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Autore: Deha delle Tenebre    16/08/2009    0 recensioni
"Perduto in un mondo d'ombre e smodatamente felice di un gelato con chi mi è più caro."
E' questa la traccia che ho dovuto seguire per partecipare ad un concorso indetto dalla scuola media Ettore Romagnoli (Gela), ed è un'interpretazione di guerra e di perdita.
Enjoy reading!
Genere: Romantico, Triste, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ guardati

hana wa sakuragi, hito wa bushi
{
tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero}

 

Con un sospiro tremulo, alzò lo sguardo al cielo.
Lo faceva spesso da quando quella pazzia era iniziata, nel momento in cui sentiva che le speranze scivolavano via dalla sua pelle offuscata dalle ombre come acqua inarrestabile, impietosa, che non si volta. Mai.

Allungò una mano verso il fucile che portava appresso e, mostrando una smorfia straziante, sfiorò la canna dell’arma con le dita segnate dalle continue battaglie. Se avesse avuto possibilità di scelta – anche una soltanto -, non avrebbe mai accettato quella strada.
Non era portato per la guerra, malgrado dovesse ammettere di avere una dannatissima buona  mira e una certa bravura nel dare ordini senza che gli altri soldati sollevassero obiezioni. Eppure c’era in lui un desiderio di essere altrove, sempre: ogni volta che impugnava l’arma, stringendo i denti e aspettando i fragorosi scoppi delle bombe non molto lontane, immaginava di trovarsi all’interno di un sogno e, perso in una dimensione onirica, si muoveva a rallentatore, osservandosi come se fosse al di fuori. Non realmente presente. Non percepiva la sua persona per tutta la durata dello scontro, ma tornava in sé quando la realtà era così evidente da non poterla più ignorare.
I feriti nei tendoni, che gemevano sulla soglia del delirio, erano veri.
I morti, accatastati in pile, uno sopra l’altro, pronti per essere seppelliti in fosse di fortuna, erano veri.
La nebbia e le ombre, che la polvere da sparo disegnava con una maestria terribile, erano vere.
In quei momenti il giovane Nobu non poteva che abbassare la visiera dell’elmetto in modo da evitare di guardare, ma non bastava.
Da quel settembre 1940, anno in cui il Giappone era entrato in guerra firmando il patto tripartito con la Germania nazista e l’Italia fascista, la sua vita era cambiata.
A soli ventidue anni era stato costretto a prestare servizio presso l’esercito nipponico, proclamando gloria all’Imperatore, mentre gli aerei dell’aviazione militare JAAF sorvolavano già il cielo, a caccia di prede da abbattere.
Ed ora, dopo cinque anni di conflitti mondiali, lui era tornato ad Hiroshima con una licenza che gli era costata diverse suppliche rivolte ai superiori, e una fervida convinzione di volerla rivedere.

Kumiko.
Il solo riportare alla memoria il suo nome bastava a strappargli un sorriso. L’ultima volta che si erano visti risaliva a due anni prima, quando era riuscito a tornare per celebrare il lutto di sua madre, e non era stato un evento felice. La ricordava minuta, con due graziose e piccole spalle e lo sguardo abbassato per celare le lacrime, le lunghe ciglia che carezzavano le guance impallidite per la sofferenza.
Così giovane, così inconsapevole della propria bellezza.
Nobu sospirò, su quel ponte di pietra che in futuro non lascerà traccia alcuna, ad ammirare i ciliegi in fiore, malgrado il resto del mondo stesse decadendo in un pozzo di tormenti.

Quegli alberi erano tanto belli da togliere il fiato: alti fino ai dieci metri con le fronde che si allungavano verso i compagni in un intrico che appariva come una fitta ragnatela di sottile seta, un’esplosione di rosa e di rosso sfumato che ricordava il sangue. Occupavano quasi il cielo – spettacolo di un coraggio indicibile -, impedendo alle tenebre di trovare un passaggio d’entrata, e Nobu gliene fu immensamente grato. Per un attimo, il mondo d’ombre in cui era entrato a forza, poteva dirsi scomparso. Non esisteva.
- Non dirmi che sei tu. -
Il giovane uomo sussultò appena nel sentire quella voce familiare; fu travolto da una nostalgia abituale sul campo di battaglia, nel quale doveva aggrapparsi alle memorie per non soccombere, e si girò con una lentezza calcolata, come se avesse timore di incontrare lo sguardo scuro e profondo che l’attendeva.
- Mi spiace deluderti, fanciulla. Sono proprio io. – replicò, con un tono basso, quasi roco.
L’altra scoppiò in una risata cristallina, correndo verso la sua direzione. Un turbinio di capelli neri come la notte. – Oddio, Nobu, sei tornato! – gridò la sua voce da soprano, sovrastando il sussurro del vento – Me lo sento, la fine della guerra è vicina! – Lo baciò sulle guance, alzandosi sulle punte dei piedi per raggiungere il volto.
- Solo perché sono tornato? – le domandò lui, cingendole la vita. Odorò la pelle di lei e ne rimase estasiato: sapeva di casa e di pioggia.
Kumiko sorrise. – No. Perché sei sopravvissuto. – Gli premette le labbra sull’incavo del mento, e rise ancora. – Ho sentito che sono in corso delle trattative di pace con l’Unione Sovietica, ma non te ne chiederò la veridicità. Voglio crogiolarmi nelle speranze e nell’ottimismo, sai. –
Nobu le sollevò il viso, costringendola a guardarlo. – Non parliamo di questa sciocca battaglia. – le sussurrò, all’altezza dell’orecchio. – Mi sei mancata terribilmente. –
Kumiko lo osservò divertita e, nonostante fosse molto più magra di quanto ricordasse, gli sembrò una dea.
Una creatura intoccabile dalla guerra, lineamenti delicati ma decisi che rappresentavano il suo ideale di perfezione.
Un’anima pura che aveva scelto di stare con lui.
- Guardati. – esclamò, gli occhi marrone scuro che luccicavano d’emozione – Sei meravigliosa. – La strinse a sé, come se volesse unirsi a lei sotto quelle nuvole di aprile. Sotto quei ciliegi in fiore che sfidavano il tempo.
- Sei la mia piccola kokeshi, amore. – continuò, baciandole una tempia, e scendendo verso le labbra. – Adorabile bambina. -
Kumiko fece scorrere le sue dita affusolate nei capelli tagliati a spazzola con uno sguardo dolce. – Mi sei mancato anche tu, Nobu-kun. –
Un bacio.
Cadde un petalo di ciliegio.
L’eternità in un istante.
- Fai ancora il gelato al thé verde? – esordì d’un tratto Nobu, sorprendendola con un sorriso disarmante. – Ne ho una voglia matta, proprio adesso. -
La giovane si illuminò. – Ne ho conservato un po’. Vieni a mangiarlo? –
Nessuna guerra, nessuna disperazione, nessuna morte inutile. Soltanto, la calda promessa di amore.
- Non dovresti neppure chiederlo. –

A maggio il guerriero tornò a Tokyo, nella base militare in cui ormai le strategie offensive rimanevano tali: un insieme di proposte nero su bianco, nient’altro.
Forse Kumiko aveva ragione, la guerra avrebbe presto trovato un epilogo. Finalmente.
Ma arrivò il 6 agosto 1945.
Qualche ora prima delle 8:15 del mattino, un radar giapponese captò l’arrivo di pochi velivoli americani e, non dando loro la giusta importanza, ridimensionò l’allarme.
Enole Gay sganciò allora Little Boy sulla città di Hiroshima, devastandola sull’istante. In cielo, un nuovo sole. Salì un fumo a fungo, che nascose inizialmente la ferita ardente della terra, divenendo allegoria della distruzione.
Del centro urbano non rimase che cenere, e le zone circostanti furono travolte dalle radiazioni.
Un, due, mille, tremila… i morti parevano infiniti.
Il settembre di quello stesso anno il Giappone firmò la resa, ed ebbe fine la Seconda Guerra Mondiale.
Nobu si sentì spezzare il cuore – frammento più frammento – nel comprendere che non avrebbe mai più rivisto la sua dolce kokeshi, e non volle in alcun modo partecipare alle operazioni di soccorso.
Gli sembrava inutile.
A quale prezzo poteva ora ritirarsi dall’esercito?
Strinse i denti e si fece forza per lei.

 
Sotto i ciliegi, amore, aspettami sempre.
Sarò lì dove il sangue dei guerrieri imperiali è stato versato
per la salvezza di un mondo che, in fin dei conti, merita di essere salvato, nonostante cerchi di annientarsi da sé.
Aspettami, con un sorriso e con un gelato al thé verde.
Io arriverò.

  
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