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Autore: heliodor    19/07/2020    1 recensioni
Valya sogna di diventare una grande guerriera, ma è solo la figlia del fabbro.
Quando trova una spada magica, una delle leggendarie Lame Supreme, il suo destino è segnato per sempre.
La guerra contro l’arcistregone Malag e la sua orda è ormai alle porte e Valya ingaggerà un epico scontro con forze antiche e potenti per salvare il suo mondo, i suoi amici… e sé stessa.
Aggiunta la Mappa in cima al primo capitolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Ferrador
 
Valya controllò per la terza volta che la corda fosse bene assicurata al carro. Al capo opposto, c’era Bel che li seguiva mansueto.
Il cavallo si era limitato a lanciare un debole nitrito e sembrava avere accettato il suo nuovo ruolo di cavallo di riserva.
“Però si dovrà rendere utile” aveva detto suo padre.
Valya si era accigliata e poi allarmata quando lo aveva visto caricare i corpi di Glem e Perry sulla schiena di Bel.
“Perché non li lasciamo qui?” gli aveva chiesto.
“Qualcosa mi dice che portarceli dietro per un po’ potrebbe essere una buona idea.”
“Ma li deve portare per forza Bel?”
“Volevi che li sistemassi sul carro? Magari vicino al giaciglio sui cui dormi, così il tuo amato cavallo farà meno fatica?”
Valya aveva sbuffato esasperata.
Lui aveva riso prima di far schioccare le redini.
Il viaggio era ripreso e si erano lasciati alle spalle le Vecchie Pietre.
Ogni tanto Valya guardava indietro. “E se ci attaccassero di nuovo?”
“Non credo che Marden ci riproverà.”
“Secondo te li ha mandati lui?”
“O così o ci sono venuti da soli. In ogni caso nessuno li seguirà quando non li vedranno tornare.”
“Come fai a saperlo?”
“Il codice dei rinnegati.”
Valya si accigliò.
“Non conosci il codice?” Suo padre scosse la testa. “Come potresti?”
“I rinnegati hanno un codice?”
Lui annuì.
Valya stava per chiedergli di quel codice, quando un riflesso del sole attirò la sua attenzione verso l’orizzonte. La mano di suo padre corse alla mazza ferrata appoggiata tra i piedi.
“Chi sono?” domandò scorgendo i tre cavalieri avanzare a galoppo verso di loro.
“Non lo so” rispose suo padre socchiudendo gli occhi.
“Altri uomini di Marden?”
“Direi di no. Vengono dalla parte opposta rispetto a Vecchie Pietre. Rimani nel carro. Riesci a stare zitta per un po’?”
Valya si trasferì in mezzo alle casse e ai sacchi. In un angolo avevano gettato la balestra di Glem. Il colpo di scudo che gli aveva dato l’aveva danneggiata e suo padre non aveva trovato il tempo per ripararla, sempre che fosse possibile.
I tre cavalieri rallentarono quando giunsero a una cinquantina di passi di distanza dal carro, per poi avanzare al piccolo trotto.
“Io vi saluto” disse suo padre alzando un braccio.
Da vicino, i tre cavalieri indossavano armature tirate a lucido. Sopra gli scudi legati sul fianco dei cavalli vi era una rosa rossa su sfondo azzurro.
“Io saluto te” disse il cavaliere che procedeva in testa al terzetto. Gli altri due avevano visi giovani, mentre sul suo si scorgevano le rughe e la barba era spruzzata di bianco. Il suo sguardo cadde sui due corpi in groppa a Bel. “Come ti chiami?”
“Simm.”
“Quella è tua figlia?”
“Purtroppo.”
“Trasporti uno strano carico” disse con tono calmo. “Ti spiace se i miei ragazzi danno un’occhiata?”
Suo padre scosse la testa. “Niente affatto, guardate pure.”
I due cavalieri erano già partiti. Valya li seguì con lo sguardo mentre si avvicinavano a Bel e davano un’occhiata ai cadaveri. Uno dei due sollevò la testa di Glem e fece una smorfia.
“Andate a Ferrador o siete diretti a nord?” chiese il cavaliere.
“Ferrador” rispose suo padre. “È da lì che venite?”
“Siamo solo di pattuglia” rispose il cavaliere. “Le campagne attorno alla città sono infestate dai briganti. E con le notizie che arrivano da Rodiran…”
Suo padre si accigliò. “Che genere di notizie?”
“Non lo sapete? Poco male, l’avreste sentito arrivando in città. Re Nestorin si è arreso.”
“Nestorin di Rodiran?”
Il cavaliere annuì. “Ha consegnato il regno all’orda del rinnegato.”
Malag, pensò Valya. Non possono che parlare di lui.
“Senza nemmeno combattere?” chiese suo padre.
Il cavaliere annuì grave. “Pare che l’arcistregone in persona sia andato a parlargli. Da solo. E l’abbia convinto a passare dalla sua parte.”
“Mi sembra una storia incredibile.”
“Non dirlo a me.”
I due cavalieri tornarono. “Sono Glem il Grigio e Perry” disse uno dei due.
“Che io sia dannato” disse il vecchio cavaliere. “Davamo la caccia a quei due da parecchie Lune. Sapevamo che si stavano nascondendo alle Vecchie Pietre. Ci hai reso un grosso favore, straniero.”
Suo padre fece spallucce.
“C’era una taglia di cinquecento monete su quei due.”
“Per ognuno?” fece suo padre interessato.
“Per tutti e due” rispose l’altro. “Ma è comunque una bella somma.” Tirò fuori una pergamena da una tasca e usando una matita vi scrisse qualcosa sopra. Porse il foglio a suo padre, che lo prese.
“Che dovrei farci con questo?” domandò perplesso.
Il cavaliere rimise la matita nella tasca. “È una lettera firmata da me, Zebith Abbylan. Ma tutti mi chiamano Zeb. Presentala alla tesoreria del palazzo quando arrivi a Ferrador. Il tesoriere ti consegnerà la taglia per quei due.” Fece un cenno col capo ai due cavalieri. “I corpi li prendiamo noi se non ti spiace.”
“Fate pure.”
Uno dei cavalieri sciolse la corda che teneva legato Bel al carro.
Valya saltò giù allarmata. “Non potete prenderlo” protestò.
Il cavaliere che aveva sciolto la corda le rivolse un’occhiata perplessa.
“Diglielo anche tu” disse Valya rivolta al padre.
Lui fece spallucce.
“Quel cavallo è tuo?” chiese Zeb.
“Sì” rispose Valya.
Il cavaliere trasse dalla tasca un altro foglio e vi scrisse sopra qualcosa. Quindi diede il foglio a Valya. “Porteremo il tuo cavallo nelle stalle della governatrice. Quando arrivi a Ferrador presentati con quel foglio e lo riavrai indietro.”
Valya lo fissò perplessa. Non si fidava affatto di quel cavaliere e non voleva separarsi da Bel. “Ho la tua parola di cavaliere?”
Zeb si esibì in un mezzo inchino. “Sul mio onore. Come ti chiami?”
“Valya.”
Il suo viso si illuminò. “Il nome di una Dea” disse. “Porta fortuna.”
“Non a me, visto che devo trascinarmela dietro” disse suo padre.
Valya gli scoccò un’occhiataccia.
Zeb ridacchiò. “Proseguite per questa strada. La via dei Re non è lontana. E non fermatevi troppo vicini alla strada.”
Suo padre alzò una mano. “Io ti saluto.”
“Che la tua via sia dritta.”
I tre cavalieri partirono al piccolo trotto con Bel che li seguiva docile come al solito. Valya li seguì con lo sguardo finché non sparirono dietro le basse colline vicine all’orizzonte.
Trasse un profondo sospiro.
“Non essere triste” disse suo padre ghignando. “Con quel foglio ti ridaranno il tuo fidanzato.”
“Ti odio” esclamò Valya.
 
Una mano le scosse la spalla facendola sobbalzare. La sera prima, stanca per il viaggio e la monotonia della valle che stavano attraversando, si era rannicchiata nelle coperte dopo aver sistemato il giaciglio in un piccolo spazio tra un baule e delle sacche piene di vecchie tuniche logore, trovano il sonno cullata dal lieve ondeggiare del carro.
Aprì gli occhi incrociando lo sguardo di suo padre.
“Devi svegliarmi sempre così?” chiese con voce assonnata.
“Siamo arrivati.”
Spalancò gli occhi e si tirò su per guardare. Sotto un cielo grigio e carico di nuvole, al centro della valle si ergevano le mura di una città.
Valya non aveva mai visto mura difensive, ma ne aveva sentito parlare. Anche da quella distanza erano imponenti e doveva fare uno sforzo per cercare di immaginare cosa si potesse provare a passarci accanto.
Tra poco lo saprò, si disse.
La strada che stavano percorrendo arrivava a uno dei cancelli della città, un’apertura in quel muro di pietra grigia sormontata da un arco.
Sotto di esso vide transitare file di persone a piedi e altre a cavallo su carri trainati.
Ed erano minuscole.
A volte le capitava di guardare verso Cambolt e di intravedere le persone che si muovevano per strada, cercando di indovinare di chi si trattasse solo dal modo in cui camminavano o dal luogo verso cui erano dirette.
Si stupiva di quando fossero piccole e insignificanti le persone rispetto alle case a due o tre livelli del villaggio, ma Ferrador era un altro discorso.
Le mura erano enormi e lei faticava a scorgere le persone che si accalcavano vicino all’ingresso.
“Sorpresa?” fece suo padre divertito.
Scrollò le spalle. “È grande.”
“Non tanto.”
“Ci sono città più grandi?”
“Molto di più. Taloras è tre volte più ampia e Valonde.” Fece una pausa. “Almeno dieci.”
Valya cercò di immaginare una città dieci volte più grande di quella. Avrebbe dovuto mettere una vicina all’altra dieci Ferrador.
Scosse la testa e nel farlo notò le due file di persone che sfilavano ai loro lati. Quelli sulla destra andavano verso la città e quelli sulla sinistra, molti di meno, la stavano lasciando.
Alcuni erano a cavallo e indossavano tuniche di ogni tipo. C’erano anche dei carri trainati da buoi e alcuni, pochi per la verità, da cavalli. Vide una donna attorniata da una mezza dozzina di bambini che trainava un carretto coperto da un telo e un anziano che si trascinava aiutandosi con un bastone e un sacco a tracolla buttato sulla spalla.
“Chi sono queste persone?”
Suo padre scosse la testa. “Mercanti, studiosi. O persone disperate che vengono in città per cercare ricchezza e benessere.”
“E quelli che se ne vanno?”
“Ferrador non ha abbastanza latte per sfamare tutti.”
“Come una mucca?”
Lui ghignò.
Valya sedette al suo fianco, gli occhi fissi sulle mura grigie. Avvicinandosi iniziò a notare i fregi sulle pietre, gli stendardi logori che ondeggiavano al vento e le piccole feritoie che gli arcieri usavano negli assedi per difendere le mura. C’erano anche le merlature consumate dal tempo come denti spezzati e una torre sulla quale sventolava una bandiera in cima a un’asta.
Oltre le mura si intravedeva una cupola che rifletteva il sole, ma furono le figure appese vicino al portone d’ingresso ad attirare la sua attenzione.
Erano cinque, ognuna con un busto, due gambe due braccia e una testa. Una corda le teneva legate alla merlatura delle mura, dalle quali penzolavano nel vuoto proprio sopra le teste di quelli che passavano sotto il cancello.
Ogni tanto una o due teste si sollevavano e subito dopo si riabbassavano.
“Perché appendere dei manichini alle mura?”
L’espressione di suo padre si rabbuiò. “Osservali meglio. Non sono manichini.”
Valya socchiuse gli occhi e si concentrò su una delle figure. Osservandola meglio, notò la tunica sbrindellata e. sotto di essa, la pelle violacea. La testa era voltata dall’altra parte, ma intravide lo stesso la bocca spalancata e la lingua che penzolava di fuori.
Distolse lo sguardo. “Sono persone” disse deglutendo a vuoto.
Suo padre annuì.
“Sono morte?”
“Dire di sì.”
“Come?”
“Non ne ho idea.”
“Perché le hanno messe lì?” Non riusciva a dire appese.
“Per farle vedere a tutti quelli che arrivano in città.”
“Ma cos’hanno fatto di così terribile da meritare una cosa del genere?”
Suo padre trasse un profondo sospiro. “Devono aver violato qualche legge o causato dei guai. Nelle grandi città come Ferrador succede.”
“Io credevo che mettessero le persone in prigione. O che li facessero lavorare in miniera.”
Una volta a Cambolt un commerciante di vini era stato derubato e aggredito. Il colpevole, un ragazzo di qualche anno più grande di lei, era scappato ma le guardie di Faerdahm lo avevano catturato e portato nelle segrete della fortezza, dove era stato processato e condannato ai lavori forzati nelle miniere.
“Si vede che le prigioni sono piene e le miniere esaurite” fece lui con tono spazientito.
Valya rimase in silenzio fino a che non arrivarono vicino al cancello. Qui una dozzina di guardie armate di lance e scudi indicavano a quelli in arrivo dove andare.
“I carri sulla sinistra” stava dicendo uno dei soldati. “I cavalieri sulla destra. Quelli a piedi al centro.”
La gente ubbidiva a quelle semplici indicazioni, ma quando un pellegrino che procedeva a piedi cercò di infilarsi nel passaggio dei cavalieri, venne preso dalle guardie e trascinato sul bordo della strada.
I soldati gli diedero un pugno e un paio di calci ciascuno lasciandolo lì.
Valya guardò il pellegrino finché non lo vide alzarsi e pulirsi la tunica sporca di fago e sporcizia. “Che l’Unico vi maledica” gridò all’indirizzo dei soldati, che lo ignorarono tornando al loro posto.
“Fermi voi” disse una guardia.
Valya girò la testa di scatto, incrociando lo sguardo del soldato che li aveva fermati.
Suo padre tirò le redini arrestando il cavallo e la guardia gettò una rapida occhiata sia a lui che a Valya. “Chi siete?”
“Mi chiamo Simm” disse suo padre. “E lei è Valya. Mia figlia.”
Il soldato lo ignorò continuando a guardare il carro. “Da dove venite?”
“Cambolt” disse suo padre.
“In pratica siete dei topi scappati da una fogna” disse il soldato con una smorfia di disgusto. “Perché siete venuti a Ferrador? Se non sapete lavorare non c’è posto per voi qui.”
“Sono un fabbro. Rispondo alla chiamata della regina.”
Il soldato annuì poco convinto. “La regina ti ha chiamato? Di persona?” chiese con tono ironico.
“Sì” disse suo padre. “E mi ha detto di consegnarti queste.” Da una tasca della tunica tirò fuori due monete e gliele allungò.
“Queste bastano per voi due” disse il soldato rigirandosele tra le dita. “Ma per il carro come la mettiamo?”
“Non ho molto denaro con me” disse suo padre.
“Allora dovrai lasciarlo qui” disse il soldato.
Suo padre si chinò per frugare nella sacca tra le gambe. “Forse mi è rimasta una moneta. Fammi controllare.”
“Fai in fretta, si sta facendo la fila dietro di te.”
Valya si voltò e vide che altri carri si erano allineati dietro di loro. Quando tornò a guardare in avanti, vide che la guardia era impallidita.
I suoi occhi erano fissi sull’elsa della spada che suo padre reggeva nella mano destra.
Quando l’ha presa? Si chiese. E come ha fatto a essere così veloce? Deve averla nascosta da qualche parte nel carro.
Aveva già visto quella spada un paio di volte, per caso. Ogni tanto suo padre la tirava fuori da un vecchio baule e le dava una passata sulla mola per poi rimetterla al suo posto.
Non sembrava avere niente di davvero speciale. Era una vecchia spada che stava perdendo il filo. L’unico dettaglio che ricordava era il pomolo sagomato come un uccello con le ali spiegate.
Era strano, ma non più di tante altre che gli aveva visto creare nella forgia, come quella con la testa di serpente che gli era stata commissionata da un guerriero venuto dal continente antico solo per quello.
“Quella spada è tua?” stava chiedendo la guardia.
Suo padre la teneva con il pomolo rivolto verso il soldato. “Questa? È il dono di un vecchio amico.”
“Quel falco…”
“Bello, vero? Posso passare adesso?”
La guardia annuì decisa. “Vai, vai e non creare problemi in città.”
Suo padre fece schioccare le redini.
“Sembrava spaventato” osservò Valya.
“Non sembrava. Lo era” rispose lui con tono compiaciuto. “Quasi dimenticavo.” Afferrò un secchio e lo mise davanti a Valya.
Lei lo guardò interdetta. “A che serve?”
“È una precauzione” rispose lui.
Lei lo osservò accigliata. Suo padre portò il carro oltre il cancello d’entrata, dove si apriva un’ampia piazza a forma di semicerchio dalla quale si dipartivano tre strade. Lo sguardo di Valya venne catturato dai palazzi di tre o quattro livelli che sorgevano addossati l’uno all’altro lasciando poco spazio ai pedoni per circolare. E nonostante questo, la piazza traboccava di persone. Alcuni indossavano tuniche dai colori sgargianti e stivali che andavano dal marrone al rosso accesso che una donna sembrava esibire con orgoglio.
Accanto a uomini e ragazze i cui colli erano appesantiti da collane d’oro e argento, ce n’erano altri che vestivano di stracci logori.
Alcuni sedevano agli angoli tendendo la mano dove qualcuno ogni tanto buttava una moneta senza nemmeno degnarli di un’occhiata per poi proseguire ovunque fossero diretti.
Un uomo dal ventre enorme urlava qualcosa a proposito della sua carne mentre si sbracciava per indicare le carcasse appese davanti all’entrata del suo negozio.
Una donna anziana che vestiva con un pesante saio nero tentava di fermare i passanti per invitarli a entrare nella sua bottega di tessuti preziosi.
Due ragazzini giocavano a rincorrersi sollevando schizzi di fango che ricaddero sulla gonna di una donna che li sgridò mettendoli in fuga.
Un ragazzo dal mantello di colore rosso e oro si guardava attorno con una smorfia di fastidio, come se non apprezzasse quello spettacolo.
Un vecchio conduceva un carretto trainato da un asino dall’aria stanca e il pelo arruffato. Sopra il carretto aveva ammonticchiato vecchie sedie sgangherate e pezzi dell’intelaiatura di una porta per portarli chissà dove.
Valya stava per chiedere al padre qualcosa, quando le sue narici furono aggredite dall’olezzo peggiore che avesse mai sentito, un misto di carne andata a male, verdure lasciate marcire al sole per giorni e feci che erano traboccate dal pozzo di scarico.
Si portò una mano alla bocca trattenendo a stento un conato di vomito.
Suo padre stava sorridendo. “Fa questo effetto a molti, la prima volta.”
“È un odore terribile” disse Valya tappandosi il naso con l’indice e il pollice. Aveva persino paura di respirare con la bocca.
Chissà che cosa c’è in questa aria, pensò.
“Il profumo di Ferrador” rispose lui. “Ci farai l’abitudine.”
“Mai” esclamò lei.
“Succederà. Col tempo.”
“Non pensavo che una città potesse puzzare così tato.”
“Tutte le grandi città puzzano, anche se in modo diverso. Chi ci abita da anni giurerà che è solo il suo odore, ma la verità è che non ha sentito altro nella vita che questo fetore.”
“È disgustoso.”
Ai lati della strada uno dei pellegrini si era chinato in avanti e aveva rigettato la colazione.
“C’è chi sta peggio di te” disse suo padre divertito. “Non sei andata male, per una abituata alla profumata campagna di Cambolt.”
Iniziava a rimpiangere di aver lasciato il villaggio.

Note
Scusate, ho saltato la prima parte del capitolo e nell'aggiornarlo per sbaglio l'ho cancellato :(

Prossimo Capitolo Giovedì 23 Luglio

 
  
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