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Autore: Adeia Di Elferas    24/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Don Giuliano di Ligny, alla fine, aveva dovuto cedere alle pressioni di Biagio Malacrida. Benché non avesse intenzione di lasciare il castello di Musso, era stato costretto a piegare la testa a un'evidenza schiacciante: i soldati – pochi e spaventati – che aveva al suo comando non avevano intenzione di combattere.

Aveva avuto il sospetto che alcuni dei marinai raccogliticci che Andrea da Fano aveva reclutato a Como e che poi erano rimasti tra le loro file avessero fomentato quella sorta di silenziosa rivolta, ma, comunque stessero davvero le cose, ciò che contava era che gli uomini avevano deciso di ritirarsi e né un suo ordine, né una sua reprimenda avrebbero potuto cambiare le cose.

La notizia che aveva portato a quel desiderio di fuga e resa riguardava due avamposti di Ludovico il Moro. Pareva infatti che il Badino, a capo di tre compagnie tedesche, Ascanio Sforza e Galeazzo Sanseverino, si fossero riuniti a Sorico e da lì stessero avanzando verso il castello di Musso. Dei tremila uomini che avevano al seguito, le spie sostenevano che la metà stessero procedendo via terra, direttamente alla volta di Como, mentre gli altri millecinquecento fossero stati imbarcati, in modo da prendere il castello prima di arrivare a destinazione.

Il Ligny aveva fatto a quel punto del suo meglio, per tenere compatti i suoi, ma l'avanzata filosforzesca appariva a tutti come impossibile da arginare: restava solo la via della fuga. Don Giuliano aveva provato a ribadire che presto, anzi, prestissimo, sarebbero arrivati aiuti concreti dal re. Era sicuro che l'intero esercito francese stesse risalendo a marce forzate la penisola, distraendosi dalla Romagna in favore della Lombardia. Tutte le sue arringhe, però, erano state vane.

I soldati, quindi, erano stati messi su quattro navi e avevano subito fatto rotta verso Como.

Il 31 gennaio, quando Ascanio arrivò al castello di Musso con metà dell'avanguardia sforzesca, lo trovò completamente disabitato. Senza bisogno di sparare colpi di cannone, tanto meno di alzare le spade, lo occupò immediatamente.

Siccome non c'era tempo da perdere, e siccome il Moro stava a sua volta avanzando verso Como, Ascanio si trattenne pochissimo, giusto il tempo di saccheggiare quel poco che i francesi avevano lasciato nella fortificazione e poi anche lui, di buona lena, aveva ripreso la discesa verso sud.

Di quel passo, incontrando così poca resistenza, non solo Como sarebbe per certo ricaduta in mano sforzesca molto in fretta, ma anche Milano, e in breve tutto il Ducato, sarebbero tornati al loro legittimo proprietario: Ludovico Sforza, figlio di Francesco, legittimo Duca di Milano.

 

Era il secondo giorno di febbraio, una domenica. Galeazzo se ne stava vicino alla finestra a spiare la vita che scorreva lenta nella strada sotto al palazzo di Alessandra Scali. La vetrata, molto liscia, ma non perfetta, gli restituiva una visione distorta della realtà, ma a lui bastava.

Quando faceva così, si sentiva quasi come un uccellino in gabbia, uno di quelli che sognavano di volare via, ma che poi, se avessero potuto farlo davvero, non avrebbero saputo come riuscirci.

Con un sospiro pesante, il ragazzino si strinse un po' nelle spalle. Schiacciò gli occhi verso la luce baluginante di quella mattina. Se non fosse stato per il suo respiro caldo, che a ritmi regolari appannava il vetro, avrebbe quasi potuto ingannarsi e credere che facesse caldo come in piena estate.

Con un moto di tristezza, si chiese se anche sua madre vedesse un cielo tanto terso, o se piuttosto non fosse rinchiusa da qualche parte, come una schiava, alla mercé di un uomo senza morale quale sembrava essere il figlio del papa. La sola idea lo faceva rabbrividire. Aveva lottato per anni – cioè fin da quando aveva saputo il tutto – con la propria coscienza, nel pensare di essere nato da una violenza. Non era ancora riuscito a capire fino in fondo quanto male suo padre avesse fatto a sua madre, nel corso del loro lungo matrimonio. Eppure aveva il sentore che ciò che la Tigre stesse provando in quelle settimane per colpa del Borja fosse qualcosa di molto simile a ciò che l'aveva tormentata quando era moglie di Girolamo Riario.

“Non volevo disturbarvi...” sussurrò Alessandra Scali, che era entrata nel salottino senza accorgersi della presenza del giovane Riario.

“Nessun disturbo.” disse in fretta lui, voltandosi verso la donna e chinando appena il capo, in un gesto cortese che, in un ragazzino della sua età, era quasi ridicolo, agli occhi della padrona di casa.

“Siete sempre così compito e rigoroso...” borbottò infatti lei, riuscendo, però, a sorridere a malapena.

Galeazzo vide che la Scali stringeva al seno una lettera, e dal modo in cui lo faceva, intuì che potesse contenere notizie del marito, Marulli. Avrebbe voluto chiederle se si trattava di novità buone o cattive, ma evitò di farlo, convincendosi che altrimenti sarebbe risultato troppo invadente.

Di contro, Alessandra, che avrebbe voluto poter confidare con qualcuno il tormento che provava nel non avere notizie certe di Michele, ma solo vaghe tracce, fu sul punto di aprirsi con il Riario, ma evitò proprio all'ultimo minuto, sicura che a un ragazzino di quell'età, per quanto maturo e comprensivo, non potesse importare più di tanto come si sentiva una donna come lei.

“Sono sicura che vostra madre riuscirà a cavarsela.” disse, come per togliersi d'impiccio, la Scali.

A Galeazzo quel commento parve un po' fuori luogo, ma siccome, in un modo o nell'altro, la Leonessa di Romagna era sempre il soggetto sottinteso dei discorsi che si potevano sentire in quella casa, si disse che non c'era nulla di particolarmente strano, nelle parole improvvise di Alessandra.

Malgrado ciò, quando la fiorentina aggiunse un altro breve inciso, il Riario non riuscì a restare altrettanto impassibile.

“Per lei – disse infatti la Scali – il peggio è passato...”

Il ragazzino, raddrizzando appena la schiena e sentendo, forse per la prima volta in vita sua, di non essere in grado di trattenere la lingua, ribatté: “Se la stanno portando a Roma, come prigioniera, dubito che si possa dire che il peggio è passato.”

“Credete che là cercheranno di ucciderla?” chiese la donna, inclinando appena il capo, senza dare l'idea di essersi risentita, per il tono un po' aggressivo del suo ospite.

“Non è della morte che parlo – mise in chiaro lui, un po' a disagio – ma di tutto il resto.”

“Per come la vedo io – provò a placarlo Alessandra, scorgendo, inaspettatamente, una scintilla molto particolare nello sguardo del figlio della Sforza, qualcosa che, fino a quel momento, aveva riconosciuto solo nel più piccolo dei suoi ospiti, Bernardino – se il Borja ha voluto usarle violenza, l'avrà già fatto, e a Roma vostra madre potrà solo contare su parenti in grado di proteggerla di più. Il papa, se avesse davvero voluto ucciderla, l'avrebbe già fatto fare.”

Il Riario sentiva dentro di sé un groviglio attorcigliato e confuso, qualcosa che assomigliava alla rabbia, ma aveva un retrogusto molto più amaro.

Non riuscendo di nuovo a dominarsi del tutto, invece di far cadere il discorso, contrattaccò: “Mia madre ha subito per anni la presenza di un uomo che non ha mai voluto. Per lei trovarsi in una situazione analoga è ben peggio della morte. Se solo potessi prendere le armi, reclutare un esercito e...”

Siccome Galeazzo aveva stretto i pugni e il suo viso ancora imberbe si era chiazzato di rosso, nell'impeto della sua dichiarazione, la Scali si sentì in dovere di smorzare subito quel moto di collera, perché tale le sembrava.

“Con tutto il respetto...” gli disse, scuotendo appena il capo e mettendogli una mano sulla spalla, con fare materno, ma allo stesso tempo perentorio: “Avete compiuto quattordici anni in dicembre... Siete solo un ragazzino. State attento a fare certi discorsi.”

Il Riario sentiva il peso della stretta di Alessandra. Capiva che quel gesto non era atto a consolarlo, ma a contenerlo.

E nel momento stesso in cui la rabbia lasciò il posto alla consapevolezza, a Galeazzo venne una voglia irrefrenabile di piangere. Si sentiva inutile, troppo giovane per servire a qualcosa, impotente davanti a ciò che stava accadendo a sua madre, una donna che aveva fatto tutto quello che era in suo potere per permettergli di crescere...

La Scali intravide il luccichio delle iridi verdissime del ragazzo e provò uno slancio di tenerezza nei suoi confronti. Lei per prima tendeva a trattarlo già come un uomo adulto e responsabile, dimenticandosi della sua giovanissima età. In quel momento le pareva solo un bambino in cerca di qualcuno che lo consolasse.

“Vostra madre – gli sussurrò, mentre lo stringeva a sé in un abbraccio repentino – vi ha voluti sapere tutti al sicuro, e così resterete, finché avrò aria nei polmoni.”

Come se quella dimostrazione non solo di solidarietà, ma quasi di sincero affetto, avesse sciolto qualcosa nel profondo di Galeazzo, il ragazzino tirò su con il naso e sussurrò: “Non so come potrò mai ripagarvi per tutto quello che state facendo.”

La colligiana fece un sorriso triste e, dopo appena un momento di silenzio, mentre si scioglieva dall'abbraccio, ribatté, a metà strada tra il serio e il leggero: “Se volete fare qualcosa per sdebitarvi con me, fate due chiacchiere con vostro fratello Ottaviano.”

“Che intendete? Vi sta dando qualche problema?” domandò il Riario, drizzando subito le orecchie nel sentire il nome del maggiore.

Dalla reazione del suo ospite, Alessandra capì che i propri sospetti riguardo al primogenito della Tigre potevano non essere del tutto infondati. Così, facendosi un po' più cupa, cercò di esporre nel modo più semplice ciò che l'aveva impensierita.

“No, per ora no...” disse: “Però non mi piace il modo in cui guarda le serve di questa casa.”

Galeazzo avvertì un brivido lungo la schiena, e si affrettò ad assicurare: “Gli parlerò.”

La solerzia con cui il ragazzino aveva risposto diede una definitiva conferma alla Scali dei suoi dubbi e tanto le bastò per annuire e ribadire: “Allora parlategli.”

 

Quel 2 febbraio per Gian Giacomo da Trivulzio era cominciato male e stava proseguendo peggio.

L'unica consolazione, per lui, era vedere il sole ancora alto e le mura di Milano già lontane. Si era sentito un vero codardo ad andarsene così, specie ora che le prime truppe francesi in fuga dal comasco si stavano radunando nel parco vicino al palazzo di Porta Giovia. Avrebbe dovuto restare al suo posto e guidarli, nella speranza di respingere gli sforzeschi e tenere almeno la città.

E invece si era lasciato prendere dalla frenesia di mettersi in salvo. Non più giovane e scornato da un difficilissimo soggiorno a Milano – una patria che sembrava non solo volerlo rinnegare, ma proprio condannare all'infelicità – si era detto che il meglio che poteva ottenere era aver salva la vita.

Aveva comunque dato disposizioni precise, così da dare l'illusione al re di aver fatto tutto quello che poteva e di essersi ritirato lontano dagli scontri solo per poter riorganizzare la difesa, e non per una misera questione autoconservativa.

Non aveva lasciato Milano del tutto sguarnita: aveva fatto in modo che al palazzo restassero trecento lance, coadiuvate da duecento fanti svizzeri agli ordini del d'Espy e di Codeber Carre. In poche parole, aveva fatto tutto ciò che, almeno come facciata, ci si sarebbe aspettati da lui.

La coscienza gli aveva rimorso, così come, in fondo, gli rimordeva anche ora, mentre si allontanava via via dalla città, in sella al suo cavallo, senza più il coraggio di guardarsi alle spalle nella fredda luce del febbraio milanese.

Era stato davvero in dubbio, proprio fino all'ultimo momento, se restare o scappare. Era stato Giovanni Antonio della Somaglia a fargli prendere la sua decisione definitiva. Aveva cercato di ucciderlo, e lui, se non fosse stato per Francesco Bernardino Visconti, che l'aveva letteralmente salvato in extremis, sarebbe morto.

Così, con il fiato della morte sul collo, aveva accettato i sessanta cavalli sabaudi offerti dal Coursinge ed era partito, senza più farsi domande.

Con un sospiro pesante, nell'affiancare il suo secondo, Gian Giacomo borbottò: “Passeremo da Sedriano. Poi voglio toccare Cusano Milanino. Se tutto filerà liscio lì, metteremo a sacco Magenta, e poi Vigevano e ci spingeremo anche a Voghera, se potremo.”

Il graduato fece un cenno con il capo, senza fare domande. Sapeva bene quanto stesse pesando, quella manovra, al Trivulzio. Infatti la decisione di mettere a ferro e fuoco quelle piccole città vicine a Milano era più uno sprazzo di rabbia, che non un reale sforzo bellico.

“Vogliono metterci in ridicolo e ridere alle nostre spalle – concluse Gian Giacomo, sollevando il mento e strizzando gli occhi verso l'orizzonte – ma voglio vedere come rideranno, quando capiranno di aver ripreso il comando di un cimitero...”

 

Subito dopo essersi congedato in fretta da Alessandra Scali, Galeazzo era andato a cercare Ottaviano. L'aveva trovato senza fatica nella sua stanza, intento a perdere tempo: con un calice di vino in mano e il giubbone e il camicione slacciati sul petto pallido, il ventenne stava fissando il muro senza un apparente scopo.

“Che vuoi?” chiese il Riario più grande, spostando con lentezza lo sguardo verso il fratello.

Il minore, deglutendo un paio di volte, espresse con parole abbastanza stringate la lamentela della padrona di casa – senza dire che fosse partita da lei – terminando con un perentorio: “Ricordati che siamo qui ospiti. Non puoi fare come quando eravamo a Forlì.”

“A parte il fatto che, se lo volessi, pagherei quelle sguattere per il disturbo – controbatté Ottaviano, strascicato, senza nemmeno alzarsi dalla poltroncina su cui era stravaccato – sono qui a fare la vita di un monaco da settimane. Potrò almeno guardare, no?”

“C'è modo e modo di guardare una donna.” rispose, rigido, Galeazzo.

“Ah, davvero?” ghignò il più grande, un sopracciglio che si alzava malizioso: “E da quando in qua tu ne sai qualcosa, di donne?”

Il Riario più giovane non riuscì a evitare di arrossire come il fuoco. Sentiva un calore tremendo al collo e, anche se cercava di ostentare noncuranza, Ottaviano si accorse di aver toccato la corda giusta per scrollarselo di dosso.

“Che ne vuoi sapere, tu? Non sai ancora nulla, della vita.” lo incalzò il Riario maggiore: “Io alla tua età ero già capacissimo di prendermi quello che una donna tiene sotto le gonne... Tu, invece, scommetto che non sapresti nemmeno da che parte prendere.”

Galeazzo si sentì avvampare ancora di più, e non seppe come ribattere.

Per il fratello quel silenzio fu il via libera per l'affondo finale: “Ti senti superiore solo perché sei il preferito di nostra madre, ma non sei ancora un uomo. Quindi non comportarti come se lo fossi...”

Il Riario più giovane, mortificato per la seconda volta nel giro di poco tempo, non trovò più il coraggio di ribattere a tono. Anche se non stimava Ottaviano, né lo riteneva nella posizione di prendersi quella sorta di vantaggio morale che sembrava invece deciso a mantenere nei suoi confronti, si trovò a dover retrocedere.

Mentre tornava in stanza, lo sguardo basso e l'animo pesante, all'idea di non essere riuscito a rimettere in riga il fratello come Alessandra gli aveva invece chiesto di fare, Galeazzo si mise a pensare a quanto davvero conoscesse ancora poco il mondo. Era stato un illuso a pensare che saper tirare di spada bastasse, per essere un uomo. Aveva avuto ragione sua madre a non lasciarlo combattere al suo fianco: ragazzino com'era, sarebbe stato solo un intralcio. Sua madre era solo stata abbastanza delicata da non farglielo pesare troppo.

Appena prima di entrare in camera, il Riario si accorse che oltre la porta c'era già qualcuno. Rimase in ascolto per qualche secondo e solo quando gli parve di riconoscere la presenza di Bernardino, che sembrava intento a fare i suoi esercizi con il coltello, entrò.

Il piccolo Feo, in effetti, aveva la sua arma preferita – dono della madre, per altro – stretta in pugno, e la fronte imperlata di sudore. Probabilmente stava facendo esercizio già da parecchio. Nel vedere il fratello si bloccò, ma, scorgendo l'espressione tutto sommato rilassata di Galeazzo, fece ancora un paio di affondi in aria, prima di rivolgersi a lui.

“Mi insegni ancora qualche posizione per tirare di spada?” gli chiese, speranzoso.

Il Riario, in realtà, non aveva alcuna voglia di dare lezioni al fratello minore. Avrebbe solo voluto restare solo a rimuginare tra sé e chiedersi come sarebbe stato, se solo fosse stato un po' più grande.

Però Bernardino lo fissava con i grandi occhi colmi di aspettativa, e Galeazzo non se la sentì proprio di deluderlo.

“Va bene...” soffiò: “Prendi il bastone...” gli ordinò, indicando un pezzo di manico di ramazza che si erano fatti dare da una serva qualche giorno addietro.

Non era un granché, e non era ben bilanciato quanto avrebbe potuto essere una spada di legno, ma per quel genere di lezioni estemporanee, secondo il Riario, andava più che bene.

Mentre iniziava a dargli le prime dritte, Galeazzo osservava con attenzione il Feo. Forse si stava solo suggestionando, ma sarebbe stato pronto a giurare che quel bambino era molto più sveglio di quanto non fosse stato lui alla stessa età.

“Quando sarò adulto – disse piano Bernardino, mentre il fratello gli sistemava meglio la presa – io voglio essere come te.”

Il maggiore, sorpreso da quell'esternazione che andava a collidere con tutto lo sminuirsi in cui si era crogiolato fino a quel momento, sorrise in modo stentato e borbottò, senza riuscire a placare un profondo moto di fierezza: “Tutto quello che so sulle armi, l'ho imparato grazie a nostra madre. E tu lo imparerai da me.”

Bernardino, a sua volta inorgoglito da quella promessa, gonfiò un po' il petto e poi, rialzando il mezzo manico di ramazza con fare autoritario, fece eco: “Nostra madre sarà fiera di noi.”

 

Anche se si erano incamminati da qualche giorno, Caterina aveva l'impressione di non aver mosso nemmeno un passo.

La carovana borgiana era lentissima e sconclusionata. Benché non avessero ancora toccato nessuna città importante, era come se Cesare volesse farle pesare ogni tappa, perfino la più insignificante.

Il progetto annunciato dal figlio del papa era molto chiaro, e lo stava rispettando alla lettera: stavano percorrendo, grossomodo, lo stesso tracciato che lei stessa aveva seguito anni prima, quando da Milano era scesa in Romagna, per toccare Imola, e da lì aveva proseguito alla volta di Roma, per andare a ricongiungersi con suo marito Girolamo.

“Te la ricordi, questa strada?” le diceva a volte il Borja, con mal celata soddisfazione nel vederla incupirsi, oppure insisteva: “Com'è, tornare in questo paese in catene?”

E poi, quando ancora faceva chiaro, nel primo pomeriggio, il Valentino dava ordine di piantare le tende e non ci si muoveva più fino alla mattina seguente, di norma non di buon'ora: pareva che il Duca, al suo risveglio, desiderasse ogni volta prendersela con calma, arrivando, perfino, a dedicarsi a una breve battuta di caccia.

Il corteo trionfale, però, secondo Caterina non nascondeva solo la sua preponderante voglia di umiliarla e farsi beffa di lei. Era probabile che stessero procedendo così lentamente perché il Duca di Valentinois non si sentiva sicuro.

Già un paio di volta la Tigre aveva avuto modo di captare qualche parola tesa, tra lui e i suoi più stretti collaboratori ed era chiaro ed evidente che tutti stessero aspettando notizie da nord. Forse, in base a quello che sarebbe davvero accaduto nel milanese, anche il loro viaggio sarebbe o meno finito realmente a Roma.

Non potendo, però, fare nulla di concreto per capire in anticipo quale sarebbe stata la sua sorte, a Caterina non restava che aspettare, restare in guardia e subire. Il Valentino non l'aveva più toccata, non in modo pesante, almeno, però non passava notte che la donna non temesse di vederselo arrivare nel padiglione.

C'era anche poco controllo, su Cesare, il che a volte faceva chiedere alla Leonessa come mai il Borja non ne approfittasse. Anche se preferiva averlo lontano da sé, la sua mente, così addestrata alla tattica e alla strategia, non riusciva a comprendere la ritrosia del giovane a perseverare con la condotta che aveva tenuto fino all'ultima notte che aveva trascorso con lei alla rocca Murata di Cesena.

Quella mattina, saliti in sella da nemmeno mezz'ora, i membri corteo del Borja avevano dovuto fermarsi quasi subito a causa di una improvvisa pioggia scrosciante. Avevano trovato prontamente riparo in una piccola proprietà agricola, e anche la Sforza si era sottratta all'acqua torrenziale come tutti gli altri, in un grande granaio.

Dapprima ne approfittò per sedersi in terra, come gli altri. Voleva riposare soprattutto la gamba, anche se ormai la ferita era migliorata così tanto da permetterle di dimenticarsi a tratto della sua presenza. Poi, però, avvertendo l'aria pesante che si sollevava dal grano ammassato lì vicino e gli sguardi torvi dei soldati del Borja – Giannotto primo fra tutti – decise di alzarsi.

Il rumore monotono eppure molto vivo del fortunale le stava riportando alla mente altre tempeste che avevano agitato la sua vita. Si era messa vicino alla porta del granaio, in modo da poter guardare fuori. Sapeva di essere tenuta sotto controllo da almeno quattro guardie, e in realtà l'idea di scappare in quel momento non la sfiorava nemmeno.

La memoria la stava trascinando indietro. Sempre e ancora a Giacomo e alla prima volta in cui si erano baciati, con l'odore della pioggia a riempire loro le narici e gli abiti freddi e imbevuti di acqua a ridurre quasi la distanza tra i loro corpi.

Sempre più spesso il ricordo del suo secondo marito stava facendo capolino nella sua testa, in quei giorni. Era come un appiglio a cui aggrapparsi senza paura. Era una delle poche cose che nessuno, nemmeno quelli che Giacomo l'avevano assassinato come un animale, era mai riuscito a rovinarle.

C'erano momenti in cui si sentiva in colpa nell'accorgersi che il ricordo di Giovanni era molto meno frequente. Ancor di più nel rendersi conto che perfino i suoi figli erano una presenza abbastanza evanescente, nella sua memoria. Anche se c'erano state sere in cui si era messa a piangere in silenzio, pensando a Giovannino, e a Bianca, Galeazzo e tutti gli altri – esclusi, come spesso accadeva Ottaviano e Cesare, due figli che, per lei, avevano quasi cessato di essere tali molti anni addietro – in realtà la sua anima tornava sempre e solo a Giacomo.

“Non dirmi che ti piace la pioggia.” la voce del Valentino fece voltare di scatto Caterina, che, preda di un istinto ormai consolidato, nel vederlo fece due passi indietro.

Mal interpretando quel movimento, un paio di soldati si affrettarono ad agguantarla proprio appena prima che uscisse dal perimetro del granaio. La Tigre, addirittura, aveva potuto sentire il freddo bacio di un paio di gocce di pioggia, prima di essere riportata con violenza all'interno.

“Lasciatela – ordinò il Duca – non vuole scappare. È solo felice di vedermi.”

Non volendo discutere gli ordini del loro signore, gli uomini eseguirono immediatamente l'ordine e poi, scusandosi con un cenno del capo, tornarono a sedersi contro la parete, in attesa che spiovesse.

“Dimmi dove sono i tuoi figli.” le sussurrò Cesare, chinandosi un po' verso di lei, parlandole all'orecchio: “Dimmelo ora, o sarà mio padre a fartelo dire, e i suoi metodi non ti piaceranno.”

“Non credo possa farmi nulla di peggio che costringermi alla tua compagnia.” ribatté lei, secca.

Indispettito, l'uomo si morse il labbro: “Continua così e non farai una bella fine.”

Caterina sporse in fuori il mento e ammise: “Non ho mai pensato che avrei fatto una bella fine, quindi mi sta bene.”

Il figlio del papa, non sapendo gestire la conversazione, si arrabbiò subito. Non curandosi del fatto che buona parte dei presenti tenevano gli occhi puntati contro di loro, afferrò la donna per un braccio, costringendola a guardarlo.

“Volevo dirtelo stasera – le rivelò, a voce bassa – quando fossi venuto nella tua tenda a prendere ciò che è mio di diritto. Visto, però, che sembri ancora tanto tronfia e sicura di te, te lo dirò adesso.”

La Leonessa deglutì. Quando Cesare faceva così, non sapeva mai dove sarebbe andato a parare, e ciò la metteva in profondissima ansia.

“Hai presente Dionigi Naldi? Il soldato a cui avevi affidato Imola con tanta fiducia, lo stesso che Imola me l'ha consegnata su un piatto d'argento?” le chiese il Valentino, sorridendo malevolo.

Caterina teneva gli occhi verdi puntati sul viso del ventiquattrenne. Ne studiava in silenzio i segni inconfondibili delle croste luetiche, provando un'atavica nausea, al pensiero che anche lei rischiava di trovarsi con deformità simili, malgrado, per il momento, non avesse segni evidenti di essere stata infettata dal suo aguzzino.

“Ebbene – concluse il Borja, trionfale – dato che sua moglie fa parte del tuo seguito...”

Finalmente una contrazione involontaria nel volto della Tigre diede soddisfazione al figlio del papa, che provò un grande piacere nel vedere come la sua prigioniera apparisse spaventata al pensiero che lui sapesse chi era davvero Dianora Valgimigli.

“Mi ha chiesto di essere clemente con lei.” spiegò Cesare, stringendo un po' di più il braccio della Leonessa: “In cambio mi ha dato tutte le fortezze della Val di Lamone.”

Data la risaputa influenza di Dionigi sulla Val di Lamone, la Sforza non tardò a credere alle parole del Duca. In altri momenti avrebbe chiamato al tradimento, ma poteva capire Naldi. Malgrado tutto, teneva molto a sua moglie e alle loro figlie. Aveva fatto quel che poteva per provare a salvar loro la vita.

“E quindi gli restituirai la moglie?” chiese Caterina.

“No...” ammise Cesare: “Fa parte del tuo seguito... Me l'hai detto tu stessa, che non ti muovi mai, senza le tue dame di compagnia. Quindi verrà a Roma con noi e starà rinchiusa con te.”

La Leonessa avrebbe voluto ribattere, ma non sapeva come provare ad affrancare Dianora da quel destino. Stava quasi per provare a convincere il Valentino, quando improvvisamente smise di piovere. L'uomo le lasciò il braccio di scatto e ordinò agli uomini di prepararsi per partire.

“Non sia mai – concluse, prima di tornare al proprio cavallo – che si possa dire che non abbia concesso alla mia custodita di avere tutto ciò che le serve per un agevole soggiorno presso la corte di mio padre...”

 

 
   
 
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