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Autore: Adeia Di Elferas    02/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Anche se era chiusa in un monastero, Bianca sapeva bene, grazie alle attente informazioni che Suor Elena era sempre pronta a fornirle, che quel 19 febbraio Isabella d'Aragona sarebbe ripartita, lasciando Firenze dopo circa tre giorni di sosta.

Personalmente, però, la Riario non sapeva come interpretare quella breve parentesi. Da un lato era stata felice di sapere che la città aveva accolto in modo pacifico una donna che, di fatto, rappresentava sia Milano, sia Napoli, due Stati che, sulla carta, erano nemici sia della Repubblica, sia della Francia. Dall'altro, però, si domandava se davvero per il Ducato ci fosse ancora qualche speranza, ora che anche Isabella era scappata, accettando, addirittura, di lasciare l'unico figlio maschio nelle mani di Luigi XII.

Anche se il Moro – dicevano – era già entrato in Milano, Bianca non riusciva a credere possibile che sarebbe stato un grado di tenersela stretta. Nella sua ottica, un esercito che era riuscito a sconfiggere sua madre Caterina, non poteva non battere, tra l'altro per la seconda volta, anche quello di Ludovico.

“Non correre così...” fece la ragazza, rivolgendosi a Giovannino, che, quel giorno, sembrava preda di una smania irrefrenabile di muoversi.

Forse era un po' per il clima mite di quel pomeriggio, o forse perché a un bambino di poco meno di due anni, la cella di un monastero cominciava a stare stretta, fatto stava che non appena la Riario l'aveva portato con sé nelle cucine, aveva cominciato ad agitarsi e non era ancora stato fermo un momento.

Cornelia, invece, vestita allo stesso modo dello zio, e pure un po' più grandicella, non faceva nulla, standosene tranquilla seduta per terra vicino al camino, a giocherellare con un mestolo.

“Basta.” fece di nuovo Bianca, richiamando il fratello con fare perentorio: “Stammi vicino e non correre. Non è il posto per farlo!”

A parte loro tre, nella cucina non c'era nessuno – era stata la badessa a dire all'ospite di usarla pure per un'oretta, perché avrebbe fatto in modo che nessuno la disturbasse – però alla Riario non piaceva il fatto che Giovannino scorrazzasse in giro, con il rischio sia di farsi male, sia di fare troppa confusione e attirare qualche curiosa.

Era già difficile concentrarsi sulla ricetta che le aveva lasciato sua madre, figurarsi con un bambino piccolo che sfrecciava a destra e a manca. In più, non si era tolta il velo, per paura che entrasse comunque qualcuno e notasse i suoi capelli ancora lunghi, a differenza di come avrebbero dovuto essere quelli di una vera monaca, e così aveva un caldo tremendo, il che la innervosiva ancor di più.

Controllando un momento sulla pagina manoscritta del ricettario – quella che Caterina aveva strappato personalmente dal volume per affidarla in perpetuo alla figlia, anche quando gli experimenta fossero stati ereditati dal Medici – Bianca fece mente locale e aggiunse l'ingrediente che andava completare la pozione che la Tigre aveva creato allo scopo di evitare gravidanze indesiderate.

Suor Elena, com'era giusto, aveva voluto sapere dalla ragazza cos'avrebbe preparato nei paioli del monastero. Quando la Riario le aveva risposto in modo molto franco, la badessa era rimasta in silenzio per qualche secondo, le aveva chiesto se fosse un ritrovato efficace e poi, sentita la risposta affermativa della ragazza, l'aveva pregata, se gli ingredienti le bastavano, di prepararne una piccola scorta supplementare.

“Vedetelo – le aveva sussurrato – come una sorta di pagamento per l'uso delle cucine.”

E così Bianca, appurato di avere tutto il necessario e anche in buona quantità, aveva accettato, ringraziando tantissimo per la solerzia con cui Suor Elena le aveva trovato gli ingredienti che le servivano. Era allora andata, con il fratello e la nipote, nelle cucine e lì si era applicata come meglio poteva, tesa non solo perché quella pozione sarebbe servita a lei, ma, come le era parso abbastanza chiaro, anche a Suor Elena e forse a qualche altra monaca delle Murate.

“Giovanni!” sbottò alla fine la giovane, mentre il piccolo la sfiorava, correndo ancora come un refolo di vento: “Stai attento! Sto preparando una pozione difficile! Pensa a che direbbe nostra madre se ti vedesse essere così discolo!”

Solo in quel momento il bambino, voltandosi verso la sorella, un po' corrucciato, finalmente si calmò. Rallentando, fino a tornare a una camminata normale, il Medici parve indeciso per un po' sul da farsi. Poi, forse anche incrociando lo sguardo interrogativo della nipote, Cornelia, ebbe una reazione che sorprese non poco la Riario.

Fece un'altra breve corsetta, ma questa volta solo per andare incontro alla sorella. Si aggrappò alle gambe di Bianca, nascondendo il viso nel suo abito da monaca, e borbottò qualche parola che la sorella capì, malgrado Giovannino parlasse ancora in modo estremamente stentato e tenesse il viso premuto contro la stoffa.

“Lo so...” sussurrò di rimando la ragazza, accarezzandogli lentamente la testa coperta da ricciolini castani: “Nostra madre manca molto anche a me.”

Il bambino si aggrappò ancora di più, mentre le piccole spalle tremavano appena, forse per accompagnare un pianto silenzioso. La Riario non aveva mai avuto come in quel momento la sensazione di non essere sola. Anche se non la era mai stata, da che era giunta a Firenze, essere abbinata al fratello, ancora tanto piccolo, le aveva spesso dato l'impressione di non poter condividere con nessuno ciò che provava.

Mentre Giovannino, però, singhiozzava in modo discreto, dimostrando quanto anche lui fosse spaventato, spaesato e disperato all'idea che forse non avrebbero mai più rivisto la loro madre, Bianca aveva sentito il cuore alleggerirsi. Di colpo, non era più sola.

Cornelia stava fissando i due zii, senza capire, in realtà che stesse accadendo. Per lei Caterina Sforza non era nulla. Non era nemmeno un nome, quasi. Nessuno le aveva mai parlato di lei, prima dell'arrivo della zia. E anche ora, benché la Riario si prodigasse, la sera, a raccontare tanto al fratellino, quanto alla nipote, chi fosse e chi fosse stata la Tigre, per una bambina di un paio d'anni si trattava solo di una fila di frasi con scarso senso logico.

Tuttavia, quando Bianca le fece un cenno con la mano, invitandola a unirsi all'abbraccio, la piccola si alzò da terra e non si fece pregare oltre.

La giovane, stretta ai due bambini, avvertì netta e ineluttabile la responsabilità di averli entrambi sotto la propria custodia. Con un paio di sospiri, baciò entrambi e poi li tenne vicini a sé ancora qualche momento.

Nel silenzio della cucina, rotto solo dal sobbollire del paiolo, la diciottenne sussurrò: “Finché ci sarò io, non dovrete temere nulla: vi proteggerò, fosse l'unica cosa che farò in vita mia.”

 

Ludovico Sforza si aggirava per il castello di Pavia con aria soddisfatta. Anche se le strade non erano ancora sicure, una volta presa visione delle condizioni di Milano, aveva deciso di andare a vedere se anche tutte le sue altre dimore – almeno le principali – fossero ancora agibili.

Avrebbe voluto visitare Vigevano, la città che era stata tanto cara a sua moglie Beatrice, ma per il momento si trattava di una zona ancora troppo calda, e nei confronti della quale non aveva ancora preso decisioni chiare. Stava aspettando che Giovanni da Casale desse sua notizie, e forse, una volta che l'avesse riaccolto sotto la sua ala, avrebbe mandato lui.

Per il momento l'unico che sembrava in grado di gestire una situazione complicata come quella vigevanese era il Fracassa, che, però, non smetteva di tormentarlo un momento. Continuava a dirgli che non era il caso di perdere tempo con Vigevano, che il Trivulzio aveva messo a sacco, ma di concentrarsi su Mortara, sferrando un attacco alle truppe francesi già in difficoltà.

Ludovico, però, non voleva ascoltarlo. Per lui Mortara contava poco: era Vigevano, la terra della sua Beatrice, Vigevano il punto strategico che avrebbe permesso loro di riappacificare le campagne milanesi.

“Come sta mio nipote?” chiese il Moro, quando vide corrergli incontro una staffetta che conosceva bene e che, per certo, arrivava da Milano, dove, quel giorno, si attendeva il rientro di Alessandro Sforza.

L'uomo fece un inchino reverente e poi riferì: “Ha una brutta ferita alla testa, che si è procurato nell'ultima battaglia combattuta al fianco di vostra nipote. Per il momento non è guarita e così, suo malgrado, messer Alessandro non potrà prendere parte attiva al campo...”

“Non importa...” sbuffò il Moro, allargando le grosse braccia e poi guardando soddisfatto il cortile del castello di Pavia, lo stesso, rimuginò, che Isabella d'Aragona, quella spergiura, aveva visto per mesi e mesi dalla sua torre: “Uno Sforza in più è sempre una presenza gradita, anche se non potrà impugnare una spada per un po'.”

La staffetta non espresse il suo giudizio, ma chiese se il suo signore aveva ancora bisogno di qualcosa. Non appena lo Sforza lo congedò con un cenno del capo, il soldato lo lasciò di nuovo solo con i propri pensieri.

Ludovico, sempre con le mani sul parapetto che dava sulla corte, fece un lungo sospiro. Non avrebbe mai creduto che sarebbe stato così facile, rientrare nel proprio Ducato. Anche se voleva essere ottimista, c'era qualcosa che, inevitabilmente, lo metteva in allarme.

“Zio...” Ermes era arrivato con discrezione alle spalle del Moro: “Il Marchese di Mantova è alle porte della città e chiede di vedervi.”

“Lo chiede in modo pacifico?” domandò di rimando lo Sforza, avvertendo un brivido lungo la schiena.

Con Francesco Gonzaga non aveva mai saputo prendere bene le misure. Aveva sempre preferito trattare con la di lui moglie, Isabella. Il mantovano era un uomo tanto grezzo e rude da metterlo a disagio. In più, inutile negarlo, il risentimento che il Marchese nutriva nei suoi confronti per una questione di gelosia era qualcosa di molto spinoso.

“Sì.” annuì Ermes: “Anzi, dice di volervi offrire suo fratello Giovanni, affinché militi per voi.”

“Che cuore generoso...” borbottò il Moro, sollevando un sopracciglio: “Specie per uno che si dice voglia fare da padrino al nipote del papa...”

Lo Sforza più giovane sollevò le sopracciglia, volendosi tenere cauto, e fece notare: “Non sappiamo ancora se sia vero... Potrebbe darsi che il Marchese non sappia nemmeno che la moglie di Cesare Borja stia per partorire...”

“Buffonate.” tagliò corto il Moro: “Tutto il mondo sa che quell'inutile donna, quella... Charlotte, ecco, che quella sta per avere un figlio dal Valentino.”

Ermes non poté più provare a minimizzare, così disse solo: “Dunque lo volete ricevere?”

Lo zio emise un suono di insofferenza, ma poi esclamò: “E sia, vediamo cos'ha di così importante da dirmi, questo Marchese che è arrivato fin da Mantova solo per incontrarmi...”

 

Caterina sapeva di essere ormai quasi alle porte di Roma. La sera prima, quando avevano montato le tende per il campo, aveva scorto il profilo dell'Urbe, e l'aveva riconosciuto senza problemi.

Ricordava ancora troppo bene la prima volta che era arrivata nella città dei papi, e il nodo che le stringeva lo stomaco era lo stesso che le aveva quasi tolto il fiato quando, da ragazzina, si era ufficialmente consegnata a Girolamo Riario.

Non sapeva, però, se avrebbero fatto l'ingresso in Roma già quel giorno o se, per qualche misterioso motivo, Cesare avesse intenzione di temporeggiare ulteriormente, costringendola a chissà qualche altro teatrino, prima di varcare le porte cittadine.

“Che giorno è oggi?” chiese la Sforza, quando Argentina, come ogni mattina, arrivò per aiutarla a prepararsi.

Aveva perso in fretta la cognizione del tempo. Chiedeva alla sua serva che giorno fosse solo di tanto in tanto. Non lo faceva tutti i giorni per non spaventarla: aveva notato che Argentina tendeva ad apparire spersa, quando scorgeva qualche segno di cedimento nella sua signora. Così la Tigre, che stava facendo una fatica per lei inaspettata nel tenere il conto delle date, si accontentava di avere quell'informazione solo di quando in quando, e il più delle volte, già nel pomeriggio, si trovava a domandarsi che data le avesse riferito la sua domestica solo poche ore prima.

“Oggi è mercoledì, mia signora.” rispose paziente Argentina, già avvezza a sentirsi porre quella domanda: “Il ventisei febbraio.”

La Leonessa annuì, e poi, lasciando che l'altra cominciasse a toglierle la veste da notte, per prepararla per un nuovo giorno, domandò: “Hai sentito se hanno intenzione di entrare in Roma oggi?”

La serva stava per rispondere, quando alle sue spalle, aprendo di scatto la tenda che fungeva da ingresso al padiglione, arrivò il Borja. Caterina lo guardò di traverso, per un secondo appena, e le bastò per vederlo trafelato, preoccupato per qualcosa. Avrebbe voluto esserne felice, perché ogni cruccio del suo aguzzino doveva per lei essere un motivo di sincera gioia... E invece avvertiva una fitta di paura a ogni suo respiro, come se i loro destini fossero ormai così legati da pensare che se per il Valentino fosse arrivata una notizia catastrofica, anche per lei sarebbe giunta davvero la fine.

“Esci.” ordinò il Duca, facendo segno ad Argentina di andarsene.

La donna scambiò una brevissima occhiata con la sua padrona, e poi, non potendo fare altrimenti, si ritirò con un mezzo inchino.

“Allora...” fece Cesare, sporgendo un po' in fuori le labbra: “Sei pronta per tornare a Roma?”

“Dunque entreremo oggi in città?” chiese la Sforza, non riuscendo a dissimulare la propria agitazione.

Anche se aveva continuato a ripetersi che varcare le porte dell'Urbe ed essere strascinata fino dal papa come una preda di caccia non sarebbe stato il momento peggiore della sua vita, ora che si apprestava ad affrontarlo, non ne era più così sicura.

“Questa volta – riprese il Borja, lo sguardo più evasivo – non voglio che tu faccia come quando abbiamo lasciato Forlì.”

La Tigre non capì subito, ma poi si ricordò l'umore nero della folla, il modo in cui l'avevano salutata e l'atteggiamento, tutto sommato dignitoso, che era riuscita a mantenere per tutta la durata del corteo.

“Questa volta – precisò l'uomo, grattandosi appena la guancia – voglio che ti vedano per quella che sei: una sgualdrina sconfitta nel corpo e nell'anima. Non ci sono più tigri, qui, né leonesse. Intesi?”

Caterina non disse nulla, tanto meno lasciò intendere di essere intenzionata ad assecondare il volere del suo carceriere.

“E va bene...” soffiò allora lui, iniziando ad armeggiare con le i lacci delle proprie brache: “L'hai voluto tu.”

Ancor prima che il Duca terminasse l'ultima frase, la donna si era messa a correre, cercando una via di fuga, atterrita al pensiero di ciò che il Valentino ancora volesse farle. Ma i giorni di reclusione, di insonnia e di poco cibo che aveva sopportato, l'avevano resa molto più lenta del solito, e anche meno forte. Il ventiquattrenne riuscì senza grossi problemi a frenarla ben prima che riuscisse a uscire dal padiglione e, bloccandola al suolo, imponendosi senza troppa fatica, la costrinse ad sottostargli una volta di più.

Dopo poco, lasciando la sua vittima in terra, Cesare si rialzò, si sistemò gli abiti e si ravviò i capelli, cercando di ricomporsi al meglio. Lanciò uno sguardo carico d'odio alla Leonessa, quasi che fosse stato lui a subire un torto da lei e non il contrario, e infine lasciò la tenda senza dire altro.

Uscito di nuovo nella fredda aria di quel 26 febbraio, il Valentino andò a cercare la serva personale della sua prigioniera. La trovò in fretta, perché Argentina non aveva osato allontanarsi troppo dal padiglione della sua signora.

“Aspetta qui...” le disse il figlio del papa, andando in fretta a recuperare qualcosa nel proprio tendone e tornando quasi subito: “Tieni – le disse, mettendole in mano una ragnatela di sottili catene d'oro – voglio che le metti alla tua padrona. Se non sai come fare, ti mando qualcuno a spiegartelo.”

“Ma io non...” iniziò a dire la serva.

Lo schiaffo del Borja fu così repentino e violento da farla quasi vacillare, tanto che sentì a stento la voce dell'uomo dirle: “Tu lo farai e basta.”

La donna avrebbe voluto morire, piuttosto che mettere in catene la sua signora, eppure, imitando la stessa Caterina, che stava stoicamente sopportando tutti i soprusi di quelle lunghissime giornate, fece solo un cenno con il capo e andò verso il padiglione della Tigre.

La trovò accasciata a terra, le spalle scosse da un tremito profondo e la veste da notte strappata. Le risultò semplice capire cosa fosse accaduto mentre era assente.

Chinandosi accanto alla Sforza, con le catene d'oro ancora in mano, provò a sussurrarle: “Mia signora... State bene?”

La Leonessa scosse silenziosamente il capo, continuando a piangere. Per Argentina, vederla in quelle condizioni era tremendo. Non solo provava una pena profondissima per lei, ma aveva anche paura. Se la sua signora, che nella sua ottica era la donna più forte al mondo, si stava lasciando piegare... Che ne sarebbe stato di tutti gli altri?

“Cosa... Cosa sono quelle..?” chiese, con voce stentata, la Sforza, quando scorse le catene che la sua serva portava con sé.

Argentina le spiegò in fretta ciò che il Borja le aveva ordinato di fare. Caterina si sentì stringere il cuore, all'idea che quel mostro di Cesare la volesse far sfilare per Roma in catene, come una schiava. Tuttavia, quando vide la guancia arrossata della serva, immaginò che questa avesse provato a opporsi, e tanto le bastò per sentirsi meno sola e meno persa.

“Non importa...” deglutì, rialzandosi a fatica, sorretta dalle braccia sicure di Argentina: “Aiutami a pulirmi e poi... Poi mi metterai anche le catene. Tanto non mi interessa di quello che vedranno quattro pretucoli del Vaticano...”

 

Lucrecia stava osservando in silenzio Alfonso, già pronto e in procinto di raggiungere Joffré, assieme al quale avrebbe preso parte al corteo trionfale di ingresso a Roma di Cesare.

L'Aragona era teso, pallido, ma non sembrava più spaventato del solito. Era quasi come se nei suoi occhi azzurri vi fosse solo l'agitazione di un normale momento importante e non un rischio concreto per la sua incolumità o per quella di sua moglie.

“Starai attento?” gli chiese la Borja, appena l'attendente che aveva finito di vestirlo se n'era andato.

Il quasi diciannovenne annuì in silenzio e poi, facendo segno a Lucrecia di avvicinarsi, precisò, a voce bassa: “Sono al sicuro, non preoccuparti. Tutta Roma sarà proprio là, con gli occhi puntati su di noi... Anche se volesse, tuo fratello non farebbe nulla per farmi male, oggi. Avrebbe troppi testimoni.”

Alla ragazza il tono quasi divertito con cui Alfonso stava parlando non piaceva affatto. Lei aveva provato a opporsi strenuamente, quando il padre aveva preteso che anche l'Aragona partecipasse al corteo.

“Ma è desiderio di tuo fratello Cesare...” aveva risposto Rodrigo, quando Lucrecia aveva tentato la via del piagnucolare come una bambina per ottenere dal padre ciò che voleva: “Vuole suo fratello Joffré e vuole anche suo cognato, che per lui ormai è un vero e proprio fratello...”

La Borja aveva fatto un estremo tentativo, adducendo un improbabile malessere di stomaco del marito, dicendo che gli durava da un paio di giorni, ma il papa ancora una volta aveva fatto l'orecchio duro e aveva chiuso la questione decretando che Alfonso avrebbe cavalcato con Joffré e basta.

“Ascoltami – fece alla fine l'Aragona, prendendo tra le mani, già guantate a dovere, il viso della sua consorte – faremo solo il tratto che va dalla Porta del Popolo a Castel Sant'Angelo. Ci metteremo poco, e subito dopo sarò di nuovo qui con te.”

Lucrecia, che non voleva fare la parte della ragazzina capricciosa, trattene con difficoltà qualche lacrima di frustrazione e alla fine concesse: “Va bene, ma, appena puoi, torna da me.”

Alfonso annuì, con un sospiro, un po' sollevato per essere riuscito ad arginare le rimostranze della moglie, e poi, prendendo con sé il berretto piumato scelto dal cerimoniere – sempre su indicazione precisa del Duca di Valentinois – uscì dalla camera.

Rimasta sola, la Borja si strinse le braccia al petto, colpita da un improvviso brivido di freddo. Pur sapendo che, prima o poi, suo fratello Cesare sarebbe tornato a Roma, per di più come vincitore, quando le era stato detto che sarebbe arrivato proprio quel giorno, non aveva inizialmente voluto crederci.

Quando si era arresa all'ineluttabile verità, aveva cominciato a pensare a come fare per non cadere nella sua infida rete. Gli voleva bene, come fratello lo amava molto. Forse anche per via dell'infanzia isolata che lei e gli altri figli di Rodrigo e Vannozza avevano vissuto a Subiaco, lontano dalla corte romana. Si era aggrappata a lui come chiunque altro avrebbe fatto al suo posto.

Ora, però, che era adulta e felice con il proprio sposo, madre di un figlio che adorava e di un altro che, pur avendolo affidato alle suore, restava sempre nei suoi pensieri, si rendeva conto che la sua cieca adorazione infantile per Cesare era pericolosa.

Con il cuore che scandiva un tempo che pareva infinito, la ragazza si mise a vagare per il suo palazzo di Santa Maria in Portico, chiedendosi quanto tempi ci sarebbe voluto, al famoso Valentino, per vantarsi davanti a tutta Roma della sua vittoria sulla Tigre di Forlì.

 

Caterina si sentiva come uno di quegli orsi che aveva visto da bambina, con i polsi e il collo gravati da spesse catene. A tenerle chiusa la bocca, a differenza della museruola di ferra che certi saltimbanchi usavano per i plantigradi, aveva solo la propria disperazione.

L'ultimo assalto di Cesare, così imprevisto e umiliante, aveva avuto il potere di toglierle anche quella poca voglia che le era rimasta di mostrarsi ai romani con la schiena dritta e lo sguardo sicuro.

Avrebbe voluto solo nascondersi, morire, seppellirsi sotto uno spesso strato di terra e smettere di sentirsi usata a quel modo.

E invece era stata messa su una cavalla dimessa, grigiastra, lenta e un po' ciondolante. Le erano state legate con cura le mani alle briglie e le era stato assicurato che, se avesse provato a scappare, non sarebbe arrivata viva alle porte di Roma.

Quell'ultima promessa le era parsa invitante, ma, quando per caso aveva incrociato lo sguardo del Borja – vestito con un abito costosissimo di spesso raso nero e con una semplice collana d'oro al collo – aveva rinunciato all'idea di provarci. Probabilmente, pensava, prima di farla davvero uccidere, il Valentino avrebbe voluto punirla di nuovo a modo suo, e lei questo non avrebbe saputo tollerarlo.

Quando il corteo si mise in fila, appena fuori dalla Porta del Popolo, la Tigre si rese conto che lei sarebbe sfilata poco dopo il Duca, quasi in coda a tutti, appena prima dei soldati di Vitellozzo Vitelli, che avrebbero chiuso. Non sapeva in che punto del carosello fossero stati sistemati gli altri prigionieri.

Due giovani, elegantemente vestiti, erano apparsi alla porta, poco prima che si desse l'avvio all'avanzata. La Sforza li vide solo quando arrivarono vicino a Cesare per discutere con lui. Non li conosceva, ma riuscì ad allungare l'orecchio abbastanza da sentire il Valentino chiamarli 'fratello' l'uno e 'cognato' l'altro, dunque dovevano essere per forza Joffré Borja e Alfonso d'Aragona.

L'unica altra cosa che la Leonessa sentì in modo distinto fu una domanda posta dal fratello minore di Cesare: “Ma era proprio necessario scegliere un motivo funebre, per questa cosa..? Posso capire voler dimostrare il lutto per il nostro parente, il Cardinale Juan, ma...”

“Quella è tutta facciata...” aveva riso spudoratamente il Duca: “Questa è una marcia funebre, è vero, ma non per quel testone del Cardinale...”

Aveva indicato nettamente Caterina, con un cenno del capo. La donna aveva abbassato lo sguardo, per non far capire che li stava ascoltando.

Malgrado ciò non poté impedirsi di sentire il suo aguzzino sghignazzare: “Anche se respira ancora, quella è una donna morta.”

La Tigre deglutì, sentendo il cuore mancare un colpo. Non ebbe però il tempo di pensarci oltre perché, mentre ancora risentiva le parole sprezzanti del Borja risuonarle nelle orecchie, al corteo venne dato l'ordine di iniziare a muoversi e così anche lei, con il cavallo guidato da un soldato appiedato, dovette assecondare il flusso e varcare la Porta del Popolo.

 

 

 
   
 
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