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Autore: futacookies    18/07/2020    1 recensioni
«È nel tuo interesse, mia cara, che tu mantenga le distanze dall’uomo avvolto nel biancospino. Hai idea di chi sia?», le chiese poi, sporgendosi verso di lei.
Pansy si dimenò, a disagio. Draco, accanto a lei, si era irrigidito.

Diffida dall'uomo avvolto nel biancospino, sarà la tua rovina. Questo è l'avvertimento che Pansy riceve da bambina, e che l'accompagna per tutta la sua vita. Un avvertimento prima dimenticato, poi declassato a sciocca superstizione, che però sembra non riuscire a scuotersi dalle spalle. Un avvertimento a cui Draco crede, e poi non crede, ma a cui nessuno dei due può sottrarsi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Pansy Parkinson | Coppie: Draco/Pansy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
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NdA: questa storia è stata scritta per il contest “Storia di un matrimonio”, indetto dal mystery_koopa sul forum di Efp. Questa storia si svolge su due piani temporali: le parti in corsivo ripercorrono, dalla fine all’inizio, la storia di Pansy e di come abbia sposato Draco, mentre quelle non in corsivo percorrono, dall’inizio alla fine, il loro divorzio (tema che avevo scelto per il contest).
Buona lettura!

 
 
 
Il fitto intreccio del biancospino
 


«Voglio divorziare.»

«Mh?»

«Hai sentito. Voglio divorziare.», la voce di Draco, fredda e decisa, la colpì come una freccia in pieno petto. Erano passate settimane dall’ultima volta in cui si erano visti, e adesso tornava da lei con una richiesta che avrebbe potuto distruggerla. Pansy sollevò lo sguardo, incontrando i suoi occhi luminosi e il suo sorriso sprezzante. Draco era sempre stato debole, ma quando era con lei ritrovava la sicurezza e la meschinità che lo avevano caratterizzato da ragazzino ‒ perché gli aveva dato, nel corso degli anni, la certezza che non si sarebbe mai allontanata. Gli aveva dato, implicitamente, il permesso di farle del male. 

Eppure, nei giorni che avevano preceduto la fine della guerra e che adesso non erano che sbiaditi ricordi, c'era stato un Draco che l'aveva amata e le aveva promesso di non ferirla. Un Draco diverso da quello di cui si era innamorata e diverso dall'uomo che le stava parlando in quel momento, ma che non aveva potuto non amare per il semplice fatto che era Draco e che aveva bisogno di lei. Talvolta Pansy temeva che quegli istanti fossero stati soltanto un'illusione, soltanto nella sua mente distrutta dalla solitudine ‒ poi accarezzava nervosa la piccola fede che portava al dito e la sua agitazione si placava. Fino alla prossima volta.

«No, non vuoi.», affermò. La sua voce, straordinariamente ferma considerato il tumulto interiore che la stava attraversando, la sorprese. Draco non l’avrebbe mai lasciata, si crogiolava troppo in un amore per cui non doveva impegnarsi, per cui non doveva dare niente, ma semplicemente ricevere infinite attenzioni ‒ perché Draco era tutto quello che aveva e l’unica persona che le era rimasta da amare. E se non avesse potuto più nemmeno amare Draco, c’era ben poco che avrebbe potuto impedirle di cadere in pezzi. 

Si alzò, per fronteggiarlo, sebbene Draco non fosse interessato ad alcun tipo di scontro. Non era nemmeno ostile come le era parso all'inizio. Le sorrise amaro, lo sguardo basso e colpevole, che non poteva fare altro che evitarla. Draco era sempre stato debole, ed era sempre stato un pessimo attore, perché nessuno nella sua famiglia aveva pensato che sarebbe stata una buona idea, crescere qualcuno in grado di allontanarsi da loro una bugia alla volta ‒ il soldatino delle forze oscure adesso non aveva più battaglie da combattere. Non aveva più qualcuno che lo amasse. Tranne lei. Sempre lei.

«No», convenne, alzando gli occhi su di lei, «non voglio.»


 
***


Maggio si era presentato con una battaglia e un salato conto da pagare. Pansy, rifugiatasi nell’ormai vuota residenza dei Parkinson, nemmeno così lontana dalla scuola ridotta in macerie, non poteva non consumarsi nell’ansia non poteva non vagare, insonne, nei corridoi lugubri e silenziosi, pregando ogni divinità che fosse in grado di ricordare che Draco fosse al sicuro, che le conseguenze e gli errori di suo padre non ricadessero su di lui. Che le permettesse di restargli accanto, che quella loro unione non si fosse consumata nelle poche settimane che erano state loro concesse. 

Né giugno né luglio si erano mostrati clementi. Le uniche notizie che riceveva erano quelle che circolavano sui Malfoy nella Gazzetta del Profeta. Notizie di processi e di continui imprigionamenti ad Azkaban per i Mangiamorte che erano sopravvissuti al loro padrone, l’incubo ricorrente del volto scavato di Draco che la supplicava di salvarlo. E lei non poteva. Non ci sarebbe mai riuscita, perché Draco era sempre troppo lontano, non importava quanto tendesse, disperata, le mani, non otteneva mai nulla solo graffi che si tramutavano in cicatrici biancastre.

Agosto aveva portato con sé la consapevolezza di un anno scolastico a cui avrebbe volentieri rinunciato. Perché tornare lì dove non sarebbe stata accettata? Dove sarebbe stata sola, sperimentando forse una solitudine maggiore di quella che stava vivendo? Non c’era più nessuno che avrebbe potuto costringerla a tornare lì. Non c'era più nessuno. 
A poche ore dal primo settembre, il suo sonno leggero e disturbato fu interrotto dal sonoro schioppo della Smaterializzazione. Sussultò, e nel biancore lunare che filtrava lieve dall’esterno riuscì a riconoscere il profilo scarno e affilato di Draco. Si gettò tra le sue braccia senza nemmeno rifletterci, accarezzandogli il viso, i capelli, le spalle. Era sempre stato terribilmente magro, ma adesso riusciva quasi a sentire le sue ossa sotto le dita che lo sfioravano, timorose di essere respinte.

«Io-», tentennò, senza nemmeno guardarla, come se stesse riflettendo ad alta voce, «non pensava nemmeno di riuscire a Smaterializzarmi qui.»

«Sì, certo che puoi, perché sei-», mio marito, pensò, con una punta di orgoglio. Sembrava smarrito. Confuso. Preoccupato. Era normale che lo fosse, considerando la condanna di suo padre. Era la notizia sulla bocca di tutti. Era normale che fosse sconvolto ed era naturale che fosse lì, a cercare il suo conforto.

Draco ignorò i suoi tentativi di rassicurazione, osservò invece la stanza, i suoi occhi si muovevano rapidi da un punto all’altro. 

«Dov’è il tuo baule? Non l’hai preparato?»

«Il mio baule?», chiese, confusa. Poi comprese. «Oh, Draco! Pensi davvero che potrei tornare ad Hogwarts, solo per ricevere disprezzo e-»

«Io torno. Mio padre vuole che lo faccia.», le rispose, infastidito dalle sue proteste. Pansy dovette contenere una smorfia di disappunto. Suo padre. Anche rinchiuso dietro le sbarre di Azkaban, Lucius continuava a tirare i fili del suo burattino. «E voglio che tu venga con me.»

Il tono risoluto con cui parlò la interdisse per qualche istante. Si era abituata, negli ultimi mesi, ad un ragazzo terrorizzato dalla sua stessa ombra, che non avrebbe mai avuto la forza di parlare in quel modo. Ma la guerra era finita e il Signore Oscuro sconfitto, e questo doveva pur significare qualcosa. Pansy annuì, perché, certo, non c’era luogo in cui non sarebbe andata pur di seguirlo. Perché gli sarebbe stata accanto, e non solo perché gliel’aveva chiesto. L’avrebbe fatto a prescindere, perché amare Draco era tutto ciò che le impediva di perdersi e affondare nel mare di solitudine e disperazione che non aspettava altro che travolgerla. 

Draco, considerata risolta la questione, si preparò per andarsene non le aveva concesso un gesto affettuoso, una carezza, un bacio. Nulla lasciava pensare che fino a qualche mese prima si beasse della sua vicinanza e del suo contatto, delle sue lodi e delle sue rassicurazioni. Pansy notò la nuova bacchetta che impugnava con naturalezza, così diversa da quella che ricordava, da quella con cui l’aveva sposata. 

Lui seguì la direzione del suo sguardo e cominciò a spiegare: «L’ha commissionata mio padre, per me.», disse, rigirandosela tra le dita. Avrebbe potuto essere un'estensione del suo avambraccio. «Dieci pollici, corda di Cuore di Drago. Rigida.», le sorrise, colpevole, chinando il capo. «Pansy, mi disp-. È di biancospino.»


 
***


«Dobbiamo divorziare.»

Pansy, che aveva archiviato la strampalata richiesta di qualche settimana prima come un momentaneo e velleitario capriccio, cominciò a massaggiarsi le tempie. 

Fino a pochi mesi fa, Draco aveva continuato a prometterle che eventualmente avrebbe confessato la loro unione a sua madre, poi magari anche a suo padre, e avrebbero potuto finalmente essere felici. Finalmente stare insieme, come la parvenza di una famiglia che Pansy non aveva più da tempo. Poi aveva semplicemente smesso di parlarne e dal nulla era comparsa questa storia del divorzio.

Draco diceva di amarla ‒ non era sicura che fosse vero, non era certa del fatto che l’avesse mai amata, o che avesse mai amato qualcuno che non fosse se stesso, ma sentirglielo dire, sentire quelle parole lasciare le sue labbra, era una rassicurazione non indifferente. Quindi perché adesso quelle stesse labbra la minacciavano così? Non l’amava più? Non erano stati sufficienti la sua dedizione e le sue cure, la sua devozione e i suoi sacrifici?

Aveva accettato di sposarlo quando per lui davvero non si trattava di nulla di più serio di un capriccio ‒ o forse della paura della guerra, della paura di morire senza poter impedirlo. Aveva accettato di sposarlo nonostante sapesse che fosse un azzardo, che in una società come la loro le ragazze si sposavano subito, certo, ma dopo accordi prematrimoniali, dopo l’approvazione delle famiglie ‒ Pansy non aveva nemmeno una famiglia che potesse approvare Draco. Draco però aveva ancora una famiglia, che lei era certa l’avrebbe approvata, quindi perché continuare a vivere di momenti fugaci e baci rubati e giorni infiniti di assenza?

«Che cosa significa?», chiese stancamente, terrorizzata dalla sua risposta. Era questo il momento in cui iniziano le sue sofferenze? La sua rovina? 

«Significa che dobbiamo divorziare.», ripeté. Cercava di apparire crudele e distaccato ‒ forse credeva davvero di esserlo ‒ ma c’era un’incrinatura nella sua voce che lo tradiva, uno spiraglio di speranza che le suggeriva che forse non tutto era perduto. «Non so nemmeno come ho mai potuto pensare che potesse funzionare. Pansy-», si interruppe, rivolgendole uno sguardo pietoso che la disgustò. Fino a pochi anni fa, era lei a guardarlo così. «-mio padre vuole che sposi Astoria Greengrass.»

Il gemito acuto e stizzito che emise sorprese lei per prima. C’erano così tante cose sbagliate, nelle parole di Draco, che non credeva sarebbe mai riuscita a correggerle tutte. Aveva funzionato benissimo, fino a quel momento. Avevano funzionato, insieme, perché Draco si era fatto recipiente del suo strabordante amore e lei non gli aveva mai chiesto nulla in cambio, perché la sola offerta di avere qualcuno a cui aggrapparsi era già stata in sé un regalo meraviglioso. 

Suo padre. Pansy non nascose il suo disappunto. Ecco cos’era cambiato. Lucius era finalmente tornato a casa, dopo una condanna che era stata pro forma più che effettiva, e dopo due anni di prigionia riprendeva tra le mani i fili della sua marionetta. Avrebbe voluto tagliarli, quei fili, avrebbe preferito vedere Draco inerme e abbandonato piuttosto che permettergli di condannarla ad un’infelicità ascritta al suo destino in tempi immemori. Non doveva essere lui, a spezzarle il cuore. Le aveva promesso che non l’avrebbe fatto. 

«Non se ne parla.», sibilò, gelida. Avrebbe voluto urlare. Avrebbe voluto supplicare. Avrebbe voluto scoppiare in lacrime e pensare che sarebbe bastato, che l’idea di farla soffrire potesse spaventare Draco quanto bastava per ritirarsi sulle sue posizioni, per fargli ammettere che avrebbe risolto tutto o che, in alternativa, avrebbe rinunciato alla sua famiglia ‒ ma Draco era attaccato al suo cognome e al suo passato e ai suoi genitori molto più di quanto non fosse attaccato a lei.

«Non rendere tutto più complicato.», commentò con un lamento annoiato. «Pensavi davvero che ti amassi? Eri solo- be’, era comodo. Fingere di amarti. E permetterti di distrarmi, per un po’, da quello che mi stava succedendo. Non ti ho mai resa felice ‒ nemmeno tu mi hai mai reso più che vagamente dimentico della mia triste situazione. Certo, te ne sono grato.», concesse, con un elegante movimento della mano che sembrava voler allontanare qualunque protesta. «Ma con Astoria potrei essere felice. Non è questo, che vuoi? Che io sia felice?»

Pansy, livida di rabbia, non poté fare altro che ordinargli: «Vattene.»

«Sai-», spiegò Draco, accomiatandosi con un bacio sulla fronte ‒ il bacio di Giuda, un tradimento disgustoso. «Aveva ragione Daphne: quando ti arrabbi assomigli a un carlino. Non so come ho fatto a non accorgermene prima!»


 
***


C’era, ad Hogsmeade, una chiesetta nascosta da un fitto fogliame, per lo più sconosciuta agli studenti di Hogwarts, che nelle loro gite al villaggio erano di certo troppo assorbiti dalle chiacchiere e dai negozi per occuparsi di esplorazioni. 

Pansy, nel suo leggero abito verde, si sentiva inquieta. Quella del matrimonio era stata un’idea di Draco, che non aveva fatto altro che pensarci fino al momento in cui non era stata concessa un’uscita agli studenti. E vederlo così distratto da qualcosa che non fosse la guerra, o i suoi genitori lasciati alla mercé del Signore Oscuro, o il destino di morte e distruzione pronto a calarsi imminente su di loro l’aveva resa felice. Perciò aveva accettato.

Perciò adesso aspettava Draco sui gradini della chiesa, un bouquet di candido biancospino stretto tra le mani, una sfida a una profezia che la voleva infelice e che sembrava perseguitarla. Quando Draco la raggiunse, nel suo mantello scuro, le sorrise raggiante. Pansy aveva accettato di sposarlo perché sperava che quel sorriso continuasse a restargli attaccato al volto, perché sognava intimamente di esserne la causa. Perché credeva di poterlo salvare come una volta lui l’aveva salvata. 
Poi lo sguardo di Draco cadde sulle sue mani e si spense. Pansy ebbe l’impressione che si fosse ricordato all’improvviso di qualcosa di terribilmente spiacevole, ma di certo non poteva aver dato ascolto alle strampalate parole della professoressa Cooman, e di certo non conosceva i dettagli di quella vicenda. Era solo sciocca superstizione. Pansy non aveva mai creduto nella Divinazione, in ogni caso.

«Non so se ci crederai, non so nemmeno se te lo ricordi», iniziò, «ma la vecchia storia della Cooman, quella dell’uomo del biancospino? Io- credo di essere io.», ammise nervoso, mostrandole la sua bacchetta. «Questa non è mia, è di mia madre. La mia bacchetta l’ha presa- l’ho persa. Era di biancospino.»

«Draco, che sciocchezz-»

«No, ascoltami, non è una sciocchezza. Prima, forse, prima ero davvero io, destinato a farti soffrire. Credo fosse così. Ma adesso non più, no? Questo», disse, indicando la bacchetta, «cambia tutto. Potresti rendermi felice.»

«Certo che saremo felici, Draco. Tu non mi faresti mai del male.»

Eppure, mentre entrava nella chiesa deserta, mentre il vecchio prete celebrava la messa, mentre scambiavano promesse di amore e fedeltà eterni, Pansy non riusciva a non pensarci. Ricordati del biancospino, le aveva chiesto sua madre. Eppure era lì, a firmare la sua condanna. Forse era stata stupida, forse non avrebbe dovuto sfidare apertamente un destino che le avrebbe remato contro per le sue scelte, per la scelta di amare Draco e non qualcun altro. Ma Draco l’aveva salvata, non sarebbe stato la sua rovina. 

Avrebbe potuto giurare di sentire, in un angolo remoto della sua memoria, profumo di salsedine e puzza di cenere.


 
***


Nel momento in cui Draco le aveva chiesto di rompere il loro rapporto, per accontentare la richiesta di suo padre di sposare Astoria ‒ giovane, facilmente manipolabile, proveniente da un’antica famiglia Purosangue, come lei, ma con una storia recente molto più stabile e lineare rispetto alle sciagure che aveva segnato la sua ‒, Pansy aveva accarezzato il pensiero di opporre strenua resistenza. 

I matrimoni magici ‒ come i divorzi magici, del resto ‒ si fondavano sul semplice concetto della volontà: il matrimonio era possibile se entrambi lo desideravano, il divorzio se entrambi i coniugi erano d’accordo. Draco di certo sapeva tutto questo ‒ sapeva di essere stato davvero intenzionato a sposarla, due anni prima ‒, ma spacciare i suoi sentimenti per una farsa avrebbe forse facilitato il suo processo di convincimento.

Se avesse opposto la sua strenua resistenza forse Draco avrebbe capitolato. Forse avrebbe capito che non c’era felicità più grande di quella che lei era disposta a offrirgli, che non c’era donna che avrebbe potuto amarlo nello stesso modo in cui lo amava lei. Forse avrebbe capito che non esisteva la possibilità che potesse sentirsi, con chiunque altro, come si sentiva con lei. 
Pansy fece una smorfia. Ma come si sentiva, con lei?

Draco manifestava sempre una certa soddisfazione di sfondo, nel passare il suo tempo con lei, dovuta probabilmente al fatto che Pansy fosse l’unica a trattarlo con la stessa ammirazione e reverenza di quando aveva tredici anni. Anche se Draco aveva perso il suo fascino, la sua influenza, il suo carisma, per lei era rimasto lo stesso ragazzino che assoggettava i compagni senza sforzo ‒ e il pensiero di poter recuperare il se stesso di un tempo piaceva a Draco molto più di quanto non gli fosse mai piaciuta lei.

Si fissò allo specchio, contrariata. Lei non assomigliava a un carlino. Quella storia era vecchissima e orrenda e quando era bambina l’aveva infine portata ad odiare la sua faccia, i carlini, e Daphne Greengrass. Era stato Draco a sistemare tutto. Era stato Draco a tendere la mano verso di lei, chiedendole se credesse davvero alle sciocchezze di Daphne ‒ e lei aveva smesso di crederci perché Draco non ci credeva ed era stato così ovvio, così comodo, permettersi di credere in ciò che credeva Draco e rifiutare ciò in cui non credeva. Era stato così facile, seguirlo. O almeno se ne era convinta. Si era convinta di poterlo seguire, magari anche di poterlo raggiungere, ma la realtà era che lei, Draco, non l’avrebbe mai conosciuto davvero. Draco che ipocritamente sorrideva e poi pugnalava alle spalle, Draco che amava gli animali abbastanza da seguire Cura delle Creature Magiche e poi sbraitava per vedere decapitato un ippogrifo, Draco che mostrava con orgoglio la sua identità di Mangiamorte ma che piangeva e tremava nel momento in cui non restava più nessuno per cui tener su la maschera. E quello che aveva scoperto di lui, quei piccoli dettagli che custodiva gelosamente, aveva dovuto strapparglielo con le unghie e con i denti ‒ come quando da bambina si arrampicava tra i cespugli di biancospino per raccoglierne i fiori e non ne ricavava altro che piccoli tagli e qualche petalo stropicciato.

Avrebbe dovuto fare i conti con la sua ingenuità. Draco non le era mai appartenuto, non era mai stato suo marito, amante, amico e comunque non nella stessa misura in cui lei era stata sua. Ed era sempre stata sola. Mentre lo consolava, mentre lo amava, mentre accettava di sposarlo, in realtà era sola. Si era convinta che la compagnia e il conforto di Draco le sarebbero bastati. Com’era stata stupida. Draco le aveva detto che non sarebbe stata sola, che non l’avrebbe fatta soffrire, che sarebbero stati felici e lei gli aveva creduto, perché era quello che Draco voleva.

E se adesso Draco voleva il divorzio, se voleva accontentare suo padre, se voleva sposare Astoria, se voleva una volta e per tutte calare la sua personale spada di Damocle sul suo capo, allora gliel’avrebbe permesso. Se voleva essere l’uomo avvolto nel biancospino, quello che sarebbe stato la sua rovina, allora lo sarebbe stato. Non aveva più molta importanza: voleva solo che finisse tutto, che Draco si liberasse di lei il più in fretta possibile, che tutti si dimenticassero della sua esistenza. Pansy Malfoy, née Parkinson, sarebbe potuta diventare un fantasma. Non avrebbe continuato a vivere in una società che, ignorando il suo passato e i suoi sentimenti, l’avrebbe costretta a confrontarsi con Draco ogni giorno, che magari l’avrebbe spinta a sposare un uomo che non amava perché era giusto che si sposasse. 

Il suo amore per Draco, benché immutato e immutabile, non poteva competere con la commiserazione per se stessa, con la nausea che provava al solo pensiero di essersi lasciata ingannare, di aver voluto essere ingannata. Se Draco voleva il divorzio, allora l’avrebbe avuto ‒ c’era ben poco che non gli avesse già concesso.


 
***


C’era stato un giorno della sua vita in cui Pansy era stata terribilmente infelice, al punto di non riuscire nemmeno più a sperare di poter tornare a sorridere. E quale motivo avrebbe poi avuto, per sorridere? Poi Draco aveva allungato una mano verso di lei e l’aveva stretta sé e l’aveva baciata e l’aveva salvata da se stessa e dal suo dolore e le aveva dato una buona ragione per vivere.

Pansy viveva per Draco. Per ascoltarlo mentre raccontava con lo sguardo vuoto di entusiasmo di incontri di Mangiamorte e Babbani torturati e di una spirale di violenza senza fine che sembrava volerlo risucchiare a tutti i costi. Draco non era mai stato cattivo. Dispettoso, forse. Egocentrico. Draco era sempre stato debole. E quella sua debolezza, quella volontà che diventava ferrea solo di fronte alla prospettiva di compiacere suo padre, sembrava star diventando la sua rovina. E Pansy, che non poteva fare altro che offrirgli il suo grembo per posarci il capo, non sarebbe riuscita a salvarlo.

C’era tra loro una distanza invalicabile, che non riusciva a colmare né con l’amore, né con la pressante richiesta che si confidasse con lei. Draco custodiva numerosi segreti che non era disposto a rivelarle e scure occhiaie che lo rendevano più vecchio e molto più stanco di quanto già non fosse. 

«Voglio solo prendermi cura di te.», aveva debolmente protestato, vedendolo tornare in Sala Comune a notte fonda, tremante e nervoso e paranoico, gettando continuamente lo sguardo alle sue spalle, timoroso di essere seguito. Le vacanze di Pasqua, che aveva trascorso con i suoi, ignorando le sue preghiere di restare a Hogwarts, avevano segnato il suo definitivo declino. Un ulteriore allontanamento. Un Draco sempre più diverso da quello con cui era cresciuta e di cui si era innamorata, un Draco che aveva paura della sua stessa ombra, ma che non poteva fare a meno di amare. 

«Lo stai già facendo.», le rispose secco. Dovette rendersi conto del suo tono di voce perché le afferrò la mano e l’accarezzò, pensieroso. «Lo stai già facendo.», ripeté stancamente.  «Non vorrei che poi-», s’interruppe. «che-», tentennò, guardandosi intorno per assicurarsi che fossero soli. 

«Non c’è nessuno, Draco. Soltanto io.»

Draco sorrise fiaccamente e costellazioni di piccole rughe si formarono intorno alle labbra e agli occhi. Si appoggiò a lei, permettendole di giocare con i suoi capelli, godendo per pochi istanti del silenzio e della solitudine della Sala Comune a notte fonda. 

Pansy avrebbe voluto capirlo meglio. Avrebbe voluto calarsi nei suoi panni e vedere il mondo attraverso i suoi occhi terrorizzati. Avrebbe voluto raggiungerlo, ma ogni volta che ci provava Draco sembrava ritrarsi ancora di più in se stesso, pronto a mostrarle un’altra faccia sconosciuta e affettuosa, ma stomachevolmente finta. 
«Resterai sempre al mio fianco?», le chiese in un sussurro. Pansy non era nemmeno sicura che avesse parlato.

«Se mi vuoi.», rispose con una scrollata di spalle, ed era vero: finché Draco gliel’avesse permesso, lei sarebbe rimasta con lui non avrebbe mai smesso di amarlo, perché aveva bisogno che lui avesse bisogno di lei.

«Sposami.», le disse, alzandosi di scatto, rivolgendole uno sguardo febbrile.

«Eh?»

«Mi hai sentito. Sposami.», ripeté. Sembrava esaltarsi al solo pensiero qualcosa nellanimo di Pansy si mosse e lei si rese conto, con distratto orrore, che era pietà. «Cosaltro abbiamo da perdere?»


 
***


Blaise Zabini era diventato Magi Avvocato per necessità: aveva bisogno di difendere il suo patrimonio e sua madre delle continue accuse di usurpazione, tradimento, omicidio. Quando Draco gli aveva chiesto di occuparsi del suo divorzio, aveva dovuto gentilmente spiegargli che non era quello il suo campo d’azione ‒ era stato anche abbastanza discreto da non fargli domande e fornirgli una lista di eccellenti e altrettanto discreti Magi Avvocati che avrebbero potuto fare al caso suo. Ma non aveva voluto sentire ragioni, e considerando la cifra astronomica che era disposto a pagare, e il fatto che non ci fosse effettivamente nulla che gli impedisse di occuparsene personalmente, alla fine aveva accettato.

Draco non gli aveva detto una sola parola a riguardo e Zabini aveva finto di non essere incuriosito da quella storia: sapeva degli accordi con i Greengrass per Astoria, e se si fosse saputo che Draco era già stato sposato ‒ o peggio, che era ancora sposato quando aveva firmato il contratto prematrimoniale ‒ ne sarebbe venuto fuori un bello scandalo, oltre che una bella gatta da pelare, per lui. 

Talvolta i divorzi tra maghi tiravano per le lunghe: la magia matrimoniale era molto più capricciosa della magia ordinaria, e sebbene non ci fossero le lunghe e dissanguanti battaglie legali tipiche dei Babbani, sarebbero potute sorgere complicazioni. Draco però gli aveva assicurato che sarebbe stato un processo rapidissimo e indolore che andava fatto passare in sordina: nessuno avrebbe mai dovuto scoprire niente. Blaise aveva scrollato le spalle, spiegandogli che avrebbe comunque dovuto depositare la documentazione al Ministero ‒ le probabilità che qualcuno andasse a ficcare il naso tra vecchie scartoffie come quelle erano bassissime, quasi nulle. 

Tuttavia nessuna delle congetture che aveva avanzato poteva compararsi con la realtà di trovarsi di fronte Pansy Parkinson ‒ indeciso tra lo scoppiare a ridere o lo spalancare la bocca, scioccato, si limitò ad uno sbuffo e un’occhiata con Draco, che continuava a non fornire alcun tipo di spiegazione. Certo, Pansy e Draco erano stati sempre molto vicini, e i pettegolezzi sul loro rapporto si sprecavano, ma erano sempre stati, per l’appunto, pettegolezzi. Anche adesso, mentre li osservava accomodarsi nel suo studio, non c’era nulla che potesse suggerirgli che fossero davvero stati una coppia: c’era una rigidità di fondo, nel modo in cui Draco sedeva accanto a lei, nel modo in cui Pansy tamburellava le unghie sul tavolo di vetro, negli sguardi che non sembravano nemmeno cercarsi, che li faceva apparire come estranei. 

«Bene, allora. Il motivo per cui siamo qui-», iniziò, ma Draco lo stroncò con un’occhiataccia. «Questi sono i documenti.», disse, spingendo verso di loro le pergamene. «Sono incantate, per cui potrebbero non-»

«Sì, Blaise, lo sappiamo.», tagliò corto Draco, aspettando che Pansy si decidesse ad apporre la sua firma ‒ se Blaise avesse anche solo sospettato che la misteriosa moglie di cui Draco voleva sbarazzarsi era la Parkinson, non avrebbe mai creduto possibile che gli accordasse il divorzio. Eppure Pansy lasciò la sua firma con un lento movimento di bacchetta, la mano ferma e il volto inespressivo, sebbene le sue occhiaie e il suo pallore suggerissero che quella non dovesse essere stata una facile decisione. Aspettarono qualche secondo, con il fiato sospeso: dopo qualche tentennamento, la pergamena assorbì la sua magia e il suo nome apparve sul fondo. 

Le spalle di Draco si rilassarono immediatamente. Si voltò verso di lei, Blaise ebbe quasi l’impressione che stesse per ringraziarla, ma Pansy fissava ostinatamente un punto alle sue spalle, perciò non notò lo sguardo contrito di Draco, né il tremore della sua mano mentre impugnava la sua bacchetta. L’unica cosa che Pansy osservò, con talmente tanto rancore che pareva potesse prendere fuoco in qualunque momento, fu la bacchetta di Draco, mentre suggellava la loro separazione. 

Rapido lo era stato di certo, il loro divorzio, anche se Blaise non si sarebbe azzardato a definirlo indolore. Draco si era smaterializzato in fretta e furia, borbottando qualcosa su impegni imprescindibili, mentre Pansy era rimasta, immobile, sulla poltrona di fronte alla sua scrivania. Blaise si avvicinò con cautela: non era mai stato in stretti rapporti con lei, e l’idea di consolarla non lo entusiasmava. Scoprì con sollievo che non stava piangendo. Stava solo osservando la pergamena su cui erano vergati i loro nomi ‒ ma c’era qualcosa, nel suo sguardo vitreo e rassegnato, che trasmetteva un dolore molto più grande di quanto delle lacrime avrebbero mai potuto. Blaise sentì una stretta al cuore: suscitava pietà.

«Bene, Pansy, cosa farai adesso?», le chiese. Lei si riscosse sentendo la sua voce, camuffando il suo volto in un’espressione annoiata. Le sue unghie ripresero, impazienti, a tamburellare sul vetro. Non aveva bisogno della sua pietà, e seppure ne avesse avuto bisogno, chiaramente non la voleva. 

«Penso che andrò al nord.», disse, senza indugiare in inutili spiegazioni, «Ho- ho delle cose di cui occuparmi. Le tenute, il patrimonio-», scrollò le spalle, sembrava stesse parlando a se stessa, più che a lui, «In fondo, sono rimasta sola.»


 
***


La notizia della morte di suo padre raggiunse Pansy nelle ancora inviolate mura di Hogwarts. L'anno passato aveva segnato una serie di sconfitte, che di certo l’avevano riguardata personalmente, ma che avevano coinvolto l’intera studentesca Serpeverde. Isolata dai compagni e più in generale da una scuola che avrebbe fatto volentieri a meno di lei, Pansy si era rifugiata nell'amicizia di Draco, che forse non era animato dai più affettuosi sentimenti, ma che non aveva mai vacillato al suo fianco. Il soldatino delle forze oscure che Lucius Malfoy aveva cresciuto con tanta dedizione si apprestava ad adempiere al suo ruolo di Mangiamorte per riscattare l'onore di un padre che aveva fallito senza preoccuparsi delle conseguenze. 

Anche suo padre aveva fallito, Pansy realizzò con orrore: il padre che l'aveva cresciuta nella bambagia, che l'aveva coccolata, amata e viziata fin da quando aveva per la prima volta aperto gli occhi, quello stesso padre non aveva esitato ad abbandonarla, lasciandola sola in un mondo che continuava a rifiutarla. 

E l'unico che le era rimasto accanto, mentre singhiozzava svuotandosi fino all'ultima delle sue lacrime, mentre i suoi occhi diventavano così secchi da dolerle, mentre il sangue le ribolliva per la rabbia, l'ingiustizia e la disperazione, era Draco. Draco le si era seduto accanto, mentre piangeva, e non le aveva detto niente. Non l'aveva toccata. Non l'aveva nemmeno guardata, ma era rimasto immobile, attendendo che si calmasse Draco che forse aveva paura di quel dolore alieno, della violenza con cui stava soffrendo in quel momento, di quella rassegnazione che lui non aveva ancora provato, ma di cui sapeva poteva essere vittima. 

«Sono sola, Draco.», soffiò, la voce rotta dalla stanchezza. «Non ho più nessuno.»

Solo te, avrebbe voluto aggiungere, ma la invase il terrore che Draco, incastrato com'era nella tela di suo padre, la potesse respingere. Tacque, alzandosi lentamente, nascondendo una smorfia per i muscoli indolenziti. Per quanto tempo erano rimasti in quell'aula vuota? Era già calato il buio? Qualcuno si era forse preoccupato della loro assenza? Nessuno si sarebbe più preoccupato di lei, questo era certo. 

Draco, impacciato, la seguì. Ci fu un attimo di indecisione in cui sembrò levare il braccio, forse per concederle una carezza, poi ci ripensò e il suo braccio cadde al suo fianco. Pansy sospirò. Poi Draco le posò una mano sulla spalla, dita sottili e nervose che indugiavano appena sulla sua pelle, come se avessero avuto paura di scottarsi. Era ridicolo che, di tutte le persone di cui avrebbe potuto avere paura in quel momento, Draco avesse paura di lei. E forse in realtà sarebbe stata lei a doverlo temere, per gli oscuri movimenti di un fato che incombeva incomprensibile sul suo capo. 

Sembrò quasi che le parole gli fossero rimaste incastrate in gola, che stesse facendo fatica anche soltanto a pensare cosa dirle. Ma qualunque cosa avesse potuto dirle, di certo non sarebbe stata abbastanza per rammendare il suo cuore spezzato. Draco avrebbe potuto occupare il vuoto che le si era creato intorno, se avesse voluto. Pansy avrebbe potuto occupare il suo. Avrebbe potuto essere la famiglia, l’amore e la protezione che gli erano sempre stati negati. 

«Draco-?»

«Non sei sola.», borbottò, brusco. «Hai me. Se- se mi vuoi.»

Si trovò improvvisamente stretta nel suo abbraccio, braccia scarne che le cingevano la vita e labbra sottili che inseguivano le sue, in un bacio insperato. Nascondendo il volto nella curva nel suo collo, non poté vedere il lampo di colpevolezza che per un istante adombrò il volto di Draco un fato tumultuoso e sconosciuto che forse avrebbero potuto condividere.


 
***


Hortensia Parkinson aveva vissuto per più di vent’anni prigioniera in quella che era stata, da bambina, la sua tenuta preferita: l’enorme cottage dei Parkinson nelle isole Ebridi, in cui solitamente trascorrevano le estati. Quando Hyacinth l’aveva riportata lì e le aveva intimato di non allontanarsi per nessun motivo, lasciando un manipolo di elfi a farle la guardia, non aveva posto chissà che resistenza. Non c’era molto, fuori da quelle mura, che potesse interessarle.

Suo padre le aveva impedito, all’inizio della guerra, di lasciare la Scozia: il viaggio di suo fratello doveva restare quello, un viaggio, e non una fuga poco dignitosa, che avrebbe poi permesso a sciacalli e altri soggetti poco affidabili di sottrarre quei territori che erano appartenuti alla loro famiglia per generazioni. Così gli erano rimasti accanto, lei e Primus, suo marito, e per un po’ il viaggio di Hyacinth era stata una facciata abbastanza credibile da proteggerli tutti ‒ però Hyacinth la stava tirando un po’ troppo per le lunghe, per i gusti dell’Oscuro Signore: qualcuno doveva pagare. E quel pagamento venne nella forma del cadavere di suo marito, colpito alle spalle e abbandonato ai primi gradini dell’ingresso di casa. 

Anche adesso che la sua mente era molto più chiara e molto più calma, non riusciva a ricordare con esattezza cosa fosse accaduto nei mesi successivi: suo padre l’aveva invano consolata, finché non si era arreso alla prospettiva che forse non si sarebbe più ripresa ‒ poi la guerra era finita in un ottobre miracoloso, e Hyacinth era tornato con una deliziosa moglie e una figlia che ancora non riusciva a camminare con le sue gambe, mostrandole senza vergogna il futuro che aveva perso proprio a causa sua. 

L’avrebbe potuto uccidere. E forse ci aveva provato davvero, perciò Hyacinth aveva creduto necessario nascondere agli occhi del mondo una sorella che avrebbe pagato per sempre le conseguenze delle sue scelte e della sua felicità. 

Quando Soleil ‒ benedetta ragazza, non c’entrava nulla con loro ‒ aveva deciso di lasciare Hyacinth e la sua bambina, non aveva esitato nel mostrare al fratello la sua soddisfazione: l’aveva costretta a sedere allo stesso tavolo di assassini e criminali, l’aveva trascinata in quella vergogna che suo padre aveva cercato di evitare sacrificando quanto le era di più caro. Adesso toccava anche a lui portare parte di quel fardello ‒ e poco importava che Hyacinth si piegasse sempre più sotto le spalle di quel peso.

Pansy si era presentata alla porta della sua prigione con in volto un dolore straordinariamente familiare. Non aveva cercato il suo conforto, non aveva cercato distrazioni, desiderava unicamente essere lasciata in pace: se a volte la sentiva urlare, in preda a una rabbia sconvolgente, non glielo faceva notare. Avrebbe però voluto evitarle un futuro di reclusione, avrebbe voluto, per lei, una felicità che non sembrava esserle destinata.


 
***


Hyacinth Parkinson non era mai stato un uomo coraggioso, impulsivo, indipendente: aveva vissuto la sua vita con lo scopo ultimo di preservare la dignità del suo cognome e di proteggere la reputazione della sua famiglia.

Alle prime avvisaglie dell’ascesa del Signore Oscuro, quando Lucius Malfoy ancora titubava prima di mostrare il Marchio Nero, aveva colto il consiglio di suo padre di non immischiarsi in quella faccenda poco dignitosa e si era allontanato dalla Scozia con la scusa di un lungo viaggio. 

Nel suo eterno vagabondare da una città europea all’altra, consolato dai pochi gufi inviatigli da sua sorella, era infine giunto nel sud della Francia, tra le braccia di Soleil Jardinier, fresca di diploma a Beauxbatons, frivola e volubile e persa in un mondo così distaccato dalla realtà da non aver idea di quanto accadeva intorno a lei, figurarsi in un Paese all’apparenza così lontano era esattamente quello di cui aveva bisogno: qualcuno che gli desse calore e si prendesse cura di lui, che gli facesse credere che al suo ritorno avrebbe trovato unimmutata società magica, in cui tutto si era cristallizzato nel momento in cui se ne era andato.

Quando finalmente aveva rimesso piede nella terra natìa, a guerra finita, nel freddo novembre del 1981, con moglie e figlia al seguito, aveva dovuto fare i conti con una realtà frantumata che aveva rotto la bolla in cui si era nascosto. 

«Prenditi cura di lei», gli aveva ordinato suo padre, stanco e morente, riferendosi a sua sorella, resa folle dal dolore, che quelle poche volte che gli parlava lo faceva per urlargli contro oscenità contro i Mangiamorte che le avevano ammazzato il marito. A Hyacinth non era rimasta altra scelta che rinchiuderla nel cottage dei Parkinson al nord, nelle Ebridi. 

Quando il suo idillio amoroso si era concluso, lasciando il posto all’amarezza e al disprezzo, non aveva posto obiezioni a un divorzio chiesto tra lacrime e strilli, per proteggere se stesso e la sua bambina da quella che riteneva la pessima influenza materna: la frivolezza e la spensieratezza di sua moglie, che tanto lo avevano attratto, erano, in ultima analisi, i suoi peggiori difetti. Ingabbiata in una statica società che non aveva nulla a che fare con la realtà in cui era cresciuta, disgustata dai ricevimenti dell’elite purosangue e dai rapporti che era costretta a intrattenere con quelli che non aveva paura di additare come criminali, sua moglie rischiava di trasformarlo in un emarginato sociale.  Piuttosto che segregarla nelle sue proprietà, aveva preferito lasciarla andare con la promessa che non sarebbe mai più tornata.

Sedici anni dopo, il ritorno del Signore Oscuro non era più soltanto una pazzia partorita dalla mente contorta di quel Potter e supportata da Silente: era una realtà a cui nessuno poteva più sperare di sottrarsi. E Hyacinth, che pure non aveva mai conosciuto l'ira di Lord Voldemort, poteva perfettamente immaginarsi cosa sarebbe accaduto a qualcuno che aveva per ben due volte rifiutato le sue lusinghe. 

Quando si tolse la vita, impiccandosi volgarmente alla babbana si disse che lo stava facendo per proteggere Pansy, il suo unico orgoglio, il suo più grande tesoro, che avrebbe dovuto fare i conti ancora a lungo con il cognome che portava e a cui forse avrebbe risparmiato dall'umiliazione di un padre codardo che cedeva sotto il peso della pressione del lato oscuro. 


 
***

 
Incredibile! Le scandalose nozze segrete di Draco Malfoy!

di Rita Skeeter

Mi trovavo al Ministero, pronta come sempre a cercare la verità, e soprattutto materiale per il mio ultimo libro-inchiesta sui Malfoy (“Vittime o carnefici?”, disponibile nel prossimo autunno nelle migliori librerie), quando mi sono imbattuta in un interessantissimo certificato di divorzio, accuratamente nascosto sotto una pila di scartoffie prive di valore. A quanto risulta, il giovane Malfoy è stato legato, dall’aprile del 1998 al marzo del 2000, a Pansy Parkinson, che come molti sapranno non ama la vita pubblica, per poi unirsi, appena un mese dopo, alla sua attuale moglie, Astoria Greengrass. La famiglia Parkinson… di più a pagina 4.


Pansy lanciò il giornale dall’altro lato della stanza, schiumante di rabbia. Draco le aveva garantito che nessuno avrebbe mai scoperto nulla, le aveva promesso che sarebbe riuscita a vivere senza doversi preoccupare di sconosciuti che ficcanasavano nel suo passato e nel suo dolore, le aveva detto che avrebbe protetto la sua dignità. Non sapeva nemmeno perché gli avesse creduto: le aveva ormai dimostrato più e più volte quanto non fosse affidabile, quanto poco gli interessasse davvero di lei. 

Era stato probabilmente un ultimo tentativo, disperato, di illudersi che forse l’aveva amata davvero, in passato, prima di lasciarsela alle spalle senza troppi rimorsi. Un inconscio, ennesimo cullarsi nella propria stupidità per evitare di fare quotidianamente i conti con una realtà che era stata già da tempo costretta ad accettare. 

E adesso quella maledetta Skeeter l’additava come una libertina dal passato problematico, che aveva sposato Malfoy sicuramente per salvarsi dall’esilio sociale che le sarebbe spettato dopo il suicidio di suo padre, avvenuto nella primavera del 1997. 

«Incendio.», ordinò, puntando la sua bacchetta verso il giornale, guardando con cupa soddisfazione le fiamme divorare il volto compiaciuto della giornalista, nell’angolo a destra.

«Pansy, mia cara-», la chiamò sua zia, entrando nella stanza. «Oh, Merlino!», esclamò, osservando il mucchietto di cenere ai suoi piedi, «Che disastro!»

Se avesse ancora avuto una bacchetta, forse sarebbe stata lei stessa a far evanescere i resti di quel pattume, invece si limitò a chiamare a gran voce uno dei suoi Elfi domestici affinché facesse sparire tutto.

«Cosa c’è?», le chiese brusca, mentre Dilly si affaccendava tra di loro.

«Pensavo che dovremmo chiamare un giardiniere per potare quei cespugli di biancospino, finiranno per bloccare l’ingresso.»

Pansy scrollò le spalle: per quel che la riguardava, avrebbero potuto anche ingoiare l’intera casa. Eppure si sentiva stanca, stanca di dover guardare quelle piante che continuavano a fiorire e crescere rigogliose, mentre lei aveva perso l’unica persona che l’avesse mai resa felice ‒ e più che la delusione che Draco le aveva afflitto, la feriva la felicità che aveva assaporato, la consapevolezza che le sarebbe stata per sempre negata. Era forse giunto il momento di tagliare, nettamente, con il suo passato ‒ con chiunque avesse deciso di piantarli, quei cespugli di biancospino, con chiunque avesse deciso che sarebbero stati causa della sua infelicità. 

«Non ce n’è bisogno. Me ne occuperò io.»


 
***


Se avesse potuto scegliere, adesso Pansy non si sarebbe trovata sulle poltroncine dell’aula di Divinazione: era una materia stupida, e la loro insegnante sembrava ancora più stupida, e quasi si pentì di non aver seguito Daphne al corso di Antiche Rune. Draco però voleva seguire Divinazione, e voleva seguire Cura delle Creature Magiche e quindi Pansy non ci aveva pensato due volte prima di andare con lui.

La luce filtrò lieve dalle persiane tirate, e illuminò il volto stralunato della professoressa Cooman, che farneticava di occhi interiori e puzzava di decotti medicinali e alcool. Si sporse verso Draco per farglielo notare, lui la ricompensò con un verso di scherno.

«Bene, ragazzi.», iniziò la professoressa, agitando la bacchetta affinché una teiera volasse nella loro direzione e riempisse le variopinte tazze scheggiate di fronte a loro, «Quando avrete finito il vostro tè, scambiatevi la tazza con il vostro compagno e provate a scorgere segni del loro avvenire. Potrete trovare e indicazioni nei primi capitoli del libro.»

Per un po’ non ci fu altro rumore che quello prodotto dalle tazze, poi cominciò un frusciare di pagine che segnalava che molti avevano già iniziato l’assegno. Pansy spinse la sua tazza, ormai svuotata, tra le mani di Draco, mentre lui, riluttante, le cedette la propria.

Cercò di vedere una forma nel mucchietto di foglie adagiate sul fondo, ma proprio non ci riuscì. L’aveva detto, lei, che era una materia stupida. Scrollò le spalle: si sarebbe inventata qualcosa che potesse rendere felice Draco, come dirgli che nella prossima partita di Quidditch avrebbe catturato immediatamente il boccino, oppure che avrebbe ricevuto un Eccezionale in Pozioni. Draco non stava nemmeno guardando la sua tazza, ma si sporse oltre le spalle di Goyle per dirgli che probabilmente sarebbe caduto dalle scale scendendo dalla botola.

Pansy aveva appena iniziato a raccontargli di vittorie di Quidditch e dispetti riusciti, quando la professoressa, impaziente, le strappò la tazza di mano. Pansy emise un verso di disappunto, ma non si lamentò: Draco non la stava ascoltando.

«Ragazza mia, vedi», la esortò, indicando le foglie, «devi aver confuso la leggera oscillazione di questa curva con una retta. Non ci siamo proprio!», esclamò, attirando l’attenzione dell’intera classe. Le sue guance si infiammarono mentre i risolini dei compagni le risuonavano nelle orecchie. «Il futuro di questo giovanotto è segnato da un’orribile ferita. Brutale. Possibilmente mortale.»

Gli occhi di Draco brillarono divertiti mentre Pansy emise un gemito orripilato. La professoressa fece poi cenno a Draco di darle la sua tazza. 

«Ah! Mhh, sì, be’- certo, certo, anche se forse- ma ovviamente- eppure non è chiarissimo-», borbottò, spostandosi verso la luce per osservare meglio le foglie. «Molto interessante.», le annunciò poi, restituendole la tazza. «Sebbene purtroppo il mio occhio interiore non riesca a scorgerne il motivo, è nel tuo interesse, mia cara, che tu mantenga le distanze dall’uomo avvolto nel biancospino. Hai idea di chi sia?», le chiese poi, sporgendosi verso di lei.

Pansy si dimenò, a disagio. Draco, accanto a lei, si era irrigidito. 

Ancora questa storia del biancospino. Dopo il burrascoso divorzio dei suoi genitori, di cui non ricordava poi molto, sua madre, che si apprestava a scomparire per sempre dalla sua vita, le aveva lasciato in dono un biglietto che recitava: “Attenta al biancospino”. Pansy non ci aveva mai dato troppo peso, ritenendola l’ennesima stranezza di sua madre, o forse un bonario invito a non cadere più nei cespugli irti di spine che circondavano le tenute dei Parkinson, abitudine che aveva da bambina e che le aveva lasciato non poche cicatrici. Forse significava davvero qualcosa forse sua madre stava cercando di proteggerla.

«Che mucchio di sciocchezze!», protestò, quando la Cooman dichiarò terminata la lezione. «Avremmo fatto molto meglio a scegliere qualche altro corso. Non pensi, Draco?»

Draco, immusonito e pensieroso, borbottò un “sì”, che non sembrava sincero. Non le rivolse la parola per il resto della giornata, chiuso in elucubrazioni per lei inaccessibili. 

Il giorno seguente, avrebbero seguito la prima lezione di Cura delle Creature Magiche e Fierobecco, l’ippogrifo, gli avrebbe squarciato l’avambraccio.


 
***


Pansy passeggiava per le strade assolate di Marsiglia. L’estate era quasi giunta al termine, ma lì sembrava dover durare per sempre quasi non avrebbe voluto tornare a casa, in Scozia, ma suo padre odiava viaggiare e odiava la Francia, quindi si ritenne fortunata per la stagione che le era stata concessa nelle tenute materne: le piacevano i campi sterminati di lavanda, l’aria che odorava di salsedine, la joie de vie, che non sapeva bene cosa fosse, l’aveva sentito dire una volta da sua madre, che in Provenza c’era una joie de vie che mancava nel loro lugubre maniero e Pansy davvero non capiva cosa fosse, ma era sicura che sua madre avesse ragione. 

Era felice, mentre piroettava intorno ai suoi genitori, facendo gonfiare la ruota della sua gonna, così felice che improvvisamente una manciata di piccole violette cominciò a danzare sul palmo della sua mano. Le mostrò orgogliosa ai suoi genitori: nelle strade della Marsiglia magica, nascosta all’occhio dei Babbani, nessuno faceva caso alla magia spontanea di una bambina. Eppure, mentre sotto lo sguardo orgoglioso di suo padre le violette si afflosciavano, la raggiunse una risata argentina. Pansy si guarda intorno, confusa.

«Ici, ma chère.», la chiamò una donna, sporgendosi dalla sua bancarella. Aveva il volto benevolo e senza età, e decine di anelli che brillavano come stelle intorno alle sue dita. Pansy la fissò incantata. «Posso leggere il tuo futuro, se vuoi.»

Suo padre, che non sembrava aver capito poi molto, di quella conversazione, osservò con disappunto sua madre mentre la sospingeva sorridente verso l’indovina. Pansy, incerta, le consegnò le violette che le stava indicando. 

«Non c’è niente di meglio di una magia spontanea per scoprire il futuro del suo autore», spiegò, disponendo i fiori dinanzi a lei. Pansy ascoltò distrattamente suo padre borbottare su tecniche di Divinazione sconosciute e poco affidabili, che di certo non sarebbero state approvate dalla Comunità Magica inglese. Sua madre sospirò malinconica e le accarezzò i capelli.

Pansy non stava davvero badando a loro: mentre i suoi occhi inseguivano avidi le dita dell’indovina, che sistemava i petali e maneggiava boccette di cristallo all’apparenza delicatissime, non poté fare a meno di domandarsi cosa le avrebbe detto. Quanto lontano sarebbe riuscita a vedere? Avrebbe ricevuto i regali richiesti per il suo compleanno? Avrebbe visto Draco, una volta tornata a casa? Avrebbe giocato finalmente insieme, o sarebbe stato ancora costretto a letto dalla febbre? 

Le piaceva tanto, Draco. Le raccontava sempre delle storie buffe e giocava con lei. Non le aveva mai detto che era brutta come un carlino, al contrario di Daphne che glielo ripeteva come un pappagallo starnazzante. Pansy non pensava che i carlini fossero brutti, eppure avrebbe preferito di gran lunga avere i tratti chiari e delicati di sua madre. Si era già quasi dimenticata della donna di fronte a lei, quando quest’ultima cominciò a borbottare incantesimi in un francese incomprensibile. La mano di suo padre strinse, premurosa, la sua spalla.
Improvvisamente le sue violette presero fuoco e si accartocciarono tra le fiamme, lasciandosi alle spalle un filo di fumo, immediatamente portato via dal vento, e una triste montagnetta cinerea. Il sorriso sul volto dell’indovina si era congelato. La fissò indecisa, le lunghe unghia appuntite tamburellarono su uno zigomo affilato. Pansy non era più interessata a quello che aveva da dirle. Faceva caldo. Voleva tornare a casa.

«Diffida, ma chère, dall’uomo avvolto nel biancospino. Sarà la tua rovina.», le annunciò, misurando attentamente le parole.

Pansy non aveva capito bene cosa volesse dirle, e non le interessava davvero. Non capì perché sua madre si fosse scaldata tanto e chiedesse spiegazioni. Lei batté i piedi e ordinò a gran voce che se ne andassero. Suo padre non se lo fece ripetere, lasciando un paio di galeoni dorati accanto alle violette incenerite.

Non le piaceva, il biancospino. I cancelli della sua tenuta in Scozia, dove adesso non vedeva l’ora di tornare, erano avvolti nel biancospino. C’erano dei fiori bellissimi, certo, e suo padre le aveva insegnato che potevano avere grandi proprietà curative, ma l’ultima volta che aveva provato a coglierne uno si era ricoperta di graffi. Sull’avambraccio portava ancora delle piccole cicatrici biancastre, a ricordo dell’accaduto. Era successo mesi fa.

L’interesse di Pansy per il biancospino si era acceso e si era spento nell’arco di un pomeriggio. E aveva imparato, a sue spese, che non valeva la pena cogliere qualunque cosa fosse protetta dai suoi rami crudeli. 











Note dell’autrice: il tema che avevo scelto è quello del divorzio consensuale (che sicuramente ho forzato un po’): alla fine, ecco, divorziano consensualmente, anche se nessuno dei due avrebbe davvero voluto farlo. Mi sono presa diverse libertà con la storia della famiglia di Pansy, perché nel canon non c’è assolutamente nulla a riguardo (e tra i Mangiamorte non è mai nominato un Parkinson, cosa che mi ha dato lo spunto per descrivere una famiglia Purosangue non allineata alle idee di Voldemort). Il tema del divorzio corre poi anche per i genitori Pansy – che forse hanno un divorzio molto più consensuale di quello della figlia.
Il tema del biancospino, ricorrente nella storia, nasce dalla dichiarazione della Rowling per cui il legno di biancospino è adatto alle persone che attraversano periodi turbolenti: Draco, con tutti i problemi che ha avuto e causato durante la guerra, ha praticamente trascinato Pansy giù con sé. Inoltre, i fiori di biancospino hanno grandi proprietà curative (per cui Draco riesce, in un certo senso, a salvare Pansy dalla sua ora più buia) ma il biancospino è anche noto per essere pieno di rovi irti di spine (motivo per cui Pansy non riesce mai davvero a raggiungere Draco e per cui quest’ultimo non può fare a meno di ferirla).
  
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