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Autore: wanderingheath    04/08/2020    0 recensioni
Los Angeles, 1979. L'assassinio dei coniugi Robinson, avvocati di punta impegnati nella lotta alla criminalità organizzata, viene archiviato come una banale rapina, nonostante l'ispettore Powell - incaricato delle indagini - sia convinto che dietro al delitto si nasconda una più profonda e torbida verità.
A distanza di dodici anni, nuovi avventimenti sembrano convalidare tale ipotesi: il cadavere di Caleb Jacobs, un'evasione coperta dal silenzio e il ritorno di un criminale determinato a completare il proprio disegno di vendetta.
Honey Robinson, diciassettenne affetta da mutismo selettivo, finita nel mirino di una delle tante gangs giovanili che devastano la città, si troverà ad affrontare l'omicida dei propri genitori in una Los Angeles senza limiti, sanguinolenta e impietosa.
Genere: Avventura, Slice of life, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo 1. - Nessuno ride ai funerali

(II)
 
 

Don't try to sleep
through the end of the world
and bury me alive,
'cause I won't give up without a fight.

 

Il sommesso chiacchiericcio di cui il salotto brulicava era in un certo senso profanante.
Caroline Jacobs si era accomodata su di una sedia in legno, lo sguardo rivolto a terra e l’incapacità di aprire bocca.
Avevano provato più volte a rifilarle qualche biscotto o dei salatini, ma sentiva che, se solo avesse provato a socchiudere le labbra e a rilasciare la tensione che le serrava la mandibola, si sarebbe sciolta in una pozza di lacrime: non un bello spettacolo.
Con la coda dell’occhio distingueva un paio di signore in completi grigio perla, tacchini autocompiaciuti che avevano preso in ostaggio sua madre nel tentativo di riversarle addosso una caterva di condoglianze.
Neppure si accorgeva delle mani che languidamente le venivano posate sulle spalle, sfiorandola in soffici carezze della durata di un battito d’ali.  Per lei rappresentavano solo sagome di cartone, elegantemente impilate tra l’ingresso e il salotto, ammassate attorno al tavolo del rinfresco, intente a spazzare via le briciole dei fenomenali biscotti firmati Jacobs.
Li aveva realizzati personalmente, infilzando stampino dopo stampino nella pasta, fino a quando non si era ritrovata sul divano – venti? Trenta minuti dopo? – senza ricordare come ci fosse arrivata.
Però erano buoni, aveva assicurato in un sussurro qualche ospite di passaggio.
Tuo padre è morto, ma su con il morale! Sai fare degli ottimi biscotti.
Più li osservava e più Caroline si chiedeva quanti dei presenti avrebbe ritrovato alla funzione.
C’erano un mucchio di poliziotti, attuali o precedenti compagni del padre, ma nessuno aveva trovato il coraggio di rivolgerle più di un paio di parole d’incoraggiamento. Tempo tre minuti ed erano volati da sua madre, la buona Naomi Jacobs, che agli occhi di tutti era distrutta dall’avvenimento, ma nei fatti se la cavava discretamente.
Avevano discusso l’argomento la sera prima, lei e la mamma.
“Devastata” la definivano i giornali oppure “traumatizzata dalla scomparsa prematura del coniuge”.
In allegato alcune fotografie che la ritraevano in un’impeccabile tailleur scuro, mentre entrava nella stazione di polizia o dopo il colloquio con il medico legale.
«Scomparsa prematura», aveva bisbigliato. «Come se fosse morto per cause naturali, per qualche malattia o che so io. Sembrano dimenticare che mio marito è stato assassinato
Poi si era riscossa, le iridi che vagavano nel vuoto avevano incontrato quelle della figlia.
Caroline ricordava le mani – grandi e calde, sicure – strette nelle sue. Senza neppure l’ombra di un’inclinazione nella voce, le aveva intimato: «Dobbiamo essere forti, per non darla vinta a quel branco di sciacalli».
E così era stato.
Naomi Jacobs annuiva, ringraziava, accennava dei sorrisi cortesi, invitava a prendere qualcosa dal buffet, indirizzava gli ospiti verso la toilette, scambiava segni di saluto con chiunque la approcciasse.
Senza un cedimento.
Caroline era certa che i suoi nervi non avrebbero avuto una pari tenuta.
Si chiese se e quante volte gli adulti dovessero resistere a ripetuti colpi, senza poter scoprire il fianco, senza permettersi di mostrarsi deboli.
Lei non si sentiva altrettanto forte. Nei suoi diciassette anni, il mondo adulto dell’impassibilità e della finzione la spaventava. 
Qualcuno le aveva posato una mano sul polso. Scattò all’istante, allarmata da quella confidenza eccessiva.
Inginocchiato davanti a lei, in un elegante abito scuro, il detective Powell desiderava parlarle.
Dawson R. Powell in persona.
La barba spruzzata di grigio e la pelle del viso incartapecorita lo appesantivano di qualche anno in più, ma la verità era che Caroline non ricordava il loro ultimo incontro. Avrebbero rimediato gli aneddoti raccontati dal padre, se solo il detective Powell avesse avuto bisogno di una presentazione. La sua fama lo precedeva.
«Caroline,» abbozzò un sorriso, «ma guardati. Sei diventata una splendida ragazza».
Di fronte ad un’eloquente alzata di sopracciglia, si sentì in dovere di aggiungere: «Mi sorprendo sempre di quanto passi in fretta il tempo. L’ultima volta eri appena una bambina e adesso… adesso, eccoti qui».
Caroline si sforzò di mettere su un’espressione garbata. Voleva solo essere gentile, il detective Powell; doveva soffrire molto per la perdita del suo vecchio collega. In fin dei conti, avevano già qualcosa in comune.
«Ha preso qualcosa da bere, detective Powell?»
«Oh, ti prego, chiamami Dawson. Soltanto Dawson.»
Lei annuì appena. «Dovrebbe provare la limonata, Dawson, o i biscotti, se preferisce. Sono il nostro cavallo di battaglia.»
Il detective parve riflettere per qualche istante, raccolto in un luogo o momento certamente distante anni luce dalla veglia funebre. Quando tornò a guardare la ragazzina, aveva assunto un’aria più grave.
«Scusami, ma detesto i convenevoli; penso che possiamo risparmiarceli, data la situazione. Forse non dovrei dirti certe cose, ma… tutto questo mi sembra innaturale.»
Un sospiro.
«Ho sentito Caleb qualche settimana fa, per telefono, e non mi era parso preoccupato da alcunché. Era sereno, il solito Caleb di sempre.»
Caroline sapeva a cosa si stesse riferendo. Neanche in famiglia erano stati notati atteggiamenti insoliti, misteriosi. Un fulmine a ciel sereno davvero per tutti.
«Caroline,» le parlò con fermezza, «voglio che tu sappia che, per qualunque evenienza, sia tu che Naomi potete contare sul mio aiuto».
«La ringrazio, detective Pow…» Si corresse immediatamente. «La ringrazio, Dawson.»
«Dico sul serio, Caroline. Sono al vostro servizio.»
Dawson R. Powell si era rimesso in piedi. Le stava tendendo una mano, che la ragazzina strinse più per educazione, per un riflesso involontario, che per reale convinzione.
«E ti assicuro che lo troverò. Chiunque abbia fatto questo a tuo padre, la pagherà cara.»
L’altra annuì, stordita. Rimase ad osservare lo strano movimento oscillatorio della loro saldatura. L’orologio del detective assomigliava a quello che portava suo padre. Quando era stata l’ultima volta che lo aveva abbracciato?
Un pugno acido di dolore le rimescolò le viscere e Caroline spazzò via quel pensiero dal vetro della propria coscienza. Powell continuava a fissarla, ma ebbe il sospetto che il suo sguardo si perdesse altrove, oltre il viso che aveva di fronte. Chissà se nei lineamenti freschi di quel viso rileggeva i tratti dell’amico scomparso.
Qualcosa brillò sulla palpebra e il detective lasciò la presa, impaziente di allontanarsi.
«È una promessa.»
 
 
*  *  *
 
 
 
“Il tuo è un atteggiamento antisociale. Ed egoista.”
Antisociale ed egoista, ecco cosa le aveva detto sua nonna, mentre sbatteva la portiera dell’auto dietro di sé.
Gliel’aveva comunicato almeno sei volte, che non aveva la minima intenzione di presenziare al funerale, e per quanto insistenti potessero divenire le richieste di Rosemary Woods, non avrebbe cambiato idea.
Alla fine era stata trascinata fin davanti al cancello d’ingresso del cimitero.
«Beh, che fai? Non vieni?»
Lei era rimasta impassibile, limitandosi a scuotere il capo da una parte e poi dall’altra, con lentezza.
Quell’atteggiamento di pacifica opposizione, da non violenta, doveva aver irritato Rosemary Woods più di ogni altra cosa.
Eppure, le carte della vergogna, del rimorso, del senso del dovere scagliate contro di lei non avevano sortito effetto. Honey non si sarebbe schiodata dal sedile posteriore della familiare di suo nonno.
«È stata la tua amica del cuore.»
L’aveva detto in un sibilo, mentre scendeva dall’auto, minacciandola con uno degli svariati bouquet che avevano acquistato, in aggiunta alla corona di fiori già fatta recapitare al vecchio indirizzo di casa Jacobs.
Aveva agitato a tal punto le rose bianche da sciuparle.
«Lo rimpiangerai, Honey. Un giorno rimpiangerai amaramente di non esserci stata.»
Ma lei aveva tenuto le labbra ben serrate, anche davanti allo scroscio di borbottii.
Ingrata, antisociale, egoista. Sembrava aver tirato la catena dell’onestà quel pomeriggio.
Prima di lasciarla al proprio silenzio, suo nonno si era affacciato dal finestrino. Fingendo di aver dimenticato altri fiori sul sedile, le aveva strizzato un occhio. «Fai la brava. Ci vediamo tra un po’.»
Il silenzio, tuttavia, non le era pesato affatto.
Si rigirava nervosamente qualche ciocca di capelli attorno alle dita, ma era abituata a se stessa, a rimanere da sola con i propri pensieri.
Infiltrarsi ad un funerale, dopo anni di lontananza, dopo tutto quello che era successo, solo perché Caleb Jacobs era stato assassinato, le sembrava fuori luogo. Terribilmente fuori luogo.
Sarebbero bastati un telegramma e quella pomposissima corona funebre che avevano ordinato, ma imporre la propria presenza… no, quella era tutta un’altra storia.
Forse sua nonna aveva ragione. Forse, in fondo, lei era davvero un’egoista.
Alcuni petali candidi erano rimasti attaccati al sedile, qualcuno riposava sulle sue calze. Ne afferrò un paio, pinzandoli con le unghie per soffiarli fuori dall’abitacolo.
Stava per cominciare uno dei più bei tramonti della stagione.
Da quella posizione rialzata, appena fuori Los Angeles, era possibile abbracciare con lo sguardo l’intera città, incastrata in una valle di palme e cemento.
In un attimo uscì dall’auto e si bloccò davanti al panorama albicocca.
Un macigno, sporgente dal terreno come un iceberg, divenne il suo nuovo sedile; non impiegò molto a trovare il solito bloc-notes, affondato nella borsa a tracolla che portava con sé.
Ricordava la prima volta che gliene avevano comprato uno, perché potesse farsi capire dal mondo circostante.
All’inizio ci scriveva appena due parole, rassegnata all’idea di non essere compresa. Preferiva riempirlo di disegnini, scarabocchi con cui ammazzare il tempo.
L’analista da cui era in cura lo aveva descritto ai suoi tutori legali come una “bolla di sapone personale”; il suo meccanismo di difesa.
Era stanca, così stanca di gente che provava ad aprirle il cervello, a sintetizzare la sua storia familiare, a riesumare la grande Tragedia, nel tentativo di scovare il trauma, il fondamentale trauma della sua esistenza.
Poi aveva imparato a collaborare. Se si era mostrata più comprensiva, l’aveva fatto per i nonni, accettando l’idea che di quel taccuino gli adulti attorno a lei avessero un gran bisogno.
Da allora ne aveva cambiati parecchi di quaderni.  
Ne studiò la copertina un po’ sgualcita, passando pollice e indice sul dorso.
In corrispondenza dell’ultima pagina segnata, timide linee di matita solcavano il foglio, creando arabeschi privi di senso.
I partecipanti alla funzione avevano smesso di arrivare; la maggior parte delle vetture occupava il parcheggio attiguo al cimitero e lì non si muoveva una foglia.
Honey chiuse gli occhi, il suo corpo cassa di risonanza per i rumori circostanti: passerotti, fruscii di vento e lontanissimi clacson.
Avrebbe dovuto produrre qualcosa entro le successive ventiquattr’ore.
La professoressa Marlowe aveva sollecitato – quasi ordinato –  la sua partecipazione al concorso, ma l’ispirazione sembrava averla abbandonata.
Chiusa nella propria stanza, aveva creato e stracciato chissà quante bozze. Ogni volta che terminava un lavoro, lo guardava con occhi diversi, del tutto straniata; non era mai, mai, ciò che la sua mente partoriva. Sembrava solo l’opera di un dilettante, lei non vi riconosceva neppure un briciolo delle proprie idee.  Il processo la lasciava sfinita, a tal punto nauseata, da scoraggiare ulteriori prove. Abbandonava i pennelli, le matite, qualunque strumento responsabile di quell’orrore, e si ritirava.
Stavolta era diverso. Su questo lavoro gravava l’attesa, l’aspettativa febbrile della professoressa Marlowe, che per qualche ragione ravvisava in lei una reincarnazione di Van Gogh e portava in palmo di mano il suo talento nascosto.
Honey si picchiettò la matita sul mento, cercando attorno a sé un qualunque soggetto su cui fermare lo sguardo.
Niente, non le veniva in mente nulla.
Forse, poteva illudersi di rintracciare qualcosa nelle pagine precedenti, un’idea rimasta incompiuta.
Sfogliò il bloc-notes a ritroso, catturando baleni di ritratti – uno sconosciuto sull’autobus, un bambino tra l’erba del parco, uno scoiattolo avvinghiato ad un tronco – ma niente che le infiammasse le vene.
Odiò se stessa per aver accettato di prestarsi a quella sciocca competizione, lei che detestava le sfide.
Le immagini si susseguivano in scatti rapidi, rabbiosi, accavallandosi le une alle altre insieme alle voci che vi erano contenute, destinate per sempre a rimanere silenti.
Poi, un segnale.
Il segnale che le intimava di fermarsi e tornare indietro. Honey ubbidì all’istinto e recuperò un foglio staccato, esule dalla struttura del quadernetto. Raffigurava una conchiglia, una di quelle conchiglie che conosceva molto bene: la collezione che teneva in camera, proprio sulla scrivania.
Un pomeriggio di noia, si era impegnata nel riprodurne una, utilizzandola anche come forma per tracciarne i contorni il più verosimilmente possibile.
Una di quelle conchiglie che conservava fin da bambina.
Fu come se le avessero strizzato il miocardio. Spiegò la carta sulla propria gamba, sfiorando la sagoma del guscio come se fosse stata un’antica pergamena.
Tra la nebbia di lacrime, riusciva a scorgere il punto esatto in cui aveva sfumato la matita, per rendere l’increspatura della luce e l’ombra proiettata sul tavolo.
Chiuse di nuovo gli occhi per qualche istante, inspirando a fondo; quando li riaprì, fu come vedere il mondo per la prima volta.
Il mare. Avrebbe raccontato l’oceano: come doveva essere apparso interminabile, spumeggiante e stranamente silenzioso quel giorno in cui Caleb Jacobs vi aveva trovato i relitti dei molluschi. 
Magari sarebbe tornata in spiaggia, l’indomani, per lasciarsi guidare. Una sensazione di vuoto la aggredì alla bocca dello stomaco e la realizzazione di essere viva, di poter essere viva insieme a quelle onde che nemmeno la conoscevano, la sommerse.
Un crepito accanto a lei.
C’era un’altra presenza, all’entrata del cimitero, ma non intenta a contemplare il panorama.
Premeva convulsamente il pulsante dell’accendino, tra un’imprecazione e l’altra, per poi scuoterlo o sfregarlo contro la coscia.
«Oh, andiamo, andiamo. Non abbandonarmi proprio ora.»
Teneva la sigaretta stretta fra le labbra, determinata a non rinunciare alla sua dose cancerogena giornaliera.
«Ehi,» si avvicinò a Honey in poche falcate, «per caso fumi?»
Quella scosse il capo, ancora disorientata.
«Fantastico. È che non funziona più, questo dannato aggeggio.»
Era una ragazza vestita di nero ad averle parlato, quasi certamente partecipante alla cerimonia funebre.
Doveva avere pressappoco la sua età, ma l’atteggiamento disinvolto e lo strato di eyeliner che illanguidiva lo sguardo, le aggiungevano qualche anno.
«Scommetto che se me l’avessero lasciata accendere dentro, non avrebbe dato problemi», commentò amareggiata. «Ma no, non si fa, è sconveniente. È una mancanza di rispetto
Stava facendo l’imitazione di qualcuno, ma a Honey sfuggì il riferimento.
«Come se gliene importasse qualcosa, a Jacobs. Tanto è morto ormai.»
Dopo altri cinque o sei tentativi, riuscì a resuscitare una fiammella tenue, subito protetta dallo schermo della mano. La ragazza mugugnò qualcosa, in segno d’approvazione. Quando tornò a guardarla, teneva la sigaretta accesa fra le dita, sventolandola come una bandiera vittoriosa.
«Grazie, mi hai portato fortuna», scherzò. Parve accorgersi solo in quell’istante del vestito a lutto della sua interlocutrice. «Oh, spero di non averti offesa con la storia del funerale…»
Honey rimase impassibile. Era libera di pensare quello che preferiva sul conto di Jacobs, sulle sepolture e sulla nicotina; non era certamente suo un problema.
«Sei qui per lui? Caleb Jacobs?»
Le rispose con un’alzata di spalle, nella speranza che la loquace sconosciuta levasse le tende prima possibile. Aveva scelto di non partecipare alla veglia per evitare quel genere di interrogatori imbarazzanti e paparazzi che si aspettava avrebbero inzozzato la cerimonia. In realtà, non ne aveva visto neppure uno finora.
L’altra si sedette accanto a lei, le gambe incrociate e l’abito in pizzo mescolato al terriccio.
«È stato un bel colpo per il mondo intero», commentò.  «Anche per chi non lo conosceva. Un grand’uomo, non si è mai tirato indietro davanti al pericolo.»  Proseguiva con il suo monologo, intervallando una riflessione a diverse boccate di fumo. Gli occhi turchesi bevevano il paesaggio di una L.A. morente.
«Un peccato, dovervi rinunciare così presto», fu la sua ultima osservazione. «Davvero un gran peccato.»
Scorse il bloc-notes zeppo di scarabocchi, la matita e l’espressione persa della ragazza che aveva davanti.
«Ma tu non partecipi alla sepoltura?»
Honey trovò uno spazio bianco e vi scrisse sopra qualcosa, prima di mostrarlo all’altra.
“No. I funerali mi deprimono.”
Lette con incredulità quelle poche parole, Roxy King quasi si strozzò con una boccata di fumo. Non poté impedire ad una risata di risalirle la gola e scoppiare, nonostante il dorso della mano premuto sulla bocca, come uno sghignazzo, corto e gorgogliante.
«Beh, sarebbe strano il contrario», asserì. «Nessuno ride ai funerali
Honey impallidì. Prima suo nonno e adesso quella sconosciuta. Una stessa frase, ripetuta nel giro di così poco tempo, la turbava. Le ritornarono alla mente lo schermo di un blu soffocante, il ritornello del cartone animato, la sensazione di sprofondare sotto terra. Lì, insieme a Caleb Jacobs.
«Honey!»
Voltandosi di scatto, vide proprio suo nonno avanzare nella loro direzione. Non poteva essere già finito tutto.
Si avvicinò con la solita andatura un po’ vacillante, sbilanciandosi ora su una gamba ora sull’altra, evitando le sporgenze più infide del terreno. «Un umile messaggero», si schermì con i palmi alzati. Un sorriso buono, compiacente. «La nonna voleva accertarsi che non ci fosse stato un ripensamento.»
Lasciò che i suoi occhi, appesantiti dall’ombra di una cataratta, parlassero al suo posto. Contro ad ogni aspettativa, Honey scattò in piedi e lo seguì docilmente fin oltre la cancellata d’ingresso.
Lasciò Roxy alle proprie spalle, dimenticandosene pochi istanti dopo.
La giovane erede di Meredith King, invece, attendeva che il sole venisse ingurgitato dall’orizzonte, che il lumicino del mozzicone morisse nella sua mano. Rimasticava il filtro e il nome di quella ragazza senza voce.
Honey, proprio come quella Honey. La stessa Honey di cui i giornali avevano strombazzato per mesi e mesi, anni addirittura, nonostante la continua richiesta di privacy.
Che si trattasse solo di una coincidenza?
Spense la cicca sotto il tacco della scarpa, impastandola con la polvere.
No, le coincidenze non esistevano. Doveva essere proprio lei, la sola ed unica.
La figlia di Janet Robinson.
   
 
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