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Autore: Enchalott    13/07/2020    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il filo della spada
 
La pioggia scrosciava impietosa sulla fortezza di Jarlath, che appariva indifferente e lontana nella bruma umida e caliginosa di quella mattina.
La coltre bianca e gelida, che era stata il perenne contrassegno di Iomhar, era scomparsa definitivamente: nessuno degli abitanti del Nord avrebbe mai immaginato di avvertirne così tanto la nostalgia. La neve era solida e, per quanto ardua e ostile, era stranamente protettiva; la melma che inghiottiva ormai le caviglie dei cittadini in fuga invece non garantiva loro la stessa severa tutela.
Le strade, i quartieri, le abitazioni stavano annegando nel fango e le persone, ormai allo stremo, fuggivano verso le montagne, dove speravano che i torrenti di acqua sporca che avevano invaso la loro terra travagliata non li incalzassero.
Alcuni osservavano la lenta processione dei compagni di sventura perdersi nella nebbia di quel giorno, ma non osavano abbandonare le loro case: troppa era la paura dell’ignoto, infinita la stanchezza, invincibile ormai la rassegnazione.
La capitale era rimasta pressoché deserta dopo quell’ultimo, disperato esodo: chi si era trattenuto aveva semplicemente pensato che sarebbe stato meno doloroso morire nel luogo natio.
Qualcuno ancora osava sollevare con terrore il viso verso il palazzo reale, dal quale Leu-Mòr si ergeva stranamente priva della sua fosforescenza verdognola.
Forse, neppure il potente sovrano che li governava era riuscito a opporsi alla fine imminente e aveva rinunciato a manifestare la sua terribile presenza.
 
Anthos teneva tra le dita un calice di vino speziato e le lievi volute di vapore caldo salivano a sfiorargli il viso. Nulla era distinguibile dalla finestra della sala del trono cui era affacciato, ma sapeva esattamente quanto stava accadendo nella città bassa e nel suo Regno. Vedeva scorrere con gli occhi della mente le immagini crude e deprimenti dell’inarrestabile perire di Iomhar e di tutto ciò che ne faceva parte. Solo non riusciva a stabilire se sarebbe stata la devastazione dovuta all’acqua o il Traditore degli dei ad assestarle il fatale colpo di grazia.
Avrebbe dovuto stanare Ishkur immediatamente o nulla avrebbe avuto effetto su ciò che scorgeva. Il male si era nutrito del male stesso e, a quel punto, era impossibile percorrere un altro sentiero. La Profezia taceva per sempre, come nei suoi più reconditi desideri, ma non era stato lui a toglierle la favella e ancora stentava a credervi. Sapeva però che la responsabilità principale per il buio che stava inghiottendo il creato gravava sulle sue spalle e che, per quello che intendeva realizzare, il Nemico andava eliminato definitivamente: ma il luogo in cui questi si rifugiava come un codardo non era di facile accesso.
Yfrenn-ammri.
Il pozzo delle ombre aveva un sistema proprio per far parte del cosmo: per entrarvi e, soprattutto, per uscirne era necessario pagare un prezzo. Il sedicente dio del Nulla aveva sacrificato ad esso la propria essenza per divenirne il sovrano assoluto, ma si trattava di una creatura immortale, sebbene il corpo che gli garantiva la permanenza in quel mondo fosse quello di un comune essere umano. Il Diadema lo aveva preservato, certo, ma l’anima debole di Shion era perduta per sempre.
Strinse il Medaglione nel palmo della mano: esso funzionava alla maniera opposta rispetto al gioiello del Sud, cosicché non gli sarebbe servito né per spalancare l’entrata di quel luogo nefasto né per difendersi da chi lo avrebbe atteso in netto vantaggio. Il suo amuleto era utile a un altro scopo, che gli era ormai palese.
Avrebbe dovuto scendere nel buio ancestrale di quell’inferno senza contare su altri che su se stesso, con il suo corpo mortale, che avrebbe ostacolato la pienezza delle sue doti personali come già era accaduto negli scontri precedenti.
Sapeva come uccidere la forma primigenia di Ishkur, ma non era certo che i deamhan che lo componevano e che con lui avevano stretto un infame sodalizio si sarebbero dissolti con la sua scomparsa definitiva. Essi esistevano da sempre, esattamente come la luce che a loro si contrapponeva dall’alba del cosmo. Avrebbe dovuto giocare d’azzardo, improvvisare, quando invece era per indole abituato a pianificare, a ragionare, a prevedere.
Sempre lo stesso errore, si rimproverò con severità.
Adara gli aveva dimostrato che non sempre programmare e presumere era la tattica corretta. Rifletté, dolce e amaro.
Voltò le spalle alla vetrata sferzata dalla pioggia e osservò la moglie, che continuava ostinatamente a ripulire l’affresco dirimpetto. Il lavoro era praticamente ultimato. La ragazza si stava occupando della figura inginocchiata, quella che più di tutte fagocitava la sua attenzione. Anthos ne conosceva il motivo: lei detestava che qualcuno, fosse anche la più infima delle creature, fosse destinato a soffrire.  Detestava che non venisse concessa un’altra chance, chiunque fosse l’essere maledetto rappresentato in quel dipinto consumato dai secoli.
Sogghignò, pensando a se stesso, considerando che a lui era stato donato molto di più. Un regalo talmente immenso e inaspettato, che…
Adara si girò nella sua direzione e gli sorrise.
L’amore sconfinato che lesse nei suoi occhi bruni gli scaldò l’anima e, parimenti, gli inflisse uno spasmo di una tristezza devastante. Non avrebbe mai immaginato che la consapevolezza gli sarebbe risultata tanto crudele. Aveva allentato l’innata abilità di sopprimere i propri sentimenti, anche se con lei non era mai stato capace di ignorarli del tutto. Avrebbe desiderato filtrarli, ma gli era impossibile giacché da ciò che sentiva per lei scaturiva tutto il resto. Ciò che sarebbe stato. Il futuro in potenza che lei gli aveva attribuito un giorno lontano.
Adara non avrebbe dovuto seguirlo. Lo avrebbe impedito.
Per varcare il confine di Yfrenn-ammri senza il consenso della sostanza di puro deamhan che vi dimorava, era necessario desiderarlo intensamente. Si trattava di provocare il Nemico tanto da convincerlo a uscire fuori o, al contrario, di confondersi con l’ombra stessa per ingannarne le difese, cosa che lui era sempre stato in grado di realizzare. Si trattava parimenti di impedire a Adara di essere sfiorata dalla corruzione del pozzo. Lei non sarebbe sopravvissuta neppure un istante in quel luogo d’oscurità. Sapeva che avrebbe preteso di accompagnarlo: se le avesse proibito di affiancarlo, quella donna caparbia gli avrebbe disobbedito come al solito. Se le avesse mentito per lasciarla al sicuro, le avrebbe causato un dolore immeritato. Un’impasse di ardua risoluzione. Strano che gli importasse ardentemente risolverlo.
Nell’angolo più lontano dell’ambiente, appoggiato alla parete, Narsas seguiva in silenzio i movimenti della sua principessa, come un instancabile spirito guardiano. Se fosse stato lui a occuparsi di Adara in sua assenza, forse lei non si sarebbe messa in pericolo. Non esisteva nessuno di più affidabile, ammise suo malgrado: inoltre, la ragazza lo avrebbe ascoltato. Il giovane Aethalas era l’unico capace di convincerla a fermarsi per riflettere oppure ad agire nel modo più consono. Anthos non riusciva a comprendere come ci riuscisse. Di fatto era stato l’arciere, con la sua ardua rinuncia, a fare in modo che tra lui e la sua sposa non ci fossero più ostacoli. Se il guerriero del deserto si fosse deciso a rivelarle il proprio amore, invece… quel dubbio aleggiante nella sua mente, sapeva, non si sarebbe mai risolto. Avere un debito sottinteso con Narsas lo mandava su tutte le furie.
Quella notte, il principe aveva davvero creduto di aver perso tutto. Di avere perso e basta. Per la prima volta nella sua vita aveva abdicato ai propri desideri: aveva lasciato Adara tra le braccia dell’Aethalas affinché lui la proteggesse, la portasse via da Iomhar, lontana da lui e da ciò che avrebbe compiuto con la spada sguainata nel buio della Torre. Dal sangue che avrebbe versato invano. Senza capire che quella sarebbe stata la vera rovina. Sua moglie era giunta in extremis, sebbene inconsapevole. Era stato abile a cambiare argomento in proposito, quando lei gli aveva domandato di quella lama snudata nella tetra solitudine di Leu-Mòr.
Era Narsas a essere intervenuto appena in tempo, a ben vedere. Si chiese quanto l’arciere sapesse: probabilmente più di ciò che dava a intendere. Strinse i pugni, irato.
La sciarada che circondava il Tredicesimo uomo era talmente semplice che persino per lui era stato complesso interpretarla.
Anthos sentì che l’avversione nei suoi riguardi era scemata radicalmente. Ostilità era il termine confacente per ciò che aveva provato… non l’avrebbe mai chiamata gelosia. Sarebbe stato umiliante. Umano.
Domandargli di salvaguardare sua moglie si presentava come l’unica soluzione effettuabile, sebbene la sua vita fosse appesa a un filo.
Un filo. Interessante. Camminavano entrambi sul taglio di una spada.
Spostò lo sguardo nella sua direzione e il ragazzo sollevò il suo verso di lui, come se avesse percepito di essere oggetto di quella riflessione.
Si fissarono senza parlare, le iridi d’ambra bruciante del principe in quelle brune e malinconiche del guerriero. Un dialogo silenzioso che non necessitava di alcun idioma, nel quale si scontravano e s’incontravano due esistenze segnate dal dolore, dalla privazione, ristorate dall’amore per la stessa donna e destinate fino all’ultimo respiro al tormento interiore.
Anthos si avvicinò al tavolo appoggiando il calice d’argento e riempì due coppe di chae scuro, sollevandone una in direzione dell’arciere.
Narsas aggrottò la fronte, sorpreso da quel gesto formalmente cortese: non si lasciò fuorviare, poiché sapeva bene che il reggente non abbandonava mai nulla al caso, ma si avvicinò senza timore, accettando altrettanto educatamente l’offerta.
“Di che colore appare il tuo marchio, Aethalas?” domandò il signore del Nord, andando dritto al punto e rivolgendoglisi nel dialetto che sapeva a lui noto.
I suoi occhi dorati continuarono a seguire tuttavia il meticoloso lavoro della moglie, senza posarsi sull’interlocutore.
“Trovo difficile individuarne la tonalità esatta” replicò questi, caustico “Non morirò finché non sarò certo che il Nemico è sconfitto e che Adara è al sicuro, se è quanto vi preme sapere con tale urgenza”.
“Non quando restituirai l’anima a Reshkigal” sogghignò Anthos con pari ironia “Ma per quanto ancora riuscirai a tenertela stretta è ciò che pretendo di verificare”.
Narsas trasalì nel collegare le parole che aveva appena udito all’osservare l’espressione fiera e triste dell’uomo, la contrazione impercettibile delle sue sopracciglia e delle dita affusolate intorno alla tazza preziosa. Anthos era in tensione, sebbene non desiderasse darlo a vedere, meno che mai a lui. E, a giudicare dall’oggetto che la provocava, non era complicato immaginare il motivo della sua oltraggiosa richiesta.
“Spiegatevi” ribatté, duro.
L’espressione beffarda sparì dal volto del reggente, che si decise finalmente a considerarlo. Una sfumatura furiosa gli transitò nelle iridi d’ambra.
“Non sbaglio a pensare che tu sia a conoscenza di quanto non dovresti, vero?” domandò, feroce e intimidatorio.
“Con questa istanza fugate i miei dubbi” rispose il ragazzo, privo di ombre.
Anthos lo fissò in silenzio, come una belva in agguato. Poi annuì impercettibilmente.
“Lei…?” domandò tra i denti, stringendo le palpebre.
“No”.
Per un istante, la malinconia prevalse nello sguardo del principe. Poi, il suo volto tornò a essere una maschera di compostezza e severità.
Riprese a parlare con estrema freddezza.
 
Adara osservò attentamente i tratti dipinti del giovane prostrato a terra. I suoi capelli avevano perso la gradazione castana e, dopo il restauro, apparivano chiari, di una tinta quasi lunare e impalpabile. Il suo viso, invece, era rimasto impenetrabile: quelle che sembravano lacrime di sangue si erano rifiutate di andare via e ne nascondevano ogni dettaglio, dal colore degli occhi all’umore che lo impregnava.
Aveva però effettuato un’altra scoperta, che le aveva dato i brividi. La mano premuta penosamente sul cuore celava un taglio verticale netto e scuro; sebbene nessuna arma fosse presente nella raffigurazione, esso dava l’impressione di essere stato causato da una spada affilata. Inevitabilmente, l’immagine di Anthos con la lama nella destra e la camicia aperta sul petto nudo le si era rimaterializzata nella mente, facendola slittare di nuovo nell’angoscia.
Tanto più che lo sconfitto indossava il Medaglione e, ora che i colori erano stati ravviati dalla pulitura, non esistevano più dubbi sul fatto che fosse il medesimo gioiello che pendeva dal collo del reggente.
Un’idea assurda iniziò a delinearsi nitida nella confusione dei suoi pensieri. Una considerazione assolutamente impossibile, meno credibile ancora da quando lei e Anthos si erano uniti in anima e corpo. Addirittura sacrilega da ipotizzare.
La scacciò dalla mente, tornando alla realtà e abbandonando la minuziosa osservazione dell’affresco.
Si voltò e rimase attonita a guardare i due uomini che discorrevano a bassa voce al lato opposto della sala. Un dialogo evidentemente nervoso, ma non uno scontro ostile come era stato in tutte le occasioni precedenti. Ciononostante, il loro atteggiamento, benché contenuto, le provocò una fitta di preoccupazione.
Narsas era molto pallido, più di quanto non fosse dovuto all’effetto del koreyon: il suo sguardo solitamente sereno era acceso di una luce più sgomenta che adirata.
Anthos teneva le braccia conserte e si appoggiava al tavolo, fissando l’interlocutore con durezza estrema, severo, irremovibile. Ma lo sfavillio delle sue iridi dorate esprimeva l’immenso dolore che solitamente teneva celato al resto dell’universo.
Entrambi realizzarono che lei li stava contemplando e chiusero in fretta lo scambio, tornando silenziosi e distaccati a sorseggiare il chae. L’elettricità che aveva pervaso l’aria, tuttavia, non si dissolse con pari rapidità.
Si mosse, decisa a capire quanto stesse accadendo.
“Ci sono forse notizie di Màrsali e di Kesthar?” domandò in apprensione.
I due uomini la fissarono contemporaneamente. Il guerriero si risolse per primo.
“No” rispose, rammaricato “Mi dispiace”.
“Novità da Erinna?” ritentò lei, sempre più inquieta.
Anthos scosse la testa, in parte rassicurandola.
Adara osservò il leggero tremito delle spalle dell’arciere e l’aria torva del marito, decidendo di rompere gli indugi e di farsi rivelare l’oggetto della discussione.
“Il vostro fronte comune nella reticenza mi sorprende non poco” borbottò seccata.
Il reggente sogghignò senza perdere l’aplomb, ma non rispose, tracciando il solito confine invalicabile tra lei e i suoi pensieri, per cui non avrebbe ottenuto nulla finché lui non lo avesse stabilito.
“Il principe ha condiviso con me le sue congetture sullo stato drammatico di Iomhar” chiarì invece l’arciere “Il livello delle acque si è innalzato ulteriormente e non possiamo sprecare tempo prezioso. Lo scontro cruciale con il Nemico è alle porte, pertanto mi ha ordinato di stringere la mia sorveglianza su di te, soprattutto quando lui sarà impegnato in duello. I Daimar interverranno, come la volta scorsa”.
La ragazza aggrottò la fronte, insoddisfatta: la delucidazione non spiegava del tutto le reazioni che aveva rilevato in loro. Sospirò, ma non si rassegnò.
“Sei così pallido, Narsas…” disse con pena, sollevando una mano verso il suo viso.
Lui si ritrasse leggermente, impedendole di toccarlo.
“Sono solo un po’ stanco” affermò tuttavia con gentilezza “Ora, se vuoi scusarmi, credo sarebbe meglio per me riposare in vista dello scontro imminente”.
Adara rimase spiazzata sia dalla formalità con cui l’Aethalas aveva parlato sia dalla sua incredibile ammissione di debolezza e non riuscì a replicare.
Il giovane però le rivolse un sorriso e, accomiatandosi, riservò al reggente un breve inchino. La principessa rimase ancora più sorpresa da quell’atto senza precedenti e lo seguì con lo sguardo mentre abbandonava la sala del trono.
“Che cosa gli hai detto, Anthos!?” sbottò, quando rimase sola con il marito.
“Esattamente quanto ha riportato” ribatté il reggente, alquanto divertito dalla scena “Con molta meno raffinatezza, lo ammetto…”.
“Oh, se pensi che io me la beva… conosco Narsas, non è da lui…!”.
“Che cosa?” la incalzò l’uomo “Essere preoccupato? O affaticato? Mi sorprendo che sia ancora in piedi con il koreyon in circolo ormai da mesi!”.
“Inchinarsi davanti a te!”.
Il principe si sollevò dal tavolo con evidente fastidio, ma trattenne l’irritazione.
“Era ora che riconoscesse il mio ruolo di sovrano, di unico giudice, di… marito!” esclamò, contrariato “Lui veglierà su di te nel modo in cui ho deliberato!”.
“Intendi dire che gli negherai la possibilità di uccidere il Traditore? Il suo scopo di vita? Che ci escluderai entrambi dalla battaglia finale?”.
“Non sai quanto mi piacerebbe!” sbottò Anthos, sbattendo la mano sul tavolo e sostenendo con ira il suo sguardo di disapprovazione “Ma non riuscirei a trattenere né te né lui, dunque sarebbe stupido affidare la tua custodia proprio alla persona che più di tutte, in questo caso, sosterrebbe le tue iniziative incaute! Se brama di morire contro Ishkur non sarò certo io a fermarlo, ma il suo primo dovere è quello di pensare a te! E questo lo sa bene anche il tuo Aethalas!”
Adara spalancò gli occhi, colpita da quelle parole.
“Sei… preoccupato per me?” mormorò, abbandonando le ostilità.
“Tsk!” ringhiò il reggente, sprezzante, evitando volontariamente la questione “Figuriamoci! Non riesci a governare Leuhan e con la spada sei ancora meno…”.
“Ti andrebbe se iniziassi a gestirlo nel momento per te meno opportuno?” lo interruppe lei sfidante, piazzandosi le mani sui fianchi.
Anthos le piantò addosso le iridi ambrate, adirato. Poi rise piano, minaccioso in quel semplice suono, e la afferrò per un polso, attirandola a sé. Si abbassò e la baciò, serrando l’abbraccio, cingendola forte nella sua presa sicura e spietata.
“Provaci…” le sussurrò sulle labbra, provocatorio.
Adara restituì la stretta e raggiunse la sua bocca, sollevandosi sulle punte dei piedi. Si cercarono con il respiro accelerato, con le mani che si intrecciavano, con il contatto dei loro corpi, finché non si trovarono contro il muro, accalorati.
“Non vorrai…” ansimò la ragazza, avvampando “Qui…”.
“No…” bisbigliò lui al suo orecchio, facendola rabbrividire “Ma solo perché dovrei togliermi il Medaglione” precisò con sommo divertimento.
“Oh! Tu sei un…”.
“Sì… e a te piace” rimandò il principe, zittendola con un altro bacio.
La principessa si allacciò al suo collo e l’elsa sporgente della sua spada le sfiorò il fianco. Trasalì per riflesso, investita dalle reminiscenze dei ragionamenti precedenti.
Anthos se ne accorse e spostò l’arma dietro la schiena, altrettanto impensierito.
“Da quando temi la mia lama?” sussurrò, tuttavia sarcastico “Sin dalla prima volta in cui ci siamo incontrati hai sempre desiderato affrontarla, non evitarla”.
Adara fissò l’abisso spaventoso del suo sguardo e preferì non metterlo a parte delle proprie paure. Non in quel momento. Non quando avvertiva la forza primordiale e rovente del suo corpo circondarla come a difenderla da ogni pericolo esistente.
“E tu non mi hai mai dato la rivincita promessa” borbottò, seguendolo nei ricordi.
“Perché non ci sarebbe stato scontro” sogghignò il reggente, alquanto arrogante.
“È facile mettere in difficoltà l’avversario con i tuoi poteri!” lamentò lei “Quella volta non ho visto neppure che ti eri mosso. Non è leale!”.
“Sul mio onore, nessun uso indiscriminato delle mie doti. Solo bravura”.
“Sapresti rifarlo adesso con il Medaglione completo al collo?” lo sfidò con malizia.
Il principe serrò le palpebre, deliziato dalla sua combattività e schiuse le braccia.
“Tutte le volte che vuoi” sferzò provocatorio.
La ragazza si allontanò di qualche passo, annuendo. Poi si diresse verso la sedia dove aveva appoggiato l’arma che portava sempre con sé. Anthos sorrise e sganciò la fibbia che tratteneva il mantello. La pesante stoffa blu scura scese a terra in un sospiro fluttuante. Riportò la spada in posizione corretta.
“Non chiedo nessun vantaggio” ribadì Adara, ponendoglisi difronte.
Lui alzò le spalle, indifferente all’apparenza, in attesa della sua mossa.
“Estrai” le disse, incolore.
Le stesse parole di quella lontana notte a bordo della Xiomar. Un identico risultato.
L’acciaio lucido scintillò alla gola della giovane prima che lei riuscisse a sfoderare la propria lama: nessun movimento visibile. Trasalì, pienamente conscia che il principe non aveva mentito sulla propria abilità.
“Ma come…?” ansò.
“Vogliamo riprovare?” propose lui, privo di scherno, riponendo la spada nel fodero argentato “Estrai!”.
Adara si concentrò, evitando di affrettare i tempi e osservando con attenzione la sua posizione esteriormente rilassata. Aspettò quello che intese come il momento opportuno, come le era stato insegnato.
Niente da fare. L’arma del principe tornò a sfiorarle il collo con letale precisione.
“Non capisco come tu faccia a…” sospirò, demoralizzata.
“Un lungo allenamento” ridacchiò Anthos, abbassando la guardia “Ti arrendi?”.
“Che cosa?!” brontolò lei, impermalita “No! Mai pronunciato quel termine avvilente!”.
“Lo so…” sussurrò il reggente con una luce fiera e triste negli occhi chiari “La tua perseveranza brucia ogni giorno sulla mia pelle… ogni notte tra le mie braccia”.
La ragazza arrossì sotto quello sguardo orgoglioso e penetrante. Comprese appieno.
“Potremmo continuare all’infinito” congetturò il principe, recuperando la solita aria disinvolta “Perciò passiamo direttamente alla fase due. È quella che ti interessa sperimentare o sbaglio?”.
Lei assentì, sguainando l’arma senza che lui la ostacolasse.
“Sono pronta!”.
Le lame si incrociarono in uno scintillio metallico una volta soltanto. La spada della principessa volò in aria in un battito di ciglia, lasciandola priva di difese.
Adara trattenne il respiro, sconvolta. Se lo avesse sfidato come nelle sue primigenie intenzioni, se lo avesse fatto senza conoscerlo come, al contrario, aveva desiderato dopo averlo incontrato sulla nave… No. Si rese conto che in ogni caso non lo avrebbe mai trattato da nemico. Per nessuna ragione al mondo avrebbe scelto un combattimento a discapito di un’opportunità. Di una chance. Di tutte quelle che le avevano gradualmente rivelato l’amore profondo che provava per lui da un tempo del quale non riusciva più a individuare il capo.
Anthos sorrise, intuendone i pensieri. Sapendo che non era finita.
“Ridicolo a dirsi davanti a te, che sono la campionessa del Sud” sospirò lei, approssimandoglisi “Ma l’unica realtà è che non sono mai riuscita a battere Aska Rei in allenamento… e che Dare Yoon mi ha sconfitta senza fatica quando ho duellato con lui. Dimmi la verità, Anthos… all’Anello di Fuoco, sei stato tu a farmi vincere?”.
“Sì” replicò lui, prendendole il viso tra le mani.
Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime di commozione a posteriori.
“Hai seguito la sfida da Leu-Mòr…” continuò, ormai consapevole.
“Sì” ripeté il reggente, asciugando con il pollice la goccia salata che le scorreva lenta lungo la guancia.
“Tutti a Erinna hanno creduto in un intervento divino…”
Anthos sorrise, ineffabile, e nei suoi occhi d’oro transitò una dolcezza infinita.
“Sciocco credere in una simile assurdità” sussurrò poi, tornando padrone di sé “Lo sai anche tu che i veri miracoli sono quelli compiuti dai mortali”.
Adara sussultò. Si rifugiò tremando nel suo abbraccio, stringendosi al suo petto.
“Ti amo…” gli disse ancora una volta.
La risposta del signore del Nord arrivò nel silenzio di un bacio carico di passione.
“Perché stai piangendo, Adara?” domandò poi, lieve “Non ti ho mai mentito, conosci le ragioni per cui all’inizio ho agito così. Non me ne pento… forse, è l’unica cosa giusta che ho compiuto nella mia esistenza, a misurare ciò che mi è stato offerto in cambio…”.
“So che sei sincero, Anthos” affermò la principessa con la voce che tremava “Ma sento che c’è qualcosa che non mi stai rivelando… e ho paura”.
“Non servirebbe negarlo” ammise il reggente.
“Perché? Parlami, ti prego… non ti fidi di me?”
Anthos le sollevò il viso, lanciandole un’occhiata severa e infinitamente malinconica.
“Io mi fido di te, Adara” sussurrò “E non avrei mai pensato che simili parole sarebbero potute uscire da me con tale, inusuale certezza. Ma non è il momento né per chiedere né per avere paura”.
Lei lo strinse forte, con il cuore che batteva all’impazzata per quanto lui le aveva dichiarato apertamente. Perché con lui accanto ogni timore svaniva.
“Quando, allora?” domandò.
“Quando riuscirai a sconfiggermi con la spada” sancì il principe, privo di ironia.
 
 
Kalemi entrò con irruenza nelle stanze private del sovrano celeste, la lunga treccia bruna che ondeggiava sulla schiena ornata di seta bianca, gli occhi verde silvestre scintillanti sotto la fronte aggrottata. Le fiamme azzurre delle lampade aumentarono d’intensità al suo incedere, illuminando a giorno il lungo corridoio. Spalancò l’ultima porta senza neppure sfiorarla, privo di esitazioni.
“Padre” pronunciò con durezza, rivolto a colui che l’aveva generato.
Almaktti sollevò uno sguardo incurante, continuando ad assaporare placidamente il frutto prelibato che aveva in mano.
“Quale urgenza spinge mio figlio ultimogenito a presentarsi al mio cospetto senza farsi annunciare e dimenticando per giunta le buone maniere?” ribatté, indispettito.
Sul volto affascinante del divino principe transitò una sfumatura di viva rabbia.
“Quale… urgenza?!” ripeté con ira “Se vi degnaste di interessarvi a quanto sta accadendo nel mondo in cui è stato esiliato il potente Irkalla, lo sapreste!”.
“Ancora quella noiosa storia della maledizione…” sbuffò Almaktti, ripulendosi le dita con un lembo di seta preziosa “Ho già chiarito che non intendo scomodarmi per appianare una volgare lite tra due amanti… non vorrai dirmi che la graziosa Amathira è ancora arrabbiata dopo… ehm… quanti secoli?”.
Il pugno di Kalemi si abbatté con furia sullo stipite della porta decorata.
“Siete tanto indifferente quanto spocchioso!” ringhiò tra i denti.
Il sovrano degli dei sbiancò più per l’espressione furibonda dell’interlocutore che per l’ingiuria ricevuta. Entrambe concorsero a destare la sua insolita attenzione.
“Ma come osi…?” saettò irritandosi a sua volta.
“Congiura!” precisò il giovane erede, interrompendolo “Ecco cos’è in verità quella che definite una volgare lite! Chiamatela con il nome che la contraddistingue! Senza la presenza del Distruttore il pantheon è privo di difese! Ve ne rendete conto!?”.
Almaktti si rilassò, come se avesse ascoltato una solenne fesseria.
“Ma chi vuoi che osi rivoltarsi contro di me…” sbottò, sprezzante “Frena i tuoi infantili ardori, Kalemi… sei ancora in tempo per offrirmi le tue scuse e per cercarti un nuovo passatempo, diverso dal tuo tanto ostinato quanto futile osservare i mortali…”.
“Ishkur!” esclamò il principe, fuori di sé “Lui ha ordito questo e ben altro, contando sul vostro intollerabile e arcinoto disinteresse!”
“Chi? L’inetto fratello della dea del Cielo?” borbottò il re celeste, incredulo “Oh, quale immane idiozia mi costringi a udire, figlio! Ishkur non sarebbe capace di tracciare un cerchio servendosi di una coppa…”.
Kalemi fremette di collera incontenibile. Avanzò di qualche passo e ribaltò il tavolo sul quale erano disposte le pietanze prelibate destinate al banchetto reale.
Almaktti sbarrò gli occhi e si mise a sedere, esterrefatto.
“Perché voi lo siete?” sferzò pesantemente, indicando i calici rovesciati sul pavimento di mosaico lucente “Magari sì, ma non ve ne importa nulla! Non sapete quale vergogna provo nell’avere un padre come voi! Tutto questo… tutta questa oscurità è colpa vostra! Della vostra inadempienza! Della vostra sconsideratezza!”.
“C-cosa…!?”.
“Fate silenzio!” gridò il giovane, terribile “Colui che avete definito come incapace ha teso un tranello al divino Irkalla, servendosi della capricciosa vanità di Amathira! Quanto a lei… bah, scoprirò presto se ne era al corrente! A causa vostra, padre, poiché non avete onorato il vostro ruolo, il Distruttore si è reincarnato in un mortale e Ishkur l’ha seguito apposta per annientarlo e prenderne il posto!”.
“M-ma Irkalla sta per tornare, no…?” balbettò il sovrano degli dei, atterrito dalla tempra del figlio “In fondo, noi Superiori non possiamo morire…”.
Kalemi gli rise in faccia, freddo e sdegnoso.
“Trascurerò il fatto che non vi siate riferito all’ingiusta umiliazione subita da Irkalla, evento che non vi ha minimamente toccato… vi informo che il gemello oscuro ha scoperchiato Yfrenn-ammri! Vi dice nulla questo nome?”.
Almaktti trasalì visibilmente, asciugandosi il sudore dalla fronte.
“Ah, scorgo finalmente in voi una reazione!” infierì il principe celeste “Ishkur si è autoproclamato dio del Nulla e mira a dissolvere l’intero creato! Senza Irkalla, che è prigioniero di un corpo umano, siamo finiti! Se il Distruttore dovesse perdere lo scontro perché i suoi poteri sono offuscati dalla maledizione che voi avete ignobilmente consentito, non ci sarà più nessun ostacolo tra questo luogo eterno e il folle che mira a conquistarlo! Ora, padre, ditemi se l’essere che avete sminuito vi sembra ancora tanto stupido!”.
“Ci sarà qualcosa che lo può fermare…” balbettò il sovrano degli dei, sbigottito “Dimmi che cosa devo fare e io…”.
“È troppo tardi” concluse Kalemi con gelida calma “Avreste dovuto intervenire al momento opportuno. Costringere Amathira ad annullare l’anatema, imprigionare il suo ambizioso fratello e riabilitare il mio tutore. Rendergli giustizia per dovere, se non per spirito di equità. Non ve ne siete curato. Ora potete solo continuare ad apparire il codardo che vedo tremare davanti a me”.
“M-ma io sono certo che Irkalla…”.
“Voi non sapete niente di lui, che vi ha sempre mostrato rispetto e devozione… non l’esistenza avvilente e solitaria che ha condotto, non il dolore, non il desiderio di vendetta che ne è scaturito” sancì il giovane erede al trono “Non meritate nulla, né riguardo né fedeltà e neppure la mia compassione. Pertanto, vi depongo dal ruolo che occupate e ne assumo la guida. Abbandonate il palazzo. Immediatamente!”.
“Tu non puoi compiere un atto del genere!” gridò Almaktti “Nessuno ti riconoscerà come sovrano degli dei! Ti condannerò all’esilio per aver osato minacciarmi!”.
“Mi hanno già riconosciuto, padre” sogghignò Kalemi, implacabile “Mentre voi eravate girato dall’altra parte, come sempre. Compresi i miei amati fratelli maggiori, se vi preme saperlo”.
Il sovrano celeste aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Deglutì, perdendo tutta l’energia che aveva provato a tirare fuori.
“Q-questo è impossibile…” balbettò “Non… tu non hai titolo… non puoi…”.
“Io…” replicò Kalemi, sguainando una spada a lame contrapposte, assemblata di impalpabile eternità “Io sono il dio del Tempo! Io vi condanno al confino perpetuo nel più lontano dei mondi che sono stati creati! Da lì, forse, avrete modo di imparare quale sia il compito che una divinità è tenuta ad assolvere!”.
Almaktti divenne terreo. Comprese che non avrebbe avuto scampo e che nessuno avrebbe aiutato e difeso un simbolo privo di valore.
“Vi concedo di condurre con voi mia madre” ultimò il neo sovrano, rinfoderando l’arma divina “Pare sia l’unica in grado di farvi manifestare un segnale di vita… ed è la sola che tiene a voi”.
Il Superiore si afflosciò come un sacco svuotato del suo contenuto, prostrato.
Kalemi gli girò le spalle e uscì senza voltarsi.
   
 
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