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Autore: Adeia Di Elferas    11/07/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“E così – aveva detto con uno strano ghigno Cesare Borja, quando aveva ritrovato per caso il cognato, quella sera, prima di ritirarsi – adesso mia sorella è ufficialmente la signora dei feudi dei Caetani...”

Alfonso si era sorpreso di sentirgli nominare quella brutta faccenda. Lui stesso, che pure era il marito della beneficiaria di tanta fortuna, aveva voluto saperne il meno possibile. I maneggi con cui il papa era riuscito a strappare al legittimo proprietario Sermoneta, Bassiano, Norma, Tavera, Ninfa, San Felice, Cisterna e San Donato, per l'Aragona erano solo un'opera demoniaca e, come tale, andava rifuggita.

Tuttavia, intrappolato dallo sguardo insistente del Valentino, aveva dovuto ammettere: “Sì.” e poi, non riuscendo proprio a frenare la lingua, aveva commentato: “E immagino che, in un modo o nell'altro, da questa torta ne uscirà una fetta anche per voi.”

Il Duca aveva stretto appena le palpebre, perdendo la consueta aria baldanzosa, come se quella frase scontrosa l'avesse di colpo fatto ragionare su molte cose. Alfonso aveva avvertito un brivido freddo lungo la schiena, ma era riuscito a mantenere, almeno di facciata, un atteggiamento imperturbabile. Aveva salutato il cognato e si era rimesso in cammino verso casa propria.

Era arrivato a Santa Maria in Portico da poco, e Lucrecia già gli era accanto, tenendolo per il braccio, gli occhi che lo indagavano preoccupati.

“Com'è andata?” chiese la giovane, che avrebbe voluto, prima di tutto, sapere se tra il marito e il fratello ci fosse stata qualche scintilla.

L'Aragona, però, fece orecchie da mercante e cominciò a raccontare tutto riguardo il corteo entrato in città e la sorte della Tigre, soggiungendo, proprio sul finale: “Tuo padre deve averle detto qualcosa, prima di farla scortare al Belvedere da Joffré... Non so immaginare cosa, ma, dopo, quella donna aveva la faccia di chi ha appena preso un pugno...”

“Mio padre, a volte, sa essere...” cominciò la Borja, ma non trovò un aggettivo abbastanza rappresentativo dell'effetto che a volte il Santo Padre faceva perfino a lei: “Comunque, io volevo sapere se mio fratello ti ha fatto qualche sgarro.”

Alfonso scosse il capo, tralasciando l'ultimo strano scambio di battute che aveva avuto con il Valentino: “Non abbiamo avuto modo di parlare – spiegò – lui era impegnato prima a sfilare e poi a discutere con tuo padre.”

“Meglio così.” sospirò la ragazza e poi, prendendo il marito sottobraccio, si incamminò verso la loro stanza: “In questi giorni voglio che tu stia sempre con me.”

“Non preoccuparti.” la rassicurò lui: “Non ti lascerò sola con tuo fratello, se non vuoi.”

La figlia del papa avrebbe desiderato tanto fargli capire che era lui che lei non voleva restasse solo con Cesare, ma si rese conto che, facendo finta di nulla, avrebbe ottenuto lo stesso effetto senza rischio di incappare nell'amor proprio dell'Aragona, che l'avrebbe forse portato a rifiutare quell'eccesso di prudenza.

“Facciamoci portare la cena in camera...” propose lei, cercando di sorridere nel modo più disteso possibile: “Sarai stanco... E voglio stare un po' sola con te.”

Alfonso sollevò l'angolo delle labbra e, ben felice di portare a termine in quel modo una giornata che per lui era stata solo fonte di tensione, accettò: “Precedimi... Intanto vado a dare disposizioni ai nostri servi.”

 

Salire fino in cima a quella che veniva chiamata la Torre dei Borja era stato per Caterina come scendere in un inferno. Anche se, arrivata all'ultimo gradino, aveva poi trovato un alloggio di tutto rispetto, con tanto di un letto comodo e di una finestra abbastanza luminosa, e lei sembrava di essere finita in un avello infuocato.

Sapeva che c'erano ben venti soldati scelti a farle da guardia, e anche se quella premura del pontefice in una certa misura quasi la lusingava, d'altro canto le toglieva ogni possibile speranza di fuggire. Non che intendesse provarci davvero, ma avere la certezza quasi assoluta di non poter nemmeno tentare l'abbatteva più di quanto avrebbe pensato.

Era ormai chiusa lì dentro da qualche giorno, faticava a dire quanti di preciso, forse due o tre. Le venivano portati i pasti, ma ogni volta era un tormento dare il primo morso, perché fin da subito si era fatto largo in lei il timore che potessero avvelenarla con il cibo e poi dire al mondo che fosse morta per il dispiacere e la vergogna di aver perso la guerra.

Per il momento solo un paio di donne del suo seguito erano potute entrare in quella cella di lusso, ma non Argentina. Non avevano notizie degli altri prigionieri, anche se sostenevano che forse molti erano stati liberati, tra cui, sembrava, anche Michele Marulli che, fino all'ultimo, aveva continuato a ribadire che avrebbe cercato un esercito per andare a riprendere Forlì e restituirla alla Tigre.

La Sforza non sapeva a cosa credere. Avrebbe solo voluto sapere cosa ne era stato degli uomini che tanto l'avevano appoggiata, e come stessero i suoi figli, di cui non aveva notizie ormai da troppo tempo.

Le sue ore passavano pigre e tutte uguali. A scandirle c'erano solo il rumore distante, ma presentissimo, delle tante fontane che gorgogliavano sotto la torre in cui era rinchiusa, e il fischio ramingo di qualche uccello che voleva sopra le vigne del papa, perdendosi nei giardini vaticani e poi tornando nei boschi. Il cielo di Roma, ben visibile dalla sua finestra, le sembrava sempre terso e splendido, in aperto contrasto con il nero della sua anima. Dormiva in modo disordinato, più facilmente di giorno che di notte, perché sembrava che i suoi incubi facessero più fatica a raggiungerla, con la luce del sole.

Si era appena assopita, e stava vagando nelle nebbie di ricordi lontani, quando le celle di Ravaldino erano ancora colme di uomini e donne messi in prigione in attesa di morire per placare la sua sete di vendetta dopo la morte di Giacomo, quando un colpo sordo la risvegliò.

La donna, un po' intontita, si guardò attorno e capì solo in un secondo momento che la porta si stava aprendo. La luce del sole era obliqua, a indicare che l'ora cominciava a farsi tarda.

“Non preoccupatevi, posso restare anche da solo...” disse un frate, molto anziano, tenendole le spalle, rivolgendosi a una delle guardie: “Non temo nulla, alla mia età...”

La Leonessa, che stava ancora combattendo con la disperazione di essersi risvegliata a Roma e non nella sua rocca, riconobbe quella voce un po' roca e che trovava istintivamente antipatica. Non riusciva a ricordare dove e quando l'avesse sentita l'ultima volta, ma quando l'uomo, finalmente convinto il soldato a lasciarlo entrare da solo, si voltò, finalmente a Caterina tornò in mente ogni cosa.

“Cosa ci fate, qui?” gli chiese, lasciando il letto e stringendosi nelle spalle: “Da molto tempo non ho a che fare con voi...”

“E già allora mi trovavate un povero vecchio decrepito...” ridacchiò frate Lauro, osservandola con due occhietti un po' umidi, ma ancora molto svegli.

La Tigre ricordò di colpo una vecchia lettera, di molti anni prima, in cui l'aveva definito esattamente così. Se fosse un caso che Lauro Bossi le avesse detto proprio le medesime parole o meno, non poteva saperlo.

“Non mi avete risposto: che ci fate qui?” chiese di nuovo la Sforza, guardinga.

“Non mi sembrate nella posizione di mordere una mano che vi viene tesa...” ribatté gioviale il frate, le folte sopracciglia bianche che si sollevavano sul finire della frase: “Saputo che eravate qui, e sapendo che stavano facendo pressioni per farvi trattare bene, dandovi anche un confessore, mi sono offerto.”

Alla milanese parve strano che il papa avesse accettato che proprio frate Lauro Bossi potesse entrare in contatto con lei, ma, di fatto, lei conosceva tanto poco, ormai, quel religioso, da non poter sapere in che tipo di rapporti fosse con il Santo Padre. Aveva avuto, in realtà, sempre pochissimi contatti con quel frate, che portava tanto tronfiamente l'abito dell'Ordine dei Servi, e ogni volta, pur dovendo riconoscere un'innegabile buona disposizione di lui nei suoi confronti, l'aveva trovato antipatico ai limiti dell'insopportabile.

“Ricordo il vostro terzo marito – disse piano il frate, forse nell'intento di farle capire che, anche quella volta, che le piacesse o meno l'idea, lui stava dalla sua parte – e non ho mai avuto modo di dirvi quanto mi fosse spiaciuto, di saperlo morto.”

Caterina non disse nulla. Sentire rievocare il fantasma di Giovanni Medici era proprio l'ultima cosa che avrebbe voluto, in quel momento.

“All'epoca mi ero illuso di conoscervi bene – proseguì Lauro, con un breve sorriso – tanto che aveva scritto a vostro zio Ludovico, pregandolo di guidarvi e aiutarvi, in un momento del genere...”

Ancora una volta, la Tigre tacque, in attesa di vedere dove il frate sarebbe andato a parare e, soprattutto, nella speranza che la smettesse di riportarle alla mente i terribili giorni che erano seguiti alla morte di Giovanni.

“Senza un uomo al vostro fianco a farvi da sostegno e da signore, mi ero convinto che avreste ceduto alle lusinghe di chiunque, Napoli o Francia che fosse...” sospirò Bossi: “E invece vi siete dimostrata la Leonessa di cui tutti parlavano.”

“Siete qui solo per farmi sapere quanto le vostre aspettative erano sbagliate, o c'è un motivo più serio?” lo incalzò a quel punto lei, dato che il frate sembrava deciso a non dire più nulla.

“Sono qui per darvi il mio aiuto, per quanto potrò.” precisò l'uomo, scuotendo piano il capo: “Così come fece il mio parente, Luigi, quando eravate appena una ragazza. Ve lo ricordate?”

Catapultata all'improvviso nel 1477, quando per la prima volta aveva raggiunto Roma, per congiungersi in modo definitivo con il suo primo marito, Caterina ricordò perfettamente il volto di Luigi Bossi. Bona di Savoia l'aveva fatto partire con lei affinché la vegliasse lungo il tragitto e poi nel suo soggiorno alla corte papale. Probabilmente quell'uomo era mosso dalle migliori intenzioni, ma la Sforza, in quei mesi, era così corrosa dalla rabbia, dal rancore e dalla disperazione che aveva finito per fare di tutti i ricordi di quel periodo un unico blocco, odiando ogni cosa lo riguardasse, indiscriminatamente.

“Ricordo il vostro parente.” confermò la Leonessa, restando scura in volto: “Ma ancora non capisco perché siete qui.”

Frate Lauro si morse il labbro, indeciso. Se si era precipitato dalla Sforza appena ne aveva avuto l'occasione, era per offrirle un modo per scappare. Non aveva ancora un progetto nitido in mente, ma, con un po' di soldi a disposizione, qualche giorno di tempo per organizzarsi e la collaborazione della Tigre di Forlì, sapeva che sarebbe riuscito a organizzare una fuga.

Tuttavia, osservando gli occhi accesi di sospetto della sua interlocutrice, Bossi comprese come fosse troppo presto, per cercare di convincerla in tal senso. Ci sarebbe voluto ancora un po', prima che quella donna, tanto orgogliosa e abituata a pensare per se stessa, riuscisse a fidarsi di lui abbastanza dal credergli, quando le avesse detto che non c'era inganno, nella sua proposta, ma solo un sincero desiderio di aiutarla.

“Per il momento – disse piano il frate, schiarendosi la voce – mi basta avere il vostro permesso per tornare qui di quando in quando.”

“Con la scusa di confessarmi?” chiese lei, di rimando.

“Esattamente.” annuì l'uomo.

“Non so dire quanto sia credibile, questa scusa...” borbottò Caterina, cominciando, però, ad avvertire qualcosa di diverso, nei confronti del religioso, come se, malgrado l'istintiva antipatia, scorgesse in lui un volto amico: “Il papa potrebbe insospettirsi.”

“Allora diremo che più che confessarvi... Io sono qui per cercare di riportarvi all'ovile, di farvi pentire dei vostri innumerevoli peccati e di riavvicinarvi alla fede in Cristo.” propose il frate, ritrovando il suo sorriso gioviale.

“Provateci...” accettò la Leonessa: “Spero che il papa vi creda.”

Bossi fece un cenno con il capo e poi, appena prima di lasciare la stanza che fungeva da cella per la Sforza, soggiunse: “Ho sentito parlare, a corte. Alcuni francesi non apprezzano l'isolamento che vi è stato imposto. Dicono che presto avrete con voi la vostra compagnia...”

Caterina accolse quelle parole con apatia, credendo solo fino a un certo punto a quello che l'uomo le stava dicendo. Fu proprio l'ultima aggiunta a farle venire un tuffo al cuore tanto improvviso da farle mancare il fiato.

“Dicono anche che il piovano di Cascina abbia chiesto di essere imprigionato con voi, e stia venendo qui a Roma, per farvi da confessore...” rivelò il frate: “Se io ho potuto entrare nei vostri alloggi oggi è solo perché il piovano non è ancora arrivato...”

La Tigre avrebbe voluto fare più domande, capire se davvero Fortunati aveva deciso per chissà quale motivo di lasciare Firenze e raggiungerla lì a Roma, ma ormai Bossi si era fatto aprire la porta e se ne stava andando, le mani giunte sul petto come l'uomo più pio del mondo.

 

Quel giorno Firenze era preda della frenesia: gli assassini di Carlo Canigiani, ovvero Ludovico di Santi di Vico e Michele Antonio del Chierico, catturati lungo la via per Roma, mentre erano intenti ad andare nell'Urbe per il Giubileo, erano prossimi a essere impiccati.

A casa di Alessandra Scali, però, quella notizia era poco più che una chiacchiera priva di interesse, perché le novità veramente interessanti per gli abitanti del palazzo, erano altre.

Innanzitutto, si aveva la certezza che Caterina Sforza era arrivata a Roma, ed era tenuta prigioniera dai Borja, anche se pareva che l'influenza dei francesi fosse ancora abbastanza forte da imporre per lei una detenzione morbida. Lo sapevano da qualche giorno, ma la certezza era arrivata solo di recente.

In secondo luogo – e nel sentire ciò la padrona di casa non aveva saputo trattenere lacrime di sollievo – tra i prigionieri che erano riusciti a farsi liberare sembrava ci fosse anche Michele Marulli, e che stesse cercando di tornare in fratta in Toscana.

Infine, non meno importante, Francesco Fortunati aveva fatto sapere di essersi messo in cammino per Roma.

“Dobbiamo fare qualcosa anche noi.” disse Ottaviano, quando rimase solo con i fratelli, mentre Alessandra Scali accompagnava fuori il messo che aveva portato il messaggio del piovano: “Lui è corso a Roma per aiutare nostra madre. Dobbiamo fare la nostra parte.”

“E come?” chiese Galeazzo, cominciando a temere il tono bellicoso del fratello.

“Nostra madre a Roma conosce ancora molta gente, gente importante...” soppesò il Riario più grande, incrociando le braccia sul petto e inclinando la testa di lato: “Dicono che non sia una vera prigioniera, ma una sorvegliata e basta. Dobbiamo fare in modo che mi procuri una carica in Vaticano, che sfrutti l'occasione. E poi...”

“Tu stai vaneggiando.” lo interruppe Galeazzo, che non riusciva a sopportarlo, quando anteponeva i propri interessi a quelli di tutti gli altri.

“Nostro fratello Cesare è d'accordo con me.” rivelò Ottaviano, guardando gli altri di sottinsu: “E stiamo organizzando qualcosa con gli agganci che nostro cugino Raffaele ha in Vaticano.”

Sforzino stava zitto, guardando i fratelli con un'espressione a cavallo tra lo spaventato e lo speranzoso. Bernardino, invece, stava già schiumando di rabbia. Forse erano i suoi nove anni a farlo ragionare a quel modo, o forse semplicemente era incapace di condividere serenamente una decisione presa dai suoi due fratelli più grandi, Ottaviano e Cesare, fatto restava che per lui l'unica strada percorribile sarebbe stata quella di chiedere aiuto armato a tutti i parenti che ancora avevano in Italia e marciare su Roma.

Galeazzo, invece, molto più pragmatico, sapeva che sia la strada militare, sia quella proposta da Ottaviano non erano percorribili. Confidava in Fortunati, e nella sua astuzia, e sapeva che la diplomazia era l'unica arma ancora in loro possesso.

Perciò riteneva cruciale che i suoi fratelli non si impicciassero, prima di stritolare la madre in un ingranaggio perverso fatto di incomprensioni e incidenti diplomatici.

“Aspetta a fare qualsiasi cosa.” propose, allungando una mano verso il maggiore, come a volerlo calmare anche con quel gesto, oltre che con il tono conciliante che aveva assunto: “Lascia passare ancora qualche tempo... Aspettiamo di vedere cosa dirà messer Fortunati...”

Il Riario più grande guardò con sprezzo Galeazzo, chiedendosi come facesse la loro madre a non odiare anche lui. Se era vero che la Tigre aveva sempre detestato il suo primogenito per la somiglianza spiccatissima che aveva con il padre, come poteva non vedere anche nel quintogenito lo stesso viso allungato, le stesse labbra rosse e lo stesso fisico asciutto e slanciato che avevano caratterizzato anche Girolamo Riario?

Tentando di frenare un moto di risentimento, di cui, lo sapeva, Galeazzo non aveva colpa, Ottaviano sbottò: “L'unica attesa che mi imporrò sarà quella dovuta a Cesare. Aspetterò che risponda alla mia ultima lettera. In base a quello che dirà lui, agirò.”

A quel punto, nessuno dei tre fratelli presentì riuscì più a dire nulla e, quando Alessandra Scali tornò, li trovò tutti silenziosi, immersi nei propri pensieri, tormentati, come lei, dall'incognita del futuro. Dopo averli squadrati uno per uno, provò per loro un attaccamento che non aveva provato ancora nemmeno una volta, da che li aveva sotto il proprio tetto.

Accostandosi a ciascuno di loro, con lentezza, come avesse paura di spaventarli, li abbracciò tutti, e perfino il ventenne sformato e scontroso che era Ottaviano reagì a quella stretta con un pianto sommesso, di paura, confusione e stanchezza.

 

Dopo il saccheggio di Lonate, si diceva che Gian Giacomo da Trivulzio avesse lasciato definitivamente la città di Mortara. Ludovico Sforza aveva creduto ciecamente a ciò che una spia del milanese rinnegato aveva riferito sotto minaccia di tortura, e così si era mosso immediatamente per cercare di recuperare quel baluardo della Lomellina che sarebbe stato, secondo molti suoi uomini, fondamentale per stabilizzare la riconquista del Ducato.

Giovanni da Casale aveva accettato di buon grado il compito di raggiungere Mortara ed entrarvi, prendendone possesso. Anche se non si trattava, sulla carta, di un compito complesso, era felice di lasciare Vigevano, dove, pur non avendo di fatto un granché da fare, gli erano stati affidati ottocento fanti tedeschi e quattrocento cavalleggeri.

Con lui erano partiti per Mortara Ottaviano Bonsignori e Lorenzo d'Innsbruck con seicento fanti tedeschi e duecento cavalleggeri. Si erano mossi rapidi, raggiungendo la destinazione in anticipo sui calcoli, ma, quando tutto sembrava essere filato anche troppo liscio, si erano scontrati con una resistenza inattesa, e non erano riusciti a entrare in città.

Così avevano deciso di mettersi in agguato nei pressi della città, cercando di cogliere di sorpresa qualche colonna nemica che, prima o poi, sarebbe uscita da Mortara. L'occasione per mettere in pratica il piano, arrivò prima di quanto credessero.

“Sono almeno cento armigeri...” disse piano Pirovano, vedendo la polvere sollevarsi da terra, mentre un piccolo corteo di soldati, si dirigeva verso le porte cittadine, arrivando dalla direzione di Vespolate, a un passo dal passare proprio davanti il loro punto di avvistamento: “Dovremmo riuscire ad annientarli facilmente.”

La valutazione gli era parsa facile da fare e a loro molto favorevole, perciò, di concerto con il Bonsignori e Lorenzo d'Innsbruck, diede ordine e Ippolito Tagliaferri, Galeazzo Colli e Spinoglio da Cremona di piazzare gli uomini e poi diede disposizioni a Giovanni Stefano Grumello di controllare le retrovie.

Aspettarono proprio fino all'ultimo istante, quando, finalmente, poterono uscire dalla fitta vegetazione che costeggiava la strada, mostrandosi al nemico con le armi in pugno e un grido di battaglia inconfondibile nella gola: “Duca! Duca! Duca!”

I cento armigeri francesi, però, reagirono in un modo strano, che spiazzò subito Giovanni da Casale e i suoi uomini. Aprendosi di scatto, la formazione li circondò, come se si trattasse di uno schema prefissato.

Perrot di Payennes, alla guida dei francesi, che era alla guida della colonna, gridò con tutto il suo fiato un ordine e nel giro di pochi secondi ottocento fanti svizzeri, guidati da Don Giuliano di Ligny, Gian Giacomo da Trivulzio, Saint-Prest, Luigi de la Trémouille e Giorgio Rudich comparirono apparentemente dal nulla.

Pirovano sentì il sangue gelarsi nelle vene. Aveva ancora la spada sollevata in aria, pronto a lanciarsi alla carica, quando capì che un impatto frontale avrebbe distrutto i sui seicento fanti tedeschi e fortemente provato i duecento cavalleggeri.

“Nel bosco!” cominciò a urlare: “Nel bosco!”

Ripiegando in modo confuso, quasi dilettantesco, la truppa seguì il milanese nel fitto della vegetazione, ma i nemici li inseguivano senza problemi. Giovanni si rese conto di aver fatto un errore grossolano, quasi imperdonabile, quando si accorse che i suoi fanti tedeschi non erano armati in modo adatto, per un terreno del genere. Le lunghe lance e, ancor più, le picche e le alabarde si impigliavano tra i rami, nei cespugli, rendendo sia la corsa che il combattimento quasi impossibili.

Rinunciando a dare ordini, dato che ormai ognuno poteva solo pensare a se stesso, Pirovano spense la coscienza e cominciò a difendersi dai francesi e dagli svizzeri che ormai l'avevano raggiunto.

Vide morire, a pochi passi da sé, Spinoglio da Cremona, trafitto in pieno collo da una spada corta.

Anche dall'altra parte ci fu una morte pesante: Giorgio Rudich venne quasi del tutto decapitato mentre lottava con un paio di uomini guidati personalmente da Ottaviano Bonsignori. Di fatto, però, dopo poco la battaglia era indirizzata e in terra andavano accatastandosi quasi solo i cadaveri degli sforzeschi.

Erano già morti quasi cinquecento dei seicento fanti comandati da Pirovano, e anche se i cavalleggeri insistevano nel difendersi, era palese chi stesse vincendo.

Giovanni non voleva dichiarare la resa. Aveva giurato il giorno a se stesso che la volta in cui l'aveva fatto a Forlì sarebbe stata l'ultima.

Era però ormai senza forze. Aveva perso lo scudo, l'elmo e il cavallo. Aveva il labbro gonfio, per colpa di un pugno ferrato preso in pieno volto. Aveva il fiato corto, faticava a vedere per via degli occhi appannati dalla polvere e dal dolore che provava ancora al viso.

Si trovò circondato da cinque uomini. Sembrava si stessero prendendo gioco di lui. Se lo passavano come se volessero divertirsi, prima di ucciderlo. Il milanese tentò un affondo, e subito la lama nemica trovò il suo braccio, strappandogli il bracciale già malfermo, e ferendolo di striscio. Perse la presa sulla spada, e mentre si chinava per recuperarla, un altro colpo lo ferì di nuovo, appena più in alto, giusto sotto il gomito.

Terrorizzato, pensando che sarebbe morto in quel momento, schivò a stento un altro colpo, finendo poi per essere trafitto dalla punta di una lancia in piena coscia.

Accasciandosi a terra, sanguinante e preda del dolore, ripensò a Caterina, a quando l'aveva vista circondata dai francesi, a quando, scorgendone il sangue uscire copioso dalla gamba, aveva deciso di dichiarare la resa per salvarle la vita.

Vergognandosi di se stesso, dicendosi che morire quel giorno, in battaglia, in mezzo al bosco, sarebbe stato l'unico modo per ristabilire il proprio onore e lavare almeno in parte l'onta di aver tradito la donna che amava, consegnandola al Valentino, Pirovano gridò: “Ci arrendiamo! Ci arrendiamo!”

Sbigottiti, i pochi sforzeschi che ancora combattevano, smisero di menar le spade, e gli uomini del Trivulzio li immobilizzarono.

Galeazzo Colli e Lorenzo d'Innsbruck non cedettero. Recuperarono quei pochi cavalleggeri ancora in sella – venticinque appena – e si diedero alla fuga.

Di circa ottocento uomini, esclusi i pochi che erano riusciti a scappare, ne erano rimasti in vita nemmeno cinquanta.

Giovanni da Casale si lasciò sollevare da terra e legare le mani. Non si ribellò, quando lo caricarono su un carretto assieme a Ippolito Tagliaferri, Grumello e Ottaviano Bonsignori.

Non ebbe nemmeno lo spirito di ribattere, quando quest'ultimo, con sprezzo, sputando un grumo di sangue e pezzi di denti, gli disse: “E tu saresti la perla rara per cui il Moro e la Tigre hanno tanto litigato...”

Sentendosi inutile e stremato, Pirovano deglutì e, guardando con occhi vacui il compagno di disavventure, si limitò a sospirare.

 

 
   
 
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