con cui era uscito e il demone che ancora fissava i loro movimenti.
Affondò ancora di più le dita nei bracciali del Cavaliere del Drago, respirando un’aria che odorava di fuoco e carbone.
Scrutando il cielo riuscì a scorgere una luce sottile che sparì tra le nuvole che dimostrava, senza ombra di dubbio, che uno dei draghi della valle fosse appena ripartito per chissà quale destinazione. Per quanto lei stessa potesse assumere le sembianze di quelle creature che per buona parte della Galassia appartenevano alle favole per spaventare i più piccoli, l’immagine della figura dalle squame luminose la emozionò. Adesso che la sua mente era meno intorpidita delle precedenti settimane assorbì dentro il suo intero sguardo le decine di grotte e caverne scavate nelle rocce scure delle montagne, alcune delle quali avevano ingressi così enormi da poter accogliere persino delle ville. Sapeva che alcune di esse si estendevano all’interno delle montagne per centinaia di chilometri, e le creature che le abitavano riempivano la vallata con i loro colori e le squame che ricordavano i metalli più preziosi del terreno. La maggior parte dei draghi preferiva riposare alla luce del sole, ma sapeva che le femmine proteggevano le uova dentro le caverne, e forse qualcuna stava riposando proprio sotto i suoi piedi.
Quella mattina lungo il terreno vulcanico si erano radunati più draghi di quanti lei ne avesse visti in tutti i suoi numerosi anni di vita. Alcuni più anziani, con le squame opache e cadute in più punti, trascorrevano il tempo fissandosi negli occhi, muovendo la coda in maniera sinuosa e schiudendo le ali per sgranchirle di tanto in tanto, mentre i più giovani si spostavano altrove, spesso in aria, mandando dei ruggiti che potevano scuotere il terreno. Vi erano anche draghi privi di ali che correvano come forsennati, e ne vide una decina rincorrere un essere che non riuscì ad identificare a quella distanza. Molto in lontananza, oltre la cortina di vapore arancione che copriva perennemente quel luogo, poteva scorgere la lunga linea del mare.
La maestà del Choryugudan, l’esercito draconico del Generale Baran, riuscì a strapparle un battito ancora più forte nel petto. Ma un pensiero freddo la riportò alla realtà, insieme a quelle parole che non era riuscita a formulare.
“Il Puzzle del Millennio … non è un oggetto da usare in modo sconsiderato”
Lui smise di camminare e la fissò negli occhi, con quello sguardo severo che lei stessa non riusciva a decifrare. “Se ti riferisci a quel pendente … sai meglio di che Hyunkel è riuscito a controllarne l’entità che vi dormiva all’interno. La nostra vittoria su Kamino la dobbiamo a lui”.
Si morse il labbro, cercando di trovare le parole. Era chiaro che il Cavaliere del Drago la credesse spaventata perché l’angelo richiamato dal potere del Puzzle l’aveva sconfitta nel corso del loro unico scontro, ma erano ben altri i pensieri che le mulinavano in testa come le acque scure del pianeta dei clonatori. “Con tutto il rispetto, Generale Baran, quell’artefatto è stato per anni nelle mani dell’Impero Galattico, e so di cosa sto parlando” disse, sapendo di star alzando la voce ad un livello che forse non le era consentito “Lo Spirito che dorme nel Puzzle non ha alcun padrone. E non cede i suoi poteri senza pretendere qualcosa in cambio”.
“Hyunkel è perfettamente in grado di …”
“Non lo è. Non lo è nessuno”
Nella vallata cadde il silenzio. Per un istante le sembrò che persino i giovani draghi che stavano provando le loro fiammate si fossero zittiti, forse in attesa di assalire la persona che aveva appena interrotto una frase del loro dio. Stava per darsi della stupida, ma ormai l’unica cosa che potesse fare era svuotare il sacco. “Quell’affare divorerà il Generale Hyunkel, mi creda. Se …” prese coraggio “…se tenete a lui vi imploro di fare attenzione”.
Il Drago la scrutò senza proferire parola. L’espressione sembrava scolpita nella pietra, e forse quegli occhi scurissimi stavano guardando oltre lei, quasi a cercare una traccia di menzogna nelle sue parole. Si costrinse a controllarsi, a non mostrare quale forma di timore le sorgesse al solo pensiero di quell’artefatto dorato nelle mani di qualsiasi essere vivente.
Specie dopo quello che aveva visto lei.
“Le do la mia parola, Generale”.
Lui si limitò ad annuire, ma percorsero gli ultimi passi verso la sua caverna nel più assoluto silenzio, con i piedi di entrambi che lasciavano cadere piccoli sassi grigi nel percorso. Nessun drago si sollevò nel cielo.
Arrivati all’ingresso lei chinò il capo in segno di congedo, ma sentì la mano dell’uomo poggiarsi sulla sua spalla; una stretta che non serviva soltanto a impedirle di lasciarlo senza permesso. “Dalle nostre parti rivelare informazioni su un’arma simile verrebbe considerato alto tradimento”.
“Anche dalle mie”.
C’era qualcosa sotto quelle dita. Un calore incredibile, una forza che vibrava come la lava di un vulcano. C’era del sangue in grado di restituire la vita, e c’era un essere le cui certezze millenarie avevano probabilmente cambiato quel mondo intero.
E, lo sentì quando la mano si schiuse leggermente per non farle male, c’era una Galassia di pensieri che soffiava sotto quell’elaborato diadema che le teneva a bada. “Ma non mi importa. Non se posso salvare qualcuno a cui lei tiene, Generale Baran”.
Lui abbandonò la presa, poi le diede le spalle prima di incamminarsi lungo la strada del ritorno. “Forse stasera potrei avere tempo per un altro pezzo della tua storia”.
  
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