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Autore: Marco1989    04/07/2020    1 recensioni
Da un momento all'altro, la tua vita cambia all'improvviso: un istante, uno schianto, e ti trovi in un mondo che hai soltanto sognato. Ti trovi di nuovo ragazzo, e coinvolto in una avventura che mai avresti sognato di vivere. Matteo Simoncini si troverà improvvisamente catapultato ad Hogwarts, e dovrà decidere cosa fare in quel nuovo mondo, mentre una oscura minaccia si avvicina, e lui potrebbe essere il solo ad avere il potere per fermarla.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A strange, new world'
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Buongiorno a tutti.
Scuusate per il lungo periodo trascorso dal mio ultimo capitolo, ho dovuto affrontare un catastrofico caso di blocco dello scrittore, abbinato ad una lunga serie di impegni che mi hanno tenuto lontano da questa storia. Poiché fortunatamente sono un tipo ostinato, però, ho tutte le intenzioni di finirla. Mentre pubblico questo capitolo, vi comunico che il successivo è già oltre la metà, quindi spero di non impiegare un'altra vita prima di pubblicarlo.
Buona lettura.


CAPITOLO OTTO



Sarebbe stato impossibile definire la finale della Coppa tra Grifondoro e Serpeverde con un termine differente da “epica”: avevo vissuto diversi derby dall’altra parte, ma nulla che potesse paragonarsi alla tensione tra le due Case prima e durante la sfida. Gli ultimi giorni furono letteralmente elettrici: lo scontro mancato tra me e il gruppo di Nott fu solo uno dei tanti, e alcuni ragazzi finirono addirittura in infermeria.

Il nervosismo, la sera prima dell’incontro, era palpabile: anche se alcuni, come i Gemelli, esorcizzavano la cosa dimostrandosi perfino più rumorosi del solito, era chiaro che i pensieri di tutti erano rivolti ad un unico argomento. Io, Seamus, Dean, Mary e Ginny eravamo seduti in un angolo, e, inevitabilmente, il solo argomento all’ordine del giorno era la partita. Benché conoscessimo la situazione ormai da mesi, nelle ultime ore avevamo fatto e rifatto i conti cento volte, calcolando attentamente i punteggi di tutte le partite, e ogni volta eravamo arrivati alla stessa conclusione: a Grifondoro serviva vincere con duecento punti o più di vantaggio, altrimenti si sarebbe messo in pari con Serpeverde per numero di vittorie, ma avrebbe perso a causa della peggiore differenza punti (“differenza reti”, continuava a definirla imperterrito Dean, scatenando l’esasperazione di Ginny e Seamus e le risate mie e di Mary, che avendo una madre Babbana sapeva qualcosa degli sport non magici con la palla). Era una montagna molto impervia da scalare, considerando che la squadra di Serpeverde era tutt’altro che scarsa, ma eravamo tutti concordi nel ritenerla fattibile, visto il talento delle cacciatrici titolari di Grifondoro. Nelle ultime due settimane avevo giocato almeno una dozzina di partite di allenamento contro di loro, simulando di essere un cacciatore di Serpeverde (Baston era addirittura arrivato a dipingere magicamente di verde smeraldo i nostri abiti, in modo da abituare Angelina, Katie e Alicia ad affrontare giocatori che indossavano quelle divise), e non le avevo mai viste tanto agguerrite. Era stato molto divertente: più continuavo a giocare, più i movimenti sembravano venirmi naturali. Stavo scoprendo (o ri-scoprendo?) di amare visceralmente il Quidditch, in una maniera che né il calcio né il rugby potevano eguagliare, e non poteva che farmi piacere.

Inevitabilmente, ad avere la maggiore responsabilità ed il compito più improbo sarebbe stato Harry: non doveva soltanto conquistare il boccino, doveva farlo anche al momento giusto, quando la squadra fosse stata in vantaggio di almeno cinquanta punti, e nel frattempo tenere Malfoy lontano dalla piccola sfera dorata. Nonostante la sua nuova Firebolt, non si prospettava una sfida facile per il nostro Cercatore, ed infatti non mi sorpresi nel vedere il pallore della sua faccia quando il capitano ordinò alla squadra di andare a letto.

La sfida del giorno dopo fu qualcosa di semplicemente incredibile: mentre le due Case si lasciavano andare ad un tifo degno di una partita di calcio particolarmente sentita, le squadre si affrontarono senza esclusione di colpi. Io ero in tribuna con il resto della squadra riserve, proprio nel mezzo della bolgia; ero addirittura arrivato a farmi convincere da Mary a dipingermi sulle guance due strisce (una color oro, una rosso vivo). Ricordando le domeniche trascorse sui gradoni dello stadio dall’altra parte, non ci misi molto a provare a guidare i “tifosi”, inventando sul momento alcuni cori contro Serpeverde che solo grazie alla particolare eccitazione del momento mi fecero guadagnare soltanto qualche occhiataccia da parte di una McGrannitt che era coinvolta nel match quasi quanto noi. Erano rime quasi caste rispetto ad alcune che avevo sentito in alcune partite di calcio particolarmente sentite, ma sono certo che se in qualsiasi altra situazione avessi suggerito ai Serpeverde gli stessi consigli su dove potevano infilarsi i serpenti, mi sarebbero certamente costati almeno due settimane di punizione.

Sorprendentemente, tutto andò secondo i piani, come meglio non sarebbe stato possibile: in mezzo ad un mare di bandiere rosse ed oro, vidi i miei compagni riuscire a portarsi in vantaggio, nonostante il gioco pesante e spesso falloso dei Serpeverde, ed Harry riuscì a strappare il boccino sotto il naso di Malfoy. Lo stadio esplose come una bomba: dalle tribune di Grifondoro si alzò un urlo simile al ruggito di un vero leone, che si disintegrò in una cacofonia di grida, pianti, risate. Alcuni facevano tutte e tre le cose insieme. Tra questi c’era Mary, che scavalcò almeno tre persone per saltarmi tra le braccia, la bocca allargata al massimo in una risata, le guance rigate di pianto. Pesava come un fuscello. Io le feci fare due giri completi tenendola sollevata, poi mi abbassai e me la misi a cavalcioni sulle spalle prima di correre verso il campo, seguendo la marea di tifosi di Grifondoro che si rovesciavano a festeggiare i giocatori, che erano scesi in campo stetti in un abbraccio collettivo. L’emozione fece dei brutti scherzi anche a persone insospettabili: il solitamente austero e inibito Percy saltellava come un pazzo, mentre la McGrannitt piangeva senza ritegno, asciugandosi gli occhi con una enorme bandiera di Grifondoro. Io, pur stando attento a non far cadere l’esultante Mary, non resistetti alla tentazione di dissezionare con lo sguardo la tribuna di Serpeverde, dove i tifosi erano rimasti pressoché raggelati, finché i miei occhi non si incatenarono con quelli lampeggianti di collera di Nott. Gli regalai un ghigno degno di uno squalo davanti ad un banco di aringhe particolarmente succulente.

L’intera squadra venne sollevata sulle spalle dalla folla e portata verso le tribune, dove Silente reggeva la gigantesca Coppa del Quidditch. Da ragazzo avevo vissuto la vittoria della nazionale Italiana nei mondiali di calcio, e vedere Fabio Cannavaro alzare la Coppa del Mondo era stata un’emozione incredibile. Quella sensazione, però, scomparve nettamente nel vedere Baston alzare al cielo il trofeo d’oro. In quel momento, con le risate di Mary nelle orecchie e le sue mani a scompigliarmi i capelli, per la prima volta da quando ero arrivato in quel mondo mi sentii veramente felice di essere lì. Per la prima volta da quel giorno di novembre, mi sentii a casa.




L’esaltazione per la vittoria durò per diversi giorni, mentre anche il tempo, con l’avvicinarsi di giugno, diventava più allegro, ed il sole illuminava i prati ed il lago. Faceva piuttosto caldo, per essere in Scozia. Stare fuori era sempre più piacevole, ma non potevamo permettercelo più di tanto: l’arrivo di giugno, infatti, voleva dire che gli esami erano vicini. Per me non era una novità prepararmi ad un test, ma nonostante ciò che diceva la storia scolastica di Joshua Carter, quelli erano i primi, veri esami di magia che mi trovavo ad affrontare. Per una volta nella vita decisi di non affidarmi solo a quella memoria che tanto avevo osannato e sfruttato per tutta la mia carriera scolastica, quella capacità di immagazzinare nozioni rapidamente che mi aveva evitato di passare tante ore sui libri fin dalle elementari. Mi misi anzi a studiare con una serietà che solitamente non mi apparteneva, spulciando per ore i libri di testo e sfruttando le pause per esercitarmi nella pratica.

Cercai di mantenere alta l’attenzione, e di non farmi scuotere neanche dalla notizia che Edvige portò in quei giorni ad Harry: Hagrid ci avvertiva che l’appello di Fierobecco si sarebbe tenuto il sei, ad Hogwarts. Sarebbe venuto un funzionario del ministero…insieme ad un boia. Fu un colpo duro, per me come per Harry, Ron ed Hermione: avevamo contribuito tutti a preparare l’appello in favore dell’Ippogrifo, ma purtroppo avevamo la sensazione che il nostro impegno non sarebbe servito a nulla. A darcene la triste conferma contribuiva non poco la faccia tronfia di Malfoy, tornato di colpo allegro dopo giorni nei quali si era mantenuto insolitamente tranquillo. Era certo che Fierobecco sarebbe stato giustiziato, e purtroppo temevo che avesse ragione.

Era solo uno dei pensieri che mi attraversavano la testa: da un po’ il mio “Senso di ragno” non mi dava tregua, lanciandomi puntate apparentemente casuali diverse volte al giorno, senza che riuscissi a collegarle a qualcosa di preciso. In realtà, forse non c’era una vera ragione, era più che altro un avvertimento generico: il periodo buio che fin dal mio arrivo in quel mondo sentivo prossimo era ormai sempre più vicino. Sapevo che stava per succedere qualcosa, ma non avevo la minima idea di cosa si trattasse, e questa attesa contribuiva certamente a peggiorare il mio umore.

Non era proprio il migliore spirito con il quale affrontare gli esami. Una quiete innaturale scese sul castello quando, la mattina di lunedì 3 giugno, ci avviammo verso la prima prova. L’esame di Trasfigurazione fu complesso, molto complesso: la McGrannitt si confermò un’insegnante estremamente esigente, e tutti ci trovammo in difficoltà con le domande di teoria e con le esercitazioni pratiche. Se la maggior parte della classe ebbe seri problemi con la trasformazione di una teiera in una tartaruga (la mia, a parte la conservazione delle caratteristiche dentellature che decoravano la teiera sul carapace, era venuta abbastanza bene), io quasi mi schiantai nel tentativo di eseguire un Incantesimo di Indurimento su un cuscino. O, per meglio dire, fu il cuscino a schiantarsi a terra, improvvisamente pesante una tonnellata: un istante dopo il mio “ Duro”, infatti, il soffice oggetto sfondò il banco sul quale era posato e incrinò il pavimento. Un esame successivo della McGrannitt rivelò che avevo leggermente esagerato, probabilmente per lo stress di stare affrontando il mio primo esame in quella scuola, ed avevo pompato troppa magia nel mio incantesimo: anziché in pietra, il cuscino si era trasformato in piombo, e pur essendo di solida quercia, il banco non aveva retto il peso eccessivo. Non mancai di udire alcune risate nervose da parte dei presenti, e perfino la professoressa sorrise quando le feci notare che, in effetti, l’oggetto si era indurito, e che quindi il mio non era stato un completo errore. Incantesimi, nel pomeriggio, fu un successo decisamente maggiore: gli Incantesimi Rallegranti non mi avevano mai messo realmente in difficoltà, e per mia buona sorte in quel caso evitai di esagerare, come accadde ad Harry, che ne lanciò uno talmente forte a Ron da metterlo fuori uso per un’ora, scosso da risatine isteriche. Terminato l'esame di Incantesimi, a stento ebbi il tempo di tirare il fiato prima di affrontare il test di Antiche Rune: per mia fortuna, confermando le parole della mia professoressa di latino al Liceo, mi rivelai piuttosto portato per le lingue antiche, e la traduzione scorse senza troppi problemi.

A sera ero già molto stanco, ma passai ugualmente gran parte della notte chino sui libri. Gli esami che mi attendevano il martedì non erano certamente i miei preferiti: se Astronomia mi lasciava qualche speranza, e il depresso Hagrid avrebbe ben difficilmente messo in piedi un esame difficile per Cura delle Creature Magiche, Pozioni sarebbe stato uno scoglio molto difficile da superare. Rimasi per ore a ripassare le varie misture che avevamo sperimentato durante l’anno, ma sapevo fin troppo bene che a mettermi in gravi difficoltà non sarebbe stata la teoria, bensì la pratica.

Non avevo previsto grandi difficoltà per Cura delle Creature Magiche, ma Hagrid esagerò in senso contrario: dovevamo semplicemente prenderci cura per un’ora di un Vermicolo, facendolo rimanere in vita. La prova più semplice che fosse possibile immaginare, considerando che i Vermicoli normalmente sopravvivono bene se lasciati a se stessi. Per lo meno, questo dette a me e agli altri la possibilità di scambiare qualche parola con Hagrid, che appariva però quasi rassegnato. Doveva aver capito anche lui che le possibilità di salvare l’Ippogrifo erano ormai ridotte al lumicino. Cercai di confortarlo per quanto possibile, ma dentro di me ribollivo d’ira: mondo Babbano o mondo magico, sembrava impossibile liberarsi da quel viscido mostro che era la politica corrotta.

Pozioni si rivelò catastrofica come mi ero aspettato. Piton si confermò una vera carogna: aveva predisposto il più difficile test scritto che mente umana avesse mai immaginato, andando a pescare i più piccoli dettagli delle pozioni più complesse affrontate durante l'anno. Se per la teoria ero convinto di aver raggiunto almeno la sufficienza, la pratica fu a dir poco disastrosa: non solo il mio Intruglio Confondente, anziché addensarsi, si trasformò quasi in melassa, ma dimenticai clamorosamente il levistico. Le mie speranze di non essere bocciato in quella materia erano veramente scarse.

Dopo una cena leggera ed un veloce ripasso, io e gli altri ci trascinammo letteralmente nella torre di Astronomia, dove la sinuosa professoressa Sinistra ci attendeva per il suo test. Quando finimmo di disegnare la mappa del settore di cielo che ci aveva assegnato, erano ormai le due, e ci reggevamo in piedi per un miracolo di equilibrio. Nonostante il giorno dopo fossi atteso da altri due esami, non riuscii a fare altro che crollare come un sacco di patate sul mio letto. D'altronde, Storia della Magia non mi preoccupava, mi sentivo prontissimo, mentre in Erbologia ero sostanzialmente rassegnato.

In realtà, le cose andarono meglio delle mie fosche previsioni: Storia della Magia fu come bere un bicchier d'acqua, mentre la sensazione che ebbi quando uscii dalle serre con la testa che mi girava per il gran caldo fu che forse, ma solo forse, avevo una remota speranza di strappare la sufficienza.

Fu dunque con un sorriso che, il giovedì mattina, mi accostai all’ultima giornata di esami. Era quella che aspettavo con la maggiore curiosità: Babbanologia, che mi attendeva nel pomeriggio, sarebbe probabilmente stata una formalità, ma era il test mattutino ad affascinarmi in maniera particolare. Difesa contro le Arti Oscure era una materia intrigante di per se, ed il modo con il quale il professor Lupin la insegnava la rendeva ancor più appassionante. Era stato lui stesso, il giorno prima, a far salire di diversi gradi il mio interesse: lo avevo incontrato dopo l’esame di Storia della Magia, e mi aveva detto con un sorriso complice di prepararmi bene, perché la sua prova non sarebbe stata una passeggiata.

Compresi che aveva detto la verità appena arrivai vicino al margine della Foresta Proibita, dove l’insegnante aveva preparato una specie di percorso di guerra: avremmo dovuto attraversare, per prima cosa, una vasca d’acqua contenente un Avvincino, poi superare una serie di buche piene di Berretti Rossi, quindi farci strada attraverso un sentiero paludoso senza farci tentare dai consigli di un Marciotto, infine arrampicarci dentro un vecchio tronco e affrontare un Molliccio. Un ghigno mi si dipinse sul volto: adoravo quel genere di cose già nel mio mondo, e mi sentivo sinceramente entusiasta all’idea di mettermi alla prova. Per di più, avevo già affrontato quasi tutte quelle creature in classe, e me l’ero cavata piuttosto bene.

‘Quasi, non tutte’. Il pensiero non poté fare a meno di attraversarmi la mente durante la prima parte del percorso, mentre mi liberavo senza eccessivi problemi dell’Avvincino, dei Berretti Rossi e del Marciotto, e si presentò a piena forza non appena giunsi davanti al tronco cavo: era una immensa quercia, una ventina di metri oltre il limite della foresta. Doveva essere morta ormai da anni, e nel suo tronco, dal diametro di cinque o sei metri, si apriva uno squarcio alto quanto un uomo adulto e largo circa cinquanta centimetri. Mi fermai ai piedi di una rudimentale scaletta che conduceva verso l’apertura. Il professore ci aveva detto che dalla parte opposta del tronco ce n’era una gemella dalla quale avremmo potuto uscire, mentre lui ci avrebbe aspettato a una decina di metri di distanza con gli altri che avevano già superato la prova. All’interno del tronco, però, un’oscurità magica regnava sovrana, al punto che l’uscita era appena distinguibile.

Mentre salivo la scala ero molto più curioso che intimorito: delle creature che il professor Lupin aveva scelto di inserire nel percorso, il Molliccio era il solo che non avessi mai affrontato. Lo aveva portato in classe all’inizio dell’anno, prima del mio viaggio. Ero veramente interessato: dai miei ricordi, o meglio, da quelli di Joshua, sapevo che lui, durante la lezione, aveva dovuto sfidare un gigantesco scorpione, grande quanto un rinoceronte, una creatura che sembrava uscita da un vecchio film dell’orrore. Era la sua paura più grande fin da bambino, quando, durante una passeggiata con suo padre, era stato punto da uno di quegli animali, e aveva quasi rischiato la vita prima che una Pozione Anti-Veleno lo salvasse. Quella, però, era la paura di Joshua, non la mia. Difficilmente io avrei visto uno scorpione, non avevo nessun problema con loro.

Quale era, però, la mia più grande paura? Era una domanda che non mi ero mai posto in venticinque anni: cosa temeva veramente Matteo Simoncini? Un pizzico di timore mi colpì la mente nell’attimo nel quale varcai la soglia ed entrai nell’oscurità.

Dopo un solo passo mi bloccai come una statua di sale. Il respiro mi si bloccò in gola, il cuore saltò due battiti, ed ebbi la sensazione che mi fosse stata iniettata acqua ghiacciata nelle vene.

Non era uno scorpione. Non era un serpente o un ragno o un altro animale. Non era neanche un licantropo, un vampiro, un alieno o un qualsiasi altro mostro magico o Babbano.

Davanti a me c’era una tomba. Una lapide rettangolare, di marmo bianco, piantata in un terreno scuro, che si stagliava innaturalmente nel buio. Con orrore crescente, lessi la scritta in lettere dorate realizzata su di essa:

Matteo Simoncini

Nato l’11 settembre 1994

Morto il 20 novembre 2019

Era la data del mio incidente.

Presi a tremare in maniera incontrollata, incapace di muovermi di un solo millimetro. La bacchetta mi tremava nella mano, e non riuscivo a staccare gli occhi dalla lapide.

Un attimo dopo, una figura apparve accanto alla pietra. Ebbi la sensazione che si fosse sollevata dalla terra, ma in realtà si condensò nell’aria, come fumo deciso a prendere una forma solida.

Urlai, o almeno ci provai, perché il suono che uscì dalla mia gola, che sembrava essersi ridotta alle dimensioni di una cannuccia, fu molto più simile ad uno squittio. Temetti veramente di svenire sul posto.

Distinsi una figura umana muoversi con passi strascicati nella mia direzione, fermandosi a circa un metro e mezzo di distanza. Riconobbi il suo viso…riconobbi il MIO viso…solo perché lo conoscevo molto bene. Avevo davanti a me Matteo Simoncini, ritornato ai suoi venticinque anni. O per meglio dire, quello che era stato Matteo Simoncini. La sua pelle era giallastra, ed aveva l’aspetto di cuoio malamente invecchiato. Sotto di essa, la carne sembrava essersi consumata, lasciando poco più che ossa. Il volto era piagato, quasi divorato, ed in diversi punti si intravedeva il teschio. I capelli erano ridotti a vecchia paglia, gli occhi infossati nelle orbite mi fissavano con un lampo inquietante. Gli abiti, che un tempo erano stati un bel completo Babbano da uomo, gli pendevano addosso laceri e sporchi di terra, come quelli, pensai, di un essere appena uscito dalla propria bara. E doveva essere esattamente quello che era accaduto: avevo davanti il mio cadavere.

Non riuscii a muovere un solo muscolo: le braccia mi erano crollate lungo i fianchi, inerti, e solo la paura che mi aveva folgorato mi aveva impedito di aprire le dita e lasciar cadere la bacchetta. Non poteva essere vero…una parte della mia mente sapeva che era solo lo squallido trucco di un imitatore, eppure…

Il cadavere rimase a fissarmi per qualche secondo, poi parlò, con una voce che ricordava lo stridore di vecchie ossa: “Quanto credi di andare avanti con questa pagliacciata? Fino a quando vuoi continuare a fingere? Quanto a lungo racconterai a te stesso e agli altri la stessa bugia? Tu…fingi. Tu…cammini, parli, ridi, combatti, vivi… ma è soltanto una menzogna…perché tu…sei morto! Tu non sei Joshua Carter, lo sai bene…ma non sei più neanche Matteo Simoncini. Non lo sei più da sette mesi, da quando la tua vita è finita! Non c’è un altro mondo per te! Fingi di continuare questa vita con la speranza di tornare dall’altra parte, ma non c’è più un’altra parte! Tu sei morto, e lo sai! Ti hanno seppellito sette mesi fa! I tuoi genitori…tuo fratello…la tua fidanzata…i tuoi amici…hanno pianto sulla tua bara. Qualcuno ti porta ancora dei fiori. Tutti, però, sono andati avanti…hanno continuato con le loro vite…e tu non ne fai più parte!”.

Il morto vivente sembrava diventare sempre più nitido. Il Molliccio si stava nutrendo a volontà della mia paura, pascendosene come di un vino particolarmente gustoso. Sapevo che avrei dovuto reagire, che avrei dovuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non riuscivo neanche a muovermi: la paralisi era stata sostituita da un tremore incontrollabile, un terrore viscido e oscuro, un orrore impossibile anche solo da descrivere. Quello che stava dicendo…era l’incubo che aveva piagato tante delle mie notti in quei mesi.

“Dove sei adesso? – continuò senza pietà l’apparizione, avvicinandosi di un altro passo – Che cos’è questo luogo? Il Paradiso? L’Inferno? Qualcos’altro? Non importa! – scosse la testa ghignando – E’ comunque tutto quello che ti rimane. Non ci sarà un ritorno per te. Tu…sei…morto!”.

“NO!”.

L’urlo mi eruppe improvviso dalla gola, come un’esplosione. Una vampata come di fuoco liquido mi attraversò il corpo, scuotendomi di colpo. Non era coraggio, ma rabbia. Pura e semplice furia bruciante. Sentii di nuovo la bacchetta stretta nella mia mano, e l’alzai gridando: “Io non sono morto, e tu non sei me! Tu sei il solo bugiardo in questo posto, la sola pagliacciata, e sparisci ADESSO! Riddikulus!”.

Non mi resi neanche conto di aver pensato ad una nuova forma per l’essere che avevo davanti. Probabilmente non lo avevo fatto, almeno non in maniera conscia, ma per mia fortuna funzionò lo stesso: spinto dalla rabbia, l’incantesimo uscì dalla mia bacchetta come un’ondata di piena e centrò la cosa.

Crack! Un istante, e al posto del cadavere c’era uno scheletro chiaramente fasullo, come quelli che i bambini utilizzano ad Halloween per decorare le case, che ghignava verso di me con un sorriso più divertente che inquietante.

Avrei dovuto ridere per far scomparire il Molliccio, ma niente al mondo sarebbe riuscito a trarre da me una risata in quel momento. Invece, lo spostai con una spallata (buffo, non mi ero mai chiesto se fossero o no solidi) e quasi rotolai fuori dall’albero.

Percorsi barcollando gli ultimi passi che mi separavano dal professor Lupin e dai miei compagni. L’insegnante impiegò alcuni secondi per rendersi conto del mio stato: “Bravo, Joshua – disse inizialmente con un sorriso – Ci hai messo un po’, ma sei riuscito a completare il percor… - si bloccò quando comprese in quali condizioni versavo – Va tutto bene?” mi chiese, improvvisamente preoccupato.

In effetti, dovevo avere una faccia spaventosa: tremavo ancora come una foglia al vento, sentivo una patina di sudore gelido imperlarmi la fronte, e immaginai di essere pallido come… beh… come un morto.

“N…non è st…stato semplice – balbettai, con una voce che non sembrava neanche la mia – No, non è stato per niente facile”.

“Hai bisogno di sederti per qualche minuto?” mi chiese ancora l’insegnante, mentre gli altri mi fissavano con un misto di stupore e apprensione.

“No!” risposi in fretta. Non potevo restare lì, non vicino a quell’albero. Avevo un bisogno disperato di rimanere da solo. Cercai di darmi un tono, di non apparire completamente in preda al terrore: “Ho solo bisogno di un bicchiere d’acqua…posso andare a prenderlo, Professore?”.

“Certo, Joshua - rispose Lupin sorridendo – Se ne senti la necessità, passa pure in infermeria da Madama Chips a farti dare qualcosa per calmarti, e poi vai a riposare. Hai parecchie ore prima del tuo ultimo esame”.

Non attesi altro tempo: ancora malfermo sulle gambe, mi allontanai dal percorso ed uscii dalla foresta, dirigendomi apparentemente verso il castello.
  
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