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Autore: Bethesda    18/07/2020    1 recensioni
Grazie a Snehvide per l'idea/prompt
[...]
Non era più come prima di Mary, quando litigavamo ad ogni piè sospinto.
Era come se avessimo ricominciato da capo, quando con una semplice frase ero in grado di stupirlo e lui con un sussurro arguto mi strappava un sorriso o mi riportava alla realtà.
Mi sentii tornare a più di dieci anni prima, quando la gloria era ancora lontana ma non mi importava, perché mi bastavano gli occhi di Watson, ricchi di meraviglia e ammirazione, per capire che sì, stavo facendo un buon lavoro e che adoravo il fatto che fosse lui ad assistere.
Vi caddi nuovamente con tutte le scarpe.
Ero tornato con l’intenzione di portare sollievo ad un caro amico, scacciando un po’ di dolore e prendendo almeno parte del suo fardello sulle mie spalle, anche senza che se ne accorgesse, e quello che accadde fu invece che me ne rinnamorai di nuovo.
[...]
Holmes torna a Londra per trovare un Watson cambiato nello spirito quanto nel corpo.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nota:

 

So che doveva essere di soli due capitoli. 

Ho mentito. 

Sarà sicuramente di quattro, quindi il prossimo dovrebbe essere l'ultimo!

Se vi sta piacendo, se avete commenti o critiche, non esitate a scrivere <3

 

 

 

 

Il vantaggio che Watson trae dallo scrivere solo e unicamente dal suo punto di vista è uno in particolare, ovvero il fatto che il buon dottore sia così in grado di nascondere parte dei suoi difetti - se tali vogliamo definirli - esacerbando quelli del sottoscritto.

 

Ora che ho io la penna in mano, posso rendermi in parte giustizia.

Il termine che ben più rappresenta il mio amico è "insofferente".

Nonostante gli anni passati a patire il caldo torrido e i tormenti della vita sul campo di battaglia, Watson, soprattutto dopo i primi anni passati a Baker Street, aveva dimostrato di mal sopportare diversi aspetti della vita di tutti i giorni.

 

Il caldo umido, in primis.

La mia propensione a suonare nel cuore della notte.

In tempi ormai antichi, non aveva nascosto di mal apprezzare il mio carattere - la nota lista con i miei difetti e peculiarità ne è la prova, ma a tal cosa si era abituato con il tempo.

I tempi di attesa troppo lunghi, per esempio nel caso di un treno in ritardo - retaggio militare forse, legato alla puntualità, ma di questo non gliene faccio cruccio.

E infine, il dover essere sotto l'attenzione medica di qualcuno.

In tal caso, mia.

 

Perché - qui lo dico, e voglio che sia chiaro - John Watson è ed è sempre stato un paziente terribile.

E certo durante quella vacanza non si rivelò da meno, deciso indubbiamente a portarmi sull'orlo dell'esaurimento, e non faccio segreto del fatto di essere una persona estremamente poco incline alla pazienza.

Watson passò i giorni successivi della vacanza a farsi rincorrere, con la promessa che avrebbe sfruttato l'unguento, e il risultato fu che spesi buona parte delle nostre mattine e serate a subire i suoi piagnistei e sbuffi quando invece evitava come la peste la terapia.

 

Ne venne fuori una specie di routine in cui lui inventava una scusa o sbottava di rabbia, per poi lasciarsi convincere in malo modo, ma con il risultato che era sempre il sottoscritto a doverlo trattare.

Ora, capirete quanto la cosa potesse essere frustrante, dacché le mie mani passavano un tempo indecoroso sulla pelle del mio amico e che non potessi fare nulla se non limitarmi a trattare le sue ferite.

 

Mi si potrebbe accusare di essere un insensibile, dal momento che la mia mente viaggiava su pensieri ignominiosi mentre il poveretto soffriva, ma in mia difesa, per me il corpo di Watson non era cambiato.

Ovviamente la malattia lo aveva debilitato e i segni erano inequivocabili, ma da che le nostre strade si sono incrociate non ho smesso per un singolo istante di pensare quanto Watson fosse incredibile e quanto il suo corpo mi piacesse, a prescindere dai danni che poteva aver subito.

Avrei baciato e adorato ogni singolo centimetro di quella pelle, se mi fosse stato concesso; avrei carezzato, curato, adorato ogni cicatrice, ogni solco, ogni imperfezione e non vi avrei trovato alcunché di sbagliato né sporco.

 

Ma non potevo, e da ciò la mia frustrazione.

Dunque mi ritrovavo fra le mani la possibilità di godere dell'oggetto del mio desiderio, ma tutto ciò che costui probabilmente notava era il mio cipiglio corrucciato che lasciava trapelare il mio malcontento.

E Watson questo lo notava, ma come sempre ne traeva le conclusioni sbagliate.

 

«Non devi farlo», mi disse una sera a passeggio, quando ormai mancavano pochi giorni al nostro ritorno a casa.

 

«Non so a cosa tu ti riferisca».

 

«Darmi quella pomata».

 

Mi interruppi nel mezzo del cammino, lasciandolo andare avanti di pochi passi prima che si bloccasse a sua volta.

 

«Watson», cominciai già sul piede di guerra. «Quando comincerai a comportarti da adulto e da professionista quale sei, smetterò di trattarti come un ragazzino, ma sino ad allora avrò l’ingrato compito di doverti rimbeccare».

 

«Non intendevo questo», disse voltandosi verso di me, le gote arrossate, e non solo per via del sole preso in quelle lunghe e pigre giornate. «Perdonami per ciò che sto per dire, ma da che ti ho confessato questa cosa il tuo atteggiamento nei miei confronti si è fatto più--»

 

Mi irrigidii.

Forse se ne accorse e forse l’espressione che ne uscì non fu certo delle più tranquillizzanti, difatti Watson si mutò.

 

«Nulla».

 

E si voltò nuovamente, riprendendo il cammino. Affrettai il passo per affiancarmici, ma non mi voltai affatto per guardarlo.

 

«Parla».

 

«È una sciocchezza».

 

«Non la ritengo tale se ti rende così».

 

«Ti offenderesti».

 

«Non più di quella volta che mi hai accusato di trattare il mio violino in modo indegno».

 

«Quella volta non mi hai rivolto parola per una settimana».

 

«Ma ti sei goduto dei meravigliosi concerti casalinghi in cui ti ho dimostrato che avevi torto».

 

«Alle due di notte».

 

«Watson, parla», lo rimbeccai, questa volta ruotando per cercare il suo sguardo, che trovai basso, intento a studiare il percorso sotto i nostri piedi.

 

 

«Ho paura che tu ti ritenga in qualche modo—responsabile di ciò che mi è accaduto».

 

Come se nulla fosse, mi sistemai meglio il cappello, un panama chiaro che ben si adattava alla serata tiepida. Aspettavo che da un’istante all’altro Watson avrebbe continuato con le sue esternazioni, ma ciò non accadde.

 

Sarebbe stato una menzogna dire che non era vero.

Non direttamente certo, ma mi ritenevo seriamente la causa principale di tutta questa sciagura, benché mi si potrebbe accusare di megalomania, ma a tutto vi è un’origine, e all’origine delle sfortune di Watson vi era il nostro incontro fra le mura del Saint Barth tanti, tanti anni addietro.

Ma mi rendevo conto che metterla in questi termini avrebbe potuto far scattare qualcosa di poco piacevole in Watson, discorsi inerenti a un periodo della nostra vita che non avevamo ancora osato rivangare nonostante gli anni vi fossero passati sopra, attenuandoli, rendendoli meno taglienti.

E ben lo sapevo che Watson non era uno stupido, dacché mai avrei voluto un uomo meno brillante al mio fianco per accompagnarmi, ma fingere di non rendermi conto quanto lui stesso fosse stato colto dai miei stessi pensieri era stato un modo per ignorarli e posporre una discussione che prima o poi sarebbe certo avvenuta.

 

E a quanto pare il buon dottore aveva deciso che tale avvenisse fra le placide colline del Sussex, a poche centinaia di metri di distanza dalla nostra pensione, ma in tutta sincerità tutto ciò di cui necessitavo in quel momento, prima di poter fare alcunché, era di bere assolutamente qualcosa.

 

Così restammo in silenzio.

Watson non osò dire altro, abituato ai miei silenzi, e quando giungemmo presso la pensione si diresse verso la propria stanza, scusandosi, augurandomi la buona notte.

Io, dal canto mio, non avevo intenzione certo di salutarlo, ma necessitavo di qualcosa che mi sostenesse.

 

Ottenni una bottiglia di whiskey decente dalla padrona di casa e due bicchieri, e mi incamminai al piano di sopra, lento, sentendo tutto il peso delle mie colpe sulle caviglie.

 

Preferivo di gran lunga affrontare criminali e assassini di ogni risma piuttosto che simili discussioni.

Perché Watson sapeva essere sfiancante assolutamente senza volerlo.

La sua necessità di essere sempre giusto e di non far male agli altri era tanto meravigliosa quanto difficile da gestire.

 

Bussai.

 

La risposta fu immediata e quando entrai Watson era in piedi, la camicia di lino sbottonata al petto e le maniche arrotolate ai polsi. Era intento ad aprire la finestra, lasciando che la brezza esterna smuovesse le tende e raffreddasse l’aria ancora calda della giornata.

Non dissi nulla, mi limitai a sollevare il bottino come a chiedere se volesse unirsi a me. Si limitò ad un cenno di capo, andando ad accendere la fioca lampada che si trovava sullo scrittoio, unica fonte di luce insieme ai primi raggi di una luna nascente.

 

Versai ad entrambi un bicchiere e quando glielo porsi ci sedemmo ai lati opposti della stanza, in silenzio.

 

I silenzi con Watson sono sempre stati per me una fonte preziosa ed era raro che fossero come questo, ricchi di non detti ed imbarazzo.

Avremmo voluto parlare entrambi, lo sentivo, ma era come una partita a scacchi ed entrambi stavamo valutando le nostre mosse.

O, perlomeno, io di certo.

 

Watson non finì il suo bicchiere, ma inaspettatamente, senza che dicessi nulla, cominciò a sbottonare il resto della camicia, ponendola garbatamente ai piedi del letto, restando a petto nudo.

Lo fece in un modo tanto silenzioso, tanto naturale, che mi scoprii eccessivamente intento ad osservarlo e con la mano eccessivamente stretta intorno al bicchiere.

Ingollai un sorso ma non distolsi mai lo sguardo.

 

Poi capii cosa volesse fare quando in mano già aveva il barattolo di pomata aperto.

 

Mi alzai istintivamente, raggiungendolo piano, come ci si avvicina ad un animale selvatico.

Lui aveva già cominciato a spalmare su una porzione di petto la lozione ma lo fermai, andando delicatamente ad afferrargli il polso.

Era la prima volta da che lo avevo intimato di curarsi dall’inizio di quella vacanza che lo faceva da sé, e mi sentì irrazionalmente tirato fuori.

 

Mi inginocchiai di fronte a lui senza alzare lo sguardo, limitandomi a prendere il barattolo per andare a continuare da dove lui stesso di era interrotto.

Silenziosamente, con delicatezza, come avevo sempre fatto per due volte al giorno da che eravamo lì, ripresi il mio lavoro certosino, lasciando che la crema coprisse ogni singolo centimetro di pelle, affondando bene i polpastrelli per far assorbire quanto più possibile il tutto.

 

«Dunque ho ragione», mormorò lui in un soffio.

 

Non gli risposi.

 

«Ti ritieni responsabile di questo».

 

Mi fermai giusto un attimo, la mano ancora ferma sul suo pettorale destro.

 

«Come potrei non farlo?»

 

«Holmes», riprese, lasciandomi però continuare con la mia opera, «Non sei tu che mi hai fatto entrare in quel bordello. Non mi hanno costretto con una pistola alla tempia. È stata una scelta mia. Avevo bisogno--»

Si bloccò, incapace di trovare per un attimo le parole, ma trovò suggerimento nel mio tocco. Con una mano andò a cercare la mia, quella intenta a trattarlo, e se la spinse ancora di più addosso, ricoprendola con il proprio palmo, facendomi sentire in modo ancor più evidente la cassa toracica, il battito ritmico – accelerato - del suo cuore, il suo respiro.

 

«Avevo bisogno di questo».

 

Mi lasciò andare dopo lunghi, interminabili secondi.

Io non accennai a voler sollevare lo sguardo.

 

«Se Mary fosse stata ancora viva forse lo avrei fatto comunque, in futuro. Forse non con quelle donne, no. Con loro no. Ma quel ragazzo. Lui è stato diverso».

 

Mi bloccai, e per un istante mi colse un dubbio.

Che il ragazzo non fosse stato un semplice passatempo.

Dopotutto vi era tornato addirittura due volte, rischiando grosso per altro, viste le implicazioni che vi sono nel cercare compagnia di altri gentiluomini.

 

«Era magro, asciutto. Sarebbe potuto sembrare denutrito, ma nascondeva una muscolatura invidiabile. Aveva i capelli corvini, gli occhi chiari. Almeno quindici anni meno di me».

 

Questa volta sollevai lo sguardo.

 

«Stai tentando di farmi ingelosire?», sputai con veleno, la voce bassa.

 

«Affatto».

 

«Non capisco dunque perché soffermarsi su certi particolari. Soprattutto per dirli al sottoscritto».

 

«Perché mi mancavi. Come l’aria. In tutti i modi possibili».

 

Me lo disse con una dolcezza tale che rimasi inebetito.

 

«Ho incrociato decine di ragazzi e uomini ben più avvenenti di lui, persino più interessanti, ma quel ragazzo aveva qualcosa—forse era il suo portamento, forse il fatto che somigliasse così tanto a te fisicamente quando ti ho conosciuto. Mi ha fatto impazzire. Letteralmente. Cercavo in lui ogni singolo aspetto che potesse ricollegarsi a te, anche insignificante, tanto che molti incontri sono stati completamente casti. Ho tentato di plasmarlo. Entrambe le notti che abbiamo passato insieme ho fatto sì che si desse la tua colonia, anche solo per vivere un poco di più nell’illusione. E no, non guardarmi così. Non hai idea di quanto in basso mi sia spinto quando sentivo la tua mancanza, e questo ancor prima della tua finta dipartita. Ma ne avevo bisogno. O perlomeno, lo credevo. Dopo l’ultimo incontro, ho dovuto dirgli di non tornare. Mi stavo facendo male da solo e in quanti più modi possibili. Ho interrotto per la mia stessa sanità mentale».

 

Deglutii, ma rimasi immobile, e ripresi a parlare quasi con timore.

 

«E questo secondo te dovrebbe non rendermi colpevole nei tuoi confronti?»

 

«Sono io il fautore delle mie scelte, Holmes».

 

«Ti ho dato la spinta».

 

«Tu eri troppo soggiogato dalla droga per capire quale fosse la cosa giusta da fare».

 

«Sposare Mary non era la scelta corretta».

 

«Nemmanco continuare a restarti accanto per vederti svanire ogni giorno di più, dose dopo dose. Entrambi abbiamo fatto i nostri errori. Ne paghiamo ancora lo scotto. Ma di tutte le cose di cui ti posso accusare, Sherlock, la malattia non è una di queste».

 

Ci guardammo in silenzio.

Era la prima volta che una discussione simile non sfociava in grida o ingiurie, la prima volta che la affrontavo senza traccia di cocaina nelle mie vene.

Mi domandai una cosa, e lo feci perché nell’enfasi del discorso avevo srotolato la schiena, sollevandomi un poco per avvicinarmi di più al volto di Watson, per cercare di guardarlo occhi negli occhi anche da quella posizione sfavorevole.

 

E mi domandai quando fosse avvenuto il nostro ultimo bacio.

Riuscii a fare un rapido, dolorosissimo calcolo, e mi resi conto che si trattava di dieci anni.

La sera prima del suo matrimonio.

 

Non fu un bacio dolce, non fu un bacio d’amore, non fu un bacio di addio.

Lo dettarono la rabbia e la quantità di alcol che avevo bevuto.

Quella sera ci aggredimmo a vicenda, a parole e a morsi, e ricordo ancora che il mio unico pensiero lucido fu “Voglio che tu domani su quell’altare mi senta ancora addosso”.

 

Non ve ne furono mai più altri.

L’ultimo bacio che avevo strappato a Watson era di vendetta meschina.

 

Sarebbe sciocco dire che lo feci senza pensare, perché sapevo benissimo cosa stessi facendo, ma la realtà era che per una volta avevo deciso di ignorare le conseguenze, per quanto dolorose potessero essere.

Lasciai cadere a terra il barattolo di pomata e con un gesto rapido mi sollevai un poco sulle ginocchia, quanto bastava per arrivare all’altezza giusta, quella delle labbra di Watson, che reclamai dopo un tempo decisamente troppo, troppo lungo.

 

Watson sapeva di whiskey, della cera che usava per i propri baffi, di pelle cotta al sole.

Watson aveva le labbra appena appena inumidite, screpolate dal caldo dei giorni precedenti, ma piene ed avvolgenti, e mi accolsero come avevano fatto altre mille volte.

Watson non si mosse per molto, troppo tempo, e io pensai che ormai era troppo tardi e avrei continuato a baciarlo finché mi avesse concesso di farlo.

 

Si separò giusto un istante e il mio cuore gemette di fronte a quel gesto, ma non mi scacciò. Si limitò ad allontanarsi giusto di un fiato per guardarmi negli occhi con uno sguardo che lasciava trasparire quanto fosse combattuto.

Ero convinto che avrebbe messo un freno a tutto, ma un istante dopo era nuovamente sul sottoscritto, le mani umide di crema sul bavero della mia giacca per tirarmi a sé mentre io mi meravigliavo del fatto che le gambe non avessero ancora ceduto.

Difatti mi costrinsi a distenderle, e con un impeto, prima ancora che potessi rendermene conto, ero sul mio Watson a cavalcioni, entrambe le mani a stringergli le ciocche chiare per impedirgli di sfuggirmi nuovamente anche solo un istante, mentre le sue braccia – gioia! – si trovavano avviluppate al mio busto.

 

Volli recuperare anni di desiderio e frustrazione e per farlo il fiato mi venne meno, ma respirare mi importava ben poco in quell’istante. Desideravo solo e unicamente quell’uomo e non avrei perso un attimo di più.

 

Sentivo le dita di Watson stringere con violenza il tessuto della mia camicia e la sua pelle nuda andò più e più volte a sfregare contro di questa, ma poco vi prestai attenzione perché la mia mente era tutta concentrata su quella bocca che tanto avevo agognato.

Tuttavia, fra un sommesso mugolio ed un altro, sentii sfuggire un altro verso, ben diverso.

Un gemito di dolore.

 

Mi separai da lui, comprendendo bene da dove venisse.

 

La pelle di Watson ormai era sensibile a qualsiasi tipo di contratto ed attrito, e con i bottoni della mia camicia ero andato a graffiare la cute già martoriata.

Abbassai giusto un istante lo sguardo per controllare il danno, deciso ad essere più delicato, ma quando feci per tornare ad impossessarmi di lui venni bloccato.

 

«Holmes, no».

 

Mi congelai e cercai subito i suoi occhi.

Watson mi guardava con sguardo rammaricato, triste ma risoluto.

 

«Non posso».

 

Quelle parole suonarono come macigni sulla mia testa, e ammetto che mi comportai in modo sconsiderato, spostando le mani dalle sue ciocche al suo volto, carezzandolo con i polpastrelli.

Dio, risultai indubbiamente pietoso.

 

«John, te ne--»

 

«Guardaci», disse con tono mesto. «Guardami», ripeté, abbassando lo sguardo sul proprio petto.

«Cosa ne può venire di buono?»

 

Non cercai la sua pelle butterata e dolorante, non ne avevo bisogno. Avevo già imparato ogni sua peculiarità e ormai mi era familiare.

 

«Non mi importa».

 

Inaspettatamente, mi scollò per le braccia con violenza, come si fa con un folle per tentare di ridargli un poco di senno.

 

«Non dire idiozie! Certo che ti importa! Lo sai cosa mi accadrà, vero? Lo sa cosa mi succederà prima o poi? Comincerà un dolore incessante, che non mi lascerà scampo, che probabilmente mi porterà o ad imbracciare la pistola o la siringa per darmi pace. La malattia mangerà il mio volto, le cartilagini, colpirà le ossa e ogni singolo organo sino a rendermi un reietto costretto a passare le giornate in un angolo per fuggire alla vista altrui. E in tutto questo, Sherlock, non conti una cosa, e se invece vi hai pensato sei ancora più uno stolto, e da te mai me lo sarei aspettato».

 

La morsa si allentò, il suo sguardo di fece acquoso.

 

«Non posso toccarti. Non sarà mai come un tempo. E Dio sa quanto voglia riaverti».

 

Nella mia testa vorticavano soluzioni, idee e frasi di ogni risma, ma non volli esprimerle.

Mi limitai a baciarlo di nuovo, senza incontrare opposizione.

Fui delicato e breve, e quando mi discostai Watson stava cercando qualcosa nel mio sguardo, forse pentimento, ma non ve ne trovò.

 

Era vero.

Qualora avesse voluto concedermi l’onore di esser più di un semplice collega, coinquilino e amico, non avremmo mai potuto fare alcunché, tale era la contagiosità della malattia. Non avevamo nemmanco la certezza che anche solo baciarsi fosse sicuro.

Ed era anche vero che il destino di Watson fosse segnato.

La letteratura parlava anche di latenze pari a vent’anni, ma la maggior parte in un lustro tendeva a sviluppare gli aspetti peggiori della malattia.

Era come giocare d’azzardo contro tutto.

 

Parlare di cure sperimentali, di cure future, di attese, era da irresponsabili e decisamente poco razionale, non da me, così non lo feci, perché io stesso non credevo che da lì a poco qualcosa sarebbe cambiato.

 

«Se pensi», cominciai, «che basti così poco per farmi desistere, Watson, forse non mi conosci davvero così bene come affermi. Se anche non volessi più sfiorarmi con un singolo dito da qui all’eternità, a me andrebbe bene. Ma ho già fatto tanti anni fa l’errore di scacciarti da me, e per ragioni ben più insensate. Non farò una cosa simile questa volta, di ciò puoi esserne certo, e se mi concedessi anche solo l’onore di starti accanto quando il dolore diventerà insopportabile o quando avrai bisogno di chetarlo, allora ne sarà valsa la pena. Ma non dirmi che non posso e che è insensato».

 

Mi fissò a lungo, immobile.

Ero ormai certo che mi avrebbe scacciato.

 

«Finirà in tragedia», sospirò infine, rilassando le spalle.

 

Per quanto la situazione fosse orribile, non potei esimermi dal lasciarmi sfuggire un sorriso mentre avvertivo le mani di lui carezzarmi delicatamente le braccia.

 

«Farò tutto il possibile perché ciò non accada».

 

 

 

   
 
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