Capitolo 10: Don’t lie to me
Don't you dare do that again
'Cause you did just what I said
I don't wanna be alone
Slay the demons in my head
Be my guide in these dark days
I cry out from far away
Don't, don't, don't lie to me
Don't, don't, don't lie to me
With a rope around my neck
I fight the demons in my head
Don't, don't, don't lie to me…
(“Don’t lie to me”- Moonsun)
Juan Borgia non voleva darlo a vedere, ma era molto
preoccupato per la lettera che suo padre gli aveva scritto e che gli ordinava
di uccidere il Principe Alfonso appena fosse stato possibile, simulando un
incidente. Naturalmente il giovane non aveva la minima intenzione di farlo, non
avrebbe mai fatto del male a quel ragazzo che, ogni giorno di più, diventava
prezioso per lui. Temeva, tuttavia, che Rodrigo Borgia non avrebbe atteso più
di tanto e chissà, magari avrebbe inviato, prima o poi, lui stesso un sicario
per eliminare Alfonso. Sarebbe stato nel suo stile.
Juan non poteva permetterlo. Doveva agire prima del
padre e questo non sarebbe stato per niente facile, visto che Papa Alessandro
VI era famoso per le sue doti di stratega, che erano appunto ciò che mancava al
figlio, al contrario irruente e impulsivo.
Era necessario, quindi, trovare degli alleati che
potessero aiutarlo a proteggere Alfonso e a contrastare le minacce del padre.
Per fortuna Alfonso aveva nominato Generale
dell’esercito reale Don Hernando de Caballos, che non era solo un valente
condottiero, ma anche un uomo saggio e dagli alti valori e principi. Juan aveva
avuto dei dissidi con lui proprio a causa della sua decisione di torturare
Benito Sforza per costringere sua madre Caterina ad arrendersi, ma… non era
certo troppo tardi per riconciliarsi con lui, tanto più che erano stati molto
amici in Spagna e che, adesso, il comandante spagnolo sembrava molto
soddisfatto del suo nuovo ruolo e sinceramente interessato alla protezione del
giovane sovrano di Napoli. Juan doveva solo trovare il modo di parlare a tu per
tu con lui, magari scusarsi per il suo comportamento a Forlì e chiedere il suo
appoggio… e ben presto ebbe un’idea.
Era venuto a sapere che in un grande ed elegante
palazzo appena fuori Napoli viveva una ricca e potente cortigiana, che si era
trasferita più di vent’anni prima dalla Corte degli Este di Ferrara. Era una
donna colta e intelligente, amica di molti potenti, e nel palazzo che aveva
acquistato nel Regno di Napoli ospitava artisti, poeti, diplomatici e molti
altri, ai quali offriva intrattenimento con le giovani donne che lei stessa
aveva educato. Quasi ogni sera c’era una festa a palazzo, durante la quale si
poteva godere di ogni sorta di piaceri, da cibi raffinati a vini deliziosi,
dalla compagnia di bellissime fanciulle allo stordimento dei sensi con oppio e
tabacco.
Beh, ovviamente Juan non poteva che venire presto a
conoscenza di un simile luogo, sebbene fino ad allora non vi avesse mai messo
piede; pensò subito che sarebbe stata un’occasione ideale per far conoscere a
Don Hernando altri piaceri, lussi e bellezze che il Regno di Napoli poteva
offrire e che, magari, questo sarebbe servito a legarlo ancora di più a lui e a
portarlo dalla sua parte.
Quella sera, dunque, il giovane Borgia prese
sottobraccio il comandante spagnolo e lo invitò ad unirsi a lui per una visita
a questo palazzo di delizie.
“Don Hernando” gli disse, “so che, purtroppo, abbiamo
avuto delle gravi divergenze di opinione durante l’assedio di Forlì ma adesso
voi siete qui e vi siete schierato a favore del sovrano Alfonso di Napoli.
Vorrei festeggiare con voi in un luogo di cui ho sentito parlare molto bene e
approfittare di questa serata per riconciliarci una volta per tutte.”
Don Hernando accettò volentieri, in fondo anche lui
aveva rivalutato Juan dopo averlo visto così gentile e attento nei confronti di
Alfonso ed era lieto di potersi riconciliare apertamente con il suo giovane
amico. Così i due si diressero a cavallo verso il palazzo della ricca e potente
cortigiana dove, proprio quella sera, si teneva una delle sue famose feste.
Lungo il tragitto, tuttavia, Juan volle parlare francamente con lo spagnolo,
prima che entrambi fossero travolti dal vortice dei festeggiamenti e del
divertimento: voleva essere sicuro di averlo completamente al suo fianco e
fargli comprendere fino in fondo quanto Alfonso e il Regno di Napoli fossero
vulnerabili.
“Don Hernando, avevate perfettamente ragione quando mi
avete rimproverato di essere un vile nel torturare il giovane Sforza” esordì
Juan. “Non è una giustificazione dire che mi sentivo frustrato e che non
ragionavo lucidamente per vari motivi, non avrei dovuto prendermela con un
ragazzino, ma questo l’ho capito solo dopo essere venuto a Napoli e aver
stretto amicizia con il Principe Alfonso.”
Lo spagnolo sorrise.
“Mi fa piacere che abbiate compreso i vostri errori,
mio signore” commentò, compiaciuto. “Avevo notato, infatti, un legame
particolare tra voi e Sua Maestà e penso che questo vi abbia reso una persona
migliore.”
“Non è solo per quello” riprese Juan. “Dovete sapere,
Don Hernando, che lo stesso Alfonso ha subito torture terribili quando il suo
Regno è stato invaso dai Francesi tre anni fa. Anche lui aveva solo quindici
anni, all’epoca, e Re Carlo lo fece portare nella stanza delle torture e ordinò
ai suoi uomini di straziarlo fino alla morte. Ancora peggio, volle che ci fosse
il dottore a risvegliarlo ogni volta che perdeva i sensi, così che le atrocità
e le sevizie potessero durare per tutta la notte!”
Don Hernando impallidì.
“Cosa mi dite? Ma… perché? Ho visitato quella stanza,
ho visto gli strumenti di tortura, sono cose che non farei neanche al mio
peggior nemico… Come… il Principe aveva solo quindici anni, dite?” l’uomo era
completamente sconvolto, proprio come Juan immaginava e sperava.
“Sì, era solo un ragazzino terrorizzato e fu solo
l’intervento di un Generale francese, un uomo di saldi principi come voi, a
strapparlo a quell’atroce destino. La cosa peggiore è che non c’era neanche una
minima motivazione” mormorò il giovane Borgia. Voleva toccare il cuore di Don
Hernando e turbarlo, certo, ma si rendeva conto che lui stesso era
profondamente indignato ripensando a simili efferatezze. “Re Carlo voleva solo
divertirsi… godeva nel sentirlo urlare disperato e…”
“Per l’amor di Dio, non mi dite altro, mio signore!
Quel Re francese è un mostro!” esclamò Don Hernando, sdegnato e scandalizzato.
“Ed è inaudito che nessuno abbia fatto niente per cercare di proteggere il
povero Principe, un discendente degli Aragona, un ragazzo di quindici anni! Se
non ci fosse stato quel Generale…”
Le ultime parole dello spagnolo raggelarono
improvvisamente Juan.
E’
vero, se non ci fosse stato il Generale, Alfonso sarebbe morto in quel modo
orribile e io… adesso non sarei qui con lui. Nessuno, nessuno di tutti quei
maledetti staterelli italiani ha mosso un dito per salvare il Principe, meno
che mai lo Stato della Chiesa. E ora mio padre pretenderebbe che io uccidessi
Alfonso… No, non accadrà mai!
“Il Regno di Napoli e il suo giovane sovrano sono
tuttora in pericolo” continuò Juan, riprendendosi e cercando di concludere il
discorso prima di giungere al palazzo. “Non solo Re stranieri, ma anche gli
altri Stati italiani potrebbero approfittare della vulnerabilità di Sua Maestà
e tentare un’invasione. Noi dobbiamo fare il possibile per impedirlo, per
proteggere questo Regno e il suo Principe e, per farlo, dobbiamo essere uniti.
Per questo vi chiedevo di perdonarmi per quello che ho fatto a Forlì, so di
aver perso il vostro rispetto…”
“Non ditelo nemmeno, mio signore! Io vi ho considerato
come un figlio quando eravamo insieme in Spagna, vi ho rimproverato a Forlì
come se foste davvero mio figlio e… e sarò onorato di combattere al vostro
fianco per difendere questo Regno e il suo sovrano, anche contro la vostra
famiglia, se necessario!” dichiarò Don Hernando, con veemenza.
“Sì, anche contro la mia famiglia” ribadì Juan,
rassicurato di vedere che i mesi trascorsi accanto a Rodrigo e Cesare Borgia
avevano fatto comprendere al comandante spagnolo che lui non era certo il
peggior membro di quella casata.
I due si strinsero calorosamente la mano, uniti in un
patto di mutua collaborazione e fiducia, e poi si avviarono verso il palazzo
per godersi una serata di piaceri e divertimenti, liberi da pensieri e
preoccupazioni almeno per qualche ora.
Quando Juan e Don Hernando ritornarono al castello di
Alfonso era ormai mattina. Lo spagnolo era soddisfatto e appagato per la serata
trascorsa così piacevolmente e anche per la ritrovata amicizia con il giovane
Borgia. Juan, invece, si sentiva strano.
Sì, ciò che si era proposto di fare aveva funzionato e
Don Hernando sarebbe stato completamente devoto alla causa di Alfonso. E non
poteva dire di non aver passato una bella nottata. Però… però non era stato
come le altre volte e lui non capiva perché.
Non era certo la prima volta che trascorreva una notte
intera tra vino, fumo e cortigiane, ma questa volta non si era sentito
rilassato e compiaciuto come al solito, anzi.
Il sesso aveva coinvolto il suo corpo e i suoi sensi,
ma gli aveva lasciato un vuoto dentro, un’insoddisfazione che non aveva mai
provato… si sentiva quasi sporco per
ciò che aveva fatto.
Si rese conto di non aver fatto altro che pensare ad
Alfonso.
Sì, Alfonso gli era mancato, era con lui che sarebbe
voluto restare tutta la notte e adesso avvertiva l’urgenza impellente di
cercarlo e stringerlo a sé.
Non riuscendo a trattenersi, entrò nella camera del
Principe senza nemmeno chiedere permesso o assicurarsi che fosse alzato.
Alfonso si stava ancora preparando e rimase dapprima sorpreso nel trovarsi
davanti Juan così inaspettatamente, poi si imbarazzò e, infine, fu la rabbia ad
avere la meglio tra le emozioni che si agitavano in lui.
“Oh, bentrovato, beato chi vi vede, onorevole Duca di Gandia e di Calabria”
lo salutò, calcando volutamente con sarcasmo sul suo titolo e su quel voi che ristabiliva una distanza tra
loro. Aveva saputo da una delle guardie dove si fosse recato Juan la notte
prima e la cosa lo aveva fatto infuriare, come se fosse… era possibile? Geloso, ecco.
Perché si stupiva? Sapeva bene che Juan Borgia era
famoso per le sue notti insonni, in giro per taverne e bordelli, anzi era
strano che da quando era a Napoli non avesse ancora ripreso le sue abitudini. A
lui cosa importava?
Niente, ovviamente, non gli importava affatto cosa
facesse o non facesse Juan Borgia nel suo tempo libero, ma come suo successore
e come Generale dell’esercito papale che lo proteggeva aveva dei doveri,
pertanto Alfonso si sentì del tutto autorizzato a tenergli il broncio e a
fargliela pagare.
Juan non si lasciò smontare da quell’atteggiamento
strafottente e gli si avvicinò con un sorrisetto storto.
“Adesso mi dai del voi,
Alfonso? Soltanto perché ho deciso di essere ospitale con Don Hernando e gli ho
fatto passare una nottata che ricorderà per un bel pezzo?” replicò disinvolto.
“Poveretto, anche lui ha diritto di divertirsi, ogni tanto.”
E
tu? Anche tu ti sei divertito?, avrebbe voluto
chiedergli Alfonso, ma preferì mantenere un certo contegno.
“E’ stata una cosa molto sciocca” disse seccamente e
guardandolo torvo. “Entrambi i miei Generali fuori dal castello per tutta la
notte. E se ci avessero attaccato? Se qualcuno vi avesse teso un’imboscata per
poi prendere il castello? A questo non hai pensato, vero?”
Juan si rendeva conto che la reazione del ragazzo era
dettata dalla gelosia, ma dovette anche riconoscere che aveva ragione, era
stata un’imprudenza e per fortuna nessuno ne aveva approfittato. Quello era il
suo eterno difetto: faceva le cose senza riflettere e per questo finiva spesso
per fallire!
Il giovane Borgia perse subito tutta la sua baldanza,
rendendosi conto che, in effetti, Alfonso e il castello erano rimasti privi dei
loro comandanti in capo. Cosa avrebbero fatto i soldati di fronte a un’eventuale
emergenza, senza una guida?
“Mi dispiace, Alfonso, giuro che davvero non ci ho
pensato” gli disse, avvicinandosi ancora di più a lui. “Hai ragione, ho fatto
una sciocchezza, volevo solo riconciliarmi con Don Hernando e quello mi è
sembrato il modo più efficace, ma non mi sono reso conto di…”
“Certo che non ci hai pensato, è evidente, non
rifletti mai sulle cose, tu” lo interruppe bruscamente il Principe. “O forse ci
hai riflettuto fin troppo bene, forse volevi
che io restassi solo e indifeso perché qualcuno potesse uccidermi, così poi
tu saresti diventato l’unico a governare il Regno di Napoli. Non è questo che
hanno sempre voluto i Borgia? Tuo padre ha mandato qui Re Carlo sapendo
benissimo che c’era il morbo napoletano perché sperava che il sovrano francese
morisse, che magari fossi già morto anch’io e così lui si sarebbe impadronito
del Regno con Goffredo e Sancha!”
Juan rimase impietrito. Alfonso non poteva sapere
della lettera di suo padre, ma aveva paura… paura di lui, paura dei Borgia.
Povero ragazzo, ne aveva passate troppe per riuscire ancora a fidarsi veramente
di qualcuno e ciò che aveva fatto lui, lasciandolo solo la notte precedente, di
certo non aveva contribuito a migliorare le cose.
“E invece i piani di tuo padre sono falliti” continuò
Alfonso, con la voce rotta dal pianto, “perché Re Carlo si è salvato dalla
peste e anzi ha accusato me di averlo
fatto ammalare, o forse era solo una scusa per torturarmi… Non la potrò mai
scordare quella notte, quel 25 giugno 1494, i supplizi, quelle ore
interminabili… le ho sognate anche stanotte, per quel poco che sono riuscito a
dormire!”
Per un lunghissimo istante Juan si sentì come se tutte
le pareti del castello fossero crollate su di lui e lo soffocassero. Il sangue
gli si fece di ghiaccio, il cuore precipitò in un abisso di dolore e rimorso.
Un impulso incontrollabile lo spinse a gettarsi su Alfonso, a stringerlo forte
in un abbraccio avvolgente e protettivo, a baciarlo a lungo e con intensità
mentre lo buttava sul letto e si distendeva su di lui. Continuò a baciarlo
anche mentre si sfilava i pantaloni e liberava il Principe dai suoi,
accarezzandolo, parlandogli sulla bocca.
“No, no, no, Alfonso, non devi dirle queste cose e
nemmeno pensarle, io non ti farò mai del male, io sono qui per proteggerti, per
prendermi cura di te” mormorò. Cercava di entrare in contatto con ogni
centimetro del corpo del giovane Principe, di violare ogni sua intimità, fino a
unirsi a lui completamente e a distruggere i confini tra di loro. Ogni spinta,
ogni bacio, ogni carezza leniva il suo dolore, faceva svanire il senso di
desolazione, vuoto e sporco che aveva provato in quella notte di piaceri che
avevano coinvolto solo i sensi. Ogni più intimo contatto con Alfonso gli faceva
sentire che il ragazzo era lì, che non lo aveva perduto, che nonostante tutti i
suoi errori poteva ancora rimediare e farlo felice, che non lo avrebbe lasciato
mai più, mai più, mai più.
Quella data che Alfonso aveva gridato, quella notte
del 25 giugno 1494, gli si era scolpita nel cuore e nella mente con cifre di
fuoco. Lui era a Roma, mentre suo padre aveva indetto grandi festeggiamenti
pubblici per ingraziarsi il popolo e celebrare la grandezza dei Borgia, i nuovi Cesari. Juan aveva trascorso
quella notte a ubriacarsi, a divertirsi con le cortigiane, a mostrarsi in giro
tronfio e sfacciato, credendosi un sovrano… mentre a Napoli Alfonso veniva
catturato e sottoposto a torture e sevizie inimmaginabili, solo, terrorizzato,
impazzito dal dolore.
La tragica ironia di questa coincidenza gli infilava
schegge di vetro nel cuore. Certo, lui non sapeva cosa stava succedendo a
Napoli e, anche se lo avesse saputo, non avrebbe potuto fare niente. Re Carlo
lo aveva già sconfitto una volta e lo avrebbe fatto uccidere senza pensarci su.
Ma Juan non poteva sopportare di pensare di essersi
divertito, quella notte, mentre Alfonso pativa le pene dell’Inferno e forse
anche peggio.
Non poteva perdonarselo, poteva tuttavia porvi
rimedio. Adesso era con lui, lo avrebbe difeso anche contro la sua stessa famiglia,
lo avrebbe fatto sorridere, avrebbe fatto tutto ciò che poteva per rendere
perfetta la sua vita. E intanto non riusciva a saziarsi di lui, aveva bisogno
di inebriarsi del suo sapore, del calore del suo corpo, della morbidezza delle
sue labbra e della sua pelle. Non si staccò da lui finché non si sentì
stremato, esausto ma finalmente anche liberato dai sensi di colpa.
Alfonso era suo e Juan si sarebbe occupato di lui per
tutta la vita.
Si rivestì e poi aiutò anche il giovane Principe a
rivestirsi, poiché era talmente stravolto e disfatto che gli tremavano le mani
e non riusciva nemmeno a riallacciarsi le vesti. Gli accarezzò i capelli
scompigliati che si arricciavano sulla fronte e sulla nuca, lo baciò di nuovo e
poi si alzò in piedi.
“Vieni, Alfonso, altrimenti Don Hernando si chiederà
che fine abbiamo fatto” gli disse affettuosamente. “E’ ormai mattina
inoltrata.”
Il ragazzo, però, rimaneva seduto sul letto e si
guardava le mani, ancora smarrito.
“Juan” mormorò poi, con un filo di voce. Il giovane
Borgia trasalì perché era la prima volta che udiva il suo nome pronunciato da
Alfonso e un calore dolcissimo lo aveva invaso. “Juan, per favore… non
lasciarmi più da solo…”
Una dolcezza infinita riempì il cuore di Juan, che
tornò di nuovo a stringere tra le braccia il suo Principe, ad accarezzargli i
capelli e a baciarlo con languida dolcezza, facendogli sentire che si era
totalmente votato a lui e che le loro anime ormai vibravano in perfetta
concordia, così come i loro corpi.
“No, non ti lascerò mai più solo, Alfonso, te lo
prometto, te lo giuro, sulla mia vita, sul mio nome, non ti lascerò mai più, ti
proteggerò e non permetterò a nessuno di farti del male” disse con veemenza e
passione, tra un bacio e l’altro. Poi lo aiutò a rimettersi in piedi, gli circondò
la vita con un braccio e lo condusse con sé fuori dalla stanza.
“Questa notte sono stato irresponsabile, ma non
accadrà mai più. Tu non correrai alcun rischio, anzi: Don Hernando organizzerà
un esercito che diventerà il più forte di tutti quelli delle corti italiane e
saranno loro a temere il Regno di Napoli” promise, tenendo stretto Alfonso. “Ma
non solo. Il Regno stringerà alleanze con i signori più potenti, con il Doge di
Venezia, il Marchese di Mantova, il Duca di Ferrara, così nessuno oserà più
anche solo pensare di attaccarci. Governeremo insieme questo Regno e ci faremo
rispettare e temere da tutti.”
Alfonso lo guardò, una luce di timida speranza negli
occhi di chi, anni prima, aveva rinunciato per sempre a sperare. Juan,
intenerito, lo baciò di nuovo.
“A questo, però, dovrai pensare tu. Sarai tu a dover
invitare a Napoli questi potenti signori e a parlare con loro” gli disse, scherzoso.
“In fondo sei tu il sovrano, no? Dovrai pur fare qualcosa anche tu… e io sono
certo che, con la tua parlantina e il tuo modo di fare, conquisterai tutte le
loro simpatie e loro saranno lieti di allearsi con te.”
Alfonso annuì, ancora incredulo e confuso. Provava una
gioia incontenibile, un’emozione che non riusciva a gestire, che non
comprendeva e che pareva esplodergli dentro. Non si era mai sentito così.
E, per la prima volta dopo tanto tempo, il giovane
Principe osò sperare che le cose sarebbero andate bene. Non voleva ammetterlo
nemmeno con se stesso, ma qualcosa dentro di lui gli suggeriva che, con Juan al
suo fianco, tutto sarebbe stato perfetto.
Fine
capitolo decimo