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Autore: Evil Daughter    03/07/2020    8 recensioni
Oltre ad essere rozza sei priva di delicatezza.
Pensò Vegeta. Dedicandole l’accusa.
Piegò le labbra in giù, fece maggiore pressione e l’ago schizzò fuori portandosi dietro una scia di sangue annacquato.
Ripensò al ricovero in ospedale, rimembrava ogni particolare; almeno da quando aveva riaperto gli occhi. Alcuni dettagli li avrebbe cancellati volentieri. Altri no, sedimentavano. Lo mettevano davanti a diversi interrogativi. Lei lo aveva salvato.
E sai come sprecare il tuo tempo.
Un pensiero ancora rivolto a lei.
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Vegeta? Un folle omicida. Ma Bulma lo sa bene: mai fermarsi a giudicare unicamente la coda del mostro.
La belva deve essere sempre osservata nella sua interezza.
Periodo trattato: triennio antecedente ai cyborg.
INIZIO RELAZIONE TRA BULMA E VEGETA. STORIA ILLUSTRATA.
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Nuovo capitolo, 18: PROGENIE SEGRETA SOTTO LAMPI DI GUERRA.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Dr. Gelo, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'ARANCE MARCE: Bulma e Vegeta, sbagliati e quindi veri.'
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Capitolo X - Noli foras ire. Anamnesi pericolose.


 

Imbavagliare quattro sandwich alti come torri e ripieni di carne sapida accomodata fra strati di formaggio affumicato, salsa speziata e insalata croccante, le scarabocchiava in viso la letizia di una molesta intenzione: li avrebbe condivisi con Vegeta quei panini, imboccandolo con le proprie mani, sfamandolo, perché il rancio dell'ospedale, a confronto, era micragnosa minestra riscaldata. Lui avrebbe dovuto ringraziarla, per il servizio.
Dov'era l’intenzione, la molestia? Infilata e nascosta sotto le unghie rosse e distesa nel sorriso formato dalle labbra carnose e aggettanti della scienziata: il suo amore andava nutrito e la bocca del saiyan, ancora libera e impervia landa da conquidere, sarebbe stata appagata e saziata direttamente dalle sue mani minute di femmina terrestre. In un atto di proterva invasione.
Bulma arrossiva e si compiaceva al pensiero di consumare il pasto con Vegeta, di infarcire la bocca del saiyan di pappa-amore imbeccandolo come un pulcino... di indirettamente possedere e vedere dischiudersi a lei le labbra del saiyan.
Sì, era un bel ghirigoro immaginifico con il quale convincersi di poterlo avere sottomesso, perché per lei le labbra di Vegeta erano ancora chiuse al pari di freddi cancelli. Quelli d’una gabbia utile a recidere aliena concupiscenza inibita, che era meglio non scatenare, secondo la scienziata. E se così poteva definirsi ciò che tra lei e Vegeta non era capitato in ospedale.
Ci stava ripensando, non doveva, perché la sua determinazione veniva punta e le finiva miseramente a terra, come un palloncino che perdeva preziosissima aria.
Bulma aveva  bisogno di mostrarsi determinata. Una roccia viva, di lì in avanti.

Fece un nodo intrecciando le maniglie flosce del sacchetto ecologico in cui aveva sistemato le sei torri sandwich. Era tutto pronto. Anche il discorso e l’accordo da proporre al medico primario. Non aveva chiuso occhio per arrivare a quella soluzione. A dirla tutta, non dormiva regolarmente da quando Vegeta era stato ricoverato e... fatto prigioniero. I sandwich sarebbero stati meschino strumento di ricatto. Be’ il saiyan se l’era meritato. Ma soprattutto, i sandwich erano parte del piano che Bulma stava per innescare.

 

 

~ ~ ~
 

 

Un giorno dopo l’incidente. Tre mattine prima alla preparazione delle leccornie che la scienziata aveva da poco finito di infagottare.


 

Nella Città dell’Ovest, l’Ospedale Generale era la più grande struttura ospedaliera presente sul territorio, ma non l’unico nosocomio, ce n’erano altri minori e in uno in particolare, nel Westkong Hospital, un medico molto attento aveva appena letto la richiesta di assistenza inviata dall’Ospedale Generale: si richiedeva una urgente raccolta per rifornire le emoteche di sangue raro, sconosciuto. I dati specifici erano inseriti nel file allegato.
Il dottore lesse una volta ancora. Credeva di vedere doppio, così si sfilò gli occhiali e li pulì con un lembo del suo camice bianco.
Dopo, con mano quasi tremante, li inforcò nuovamente adagiandoli sulla prominente gobba del suo naso.
Ci vedeva benissimo, i valori riportati da quel gruppo sanguigno non erano nuovi per lui.
Allentò il nodo della sua cravatta. Quanto era passato da allora, un anno, uno e mezzo, forse due? Non se lo ricordava di preciso, ma quei valori non li avrebbe mai dimenticati. Né mai avrebbe dimenticato il paziente anomalo.
Per rinfrescare la memoria gli bastava cercare nell’archivio la cartella clinica del vecchio paziente: il dottore aprì il database del suo computer e sulla tastiera digitò piano un nome: Son Goku. Trovato. Non aveva obliato nulla. Riaprire quella cartella, però, gli accapponava la pelle: in quella occasione le radiografie avevano riportato le tracce di una struttura ossea disintegrata, qualunque uomo normale si fosse trovato in un simile stato sarebbe morto. Invece, il dottore aveva visto quel paziente rimettersi in piedi e andar via con le proprie gambe in poco più di un mese.
Il medico proseguì con la consultazione, arrivò alle analisi che gli interessavano, quelle del sangue: erano identici, i rispettivi valori richiesti dall’Ospedale Generale di West City e quelli di Son Goku erano eguali.
A parere del dottore i casi potevano essere due: o Son Goku era finito nuovamente in ospedale, e chissà per quali cause, oppure era spuntato fuori un altro possessore di sangue anomalo. Ed entrambe le eventualità lo terrorizzavano.
Son Goku era stato ridotto in poltiglia dagli alieni, Son Goku, lui stesso, non era normale. Chiunque avesse posseduto un’identica composizione sanguigna, con gli stessi antigeni, non poteva essere diverso da lui.

Alieni. Di tipo umanoide. Sicuro, poteva trattarsi di extraterrestri.

Il dottore voleva vederci chiaro. Iniziò a scrivere una lettera di risposta all’Ospedale Generale, rivelando di avere avuto già a che fare con quell’anomalia e di essere l’unico a conoscere un potenziale donatore. Questo se non si fosse trattato ancora di Son Goku.

Molto presto, il dottore avrebbe trovato manforte confrontandosi con qualcuno in cerca di risposte come lui, ma con scopi alquanto differenti.

 

 

~ ~ ~

 

Nel medesimo giorno, distante dal Westkong Hospital e dal medico sospettoso, comunque a West City.


 

Bulma aveva fatto ritorno alla Capsule Corporation con il prezioso dono che il saggio Karin le aveva concesso. Lo teneva stretto con l’aria di chi sarebbe stata capace di uccidere, se qualcuno avesse provato a farle cadere dalle mani il vaso di terra.
Moribonda di aspetto, la scienziata avanzava a stento in quel che rimaneva del cortile spento e incenerito. C’erano volute più di dieci ore per estinguere il fuoco, e i pochi resti della navicella spaziale erano stati accatastati e giacevano ordinatamente in una parte del giardino scomparso.
Nonostante l’incidente, la Capsule Corporation era rimasta in piedi. Presentava solo una spaccatura nel muro, lì dove un pezzo di lamiera era andato a disintegrarsi. Il foro era così grande che si potevano vedere gli interni della casa arredati, come una ferita aperta, uno squarcio, come se la casa mostrasse dolorosamente i propri organi. Era il risultato di una guerra, una guerra che Vegeta aveva perduto contro se stesso.  Del restauro dell’edificio se ne stava occupando un team di uomini che costruiva ponteggi tutt’intorno alla struttura ovoidale.
I Brief avevano la fortuna di possedere tanti soldi da potersi permettere di rimediare tempestivamente a qualunque incidente. E infatti, per rimuovere i gas velenosi che avevano inquinato l’aria, erano stati impiegati i nuovi depuratori mangiafumo. Così, ai residenti delle zone circostanti alla Capsule Corporation era stato permesso di far ritorno nelle loro abitazioni.
Ciononostante, l’aria portava ancora il lezzo dei rottami carbonizzati. Una puzza di cui Bulma non riusciva a liberarsi.

La scienziata proseguì, camminando a fianco del muro annerito, per arrivare all’ingresso. Giunta in prossimità dell’entrata, vide gruppi di giornalisti accampati attorno a suo padre, che parlava calmo rivolgendosi a uno di loro e a un altro che teneva in mano una telecamera.

«Dott. Brief può dirci se si è trattato di un esperimento finito male? E nel caso, cosa stavate sperimentando?»
«Oh, no. Assolutamente! Vede, io e mia figlia abbiamo costruito una navicella spaziale in grado di percorrere distanze come anni luce in pochissimo tempo e- ah, cara, sei tornata!»
Lo scienziato non concluse la sua spiegazione, Bulma, raggiunto il gruppo di persone, si frappose bruscamente fra lui e il giornalista, afferrò il suo vecchio per un braccio e lo allontanò dai microfoni. Mancava solo che venisse fuori la storiella di Namecc.
Il vaso di terra lo passò temporaneamente e con cura tra il fianco e il braccio che lo cingeva tenendolo come un melone di coccio.

«Non si è trattato di alcun esperimento! – ringhiò lei – Fatevi i fattacci vostri, non avete alcun diritto di venire qui ad inveire su di noi, lasciateci in pace!»

La folla non mancò di fotografarla e registrarla. I giornalisti non aspettavano altro e un idiota calcò la mano osando provocarla.

«Signora Bulma, non era lei ad essere rimasta ferita? Se permette, vorremmo chiederle se ci sono state vittime. Oltre alle persone intossicate è stata vista arrivare un’ambulanza con un ferito in condizioni gravissime, perché lo state nascondendo? O forse a causa vostra il poveretto  ha già perso la vita?»
Alla domanda si unirono anche gli altri giornalisti, che fecero coro rincarando l’accusa con altre che includevano il risarcimento dei danni che la Capsule Corporation doveva ai cittadini coinvolti.
Bulma rimpianse di non possedere alcun potere saiyan. Altrimenti si sarebbe liberata di quei seccatori in poche mosse.
«Ma lei chi crede di essere, un agente di polizia?!»
Era a corto di pazienza e parole.
«Sto facendo solo il mio lavoro!», replicò quello, arrogante.
«Tesoro, Bulma, calmati! Possiamo tranquillamente spiegare a questi signori che si trattava-», suo padre tentò di chetarla armeggiando intorno a lei, in modo pacifico.
«Papà, per favore, sta’ zitto!»
Inutile. Il dott. Brief era troppo ingenuo per arrivare alla lungimiranza di sua figlia. Bulma temeva si spargessero notizie tali da calamitare troppa attenzione su Vegeta. Stava già accadendo. Doveva assolutamente evitare che divenisse di pubblica conoscenza la fine dei poveracci che il saiyan aveva spedito in chirurgia e soprattutto che diventasse pubblica la faccia di Vegeta. C’era il rischio che venisse riconosciuto e quindi di far saltare fuori, alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti, i precedenti da assassino extraterrestre... quelli del suo primo arrivo sulla Terra. Nel caso, sarebbe scoppiato il panico e sarebbe stato impossibile allontanare quella gente...
 I ficcanaso avrebbero fatto festa come nugoli di mosche sopra i resti di una carcassa.

«Se non ve ne andate chiameremo la polizia, perché questa è proprietà privata e voi la state deliberatamente occupando! Vi avverto che la Capsule Corporation è dotata di videocamere, nel caso saremmo in grado di  riconoscere e denunciare ognuno di voi!»
Bulma parlò convinta. Momentaneamente, la cacciata coatta funzionò. Alcuni giornalisti iniziarono indietreggiare verso l’uscita del cortile.
La scienziata riacchiappò suo padre e lo portò con sé. Insieme varcarono l’ingresso della Capsule Corporation senza mai dare le spalle ai giornalisti. Poi, l’entrata principale venne bloccata a qualunque visitatore.

L’appartamento in cui la famiglia Brief viveva non era stato danneggiato ed era ancora agibile. Padre e figlia raggiunsero il salotto dove certamente li aspettava la signora Brief.
«Oh, cara, finalmente sei qui!» la accolse la mamma, alzandosi dal divano su cui era seduta.
La tv era accesa e il notiziario stava mostrando proprio le brutte immagini dell’incendio che aveva flagellato la loro casa.
La mamma la abbracciò forte, «Come sta... come sta Vegeta?! Sei riuscita a vederlo?!».
Bulma annuì mesta e andò a sedersi su una delle poltrone malvacee del salotto. Il vaso era ancora fra le sue mani.
«Le sue condizioni sono stabili, però...  è in coma.»
«Oh, povero Vegeta!» piagnucolò subito la signora Brief, esasperandosi e unendo le mani al petto per il duolo.
«Mi dispiace tesoro – disse suo padre sconsolato, poi si accese una sigaretta – ... E i dottori, loro che ti hanno detto?», le domandò aspirando un’intensa boccata di fumo.
«Che bisogna aspettare – replicò Bulma – Ma non importa.»
«Come?», suo padre non stava capendo.
«Non siate tristi – riprese lei con entusiasmo – la soluzione è proprio qui fra le mie mani!»
Stupefatti, i suoi genitori seguirono le braccia alzate della ragazza che sollevava il vaso ricolmo di terra come un ambito trofeo.
«Stavo per chiederti cosa fosse.» affermò il dott. Brief.
«Hai mai sentito parlare dei Senzu, papà?»
«Senzu... questa parola non mi è nuova. Ah, ma certo! Se non sbaglio sono fagioli magici, Goku li mangiò per riprendersi velocemente e partire alla volta di Namecc. E con la navicella spaziale che costruii per lui. Correggimi se sbaglio.»
«Non sbagli, sono loro!»
«E come ne sei venuta in possesso? Te li ha dati il tuo amico Goku?», domandò lo scienziato alla figlia.
«Non esattamente, lasciamo stare, la cosa importante è che con questo possiamo guarire Vegeta.»

Se per padre e figlia tutto era chiaro, la signora Brief invece osservava incerta il vaso che la figlia osannava come uno scrigno magico.
«Gli faremo mangiare la terra, cara?», domandò seria.
«Ci mancherebbe mamma! Vegeta mangerà solo il fagiolo che tra poco sboccerà!»
«Ah, ok... Be’, continuo a non capire. Basta che Vegeta riesca a riprendersi e tornare a stare qui con noi!»
All’idea di rivedere il saiyan, la mamma di Bulma aveva già assunto le sembianze del caramello sciolto granellato al cioccolato bianco.

«Cara, sai quanto tempo la pianta impiegherà a crescere?», domandò il dott. Brief.

«Purtroppo non con precisione, papà. Ma avverrà presto, per questo volevo chiederti di portare il vaso in laboratorio, va conservato in un luogo sicuro.»
Suo padre acconsentì afferrando il vaso dalle mani della figlia.
«Mi raccomando, papà.»
Lasciato il vaso, la boa che la teneva a galla, la scienziata avvertì le sue energie finire del tutto. Aveva bisogno di riposo, di mangiare, farsi una doccia. Tornare da Vegeta.
Stava per alzarsi con l’intenzione di raggiungere la sua camera e recuperare quelle sembianze che la rendevano se stessa, ma venne bloccata: «Bulma! Mi sono dimenticata di chiederti di Yamcha! Ieri notte era venuto qui, proprio un attimo dopo che l’ambulanza ti portasse via. Era così preoccupato, siete riusciti a incontrarvi?»
Neanche l'avessero spinta; la scienziata ricadde indietro e affondò la schiena contro la modanatura morbida della poltrona. Buon per lei che il vaso l’aveva affidato al padre, sennò le sarebbe potuto sfuggire dalle mani.

Dovresti aggiornarli.

Anche no.

«No. Non ho visto Yamcha. Forse non lo hanno fatto entrare in ospedale.»

Ha un che di buono, la tua bugia. E di furbo.

Se avesse aperto la conversazione a tal riguardo, non avrebbe toccato letto per le ore a seguire. E come avrebbe potuto dire a sua madre che il matrimonio era annullato senza darle spiegazioni? Le conveniva eludere la situazione.

«Oh, che peccato... Comunque tesoro stai tranquilla perché il tuo vestito è salvo! L’incendio non è arrivato a danneggiarlo.»

«Di quale vestito stai parlando, mamma?»

«Il vestito del tuo matrimonio!»

Bulma rimase a bocca aperta, aveva totalmente e debitamente depennato quella roba.

«Ah, vero, il vestito... Ora però vorrei riposarmi un po’ e dopo, papà, desidererei chiarire con te la causa dell’incidente.»

L’esplosione della navicella era il problema da risolvere, perché qualcosa non aveva funzionato e non sarebbe dovuto accadere.
Le sobolliva il sospetto che l’incidente potesse essere stato causato dalla propria negligenza, quella mantenuta al fine di tenersi lontano dal saiyan. Nonché un modo veloce per seppellirsi di nuovi sensi di colpa.

«Certo, figliola. Vai a riposarti, nel frattempo preparerò una diagnostica che poi ti farò vedere e analizzeremo insieme.»


 

~ ~ ~


 

Due giorni dopo l’incidente. Una mattina prima all’attuazione del Piano Sandwich.

 

L’infermiera entrò nello studio: «Dottore, abbiamo trovato ciò che cercava, le metto qui i documenti» disse, e lasciò sul tavolo un plico di fogli.
Dopo averla ringraziata, il primario invitò l’infermiera ad uscire lasciandolo solo.
I documenti arrivavano dall’ospedale stesso, erano chiusi in una busta di plastica sigillata.  Il medico la aprì. Dentro c’era la cartella clinica di pronto soccorso di Bulma Brief. La data di ingresso risaliva a un mese prima. Il primario lesse molto velocemente.
Scoprì che la donna si era recata presso l’Ospedale Generale con una lacerazione al ginocchio sinistro ed era stata dimessa il giorno stesso. L’anamnesi riportava come causa una caduta dalle scale.
Nulla di ché. Fin troppo inutile per qualsiasi piano.
Il primario rimise in ordine i fogli e riaprì la cartellina per infilarceli dentro nuovamente.
Stava per chiudere la busta, quando un altro documento allegato, di cui non si era accorto, scivolò sotto i suoi occhi. Lo prese prima che toccasse terra.
Gli bastò leggere una riga del referto per iniziare ad avere certezze e qualcosa a cui attaccarsi:

“la paziente presenta ecchimosi estese attorno al collo, non ne giustifica la causa. Dall’osservazione non si esclude un tentato strangolamento.”

Questo era un risultato.

Aveva ordinato alla sua equipe medica di raccogliere qualsiasi dato a disposizione dell’ospedale riguardante la scienziata, se ce ne fossero stati, e ci aveva preso; perché quella donna aveva detto tutto tranne la verità. Non si fidava di lei, né dell’uomo violento di sangue anonimo che era steso in rianimazione, e che qualcuno, la sera stessa del ricovero, aveva tentato di assassinare.
Ma pur di fronte a un quadro tanto borderline, il primario non aveva chiamato la polizia e aveva costretto il suo personale medico a tacere sul filmato dell’aggressione registrato dalle videocamere. Ordinando pure di non spifferare alla stampa dei due soccorritori aggrediti spietatamente dal paziente in coma prima che egli venisse ricoverato.
Il caso Brief aveva l’aria di scottare di scandalo e di essere penalmente perseguibile. Ma in ballo c’era una giovane ereditiera miliardaria, altresì genio a capo della più alta tecnologia esistente sul pianeta; forse il dottore avrebbe potuto volgere la vicenda a suo proficuo vantaggio. E a vantaggio dell’esercito di cui segretamente faceva parte.
Lasciare quella donna libera di agire ancora un po’ era stata una scelta mirata. Agevolarla nella sua caduta, un piano perfetto.

 

 

Ventidue ore dopo.

 

Quando il telefono personale di Bulma squillò nel cuore della notte, la scienziata era tornata a casa da circa un’ora, così sfinita dall’ennesima giornata trascorsa in ospedale, la seconda e mezzo per la precisione, che era crollata in una istantanea e profonda letargia sulla prima superficie morbida incontrata e offertale dal comodo divano del salotto.

La suoneria e la vibrazione del telefono la spaventarono come il terrificante segnale di una sirena antiaerea.
Sarebbe ritornata in ospedale la mattina seguente durante l’orario di visita, a vegliare Vegeta, ma si era raccomandata con l’infermiere di essere contattata per qualunque evenienza.
Sfilò il cellulare incastrato nella tasca dei suoi jeans. Accettò la chiamata e istantaneamente  riconobbe  la voce dell’infermiere:
«Suo marito ha ripreso conoscenza!» disse quello, terminando la telefonata senza dare a Bulma la possibilità di rispondere.
L’infermiere era lo stesso intervenuto salvandola da Yamcha, l’ex momentaneamente scomparso. L’infermiere era una persona gentile di cui Bulma sentiva potersi fidare. Ma l’infermiere aveva parlato di fretta, con la voce di chi era intento a confidare velocemente un pericoloso segreto. E aveva parlato troppo vicino al ricevitore che le parole erano state trasmesse impastate di brusio. Tuttavia, non era il momento di indagare: Vegeta si era svegliato molto prima di quanto lei stessa si era immaginata, contava solo questo e doveva sbrigarsi ad andare da lui.
La scienziata si rimise presto in piedi, cercò di tenersi in equilibrio spinta com’era dai fumi del sonno che ancora le annebbiavano la volontà.
Si mise le scarpe, saltellando prima su un piede poi sull’altro, acchiappò la borsa e raccolse dal pavimento le chiavi dell’hovercar lasciata fuori in giardino. L’elicottero lo aveva sistemato in un altro astuccio di Hoipoi, non aveva tempo per cercarne la capsula.
Decise di non avvisare i suoi genitori, li avrebbe informati appena possibile. Doveva prima sincerarsi da sola delle condizioni di Vegeta.

Saltò in macchina ed inserì la chiave nel motorino di avviamento.

Non ci saranno danni gravi al cervello, riuscirà a parlare e a muoversi normalmente.

Pensava.

«Avanti, parti!»

Disse, provando ad incoraggiare l’hovercar che singhiozzò un paio di volte prima di entrare in funzione.

Vegeta cerca di stare calmo, sto arrivando!

Accese le luci, fece retromarcia e infilò la strada per l’Ospedale Generale.

Soprattutto, non uccidere nessuno!

E cosa ti fa credere che sarai capace di renderlo mansueto?

Il più ovvio nulla.

 

~ ~ ~

 

 

Provò a poco a poco ad aprire gli occhi. Le palpebre erano secche, come ricoperte e incrostate di sabbia. Anzi, erano talmente dure che parevano cucite fra loro. Dolorose.
Con sforzo, strappando quei punti invisibili che le univano come due labbra di ferita, Vegeta riuscì a spalancarle completamente. La vista tornò a funzionare appannata: c’era un soffitto basso e bianco sopra di lui. Di un bianco divino e sepolcrale. Forse, era l’ennesima porta dell’Inferno aperta ad accoglierlo. Che Inferno subdolo doveva essere. Troppo identico alla realtà da sentire ancora una forte pressione sul petto e il conseguente bisogno di aria.
Lui c’era stato all’Inferno. Era sfuggito ai suoi diavoli un attimo prima che gli divorassero l’anima.

No. Era maledettamente vivo per poter credere di essere nell’aldilà, possedeva ancora la memoria e i suoi annessi e nefasti pensieri. Gli sembrava piuttosto di essersi fatto un giro in un purgatorio stretto e sudicio che lo aveva privato di ogni energia prima di risputarlo fuori.

Il saiyan tentò di acuire i sensi e recuperare l’orientamento. Il posto in cui adesso si trovava non era la Capsule Corporation. Ma niente, non distingueva alcuna forza spirituale, nemmeno l’egocentrica e tracotante aura di Kakaroth.
Così debole e rintontito, gli pareva aver perso conoscenza per almeno un’eternità. Ed erano passati quasi tre giorni, di oblio assoluto.

Tentò di muovere una mano fino a toccarsi la faccia, con l’intento di spostare il tubo di plastica collegato alla sua bocca. Qualcosa di insopportabile gli stava pizzicando la pelle del viso; colpa degli elastici stretti che gli tenevano ferma la mascherina sul volto.
Riuscì a malapena ad aprire e chiudere le dita e piegare il polso. Le membra erano molli, non ubbidivano.
Continuò lo stesso a provare, muovendosi appena, e quando il lenzuolo gli scivolò poco sotto la cintola scoprendo il pube e il pene dormiente, s’accorse pure di essere nudo.
Nello stesso istante, udì alcune voci manifestarsi adiacenti alla stanza in cui era rinchiuso. Tese l’orecchio in ascolto e con fatica tentò di recuperare immediatamente il decoro, nascondendo la carne ignuda sotto il lenzuolo sfuggente.

«Mi raccomando Signora, non gli faccia troppe domande. È molto debole. E sarebbe meglio che si tenesse a distanza da lui.»

Suggerì l’infermiere a Bulma, mostrandole un’aria talmente preoccupata e spaventata che alla scienziata il quesito insorse spontaneo: non avrebbe dovuto essere positivo il fatto che Vegeta avesse riaperto gli occhi? Altra strana incognita da risolvere. Lei se lo stava chiedendo e avrebbe tempestato di domande il giovane infermiere se il desiderio di rivedere Vegeta vigile e cosciente fosse stato di minore urgenza.
Solo un attimo dopo, rifletté che i medici erano ovviamente terrorizzati. Quelli al reparto chirurgia non li invidiava nessuno.

L’infermiere le toccò delicatamente il braccio, come a volerle fare una confidenza, e ammise: «Se si sentisse in pericolo, mi chiami immediatamente, sono pronto ad intervenire per sedarlo.»
Bulma fece un sorriso incerto. Un’altra dose di barbiturici la spaventava, l’idea che i medici potessero a loro piacimento rendere docile e inoffensiva una fra le creature più potenti dell’universo non la tranquillizzava.

Dovrebbe essere il contrario, dovresti temere tu Vegeta. Ma sappiamo che sei pazza.

Sono innamorata, non sono pazza.

«Non si preoccupi... A me, lui non farà del male.»
Rispose come avrebbe fatto il padrone di un animale feroce. Sicura che la belva non l’avrebbe morsa. A lei no, agli altri sì. E ci infilò pure uno sghembo ammiccamento.

Sorrideva ancora, quando entrò nella stanza quadrata. Ma una volta all’interno e chiusa la porta alle sue spalle, il sorriso le si dissolse sulle guance come un fiore derubato dal vento dei suoi fragili petali.
Non v’era nulla di divertente lì. Non cercò gli occhi di Vegeta, non immediatamente. Per quanto sentisse il proprio cuore volerle schizzare fuori dal petto e spruzzare via sangue e emozione, Bulma si soffermò fintamente calma a controllare le condizioni in cui i medici avevano lasciato il saiyan: letto al centro, lenzuola pulite, macchine attorno che gli monitoravano gli organi vitali, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa. E la frequenza respiratoria. Ogni impulso vitale di Vegeta lasciava una traccia sonora o luminosa, regolare.
Non c’era nulla di strano.
La scienziata proseguì la verifica analizzando ciò che le lenzuola lasciavano intravedere uscire sotto di esse: lunghe radici... erano piccoli ciondolanti tubi in plastica di diverso colore. Cambiavano a seconda del contenuto che scorreva in essi: uno rosso, uno trasparente, uno di... lucido ocra.
Orribile. Nauseante. 
Erano tutti particolari che la scienziata aveva già visto mentre lui era in coma; ma ora Bulma sentiva avergli invaso l’intimità. Aveva paura di turbarlo con la sua presenza. Lui era sveglio, potenzialmente attento a ciò che gli occhioni azzurri della ragazza osservavano con evidente repulsione.

Evitò ancora di incontrare lo sguardo di Vegeta. Se lo immaginava certamente segnato da quelle sopracciglia perennemente in conflitto sopra due iridi cupe e lucide come petrolio.

Non guardare in basso.

Bisbigliava la coscienza. Essere là equivaleva ad attraversare un dirupo in equilibrio su di una corda sottile, che legava due confini lontanissimi, con il saiyan minaccioso di tranciarle la fune da un momento all’altro.

Lo faresti ancora, vero Vegeta? Mi lasceresti cadere...

Se ricordava bene, l’infermiere le aveva sistemato all’angolo della stanza una sedia. Bulma pensò fosse meglio usarla per stare accanto al principe nel modo più discreto. La prese e per poco non le scivolò dalle mani lievemente tremanti.
Altro che sedia: necessitava anche di una cintura di sicurezza, di un airbag, e perché no di un paracadute e di un elmetto?
Riuscì a posizionarla di fronte a un lato del letto. Stette attenta a non intralciare uno dei tubi che vedeva terminare dentro di lui.
Si sedette, senza cadere nel dirupo. Nessuna fune fu tagliata.
Però, non raggiunse l’altra sponda e rimanere in equilibrio sulla corda era pura agonia.
Ciononostante, era giunto il momento: poteva ricucire lo strappo tra la trama e l’ordito delle loro due vite. Yamcha non avrebbe più potuto in alcun modo, e senso, infilarci di mezzo l’uncino.

Questa volta sono innocente...
Lo sono sempre stata.
Io.

E Vegeta non la stava guardando.
E nulla le faceva intuire che l’avesse fatto prima.
Questo era disarmante.
Mandava alle ortiche ogni suo positivo intento.
Il Principe dei Saiyan fissava insistentemente il soffitto, lo oltrepassava  arrivando dove Bulma non sarebbe riuscita a raggiungerlo.
Non aveva riportato danni cerebrali, non era ridotto a uno stato vegetativo, di proposito Vegeta non la degnava di attenzione trattandola come insignificante materia invisibile.

Davvero non me lo merito.

Era disturbante nel suo silenzio, raccapricciante nella sua immobilità.
Titanico anche il solo pensare di rivolgergli la parola. Non le usciva neppure un insipido tiepido “come ti senti”.
Di fondo, tra i due, circolava una consapevolezza scomoda e dolente a entrambi. La verità: Vegeta aveva fallito, come da lei era stato preannunciato, e Bulma aveva ottenuto una ragione che la onorava ad essere nemica premonitrice, una parca.

È solo una barriera più alta.

O forse un fallimento certo...

«Se te lo stai chiedendo sei in ospedale, la navicella è esplosa e tu sei rimasto gravemente ferito nell’incidente... »
Esordì lei, totalmente inconsistente. Fastidiosa a lei stessa.
Vegeta non reagì. Non si lasciò scappare un battito di ciglia in più. Aveva riconosciuto la voce della scienziata sin da subito, prima che lei comparisse. E per un labile attimo se ne era inaspettatamente rincuorato. Ma era durato veramente poco: nauseato  all’idea di venir scoperto da lei in quelle paralitiche vesti, aveva presto schifato il pensiero di averla lì. E sull’essere in ospedale e non all’inferno, ci era arrivato da solo.
Ora, non ce la faceva a guardarla, men che meno starla a sentire.
Però, chiedersi perché lei fosse lì, perché fosse così dannatamente, irrimediabilmente ossessionata da non lasciarlo andare; domandarsi questo gli era inevitabile.

«Credi di poter rimanere in silenzio per l’eternità? O forse sei troppo debole per riuscire a parlare?»
Proseguì lei.
Come c’era da aspettarsi, la ficco-il-naso-in-ogni-dove non aveva perduto le proprie capacità provocatorie. Sarebbe stata capace di far fiatare anche i sassi e Vegeta, in quella forzata staticità, era tenera pietra costretta a restituire la battuta.

«Se avessi ottenuto l’eternità, ora tu non saresti qui a parlare.»

Punto numero uno: che si inchinasse di fronte a lui. Che scappasse lontano senza dimenticare di avere davanti a sé il saiyan più crudele.
Non la guardò in faccia.

Bulma se la prese con la tracolla della borsa ancora appesa alla sua spalla. Ne stritolò il rigido cuoio, frustrata dal trattamento che Vegeta le stava rifilando e dalla fredda affermazione che la sbatteva di nuovo a largo dalla riva su cui credeva di poter approdare.
Le regole tra loro non erano cambiate, la distanza da mantenere restava obbligatoria.
Ma arrivati a quel punto, tutto stava diventando esasperante e le lacrime erano vogliose di tracimare.
Non solo quelle, pure un’accoppiata di meritati insulti dedicati a lui.

«Non sono venuta per litigare con te, vorrei solo tirarti fuori di qui.»

Pronunziò concisa, ma morta dentro. Come di chi, allo stremo della resistenza, agita esangue uno stendardo bianco, desiderando l’armistizio. O forse gli stava solo chiedendo clemenza.
Di qualunque tentativo si trattasse, Vegeta era intenzionato a stracciarlo.
«Non ne ho bisogno, non te l’ho chiesto.»
Rispose lui. La voce sporca di raucedine.
«So che sei arrabbiato.»
«Se sei così brava a capire, perché non te ne vai?»
«Perché tu hai bisogno di me.»
«Non essere assurda... »
«Assurdo è vedere un saiyan forte come te in un posto come questo. Ma sappiamo entrambi perché sei ridotto così. Ti sei fatto costruire delle macchine mortali. Volevi ammazzarti e ci sei andato vicino... Hai proprio bisogno di me.»
Rimarcò lei, iniziando a mostrarsi più dura e sicura delle sue affermazioni. Senza pietà, pari a lui. Era brava ad 
urtare infallibilmente l’orgoglio di Vegeta.
«Non provare a farmi la predica, non la accetto.»
«Perché? Sai di avere sbagliato.»
«No. Io e te ne abbiamo già parlato, terrestre. Se ci tieni alla tua pellaccia, sparisci. O non ti è bastata la lezione?»
Vegeta stava riferendosi a quello scatto d’ira che per pochissimo non lo aveva reso omicida anche dell’amica di Kakaroth.
La tensione tra loro era in libera ascesa.
Bulma capì e non rimase zitta: «Potrei farti la stessa domanda: a te è bastata?... Finché non ti sarai ripreso, che ti vada a genio o no, dimenticati dei tuoi allenamenti.»
«Non osare parlarmi con quel tono, io non accetto ordini da te!»
«Ma non capisci di aver quasi perso la vita?!»
Lei urlò. Era l’emozione, i sentimenti che saltavano in aria. Gridargli contro, tuttavia, non sanava lo strappo tra loro e Vegeta era particolarmente in difficoltà per mantenere lucidità e raziocinio.

«Non riesci a respirare e sei immobile su un cavolo di letto di ospedale!»
«Non alzare la voce con me!»
«Guarda in faccia la realtà per una buona volta, Vegeta!»

«CHIUDI QUELLA BOCCA!»

Una delle macchine prese a segnalare impazzita i battiti di un cuore frenetico. Vegeta, anche lui, aveva tuonato contro di lei, più che poteva, fino a sgolarsi e adesso gli mancava il respiro.
A quel punto Bulma si rese conto di avere esagerato.

Sentendo le forti grida e le macchine inviare impulsi di allarme, l’infermiere si precipitò in soccorso.
«Signora, che sta succedendo?! Sta bene?! Ha bisogno di aiuto?!»
Irruppe spalancando la porta.
Bulma era diventata una lastra di ghiaccio, si voltò appena per rispondere:
«Mi-mi scusi, stavamo solo parlando, ci siamo un po' agitati.»
L’infermiere li analizzò, muovendo
gli occhi da lei a Vegeta come sfere all'interno di un flipper.
Appurato che il paziente era vigile e la scienziata intera, si tranquillizzò leggermente.
«Bene, ma posso concederle qualche altro minuto, non oltre.»
Bulma stava per ringraziarlo, quando il saiyan si intromise: «No! Questa donna ha finito con me, può andarsene adesso!».
Replicò lui, adirato. Rinnovando l’espulsione.
L’infermiere non sapeva cosa fare. Certamente, si fidava di più dei limpidi occhi di Bulma che dell’uomo bieco e latrante. Da sveglio, gli incuteva davvero molta paura.

Le macchine trillarono nuovamente allarmanti. Bulma vide Vegeta entrare in affanno, cercare più aria di quella che la mascherina riusciva a dargli. Doveva farlo calmare e c’era poco spazio per respirare anche per lei.
Decise saggiamente di uscire dalla camera.

 

...

«Non so come fare...»
Mormorò tra sé e sé una volta fuori. Si coprì il volto con le mani.
L’infermiere non se ne era andato, restò accanto a lei. La osservava attento.
«Mi permetta di dirle che forse, suo marito, ha bisogno di restare solo.»
Le disse.

È proprio questo il problema, lui è solo.

«Le dovrebbe bastare averlo visto riprendersi in poco tempo. Al di là di ogni nostra previsione.»

E non resterà qui a lungo, ve lo giuro.
Ma... Deve smetterla di trattarmi così!

«Non ho finito con lui. Devo rientrare.»
«Di nuovo? Signora, non posso permetterle di-»
«È solo arrabbiato, gli passerà. La prego, ci lasci soli ancora un pochino. Ho bisogno di parlare con mio marito
L’infermiere la fissò rapito da tanta tenacia, e bellezza.
«Va bene. Ma le do questa.»
Il ragazzo acconsentì e tirò fuori una lucida scatolina di metallo dalla tasca dei pantaloni, la aprì e con due dita, facendo molta attenzione, prese e passò nelle mani di Bulma una piccola siringa di vetro piena di liquido blu. La siringa era poco più lunga della larghezza di un palmo.
La scienziata la guardò esterrefatta.
«Una dose così può uccidere un uomo... ma non suo marito, immagino...»
Le disse l’infermiere lasciando Bulma priva di risposte. Quell’apprensione nei suoi confronti iniziava ad essere troppo insistente. E nondimeno sospetta.
Bulma aspettò, non disse nulla che poteva confermare o negare l’insinuazione. Lasciò la mano aperta e la gelida siringa sopra di essa.
«Potrà entrare solo se la porterà con sé. D’accordo?»
La scienziata fissò l’infermiere. Poi la siringa, e tornò all’infermiere.
«Mi... – le guance del ragazzo arrossirono leggermente – mi sentirò più sicuro se la avrà lei.»
Non se lo sarebbe mai aspettato, ma quello si stava prendendo una visibile cotta per lei.
Bulma annuì. Se per avere nuovamente udienza da Vegeta, doveva accettare le insolite avance di un ragazzino di circa ventitré anni, non c’era motivo di farsi altri problemi.
Il ragazzo in camice aspettò che lei nascondesse la siringa e, successivamente, le aprì la porta.

Vegeta li aveva sentiti parlare, non aveva capito cosa si fossero detti ma non gli garbava. Non gli piaceva la confidenza che quel ragazzino sembrava prendersi liberamente con la terrestre. E gli dava fastidio provare quella sensazione.

«Mi raccomando.»
Disse ancora l’infermiere, prima di richiudere la porta dopo aver lasciato che la scienziata vi entrasse nuovamente, ma armata.

Bulma si risistemò sulla sedia. Con più cautela. Forse perché sapeva di avere addosso una sostanza molto pericolosa per lei. Aveva paura che in qualche modo potesse togliersi il tappo che isolava l’ago e che questo, in un’altra inspiegabile maniera, potesse poi infilarsi nella sua candida carne, lasciando al liquido la possibilità di colare e spargersi nel suo sangue.

«... Ancora qui?»

C’era Vegeta a farle dimenticare della minacciosa siringa.

«Non avrei dovuto dire quelle parole. Mi sono lasciata andare. Perdonami...»

Scusarsi era sempre una buona scelta, e la scena muta a seguire il suo tacito assenso.

«Potresti girarti, guardarmi in faccia almeno? O non sono degna nea-»

«Terrestre, a te che importa?»

Domandò lui inaspettatamente, senza gridare e voltandosi finalmente per guardarla negli occhi. La sorprese. La sconvolse. I loro sguardi si incontravano dopo molto tempo, erano entrambi tristi e riflettevano il medesimo specchio rotto, con le stesse nubi sospese che si erano lasciati alle spalle più un mese fa. 

«Che intendi?»

Bulma avvertì un singulto allo stomaco.
Vegeta sospirò pesantemente, tanto quanto gli era permesso dai suoi polmoni malati.
Ripetersi non gli era mai piaciuto, dovette sforzarsi parecchio.

«Se io sono qui, a te che importa?»

Ad ogni parola la mascherina si appannava generando tracce del suo respiro stanco.
Bulma raccattò i pensieri sparsi dappertutto in quella stanza, come resti di meteoriti smembrati dopo un forte impatto.
Aveva gli occhi annegati in quelli scuri del saiyan.
Stava tornando il desio.

Come se tu non lo sapessi... 

«Non voglio vederti rischiare la vita... È anche colpa mia se tu sei qui, quelle macchine avrebbero dovuto funzionare diversamente.»

Era la verità. Una parte della verità. Ma non abbastanza per Vegeta.

«Non stai rispondendo alla mia domanda... Se io morissi a te che importerebbe? Cosa vuoi da me?»

Lui andò più a fondo. La stava mettendo alla prova. Ed era sleale.
Bulma temporeggiò ancora, senza rispondere, pensando che quella situazione non le era nuova. Ci erano già passati e lei ne era uscita sconfitta ed illusa.

«Te lo domando per l’ennesima volta perché di qualunque cosa si tratti... guardami: non ho nulla da darti.»

Era insolitamente... rassegnato? 
Bulma non lo aveva mai sentito parlare così. C’era un diverso accento. Forse, veramente, iniziava ad intravedersi quel cuore, sicuramente vivo e caldo, che era stato nascosto nell’atroce e tenebroso abisso in cui lui lo aveva annegato.
Sì, non aveva nulla da darle. Apparentemente. Ma lei avrebbe trovato il modo di prenderselo. Anche a costo di scavare a mani nude nell'oscurità.

«Sì, niente dovrebbe importarmi di te, è vero-», «Perfetto, non hai motivo di stare qui – lui le impedì di finire, sembrava offeso adesso – tornatene a casa, vattene dai tuoi amici terrestri, raggiungi Kakaroth... Lasciami solo. Non ho tempo da per-»
«Ne ho abbastanza!», fu lei stavolta ad interromperlo. «Smettila di decidere al mio posto! Non provare a ripetermi che sei il Principe dei Saiyan e io una terrestre... come fosse un problema, non lo fare.»

Disse solenne, però invasa dal cordoglio; e colta da un forte slancio, desiderosa di cancellare i loro ruoli antagonisti e la differenza di razza, accorciando ogni distanza, Bulma si sbilanciò verso di lui arrivando a posare la mano su quella del saiyan.

«Mi importa di te, è qui che voglio stare, Vegeta. Qui! Perché tu... Tu sei caro a me

Quelle parole lo stordirono.
Vegeta  abbassò lo sguardo sulle loro mani, si stavano sfiorando. E
rano più vicini di quanto lui le avesse permesso.
E la loro pelle a contatto si rivelava essere la superficie scabra di un profondo ardore.
Bulma fece lo stesso seguendo gli occhi di Vegeta. Se ne rese conto anche lei. 
Ebbe paura del gesto scappato al proprio controllo. Provò a togliere la mano, ma Vegeta non le permise di farlo. 

«Attenta a quel che dici»

Le sussurrò lui, senza smettere di osservarla, senza lasciarla. Serissimo e letale.

«Posso farti del male. Ricordi? Te l’ho già fatto.»

«Starò attenta. Non ho paura, te l’ho già detto

«Eppure la tua voce trema quando ti avvicini a me.»

«Non trema di paura.»

«E se io non li condividessi i tuoi sentimenti?»

La guardava fisso, quasi la stesse misurando, pronto a smascherarla qualora tentasse di compiere un passo falso.

«In tal caso, non sarebbe un tuo problema.»

Vegeta non sorrise, ma gli piacque la risposta.

«Aiutami a togliere questa.»

Le disse, lasciandole la mano per concederle di aiutarlo; abbandonandola sospesa sulla constatazione di essersi dichiarata, liberata senza possibilità di tornare indietro. Con lui non si poteva.

«Come farai a respirare se... ?», gli domandò lei, che non vedeva buona la scelta di rimuovere una fonte certa di ossigeno.

«Toglimela!»

Insisté il saiyan deciso.
Bulma non indugiò ulteriormente, fece come le era stato detto onde evitargli un’altra crisi.
Quei laccetti erano stati stretti tanto da solcare la pelle fino a fargli venire i lividi. Doveva essere stato un animale chi gli aveva fatto una simile cortesia.

Liberato della museruola, Vegeta fu presto percorso da un rapido sollievo; avvertì subito l’effluvio dolce di lei.
Da parte sua, la scienziata poté rivedere il profilo affilato del saiyan, con una leggera ombreggiatura di barba su mento e guance che non guastava la vista. E le labbra. Facili. Non più dietro una barriera ma pericolosamente accessibili.

«Va meglio, Vegeta?», domandò, timidamente.

Il saiyan tornò a fissarla. Si tese provando ad alzarsi, non riconosceva il suo corpo, la sua forza non accennava a tornare. Era ancora impossibilitato a muoversi.

«Avvicinati, come hai fatto prima.»

Le ordinò mandandola letteralmente in panne.
Bulma non sapeva dove mettere le mani. Lui era strano. E lo slancio che lei aveva avuto poco prima era sparito completamente.

Che mi succede?
Sto tremando?
Ha ragione lui, ho paura... che devo fare?


«Avvicinati.»

Ripeté Vegeta.
L’esito di quella richiesta era a lei chiarissimo e la sconquassava, proprio ora che stava accadendo non sapeva se desiderarlo veramente. 

Forse dovrei togliermi le scarpe, prima.
Non voglio sporcare le lenzuola.

Poggiò leggera una mano sul letto; timorosa delle prossime conseguenze; Vegeta la catturò, attirandola a sé, di nuovo, con tutta la possibile veemenza che riuscì a metterci. Facendosi male a causa di un ago che per l’avventato movimento finì per staccarsi facendogli uscire un copioso rivolo di sangue giù per il polso.
Bulma lo guardava spaesta, a pochi centimetri dal suo viso, appoggiata appena al suo petto. Le era mancata quella situazione di prigionia, si scoprì vergognosamente in astinenza di lui. Il sangue del saiyan le scorreva caldo sulla pelle.
La penetrò con lo sguardo, poi parlò.

«... Non so se ho davvero bisogno di te, Bulma.»

Pronunciò il suo nome.
Lei avvertì un forte senso di vuoto, quasi fosse in caduta libera e il suo cuore avesse deciso di migrare verso la gola per scappare via.

Vegeta l’aveva sempre saputo, la terrestre era lì a offrirgli l’anima, e lui non riusciva a non approfittarne per infilarci dentro le lame di ferro della propria spietatezza. E non poteva continuare a far finta che non lo fosse, era attratto da lei. Stregato dalla forza misteriosa e dal coraggio che quella donna  mostrava avere nei suoi confronti. Totalmente ammaliato dagli insensati sinceri sentimenti che la terrestre nutriva per lui e che vedeva riflessi nei delicati e specchianti occhi chiari. 

Non la baciò, non la toccò, non più di quanto aveva già fatto.
La respinse quando sentì qualcuno avvicinarsi veloce alla porta ed irrompere nella stanza.

«Deve andarsene da qui, ora!»

Era l’infermiere, arrivò sudato e in fibrillazione.
La scienziata era ancora aggrappata alle parole del saiyan, dispersa nel suo sguardo.
«Mi sta ascoltando, Signora? Non può più stare qui, mi segua!»
L’infermiere afferrò Bulma per un braccio, con l’intenzione di volerla strattonare lontano dal mostro.
Vegeta lo guardò come volesse scannarlo, e non perché le mani del ragazzino erano addosso a Bulma, ma perché lo schifoso lo aveva interrotto e continuava a insinuarsi nella sua camera come un ratto...

Ratto...

Il pensiero lo fece trasalire, ebbe una sorta di déjà vu.
Un ratto, mentre lui era in coma... Stava rimembrando qualcosa, ma non riusciva a mettere bene a fuoco i ricordi confusi.

«Un attimo, cosa sta succedendo?! Mi lasci!»
Bulma tornò in sé.

«Non ho tempo per spiegarle, dobbiamo visitare il paziente e fare altri accertamenti, non può rimanere qui. La accompagno nella sala d’attesa. Non si preoccupi, la chiamerò quando potrà tornare da suo marito!»

Marito?

Vegeta venne scosso quasi avesse sentito un boato. Questa la terrestre avrebbe dovuto spiegargliela. Ma la vide sparire troppo velocemente  per guardarla un’ultima volta negli occhi. L’infermiere la portò con sé, lontano da lui.

 

 

Continua…

Note:

1. Innanzitutto, scusatemi per il ritardo prima di questa pubblicazione. Veramente grazie per la vostra pazienza. Ero indecisa se prolungare il capitolo, ma è meglio averlo completato in questo modo. Altrimenti troppa carne al fuoco.

2. Westkong Hospital: non me lo sono inventato, questo ospedale esiste davvero, andate a rileggere il manga nel momento in cui Goku, dal luogo in cui ha combattuto con Vegeta, viene portato in ospedale. Akira ci presenta, usando sempre la stessa vignetta con vista da lontano o più ravvicinata per circa tre quattro volte, questo edificio dal nome We--kong Hospital, dove la S e la T mancanti sono coperte da una struttura architettonica utile a sorreggere una sopraelevata. Se due più due fa quattro, e Goku si trova nella città dell’ovest ecco fatto: Westkong Hospital.

Quello inventato è l’Ospedale Generale.

3. Anche il dottore del Westkong Hopsital esiste nel suo breve cameo per soccorrere Goku.

4. Sì, il padre di Bulma sa dell’esistenza dei senzu. Non me lo sono inventato. Dice parlando a Goku: «sei già guarito?! Allora i senzu hanno un’efficacia davvero meravigliosa!»

5. Se ricordate nel capitolo settimo, Bulma va all’ospedale per farsi ricucire.

6. Mi farebbe piacere leggere un vostro parere, sperando vi vada di lasciarlo e abbiate il tempo di farlo. Grazie per avere letto il capitolo.

7. Il disegno lo pubblicherò più avanti. Pubblicato  il 17 luglio 2020
8. Alcune battute di Vegeta contro Bulma le ho prese a mio gusto e modificate a mio gusto dall'Anime.

   
 
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