Buongiorno a tutti.
Scuusate per il lungo periodo trascorso dal mio ultimo capitolo, ho dovuto affrontare un catastrofico caso di blocco dello scrittore, abbinato ad una lunga serie di impegni che mi hanno tenuto lontano da questa storia. Poiché fortunatamente sono un tipo ostinato, però, ho tutte le intenzioni di finirla. Mentre pubblico questo capitolo, vi comunico che il successivo è già oltre la metà, quindi spero di non impiegare un'altra vita prima di pubblicarlo.
Buona lettura.
CAPITOLO OTTO
Scuusate per il lungo periodo trascorso dal mio ultimo capitolo, ho dovuto affrontare un catastrofico caso di blocco dello scrittore, abbinato ad una lunga serie di impegni che mi hanno tenuto lontano da questa storia. Poiché fortunatamente sono un tipo ostinato, però, ho tutte le intenzioni di finirla. Mentre pubblico questo capitolo, vi comunico che il successivo è già oltre la metà, quindi spero di non impiegare un'altra vita prima di pubblicarlo.
Buona lettura.
CAPITOLO OTTO
Sarebbe
stato impossibile definire la finale della Coppa tra Grifondoro e
Serpeverde con un termine differente da “epica”:
avevo vissuto diversi derby dall’altra parte, ma nulla che
potesse paragonarsi alla tensione tra le due Case prima e durante la
sfida. Gli ultimi giorni furono letteralmente elettrici: lo scontro
mancato tra me e il gruppo di Nott fu solo uno dei tanti, e alcuni
ragazzi finirono addirittura in infermeria.
Il
nervosismo, la sera prima dell’incontro, era palpabile: anche
se alcuni, come i Gemelli, esorcizzavano la cosa dimostrandosi perfino
più rumorosi del solito, era chiaro che i pensieri di tutti
erano rivolti ad un unico argomento. Io, Seamus, Dean, Mary e Ginny
eravamo seduti in un angolo, e, inevitabilmente, il solo argomento
all’ordine del giorno era la partita. Benché
conoscessimo la situazione ormai da mesi, nelle ultime ore avevamo
fatto e rifatto i conti cento volte, calcolando attentamente i punteggi
di tutte le partite, e ogni volta eravamo arrivati alla stessa
conclusione: a Grifondoro serviva vincere con duecento punti o
più di vantaggio, altrimenti si sarebbe messo in pari con
Serpeverde per numero di vittorie, ma avrebbe perso a causa della
peggiore differenza punti (“differenza reti”,
continuava a definirla imperterrito Dean, scatenando
l’esasperazione di Ginny e Seamus e le risate mie e di Mary,
che avendo una madre Babbana sapeva qualcosa degli sport non magici con
la palla). Era una montagna molto impervia da scalare, considerando che
la squadra di Serpeverde era tutt’altro che scarsa, ma
eravamo tutti concordi nel ritenerla fattibile, visto il talento delle
cacciatrici titolari di Grifondoro. Nelle ultime due settimane avevo
giocato almeno una dozzina di partite di allenamento contro di loro,
simulando di essere un cacciatore di Serpeverde (Baston era addirittura
arrivato a dipingere magicamente di verde smeraldo i nostri abiti, in
modo da abituare Angelina, Katie e Alicia ad affrontare giocatori che
indossavano quelle divise), e non le avevo mai viste tanto agguerrite.
Era stato molto divertente: più continuavo a giocare,
più i movimenti sembravano venirmi naturali. Stavo scoprendo
(o ri-scoprendo?) di amare visceralmente il Quidditch, in una maniera
che né il calcio né il rugby potevano eguagliare,
e non poteva che farmi piacere.
Inevitabilmente,
ad avere la maggiore responsabilità ed il compito
più improbo sarebbe stato Harry: non doveva soltanto
conquistare il boccino, doveva farlo anche al momento giusto, quando la
squadra fosse stata in vantaggio di almeno cinquanta punti, e nel
frattempo tenere Malfoy lontano dalla piccola sfera dorata. Nonostante
la sua nuova Firebolt, non si prospettava una sfida facile per il
nostro Cercatore, ed infatti non mi sorpresi nel vedere il pallore
della sua faccia quando il capitano ordinò alla squadra di
andare a letto.
La
sfida del giorno dopo fu qualcosa di semplicemente incredibile: mentre
le due Case si lasciavano andare ad un tifo degno di una partita di
calcio particolarmente sentita, le squadre si affrontarono senza
esclusione di colpi. Io ero in tribuna con il resto della squadra
riserve, proprio nel mezzo della bolgia; ero addirittura arrivato a
farmi convincere da Mary a dipingermi sulle guance due strisce (una
color oro, una rosso vivo). Ricordando le domeniche trascorse sui
gradoni dello stadio dall’altra parte, non ci misi molto a
provare a guidare i “tifosi”, inventando sul
momento alcuni cori contro Serpeverde che solo grazie alla particolare
eccitazione del momento mi fecero guadagnare soltanto qualche
occhiataccia da parte di una McGrannitt che era coinvolta nel match
quasi quanto noi. Erano rime quasi caste rispetto ad alcune che avevo
sentito in alcune partite di calcio particolarmente sentite, ma sono
certo che se in qualsiasi altra situazione avessi suggerito ai
Serpeverde gli stessi consigli su dove potevano infilarsi i serpenti,
mi sarebbero certamente costati almeno due settimane di punizione.
Sorprendentemente,
tutto andò secondo i piani, come meglio non sarebbe stato
possibile: in mezzo ad un mare di bandiere rosse ed oro, vidi i miei
compagni riuscire a portarsi in vantaggio, nonostante il gioco pesante
e spesso falloso dei Serpeverde, ed Harry riuscì a strappare
il boccino sotto il naso di Malfoy. Lo stadio esplose come una bomba:
dalle tribune di Grifondoro si alzò un urlo simile al
ruggito di un vero leone, che si disintegrò in una cacofonia
di grida, pianti, risate. Alcuni facevano tutte e tre le cose insieme.
Tra questi c’era Mary, che scavalcò almeno tre
persone per saltarmi tra le braccia, la bocca allargata al massimo in
una risata, le guance rigate di pianto. Pesava come un fuscello. Io le
feci fare due giri completi tenendola sollevata, poi mi abbassai e me
la misi a cavalcioni sulle spalle prima di correre verso il campo,
seguendo la marea di tifosi di Grifondoro che si rovesciavano a
festeggiare i giocatori, che erano scesi in campo stetti in un
abbraccio collettivo. L’emozione fece dei brutti scherzi
anche a persone insospettabili: il solitamente austero e inibito Percy
saltellava come un pazzo, mentre la McGrannitt piangeva senza ritegno,
asciugandosi gli occhi con una enorme bandiera di Grifondoro. Io, pur
stando attento a non far cadere l’esultante Mary, non
resistetti alla tentazione di dissezionare con lo sguardo la tribuna di
Serpeverde, dove i tifosi erano rimasti pressoché raggelati,
finché i miei occhi non si incatenarono con quelli
lampeggianti di collera di Nott. Gli regalai un ghigno degno di uno
squalo davanti ad un banco di aringhe particolarmente succulente.
L’intera
squadra venne sollevata sulle spalle dalla folla e portata verso le
tribune, dove Silente reggeva la gigantesca Coppa del Quidditch. Da
ragazzo avevo vissuto la vittoria della nazionale Italiana nei mondiali
di calcio, e vedere Fabio Cannavaro alzare la Coppa del Mondo era stata
un’emozione incredibile. Quella sensazione, però,
scomparve nettamente nel vedere Baston alzare al cielo il trofeo
d’oro. In quel momento, con le risate di Mary nelle orecchie
e le sue mani a scompigliarmi i capelli, per la prima volta da quando
ero arrivato in quel mondo mi sentii veramente felice di essere
lì. Per la prima volta da quel giorno di novembre, mi sentii
a casa.
L’esaltazione
per la vittoria durò per diversi giorni, mentre anche il
tempo, con l’avvicinarsi di giugno, diventava più
allegro, ed il sole illuminava i prati ed il lago. Faceva piuttosto
caldo, per essere in Scozia. Stare fuori era sempre più
piacevole, ma non potevamo permettercelo più di tanto:
l’arrivo di giugno, infatti, voleva dire che gli esami erano
vicini. Per me non era una novità prepararmi ad un test, ma
nonostante ciò che diceva la storia scolastica di Joshua
Carter, quelli erano i primi, veri esami di magia che mi trovavo ad
affrontare. Per una volta nella vita decisi di non affidarmi solo a
quella memoria che tanto avevo osannato e sfruttato per tutta la mia
carriera scolastica, quella capacità di immagazzinare
nozioni rapidamente che mi aveva evitato di passare tante ore sui libri
fin dalle elementari. Mi misi anzi a studiare con una
serietà che solitamente non mi apparteneva, spulciando per
ore i libri di testo e sfruttando le pause per esercitarmi nella
pratica.
Cercai
di mantenere alta l’attenzione, e di non farmi scuotere
neanche dalla notizia che Edvige portò in quei giorni ad
Harry: Hagrid ci avvertiva che l’appello di Fierobecco si
sarebbe tenuto il sei, ad Hogwarts. Sarebbe venuto un funzionario del
ministero…insieme ad un boia. Fu un colpo duro, per me come
per Harry, Ron ed Hermione: avevamo contribuito tutti a preparare
l’appello in favore dell’Ippogrifo, ma purtroppo
avevamo la sensazione che il nostro impegno non sarebbe servito a
nulla. A darcene la triste conferma contribuiva non poco la faccia
tronfia di Malfoy, tornato di colpo allegro dopo giorni nei quali si
era mantenuto insolitamente tranquillo. Era certo che Fierobecco
sarebbe stato giustiziato, e purtroppo temevo che avesse ragione.
Era
solo uno dei pensieri che mi attraversavano la testa: da un
po’ il mio “Senso di ragno” non mi dava
tregua, lanciandomi puntate apparentemente casuali diverse volte al
giorno, senza che riuscissi a collegarle a qualcosa di preciso. In
realtà, forse non c’era una vera ragione, era
più che altro un avvertimento generico: il periodo buio che
fin dal mio arrivo in quel mondo sentivo prossimo era ormai sempre
più vicino. Sapevo che stava per succedere qualcosa, ma non
avevo la minima idea di cosa si trattasse, e questa attesa contribuiva
certamente a peggiorare il mio umore.
Non
era proprio il migliore spirito con il quale affrontare gli esami. Una
quiete innaturale scese sul castello quando, la mattina di
lunedì 3 giugno, ci avviammo verso la prima prova.
L’esame di Trasfigurazione fu complesso, molto complesso: la
McGrannitt si confermò un’insegnante estremamente
esigente, e tutti ci trovammo in difficoltà con le domande
di teoria e con le esercitazioni pratiche. Se la maggior parte della
classe ebbe seri problemi con la trasformazione di una teiera in una
tartaruga (la mia, a parte la conservazione delle caratteristiche
dentellature che decoravano la teiera sul carapace, era venuta
abbastanza bene), io quasi mi schiantai nel tentativo di eseguire un
Incantesimo di Indurimento su un cuscino. O, per meglio dire, fu il
cuscino a schiantarsi a terra, improvvisamente pesante una tonnellata:
un istante dopo il mio “ Duro”,
infatti, il soffice oggetto sfondò il banco sul quale era
posato e incrinò il pavimento. Un esame successivo della
McGrannitt rivelò che avevo leggermente esagerato,
probabilmente per lo stress di stare affrontando il mio primo esame in
quella scuola, ed avevo pompato troppa magia nel mio incantesimo:
anziché in pietra, il cuscino si era trasformato in piombo,
e pur essendo di solida quercia, il banco non aveva retto il peso
eccessivo. Non mancai di udire alcune risate nervose da parte dei
presenti, e perfino la professoressa sorrise quando le feci notare che,
in effetti, l’oggetto si era indurito, e che quindi il mio
non era stato un completo errore. Incantesimi, nel pomeriggio, fu un
successo decisamente maggiore: gli Incantesimi Rallegranti non mi
avevano mai messo realmente in difficoltà, e per mia buona
sorte in quel caso evitai di esagerare, come accadde ad Harry, che ne
lanciò uno talmente forte a Ron da metterlo fuori uso per
un’ora, scosso da risatine isteriche. Terminato l'esame di
Incantesimi, a stento ebbi il tempo di tirare il fiato prima di
affrontare il test di Antiche Rune: per mia fortuna, confermando le
parole della mia professoressa di latino al Liceo, mi rivelai piuttosto
portato per le lingue antiche, e la traduzione scorse senza troppi
problemi.
A
sera ero già molto stanco, ma passai ugualmente gran parte
della notte chino sui libri. Gli esami che mi attendevano il
martedì non erano certamente i miei preferiti: se Astronomia
mi lasciava qualche speranza, e il depresso Hagrid avrebbe ben
difficilmente messo in piedi un esame difficile per Cura delle Creature
Magiche, Pozioni sarebbe stato uno scoglio molto difficile da superare.
Rimasi per ore a ripassare le varie misture che avevamo sperimentato
durante l’anno, ma sapevo fin troppo bene che a mettermi in
gravi difficoltà non sarebbe stata la teoria,
bensì la pratica.
Non
avevo previsto grandi difficoltà per Cura delle Creature
Magiche, ma Hagrid esagerò in senso contrario: dovevamo
semplicemente prenderci cura per un’ora di un Vermicolo,
facendolo rimanere in vita. La prova più semplice che fosse
possibile immaginare, considerando che i Vermicoli normalmente
sopravvivono bene se lasciati a se stessi. Per lo meno, questo dette a
me e agli altri la possibilità di scambiare qualche parola
con Hagrid, che appariva però quasi rassegnato. Doveva aver
capito anche lui che le possibilità di salvare
l’Ippogrifo erano ormai ridotte al lumicino. Cercai di
confortarlo per quanto possibile, ma dentro di me ribollivo
d’ira: mondo Babbano o mondo magico, sembrava impossibile
liberarsi da quel viscido mostro che era la politica corrotta.
Pozioni
si rivelò catastrofica come mi ero aspettato. Piton si
confermò una vera carogna: aveva predisposto il
più difficile test scritto che mente umana avesse mai
immaginato, andando a pescare i più piccoli dettagli delle
pozioni più complesse affrontate durante l'anno. Se per la
teoria ero convinto di aver raggiunto almeno la sufficienza, la pratica
fu a dir poco disastrosa: non solo il mio Intruglio Confondente,
anziché addensarsi, si trasformò quasi in
melassa, ma dimenticai clamorosamente il levistico. Le mie speranze di
non essere bocciato in quella materia erano veramente scarse.
Dopo
una cena leggera ed un veloce ripasso, io e gli altri ci trascinammo
letteralmente nella torre di Astronomia, dove la sinuosa professoressa
Sinistra ci attendeva per il suo test. Quando finimmo di disegnare la
mappa del settore di cielo che ci aveva assegnato, erano ormai le due,
e ci reggevamo in piedi per un miracolo di equilibrio. Nonostante il
giorno dopo fossi atteso da altri due esami, non riuscii a fare altro
che crollare come un sacco di patate sul mio letto. D'altronde, Storia
della Magia non mi preoccupava, mi sentivo prontissimo, mentre in
Erbologia ero sostanzialmente rassegnato.
In
realtà, le cose andarono meglio delle mie fosche previsioni:
Storia della Magia fu come bere un bicchier d'acqua, mentre la
sensazione che ebbi quando uscii dalle serre con la testa che mi girava
per il gran caldo fu che forse, ma solo forse, avevo una remota
speranza di strappare la sufficienza.
Fu
dunque con un sorriso che, il giovedì mattina, mi accostai
all’ultima giornata di esami. Era quella che aspettavo con la
maggiore curiosità: Babbanologia, che mi attendeva nel
pomeriggio, sarebbe probabilmente stata una formalità, ma
era il test mattutino ad affascinarmi in maniera particolare. Difesa
contro le Arti Oscure era una materia intrigante di per se, ed il modo
con il quale il professor Lupin la insegnava la rendeva ancor
più appassionante. Era stato lui stesso, il giorno prima, a
far salire di diversi gradi il mio interesse: lo avevo incontrato dopo
l’esame di Storia della Magia, e mi aveva detto con un
sorriso complice di prepararmi bene, perché la sua prova non
sarebbe stata una passeggiata.
Compresi
che aveva detto la verità appena arrivai vicino al margine
della Foresta Proibita, dove l’insegnante aveva preparato una
specie di percorso di guerra: avremmo dovuto attraversare, per prima
cosa, una vasca d’acqua contenente un Avvincino, poi superare
una serie di buche piene di Berretti Rossi, quindi farci strada
attraverso un sentiero paludoso senza farci tentare dai consigli di un
Marciotto, infine arrampicarci dentro un vecchio tronco e affrontare un
Molliccio. Un ghigno mi si dipinse sul volto: adoravo quel genere di
cose già nel mio mondo, e mi sentivo sinceramente entusiasta
all’idea di mettermi alla prova. Per di più, avevo
già affrontato quasi tutte quelle creature in classe, e me
l’ero cavata piuttosto bene.
‘Quasi,
non tutte’. Il pensiero non poté fare a meno di
attraversarmi la mente durante la prima parte del percorso, mentre mi
liberavo senza eccessivi problemi dell’Avvincino, dei
Berretti Rossi e del Marciotto, e si presentò a piena forza
non appena giunsi davanti al tronco cavo: era una immensa quercia, una
ventina di metri oltre il limite della foresta. Doveva essere morta
ormai da anni, e nel suo tronco, dal diametro di cinque o sei metri, si
apriva uno squarcio alto quanto un uomo adulto e largo circa cinquanta
centimetri. Mi fermai ai piedi di una rudimentale scaletta che
conduceva verso l’apertura. Il professore ci aveva detto che
dalla parte opposta del tronco ce n’era una gemella dalla
quale avremmo potuto uscire, mentre lui ci avrebbe aspettato a una
decina di metri di distanza con gli altri che avevano già
superato la prova. All’interno del tronco, però,
un’oscurità magica regnava sovrana, al punto che
l’uscita era appena distinguibile.
Mentre
salivo la scala ero molto più curioso che intimorito: delle
creature che il professor Lupin aveva scelto di inserire nel percorso,
il Molliccio era il solo che non avessi mai affrontato. Lo aveva
portato in classe all’inizio dell’anno, prima del
mio viaggio. Ero veramente interessato: dai miei ricordi, o meglio, da
quelli di Joshua, sapevo che lui, durante la lezione, aveva dovuto
sfidare un gigantesco scorpione, grande quanto un rinoceronte, una
creatura che sembrava uscita da un vecchio film dell’orrore.
Era la sua paura più grande fin da bambino, quando, durante
una passeggiata con suo padre, era stato punto da uno di quegli
animali, e aveva quasi rischiato la vita prima che una Pozione
Anti-Veleno lo salvasse. Quella, però, era la paura di
Joshua, non la mia. Difficilmente io avrei visto uno scorpione, non
avevo nessun problema con loro.
Quale
era, però, la mia più grande paura? Era una
domanda che non mi ero mai posto in venticinque anni: cosa temeva
veramente Matteo Simoncini? Un pizzico di timore mi colpì la
mente nell’attimo nel quale varcai la soglia ed entrai
nell’oscurità.
Dopo
un solo passo mi bloccai come una statua di sale. Il respiro mi si
bloccò in gola, il cuore saltò due battiti, ed
ebbi la sensazione che mi fosse stata iniettata acqua ghiacciata nelle
vene.
Non
era uno scorpione. Non era un serpente o un ragno o un altro animale.
Non era neanche un licantropo, un vampiro, un alieno o un qualsiasi
altro mostro magico o Babbano.
Davanti
a me c’era una tomba. Una lapide rettangolare, di marmo
bianco, piantata in un terreno scuro, che si stagliava innaturalmente
nel buio. Con orrore crescente, lessi la scritta in lettere dorate
realizzata su di essa:
Matteo
Simoncini
Nato
l’11 settembre 1994
Morto
il 20 novembre 2019
Era
la data del mio incidente.
Presi
a tremare in maniera incontrollata, incapace di muovermi di un solo
millimetro. La bacchetta mi tremava nella mano, e non riuscivo a
staccare gli occhi dalla lapide.
Un
attimo dopo, una figura apparve accanto alla pietra. Ebbi la sensazione
che si fosse sollevata dalla terra, ma in realtà si
condensò nell’aria, come fumo deciso a prendere
una forma solida.
Urlai,
o almeno ci provai, perché il suono che uscì
dalla mia gola, che sembrava essersi ridotta alle dimensioni di una
cannuccia, fu molto più simile ad uno squittio. Temetti
veramente di svenire sul posto.
Distinsi
una figura umana muoversi con passi strascicati nella mia direzione,
fermandosi a circa un metro e mezzo di distanza. Riconobbi il suo
viso…riconobbi il MIO viso…solo perché
lo conoscevo molto bene. Avevo davanti a me Matteo Simoncini, ritornato
ai suoi venticinque anni. O per meglio dire, quello che era stato
Matteo Simoncini. La sua pelle era giallastra, ed aveva
l’aspetto di cuoio malamente invecchiato. Sotto di essa, la
carne sembrava essersi consumata, lasciando poco più che
ossa. Il volto era piagato, quasi divorato, ed in diversi punti si
intravedeva il teschio. I capelli erano ridotti a vecchia paglia, gli
occhi infossati nelle orbite mi fissavano con un lampo inquietante. Gli
abiti, che un tempo erano stati un bel completo Babbano da uomo, gli
pendevano addosso laceri e sporchi di terra, come quelli, pensai, di un
essere appena uscito dalla propria bara. E doveva essere esattamente
quello che era accaduto: avevo davanti il mio cadavere.
Non
riuscii a muovere un solo muscolo: le braccia mi erano crollate lungo i
fianchi, inerti, e solo la paura che mi aveva folgorato mi aveva
impedito di aprire le dita e lasciar cadere la bacchetta. Non poteva
essere vero…una parte della mia mente sapeva che era solo lo
squallido trucco di un imitatore, eppure…
Il
cadavere rimase a fissarmi per qualche secondo, poi parlò,
con una voce che ricordava lo stridore di vecchie ossa:
“Quanto credi di andare avanti con questa pagliacciata? Fino
a quando vuoi continuare a fingere? Quanto a lungo racconterai a te
stesso e agli altri la stessa bugia? Tu…fingi.
Tu…cammini, parli, ridi, combatti, vivi… ma
è soltanto una menzogna…perché
tu…sei morto! Tu non sei Joshua Carter, lo sai
bene…ma non sei più neanche Matteo Simoncini. Non
lo sei più da sette mesi, da quando la tua vita è
finita! Non c’è un altro mondo per te! Fingi di
continuare questa vita con la speranza di tornare dall’altra
parte, ma non c’è più
un’altra parte! Tu sei morto, e lo sai! Ti hanno seppellito
sette mesi fa! I tuoi genitori…tuo fratello…la
tua fidanzata…i tuoi amici…hanno pianto sulla tua
bara. Qualcuno ti porta ancora dei fiori. Tutti, però, sono
andati avanti…hanno continuato con le loro vite…e
tu non ne fai più parte!”.
Il
morto vivente sembrava diventare sempre più nitido. Il
Molliccio si stava nutrendo a volontà della mia paura,
pascendosene come di un vino particolarmente gustoso. Sapevo che avrei
dovuto reagire, che avrei dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non
riuscivo neanche a muovermi: la paralisi era stata sostituita da un
tremore incontrollabile, un terrore viscido e oscuro, un orrore
impossibile anche solo da descrivere. Quello che stava
dicendo…era l’incubo che aveva piagato tante delle
mie notti in quei mesi.
“Dove
sei adesso? – continuò senza pietà
l’apparizione, avvicinandosi di un altro passo –
Che cos’è questo luogo? Il Paradiso?
L’Inferno? Qualcos’altro? Non importa! –
scosse la testa ghignando – E’ comunque tutto
quello che ti rimane. Non ci sarà un ritorno per te.
Tu…sei…morto!”.
“NO!”.
L’urlo
mi eruppe improvviso dalla gola, come un’esplosione. Una
vampata come di fuoco liquido mi attraversò il corpo,
scuotendomi di colpo. Non era coraggio, ma rabbia. Pura e semplice
furia bruciante. Sentii di nuovo la bacchetta stretta nella mia mano, e
l’alzai gridando: “Io non sono morto, e tu non sei
me! Tu sei il solo bugiardo in questo posto, la sola pagliacciata, e
sparisci ADESSO! Riddikulus!”.
Non
mi resi neanche conto di aver pensato ad una nuova forma per
l’essere che avevo davanti. Probabilmente non lo avevo fatto,
almeno non in maniera conscia, ma per mia fortuna funzionò
lo stesso: spinto dalla rabbia, l’incantesimo uscì
dalla mia bacchetta come un’ondata di piena e
centrò la cosa.
Crack! Un
istante, e al posto del cadavere c’era uno scheletro
chiaramente fasullo, come quelli che i bambini utilizzano ad Halloween
per decorare le case, che ghignava verso di me con un sorriso
più divertente che inquietante.
Avrei
dovuto ridere per far scomparire il Molliccio, ma niente al mondo
sarebbe riuscito a trarre da me una risata in quel momento. Invece, lo
spostai con una spallata (buffo, non mi ero mai chiesto se fossero o no
solidi) e quasi rotolai fuori dall’albero.
Percorsi
barcollando gli ultimi passi che mi separavano dal professor Lupin e
dai miei compagni. L’insegnante impiegò alcuni
secondi per rendersi conto del mio stato: “Bravo, Joshua
– disse inizialmente con un sorriso – Ci hai messo
un po’, ma sei riuscito a completare il percor… -
si bloccò quando comprese in quali condizioni versavo
– Va tutto bene?” mi chiese, improvvisamente
preoccupato.
In
effetti, dovevo avere una faccia spaventosa: tremavo ancora come una
foglia al vento, sentivo una patina di sudore gelido imperlarmi la
fronte, e immaginai di essere pallido come… beh…
come un morto.
“N…non
è st…stato semplice – balbettai, con
una voce che non sembrava neanche la mia – No, non
è stato per niente facile”.
“Hai
bisogno di sederti per qualche minuto?” mi chiese ancora
l’insegnante, mentre gli altri mi fissavano con un misto di
stupore e apprensione.
“No!”
risposi in fretta. Non potevo restare lì, non vicino a
quell’albero. Avevo un bisogno disperato di rimanere da solo.
Cercai di darmi un tono, di non apparire completamente in preda al
terrore: “Ho solo bisogno di un bicchiere
d’acqua…posso andare a prenderlo,
Professore?”.
“Certo,
Joshua - rispose Lupin sorridendo – Se ne senti la
necessità, passa pure in infermeria da Madama Chips a farti
dare qualcosa per calmarti, e poi vai a riposare. Hai parecchie ore
prima del tuo ultimo esame”.
Non
attesi altro tempo: ancora malfermo sulle gambe, mi allontanai dal
percorso ed uscii dalla foresta, dirigendomi apparentemente verso il
castello.