Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    28/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Pandolfo si premette con forza le dita sulle tempie, mentre il grido dei gabbiani lo risvegliava di colpo. Si era addormentato senza nemmeno accorgersene, ancora provato dalla lunga notte passata alla corte del Doge, e ora che riapriva gli occhi scopriva che la mattina era già cominciata da un pezzo.

Era difficile, per lui, abituarsi al clima di Venezia. Anche se pure a Rimini c'erano i gabbiani e altri uccelli marini particolarmente fastidiosi, lì a San Giovanni Nuovo sembrava che tutti i volatili più molesti del mondo si fossero dati appuntamento al solo scopo di rovinargli il sonno.

Alzandosi a fatica dal divanetto su cui si era assopito, il ventiquattrenne si stiracchiò, facendo schioccare la lingua. Detestava essere prigioniero volontario della Serenissima – perché tale, di fatto, sapeva di essere – e non aveva idea di come trascorrere le proprie giornate.

Aveva al proprio seguito cinquanta persone, ma non ce n'era nemmeno una che lui ritenesse degna del proprio tempo.

Sentì le campane di San Marco – in linea d'aria non molto lontane dall'alloggio che gli era stato fornito – suonare le undici del mattino. Fece due conti e si disse che, quel pomeriggio, o forse quella sera, avrebbe potuto riprovare a far breccia nell'impenetrabile sorriso statico di Barbarigo, chiedendogli, finalmente, il saldo delle paghe arretrate.

Anche se era giunto a Venezia in cerca di protezione, il Malatesta non aveva dimenticato i vecchi debiti che il Doge aveva nei suoi confronti. Anche se sua moglie Violante gli aveva già detto allo sfinimento di non insistere troppo e di ritenersi già abbastanza fortunato di non essersi visto rifiutare quell'aiuto, il Pandolfaccio era irremovibile.

Mentre l'uomo andava un momento alla finestra per guardare che tempo ci fosse quel giorno, proprio la Bentivoglio arrivò nel salottino. Stava in realtà aspettando che il marito si alzasse, per andare a parlargli. Non voleva essere lei la cagione del suo risveglio solo per non essere una volta di più il bersaglio dei suoi malumori.

“Dovresti imparare a sfruttare di più le ore del mattino.” disse, comunque, Violante, non riuscendo a evitare un tono critico.

Malgrado fosse arrivata lì con le migliori intenzioni, nell'istante esatto in cui aveva visto i capelli neri e disordinati del marito e la sua figura discinta, non aveva potuto fare altro che riversare su di lui, almeno in parte, il proprio disappunto.

“Venezia vive di notte e dorme di giorno.” le fece notare lui: “O almeno – si corresse, notando in strada alcuni mercanti dall'aria indaffarata – la Venezia che conta davvero.”

“Sarà come dici tu – soffiò lei, mettendosi una mano sul ventre rigonfio, che metteva in mostra la sua gravidanza avanzata, quasi a termine – ma comunque se avessi dormito anche io, questa mattina, non saprei che il Doge ha distratto Bartolomeo d'Alviano in Lombardia, né che i Sanseverino e Ascanio Sforza sono entrati a Milano.”

A quelle parole, il Malatesta si voltò verso di lei, gli occhi scuri trasformati in due punti spersi nella sclera arrossata dal poco sonno e dagli stravizi della notte appena trascorsa: “Sono entrati a Milano?”

“Sì.” sospirò la Bentivoglio, a malincuore: “E dicono che Ludovico Sforza farà altrettanto oggi o domani... Ai francesi, per ora, rimane solo il possesso del palazzo di Porta Giovia.”

Pandolfo ci ragionò sopra qualche secondo, poi, come realizzando qualcosa di improvviso, il suo viso si contrasse per la rabbia: “I francesi perderanno la guerra e tu mi hai costretto a lasciare Rimini! Ci siamo messi sotto al giogo di Venezia inutilmente!”

Violante fu tentata di non ribattere e lasciare che il marito si sfogasse per conto proprio, anche maledicendola, ma poi si forzò a non lasciar cadere così l'argomento. Era fondamentale, secondo lei, che Pandolfo la seguisse nei suoi ragionamenti, anche se non li riusciva a capire fino in fondo, perché una zavorra simile era difficile da portarsi appresso: senza capire i motivi di quello che lei gli suggeriva di fare, il Malatesta le avrebbe solo dato contro, diventando impossibile da gestire.

“I francesi non perderanno un bel niente...” disse quindi lei, facendo un paio di passi indietro, per sottrarsi a un eventuale scatto del marito, e tenendosi le mani in modo ancor più protettivo sul ventre: “Quella dello Sforza è una mossa inutile, vedrai. Anche il Doge, che ha mandato l'Alviano in Lombardia... Gli ha dato pochi uomini e sono pronta a scommettere che non ha nemmeno libertà d'attacco. È tutto teatro.”

Il Pandolfaccio la fissava in silenzio. Come spesso gli capitava ultimamente, non riusciva a capire se la sicurezza ostentata dalla Bentivoglio fosse sostenuta da una base concreta o se fosse solo un trucco per fargli fare quello che voleva lei.

“Che ne vuoi sapere, tu – fece l'uomo, proprio per saggiare il terreno – di guerra e tattica? Parli solo perché hai la bocca...”

Violante scosse appena il capo e poi, sospirando, concluse: “Abbiamo fatto bene a rimetterci a Venezia. I francesi e il Borja sono due minacce tutt'altro che estinte e Rimini da sola non poteva sperare di scamparla. Il Moro verrà ricacciato, e quando la guerra riprenderà verso sud, tu potrai dire di essere stato sempre dalla parte giusta.”

Il Malatesta strinse le labbra sottili con aria pensosa, e alla fine concesse: “Se le cose andranno come dici tu, allora sì, avremo fatto bene a venire qui a Venezia.” si fermò un istante e poi, occhieggiando verso di lei e mostrando appena i denti mentre parlava, terminò: “In caso contrario, saprò chi ritenere colpevole.”

“Mi sta bene.” soffiò la Bentivoglio, che, malgrado avesse più dubbi che certezze, era convinta di essere nel giusto.

Dopo quell'ultimo scambio di battute, la donna si schiarì la voce e annunciò: “Oggi intendo riposare in stanza. Ho le gambe gonfie e la pancia mi dà noia.” e mentre andava alla porta soggiunse, sollevando un sopracciglio: “Credi di cavartela senza balia fino a stasera?”

Pandolfo non rispose, ma afferrò il primo soprammobile che gli capitò a tiro e lo lanciò con forza verso la moglie, mancandola di un soffio.

Immobile, paralizzata dalla paura che quel gesto improvviso le aveva messo, Violante riuscì a non far capire al marito quanto l'avesse spaventata. Anzi, con fare sprezzante, la giovane guardò in terra i cocci del ninnolo appena distrutto dal Malatesta e poi fece un mezzo sbuffo.

“E così ora ti metti a distruggere le poche cose che abbelliscono il nostro alloggio...” gli fece notare, appena prima di andarsene: “Evidentemente non ti era bastato distruggere il nostro matrimonio...”

 

Era dal primo mattino che al campo mobile del Valentino c'era movimento. Caterina se n'era accorta affacciandosi dalla sua tenda, ma non aveva potuto origliare granché, dato che i soldati che passavano davanti all'ingresso del suo alloggio temporaneo, quando la intravedevano, tacevano.

Argentina era stata mandata al suo padiglione un po' più tardi del solito, per prepararla a ripartire, e così la Tigre aveva provato a chiedere anche a lei se avesse notato qualcosa. La serva, che già era riuscita a farsi credere dagli uomini del Borja abbastanza stupida e innocua da essere scelta come dama ufficiale della Sforza, le assicurò che avrebbe fatto del suo meglio per capire come mai il corteo stesse rallentando così tanto, quel giorno.

“Ma se credete a me – aveva detto a mezza bocca Argentina – almeno per oggi non muoveremo nemmeno un passo.”

E in effetti era arrivato il mezzogiorno senza che il campo si levasse. Così, sotto una pioggia battente, su permesso personale di Cesare, la serva era tornata al padiglione della sua signora, con la scusa di metterle abiti più leggeri, dato che per quel giorno non avrebbero dovuto affrontare le consuete ore di marcia al freddo.

“Scoperto qualcosa?” chiese Caterina, in un soffio, mentre l'altra le sfilava lentamente la veste pesante, restando abbastanza vicino al fuoco da non far infreddolire troppo la sua signora.

Argentina sapeva che le due guardie all'ingresso del padiglione avevano ordine di ascoltare tutto quanto, ma era altrettanto convinta che, se avesse parlato nell'orecchio della Leonessa, non avrebbero potuto sentire nulla.

Così, esclamando ad alta voce: “Aspettate, avete una sdrucitura sulla spalla della sottoveste... Ve la sistemo. No, non toglietela! Riesco benissimo anche così!” si chinò un po' sulla sua signora.

Fingendo di ricucire una lacerazione immaginaria del tessuto usando l'ago e il filo che teneva con sé, la serva cominciò a raccontare.

“Io non ho potuto sapere nulla, in modo diretto – spiegò, snocciolando in fretta le parole, ben sapendo che la Sforza ascoltava famelica ogni sillaba – ma ser Baccino, che il Duca ha voluto provare come coppiere, perché ha saputo che anche l'Alégre l'aveva fatto servire in tavola.”

Mentre Argentina si avvicinava ancora di più, interrompendo il racconto con un'affettata esclamazione di disappunto nei confronti della sottoveste scucita, e su quanto fosse più difficile da riparare di quanto credeva, Caterina provò a immaginarsi il cremonese mentre versava coppe di vino al figlio del papa. La sola idea la metteva in ansia. Se Yves d'Alégre poteva aver creduto a tutto quanto, il Borja era molto più sottile. Benché fosse convinto, come tutti, che Baccino fosse stato scelto da lei come coppiere più che per le capacità da servitore, per quelle da amante, era probabile che qualche dubbio in più gli sarebbe venuto.

“E ser Baccino ha saputo che vostro zio sta davvero per riprendere Milano e che non solo i francesi sono tornati al nord di corsa per provare a salvare il salvabile, ma che il loro capo a Milano, il Trivulzio, s'è dato e sta cercando di farsi bello mettendo a sacco qualche città, ma di fatto la sua fuga ha compromesso molte cose.” la voce di Argentina sembrava quasi il ronzio di un'ape, così fitto e impalpabile, che pure la Tigre, malgrado le stesse vicinissima, a tratti faticava a sentirla: “E poi ha saputo anche che vostro fratello Alessandro sta cercando di tornare a Milano per appoggiare vostro zio.”

“Non era nell'urbinate, prigioniero?” chiese, in fretta e appena udibile, la Leonessa.

“Sì, ma pare che i Colonna l'abbiano liberato, credendo che ferito alla testa com'è non serva a molto, al Moro...” Argentina stava per aggiungere qualcosa, riguardo Giovanni da Casale che, a quel che pareva, aveva intenzione di fare come lo Sforza e rimettersi al servizio di Ludovico, ma prima che potesse dire anche solo una parola di più, la voce di Cesare ruppe il silenzio del padiglione.

“Che state facendo?” chiese, inquisitorio, avvicinandosi a Caterina, su cui la serva ancora riversa.

Questa si sentì raggelare. Se avesse detto che era intenta al rammendo e il Valentino avesse guardato la spalla della sottoveste della signora avrebbe capito che stava mentendo, così preferì non dire assolutamente nulla a riguardo.

Voltandosi verso il Duca e facendo un profondo inchino, sussurrò solo: “Come mi avevate permesso di fare, stavo cambiando l'abito a Madonna Sforza.”

“Giusto... Rimettile l'abito pesante.” tagliò corto Cesare, agitando una mano infastidito, come se si fosse scordato di quel dettaglio: “Partiamo tra meno di mezz'ora.”

Caterina deglutì, tenendo lo sguardo basso, non volendo sostenere quello del suo carceriere. Il suo timore di vederlo entrare nel suo padiglione per pretenderla di nuovo l'atterriva. Forse, pensò, se in quel frangente non ci fosse stata Argentina, con lei, un po' per la tensione del momento e un po' per la rabbia di vedere la propria campagna militare funestata da un imprevisto dopo l'altro, il Valentino avrebbe preteso di farla di nuovo sua. Altrimenti, perché andare da lei a quell'ora?

La Tigre fu ancor più sicura di non sbagliarsi, quando il Borja allungò una mano verso di lei, le sfiorò il volto e poi, malevolo, le disse: “Avremo modo di passare del tempo insieme stasera, quando rimonteremo il campo.” e detto ciò, esortò di nuovo Argentina a far presto, e se ne andò.

“Avrei dovuto morire in battaglia – sospirò la Sforza, mentre la sua serva la rivestiva – in una sortita, o durante i loro ultimi bombardamenti. Avrei fatto una fine da guerriera, e mi sarei evitata di essere umiliata a questo modo...”

L'altra avrebbe voluto consolarla in qualche modo, ma sentiva che non avrebbe trovato nulla di giusto da dire, per lenire il dolore della sua signora.

La Leonessa parve capirlo, infatti, scuotendo lentamente il capo, la rassicurò: “Non c'è niente che si possa fare ormai. Dovevo pensarci prima, quando era il momento. Adesso posso solo sperare di vivere abbastanza da dare il tempo ai miei figli di capire e mettersi davvero in salvo.”

Quell'ultimo stralcio parve molto criptico, ad Argentina, ma, da buona domestica, comprese che la sua padrona non voleva discutere ulteriormente, e così tacque e basta, riaprendo la bocca solo per chiedere: “I capelli li volete sciolti o raccolti?”

Rendendosi conto esattamente in quell'istante che non le era permesso farsi un bagno e quindi, tanto meno, districarsi a dovere i capelli con uno dei suoi olii profumati, la Sforza rispose, con un accento cupo che non sfuggì alla sua serva: “Acconciali a dovere con le spille. Tanto porterò il velo scuro, oggi...”

 

Quel 16 febbraio Firenze ribolliva come un paiolo colmo fino all'orlo. Complice una giornata rischiarata da un sole tenero che prometteva già una lunga primavera, i fiorentini si erano riversati in strada fin dalle prime ore del mattino.

La notizia che era corsa in ogni dove era strabiliante: la Duchessa di Milano – così ancora la chiamavano tutti – ovvero Isabella d'Aragona, stava per entrare in città.

La presenza di quella donna in Firenze aveva scatenato fin da subito umori contrastanti, anche se ciò che prevaricava ogni altra cosa era la curiosità di vedere finalmente il volto di una Duchessa di cui si era sentito così tanto parlare non solo di recente, ma anche negli anni passati. Per la Repubblica, Isabella era formalmente una nemica: stava tornando, dicevano, a Napoli dai parenti, ed era comunque la madre di Francesco Sforza, ora ostaggio di Luigi XII.

D'altro canto, però, tutti bene o male sapevano quando l'Aragona fosse sempre stata in lotta con Ludovico il Moro e quindi, come spesso accadeva, la nemica di un nemico veniva percepita come un'amica.

Era una domenica e anche chi, come Jacopo Salviati, normalmente avrebbe avuto da fare a quell'ora, si era invece trovato libero di attendere sul bordo della strada il passaggio della nuova arrivata.

“Per favore! Fate attenzione! Che diamine!” sbottò l'uomo, dando una spintarella a un concittadino che, nella brama di trovarsi una postazione migliore, stava per andare addosso a Lucrezia.

La Medici, corrucciandosi, guardò il marito, che le stava tanto vicino da sembrare di volerla proteggere con il proprio corpo da chissà quali pericoli, e chiese: “Hai intenzione di andare avanti così per tutto il tempo? Dimmelo, perché altrimenti farai meglio a tornare subito a casa. Non ho voglia di avere con me qualcuno che si comporta come se io fossi fatta di cristallo.”

Jacopo schiuse le labbra e poi, alzando un po' le sopracciglia, tentò di far valere un po' le proprie ragioni: “Sto solo cercando di evitare che la folla ci travolga. Non c'è il minimo rispetto, nemmeno per una donna incinta...”

“Sono di appena tre mesi, come credi che chi ci circonda possa pensare che sono incinta?” ribatté Lucrezia, con uno sbuffo.

“Dico solo che...” cominciò a dire il Salviati, ma il rumoreggiare dei presenti lo zittì immediatamente.

Isabella stava facendo il suo ingresso in città. Era vestita in modo sobrio, a cavallo di un animale elegante, ma non possente come quello che avrebbe usato normalmente una Duchessa di Milano.

Con lei c'era un piccolo drappello di uomini, un paio dei quali in armatura completa, con tanto di barbuta in testa. Su una carrozza, a breve distanza, si potevano vedere due bambine, le figlie dell'Aragona.

La donna era tesa. Avrebbe voluto un passaggio meno spettacolare, in Firenze. Tanto che, fino a quel momento, non aveva ancora nemmeno deciso quanto fermarsi in città. Sia lei che il suo seguito avrebbero avuto bisogno di almeno un paio di giorni di tregua, vista la difficilissima traversata che stavano compiendo, e le sue figlie erano ormai allo stremo, e non sapeva dire quanto avrebbero resistito, se il viaggio fosse ripreso immediatamente.

Con il sole che batteva sui suoi capelli rossi, attentamente raccolti in una elaborata acconciatura all'altezza della nuca, l'Aragona osservava i visi dei fiorentini cui passava vicino. Non trovò sguardi torvi, come invece si era aspettata, né segni di insofferenza alla sua presenza. Tutt'altro: in tanti sorridevano, alcuni battevano le mani e altri ancora fischiavano in segno di approvazione.

Erano ormai quasi in centro città, quando si accorse che molti di loro la chiamavano per nome, e tanti aggiungevano il titolo 'Duchessa'.

“Duchessa Isabella!” gridavano, quasi acclamandola.

Il clima era molto più accogliente del previsto. Mossa da un istinto che credeva ormai sopito e che non rispolverava dai tempi in cui era ancora vivo suo marito, la donna sollevò una mano e cominciò a salutare la folla, in risposta alle sue esortazioni.

Forse, pensava, Firenze era il posto giusto per fermarsi due o tre giorni e riprendere le forze. Quel pomeriggio avrebbe discusso con chi contava in città, per capire se e in che modo l'avrebbero compromessa con i francesi, ma era ottimista. Sapeva che il grosso delle truppe di re Luigi XII stavano tornando in Lombardia, o, addirittura, erano già nel milanese. Difficilmente, credeva, Firenze si sarebbe presa il disturbo di avvisarli tempestivamente del suo passaggio. L'avrebbero fatto, certo, ma prima di un'eventuale interessamento francese, lei sarebbe già stata lontana, sulla via di Bari.

La notizia dell'arrivo in città di Isabella, ovviamente, era giunta anche in casa di Alessandra Scali e Bernardino, quando aveva capito bene di chi si trattava, non aveva resistito.

Aveva aspettato un momento favorevole e poi, con la complicità di una servetta a cui aveva capito di stare simpatico, era passato dalle cucine e aveva lasciato il palazzo, per poter vedere con i suoi occhi la donna di cui tutti parlavano.

Così, quando Isabella d'Aragona stava passando davanti al palazzo della Signoria, il piccolo Feo l'aveva potuta osservare benissimo. Si era infilato tra la gente, riuscendo a issarsi su una pila di casse di legno accatastate fuori da una bottega e così, dal suo punto privilegiato, più in alto delle teste degli adulti, aveva avuto modo di guardare con calma la Duchessa.

Le voci che volevano l'Aragona una donna ancora giovane, benché provata dai lutti e dalla prigionia, ma di poca bellezza, a Bernardino parvero infondate. Isabella aveva i capelli rosso scuro, li poteva vedere molto bene, sotto la luce diretta del sole, ma secondo lui non erano un difetto, anzi, erano perfetti con la carnagione e il profilo un po' malinconico dell'Aragona.

L'aveva fissata fino all'ultimo, fino a quando non l'aveva vista sparire lungo la via, inghiottita di nuovo dalla folla. Gli sembrava quasi impossibile pensare che quella donna arrivava da Milano, dalla medesima corte che aveva visto la Tigre bambina.

Mentre rimuginava sul fatto che quell'Isabella tanto famosa aveva sicuramente visto e vissuto gli stessi ambienti che sua madre Caterina aveva amato da piccola, Bernardino si sentì tirare per la collottola.

Il bottegaio, non più distratto dal passaggio del corteo, si era accorto che il Feo aveva usato la pila di cassette di legno come trespolo, e si era subito arrabbiato come una furia: “Sono stanco di questi ragazzini che non hanno rispetto!” si mise a gridare, non appena, sentito braccato, Bernardino si era divincolato dalla sua presa e aveva cominciato a correre: “Oh, bimbo, che credi che queste cassette diventino più belle, se le sfondi salendoci sopra?!”

Il piccolo Feo sentì quell'ultima domanda retorica, ma ormai era abbastanza lontano, da sentirsi moderatamente sicuro. Fece in fretta mente locale, per capire da che parte girare, in modo da tornare il più in fretta possibile a casa della Scali. Anche se ormai immaginava che il bottegaio non l'avrebbe cercato più, quando si orientò si rimise comunque a correre.

Proprio mentre scappava, però, voltandosi indietro un solo secondo, per accertarsi di non essere inseguito, urtò un uomo che se ne stava appoggiato a un muro, pensoso.

“Stai attento, ragazzino!” lo riprese Machiavelli, sollevando una mano con stizza: “Non si corre a questo modo!”

Bernardino riconobbe all'istante l'uomo che era stato per un po' di tempo a Forlì come ambasciatore. Anche se non aveva più il ciuffo di ricci neri e ribelli in mezzo alla fronte, il suo profilo da lince e la sua postura un po' ciondolante erano inconfondibili.

Temendo di essere a sua volta riconosciuto, il Feo ricominciò a correre, ancor più veloce, ripromettendosi che, da quel giorno in poi, sarebbe uscito per Firenze solo a tarda notte, quando il buio gli avrebbe fatto da nascondiglio.

Niccolò, che era stato immerso nelle sue elucubrazioni fino a quando il bambino non gli era finito addosso, si accigliò, seguendo il piccolo fino a che non lo perse tra la folla. Gli aveva ricordato qualcuno, ma non avrebbe saputo dire chi.

Allacciandosi le mani dietro la schiena, sbuffando tra sé, Macchia si staccò dal muro e cominciò a camminare lentamente, tornando con il pensiero alla politica d'Italia e al significato del passaggio di Isabella d'Aragona da Firenze.

La reazione della città, l'espressione della napoletana, l'apparente silenzio della Signoria erano tutte cose che gli ronzavano nella mente in modo confuso. Tuttavia, mentre imboccava la via Larga, un altro pensiero lo folgorò all'improvviso, mentre l'immagine vivida del bambinetto che gli era corso addosso riprendeva forma davanti a lui.

“Che miccio!” esclamò, dandosi da solo dell'asino, battendosi addirittura una mano sulla guancia.

Come aveva potuto non riconoscere uno dei figli della Sforza? Li aveva visti poco, quello era vero, ma, da buona spia, aveva fatto sì di mandare i loro visi a memoria.

“Quella vipera...” soffiò, tra sé: “Allora li ha mandati qui davvero...”

 

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas