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Autore: KaterinaVipera    05/08/2020    1 recensioni
Amira si reca in un piccolo villaggio sperduto nella campagna inglese a trovare la cugina, in cerca di un posto dove iniziare la sua nuova vita, lontana da casa e da tutte quelle persone che le hanno voltato le spalle quando ne aveva più bisogno.
Ciò che cerca è la possibilità di ripartire e, soprattutto, la tranquillità che negli ultimi mesi le è stata negata.
Ma, la vita, ha in serbo per lei tutt'altro e fin da subito si ritrova in una realtà che non sapeva esistesse; le persone che, all'inizio le sembrano solo strane si riveleranno per quello che sono veramente: creature straordinarie che credeva fossero solo fantasia e lei dovrà decidere se essere solo lei, una semplice ragazza, o, al contrario, farne parte ed accettare ciò che le dice il suo cuore: lei appartiene a lui, è sua, solo che ancora non lo sa.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mia cugina.
Mi ero completamente scordata di lei.
Ovviamente, lei non si è dimenticata di me.
Voglio una pala per sotterrarmi qui e la voglio adesso.
Guardo Garreth con aria smarrita, sapendo di essere in un bel casino anche con lei ed a giudicare da come mi sta guardando il licantropo, deduco che stia sbraitando contro di me e forse persino contro di lui.

Fantastico.

“Dov’è? Sta bene? Perché se sta bene la uccido con le mie mani!”

Sono le sue amorevoli frasi che sento attraverso il microfono, anche se non mi è ancora stato passato il telefono.
Non credo di voler parlare con lei.
Guardo l’uomo con aria supplichevole, iniziando a negare con la testa, ma immagino che contro di lei e la sua ira funesta, nemmeno lui sia in grado di fare qualcosa.
Prendo il cellulare e me lo avvicino con estrema cautela all’orecchio, procrastinando il mio fatale momento.

“Ciao, Anna...” la saluto titubante, portandomi pollice e indice tra il naso e gli occhi, socchiudendo le palpebre per un attimo ed aspettandomi il peggio.

“Amira, tesoro, stai bene? Sei ferita?” mi domanda con voce tremula e carica di apprensione.

Mortalmente calma.

“Sì, sto bene.” la rassicuro, rincuorata che non mi stia urlando addosso.

“Allora si può sapere perché diavolo non hai risposto al quel maledetto telefono?! Sono ore che provo a chiamarti, Cristo santo!”

Ho parlato troppo presto.

“Anna, senti...”

“Anna senti un corno!!!” grida, fuori di sé.

Sento che Alan le sta dicendo qualcosa, forse di stare tranquilla, o di non agitarsi, ma non riesco a capire con sicurezza cosa, perché la voce della donna sovrasta quella dell’uomo.

“No, no che non mi calmo.” dice in inglese, poi si rivolge a me, nuovamente nella nostra lingua. “Non rispondevi al cellulare, non eri a casa!!!” strilla, fuori di sé.

Ed io sono costretta ad allontanare il ricevitore per non diventare sorda in età così giovane.

“Ho chiamato Elizabeth, ed indovina un po' che cosa mi ha detto?!”

“Anna, aspetta dai, posso spiegare...” le dico, cercando di trovare un modo per giustificarmi.

“Mi hai fatto venire un cazzo di infarto!” adesso ha abbassato – per mia fortuna – il tono di voce, ma è sempre furiosa. “Aspetta solo che ritorni costì e ti faccio vedere io!”

“Anna, non credo che sia il caso...”

“Non venirmi a dire cosa è o non è il caso di fare per me, perché sennò vi prendo tutti e due e vi lincio!”

Non mi ci vuole molto per capire chi è l’altro povero disgraziato che, in questo momento, mia cugina, vorrebbe far fuori.
Chissà quante liti e discussioni hanno affrontato perché lei voleva tornare, mentre Alan sapeva che era meglio rimanere dove si trovano.

Santo Dio, gli ormoni e la preoccupazione le hanno dato un po' alla testa, ma è proprio questo che ho sempre ammirato ed apprezzato in Anna: la sua determinazione e la sua forza. Non si lascia abbattere da niente e da nessuno. Nemmeno nelle sue condizioni si tira indietro e, anzi, sembra più forte e caparbia di prima.
Solo che, a questo giro, non può fare la testarda, e deve dare retta ad Alan e, sopratutto, all’alfa.

Strano che sia proprio io a dire che bisogna dare retta a Garreth, quando io per prima non l’ho mai fatto. Mi verrebbe quasi da ridere, se solo l’occasione lo permettesse.

Copro con una mano il microfono, per non farmi sentire e con aria implorante, mi rivolgo a Garreth, con la speranza che la sua autorità riesca a far ragionare quella pazza di Anna.

“Ti prego, falla ragionare.”

Mi guarda, ma ovviamente non capisce perché il nostro dialogo è stato in una lingua a lui sconosciuta e si è perso tutto il discorso.

“Lei vuole tornare qui, ma è pericoloso.” immagino che l’apprensione sia ben visibile sul mio volto, perché anche Garreth annuisci immediatamente, porgendomi la mano per farsi dare il telefono.

Riesco solo a sentire che si fa passare Alan, non senza qualche difficoltà, poi si allontana e mi è impossibile cogliere anche solo mezza parola, dato la sua voce bassa e l’accento non propriamente britannico puro, con il quale parla con lui per diversi minuti.
Non so cosa si stanno dicendo, le voci sono lontane, poco più dei bisbigli ed io sento le palpebre farsi cosi pesanti che si chiudono da sole, senza rendermi conto di quanto fossi realmente stanca.
Aspetto il ritorno di Garreth, accomodandomi meglio sul divano, sperando che riesca a convincere Anna a non venire qua, non sopporterei che accadesse qualcosa anche a lei, è già abbastanza straziante avere l’unico amico in fin di vita.
Mi raggomitolo come un gattino infreddolito, dando le spalle alle finestre, in attesa che torni il licantropo con una buona notizia.
L’emicrania sta lentamente passando ed io sento, con mio grande sollievo, i muscoli iniziare a rilassarsi.
Non me ne accorgo subito della sua presenza, sento il divano abbassarsi sotto il peso del mannaro e le braccia cingermi le spalle per
avvicinarmi al suo corpo. Nessuno dei due parla, ci sarà tempo domani per le spiegazioni, adesso ho solo voglia di sentirlo vicino finché me lo permetterà.

Nemmeno me ne accorgo ed in una manciata di secondi, sprofondo in un sonno profondo, oscuro e senza sogni.

 

Toc toc…

Mi giro dall’altra parte, coprendomi fino alla testa con il piumone, venendo immediatamente circondata dall’aria calda della coperta e del mio corpo, trovando una iniziale difficoltà a respirare.

Toc toc toc…

Faccio capolino con la testa, i capelli tutti arruffati, rimanendomene rannicchiata come una larva dentro il bozzolo, sul letto, ancora intontita dal sonno.

Aspetta.

Io quando ci sarei finita a letto?!
Ieri sera mi sono addormentata sul divano.

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin…!!!!

Il suono del campanello non mi lascia altra scelta che scendere e abbandonare questo caldo rifugio, ma prima afferro il maglione che ancora si trova sulla sedia e me lo infilo, cercando di non morire di freddo, poiché in casa non è ancora stato azionato il riscaldamento.
Scendo senza fretta i gradini, benché chiunque ci sia dall’altra parte, di fretta pare ne abbia molta, e ancora intorpidita dal sonno, allungo la mano per aprire la porta.
La luce del giorno mi acceca violenta e insolente, costringendomi a socchiudere le palpebre per un attimo, in attesa che mi abitui al cambiamento.
Impiego qualche attimo prima di mettere a fuoco la figura alta, il suo sorriso e qualcosa che tiene tra le mani.

“Patrick, cosa ci fai qui?” domando con una punta di curiosità e scetticismo che non passa inosservato, stropicciandomi un occhio, rischiando di cavarmelo dall’impeto.

“Oh si, buongiorno anche a te. Sto bene, grazie.” risponde lui sarcastico, non perdendo il sorriso.

“Quello che voglio dire è come mi hai trovata?”

Adesso che sono riuscita a formulare la vera domanda ed a mettere delle parole di senso compiuto in ordine, sono più lucida e non capisco come mai sia qui un perfetto sconosciuto e, cosa ancora più inquietante, come abbia fatto a sapere dove potermi trovare.

“Ho chiesto a giro.”

“Hai chiesto… a giro? E il branco ti ha detto tranquillamente dove abito?” alzo un sopracciglio, poco convinta della sua spiegazione.

“Beh, a dire la verità, ho sentito che parlavano di te praticamente ovunque. Quindi mi è bastato solo drizzare le orecchie e seguire il fiuto. In senso letterale.” mi fa l’occhiolino, non perdendo il sorriso.

“Che cosa vuoi?”

“Ti ho portato la colazione, bella addormentata.” mi mostra un sacchettino di carta marrone, agitandomelo brutalmente davanti al viso, finché non lo scaccio con la mano, facendolo ridere e formare le fossette ai lati della bocca.

Per qualche secondo penso se sia il caso farlo entrare; in fondo non lo conosco benché entrambi abbiamo rischiato la vita per salvare l’altro.
Alla fine, è proprio quest’ultimo pensiero che mi fa capire che Patrick non può essere cattivo e che di lui mi posso fidare.

“Vieni, entra.” sto per fargli spazio, ma lui si blocca sulla soglia guardandosi intorno e poi scrutando dentro casa.

“L’alfa è con te?” mi chiede un attimo dopo, tornandosene un pochino più serio.

Garreth.

Ieri sera ero con lui, mi sono addormentata tra le sue braccia, ne sono sicura. Riesco ancora a percepire il calore che sprigionava il suo corpo, il battito lento del suo cuore, seguito dal respiro che mi solleticava i capelli, cantandomi un’immaginaria ninna nanna, senza infastidirmi.
Ero sul divano, accanto a lui, circondati da una bolla di intimità che non credo riuscirò a riacciuffare con lui.
Stamattina mi sono svegliata nel letto della mia camera. Da sola.

Mi guardo intorno, notando che poco è cambiato dalla sera precedente.
Le tende sono state chiuse, il bicchiere non c’è più sul tavolino.
E non c’è più nemmeno Garreth, portandosi con sé tutto il suo calore e lasciandomi nel cuore solo il gelo.
Non è rimasto.
Peccato si sia impresso nella mia anima come inchiostro indelebile, molto più dei miei tatuaggi, e non se ne voglia più andare.

“No, non c’è.” dico mesta, rassegnata al fatto che lui non vorrà mai stare con me, più del necessario.

“Oh bene!” Patrick sorride raggiante, sospirando di sollievo.

Lo guardo scettica, alzando un sopracciglio.

“Abbiamo più mangiare per noi!” trilla esuberante, scuotendo nuovamente la busta, muovendo un passo verso casa pronto ad entrare.

La mia espressione non cambia di molto, ma mi scosto di lato per lasciarlo passare e richiudere poi la porta, non prima di essermi accertata che non ci sia nessuno nei paraggi che mi sta spiando.

“Ooooh, ma guarda! C’è posta per te, mia cara fanciulla!” urla il licantropo, che non so come, ha trovato la cucina e perfettamente a suo agio, si sta muovendo alla ricerca degli utensili per la colazione.

Lo raggiungo, infastidita da tante chiacchiere di prima mattina e da appena sveglia, ma il foglietto che trovo sul tavolo, con scritto a mano il mio nome, mi fa passare ogni cattivo umore.

 

Amira,

tornerò da te stasera.

Ti prego di non metterti nei guai.

G.

 

Ripiego il foglietto e lo nascondo nel pugno della mano, come il più prezioso dei tesori, con un sorrisino ad incresparmi le labbra e a niente servono i miei sforzi di nasconderlo dietro la pesante stoffa marrone del maglione, Patrick l’impiccione, si è già accorto del mio cambiamento.

“Che carina… sei diventata tutta rossa.” mi scimmiotta, ridendo a sua volta, con fare estremamente amichevole e confidenziale.

Metto il pezzo di carta a contrasto dell’elastico dei pantaloni e dopo avergli rivolto un’occhiata omicida che lo fa solo ridere di più, prendo due tazze dalla credenza e due piatti, appoggiandoli al tavolo.

“Caffè o tea?” gli domando, preparando però entrambi i contenitori.

“Caffè nero, come la mia anima.” si finge tenebroso, ma è solo un gran buffone.

Scuoto la testa, per niente colpita dalla sua frase e metto a bollire entrambe le bevande, mentre lui tira fuori dal sacchetto brioches e due ciambelle piene di zucchero.

“E quelle dove le hai trovate?!” spalanco gli occhi, sorpresa da quelle golosità dolci che non credevo di poter trovare da queste parti.

“Sono stato a Burneside e ho trovato una pasticceria. Le recensioni dicevano che faceva i migliori dolci della città.” e ne assaggia un pezzetto, dopo averlo strappato con le mani, assaporandolo con grande concentrazione, chiudendo gli occhi.

“Deliziosa!” dichiara infine, dividendo le porzioni.

“Non ti facevo il tipo da questo tipo di colazione.” gli confido, alla fine, versandoli il caffè nella tazza e facendo altrettanto nella mia con l’acqua calda, dove poi immergo il filtro.

“Oh ma infatti io prediligo la carne cruda, appena cacciata, calda. Mi piace sentire il sangue che cola lungo le fauci e che ancora circola nelle vene della vittima.”

Lo guardo in viso, l’espressione sconvolta, gli occhi spalancati e manca poco che vomiti quello che ho in bocca.
Patrick ride di gusto, coprendosi la bocca con una mano, divertito dalla mia faccia, forse cianotica, e del suo scherzo riuscito – a quanto pare – alla perfezione.

“Oddio, dovresti vedere la tua faccia.” se la ride, guardandomi divertito, mentre continua a mangiare.

Mi unisco alla sua risata, continuando a consumare il pasto, trovando inaspettatamente piacevole la sua compagnia.
La mattina trascorre in maniera stranamente tranquilla e rilassata in sua compagnia, mangiando per un reggimento, e parlando un po' di noi.
Sono costretta a rimettere a bollire sia l’acqua che il caffè, mentre il licantropo continua a parlarmi della vita che svolgeva nel suo vecchio villaggio, con il suo branco.

“Che cosa farai adesso?” gli chiedo, piena di tatto, immaginando che non deve essere facile per lui e per tutti gli altri.

Scuote le spalle, mentre soffia via il fumo caldo della sua bevanda, pensieroso.

“Non lo so. Ci affideremo all’alfa, come abbiamo sempre fatto.” mi sorride, una nota di tristezza, però, ad oscurarglielo.

“Sembra un buon alfa.”

“Il migliore. Mi ha accolto quando tutti gli altri non lo hanno fatto.” si confida, la voce leggermente velata di tristezza ed un pochino più bassa, non guardandomi mentre mi parla.

“Perché mai gli altri avrebbero dovuto scacciarti? Non mi sembri poi così tanto fastidioso, alla fine.” ironizzo, facendolo sorridere vagamente.

Ma sono i suoi occhi che non sono sorridenti, persi nei pensieri e nei ricordi del passato, che gli adombrano i lineamenti e lo fanno sprofondare in chissà quali tormenti.

“Sai, non siamo così superiori come vogliamo dimostrarci. Siamo schifati dagli esseri umani, ma ci siamo dimenticati che per una piccola parte lo siamo anche noi.” guarda il liquido nero della sua bevanda, ormai fredda, si rigira la tazza tra le mani, come soppesando se sia il caso di andare avanti o meno.

Me ne rimango in silenzio, dandogli i suoi tempi e rispettando la sua scelta.

“Sono stato cacciato o me ne sono andato da molti branchi, prima di trovare Josh. Se non fosse stato per lui, avrei continuato a fare la vita da solitario, ma non si vive bene da soli.” è cupa la sua voce, ha perso tutta quella vivacità e quella spensieratezza che era solito usare. Anche durante lo scontro di ieri, non ha mai perso quel sorriso furbo, strafottente. Mi chiedo se fosse veramente lui, o se il vero Patrick è il licantropo che ho di fronte.

“Sei triste?” glielo domando senza riflettere, non ho collegato la bocca al cervello e le labbra si sono mosse per conto loro.

Mi pento di averglielo chiesto, ma lui non pare poi molto sorpreso e non si infastidisce.

“No, ora non più.” mi guarda negli occhi e io gli credo. “Sono solo in attesa del mio… insomma, della mia dolce metà.” dice, bevendo ciò che rimane del caffè, facendo una smorfia disgustata quando si rende conto che non è più calda.

Ci sorridiamo a vicenda, con rinnovata speranza.

“Anche tu, ne hai una per la testa...”

“Di cosa, scusa?” alzo un sopracciglio, non capendo – beh, sperando di non aver capito – mentre prendo le tazze ed i piatti e metto tutto nel lavello.

“Di dolce metà per la testa.” sorride sornione, guardandomi intensamente negli occhi.

E non c’è modo di sfuggirgli, perché lui lo sa. Non so come, dubito che qualcuno glielo abbia detto, ma lo sa che provo qualcosa per Garreth e che è qualcosa di molto più profondo di semplice amicizia od ammirazione.

“Non so di cosa tu stia parlando.” borbotto, sfuggendo dal suo sguardo indagatore, fingendo che sia molto più interessante pulire il tavolo.

“Oh, invece lo sai di cosa sto parlando, sei arrossita tutta...”

“Sì può sapere perché sei venuto qui, Patrick?” sbotto spazientita, mettendomi le mani sui fianchi e aspettando una risposta, ma lui, ovviamente, scoppia a ridermi in faccia divertito.

“Cos’hai da ridere?! Non c’è niente di divertente.” mi lamento.

“Oh sì, invece. Sei così buffa e carina...” mi prende giocosamente in giro.

“Se sei venuto qui per prenderti gioco di me, puoi anche andartene.”

Non capisco come mai mi stia facendo tanto innervosire.
Poi comprendo.
Non è tanto lui, ma sono io che faccio rabbia a me stessa, per essermi esposta così tanto che anche uno sconosciuto riesce a leggermi dentro, a capire meglio e prima di me, i miei pensieri ed i miei desideri.
Non ho proprio imparato niente.

“Comunque, sono venuto qui per ringraziarti per quello che hai fatto per il mio branco, per portarti la colazione e...” si alza, mostrandomi quanto effettivamente sia più alto di me. “Per portarti dal tuo amico. Eric e Richard hanno detto che puoi andarlo a trovare, si è svegliato.”

Sento un tuffo al cuore.
La bocca si piega in un sorriso enorme, solare, e vorrei fare i salti di gioia per tutta casa, urlare, cantare e correre da Edoardo, ma mi trattengo, confusa dalla tranquillità che mi trasmette il licantropo con la sua sola presenza.

“Posso andarlo a trovare!” è il gridolino di esuberanza che, però, mi esce dalle labbra, troppo entusiasta per contenermi del tutto. Vorrei anche battere le mani che questo gesto non mi facesse regredire a una bimba di cinque anni.

Mi limito quindi a salire in camera mia, veloce come un fulmine, darmi una sistemata ed a lavarmi velocemente i denti, seguita dall’uomo che divertito dalla mia frenesia non si perde un mio movimento.

“Lo sai che è maleducazione spiare? Sopratutto se sono ragazze in camera loro?” gli faccio presente, una nota divertita nella voce, mentre mi infilo la sciarpa e le scarpe.

“Sono sempre stato affascinato dai discorsi delle femmine, soprattutto se umane, ma con me puoi stare tranquilla. Io sono innocuo.” mi fa l’occhiolino e prima che abbia modo di fargli altre domande, scende gridandomi mi sbrigarmi perché ci sto mettendo troppo.

Durante il tragitto da casa alla farmacia, beh, direi che è diventata un’infermeria, più che altro, Patrick si è preoccupato di raccontarmi qualche piccolo aneddoto del suo branco, cercando di fare in modo che io non possa rivolgergli domande su quanto mi aveva detto prima, nella mia stanza.
Ma non c’è problema, adesso, il mio unico pensiero è di andare a vedere come sta Edoardo e capire quali sono le sue emozioni, perché dopo quello che ha visto e vissuto che credo che fatichi a darsi una spiegazione e temo la sua reazione, benché qualunque essa sia, non la potrò biasimare.
Sembra una strada senza fine, ma eccola che vediamo spuntare la farmacia ed io, inconsapevolmente, affretto il passo, lasciandomi dietro Patrick.
La farmacia è rimasta come me lo ricordavo, ma si vedono tracce di un gran numero di persone che sono state portate qui; le loro impronte sono rimaste nel terreno e poi si sono tatuate nel lastricato di pietra rossa che circonda l’edificio.
E questo mi ricorda che, dopo, dovrò passare anche da Ellie e vedere come stanno andando le cose, magari ci troverò Garreth.
Apro piano la porta, facendo suonare la campanellina che sta sopra, producendo un suono metallico che riecheggia forte e vibrante nel silenzio assoluto.
Eric spunta dal corridoio, assorto, gli occhi segnati dalla stanchezza ed il viso più pallido del solito; ma trova la forza di sorridermi non appena mi vede, invitandomi ad entrare e seguirlo, già consapevole del motivo per cui sono qui.
Percorriamo tutto il lungo corridoio, la maggior parte delle porte sono chiuse o quasi, segno che all’interno ci sono ancora alcuni pazienti e come tale, hanno bisogno della loro privacy; vengo scortata dal farmacista nell’ultima porta, lasciata un pochino più aperta rispetto alle altre e non appena faccio capolino, vedo il mio migliore amico, disteso, con la gamba fasciata dalla caviglia fino a metà coscia, rialzata con dei cuscini, coperto perché non prenda freddo, assorto nei suoi pensieri che non si è ancora accorto di noi.
Ed a vederlo in questo stato, qualcosa mi muore dentro. Sapere che potevo perdere anche lui, per colpa mia, della mia avventatezza ed egoismo, mi fanno credere di non meritarmi neanche di restare qui.
Il licantropo mi si affianca, silenzioso, prima che varchi la soglia della stanza.

“Amira, mi spiace dirtelo, ma devo. Lui ancora non sa niente, ma dovrà esserne informato appena starà meglio e sarà in forze per poter affrontare la verità.” sussurra, un filo di voce, appena udibile.

Alle sue parole, il sangue si gela nelle vene.

“La ferita non è grave come sembrava all’inizio, e questo è un bene, ma le lesioni ci sono e non sappiamo se riuscirà a camminare. Sussiste il rischio che non potrà più farlo come prima.”

Mi appoggio al muro, per avere un sostegno e non cadere, sconvolta, sfinita, da questa terribile informazione.
Cosa ho fatto? L’ho rovinato.
Mi porto una mano alla bocca per nascondere il tremolio del labbro, per tentare in tutti i modi di arginare il dolore che mi sta dilaniando il cuore e l’anima.
Eric deve accorgersene perché mi mette una mano sulla spalla, confortandomi e dandomi quel sostegno di cui ho bisogno.

“Non disperare, non è niente di certo, ma devi essere preparata anche al peggio.”

“Perderà l’uso della gamba?” chiedo con la voce che trema, tanto che persino io fatico ad udirmi.

“No, non la perderà, devi stare tranquilla. Però gli saranno reclusi certi movimenti e certe attività...” lascia in sospeso la frase e per me è più che sufficiente per capire cosa vuol dire.

Muovo qualche passo indietro, decisa ad andarmene, vergognandomi troppo per quello che gli ho causato, ma Eric mi ferma mettendomi dolcemente una mano sulla schiena, sospingendomi in avanti, e mi sorride, facendomi un cenno con la testa per invitarmi ad entrare.
Prendo un profondo respiro, non sapendo cosa mi aspetta.
Dopo quello che ha visto e vissuto, dopo quello che lo aspetterà, non so nemmeno se mi parlerà ancora, dal momento che gli ho taciuto una verità e quella almeno se la meritava.
Cammino quasi in punta di piedi, un po' per non disturbarlo e un po' per procrastinare il momento in cui gli dovrò dare delle spiegazioni e lui mi dirà che non ne vorrà più sapere niente di me.
Non credo di essere pronta per dirgli addio.
Edoardo ancora non mi ha vista, assorto nei suoi pensieri, ha gli occhi concentrati sulla parete alla sua sinistra, immerso in non so quali ricordi o riflessioni che spero mi vorrà mettere al corrente.

“C-ciao...” la voce è roca e rimbomba nel silenzio della stanza. Per un attimo temo che non mi abbia udita, poiché persino io ho faticato a percepirla.

Lui, molto lentamente, sposta il viso verso di me, con un’espressione neutra e distaccata anche quando si accorge che a parlare sono stata io.

“Ah, sei tu.” mi osserva per un un attimo brevissimo e ritorna a guardare la parete dove c’è una piccola mensola e dei libri ammonticchiati.

Sento una filettata al cuore che si dipana veloce e dolorosa dentro di me, rendendomi incapace di parlare o di formulare una frase che spezzi questo silenzio assordante e colmi la distanza che ci divide.

“Sì, sono io.” mi sento così sciocca ed a disagio.

Ed è un sentimento che non avevo mai provato in sua presenza, che mi destabilizza.

“Sono venuta per-”

“Lo so perché sei qui.” mi interrompe glaciale, puntando i suoi occhi nei miei, non scorgendo più il calore che li caratterizzano. “Sono vivo. Adesso che te ne accertata, puoi anche andartene. Ciao Amira.”

Sento il cuore battere furioso e in maniera dolorosa, al suono macabro delle sue parole; le gambe cedevoli e le mani tremanti.
Ho la gola secca, così come gli occhi, segno che sono rimasta con le palpebre spalancate da troppo tempo, ancora incredula e attonita per le sue parole e per il suo trattamento.
Muovo incerta un passo verso di lui, indecisa se proseguire, annichilita dal suo mutismo e dal rancore che trapela dalla voce.

“Perché cazzo non me l’hai detto, eh Amira?!” sbotta all’improvviso, facendomi fare un saltello sul posto. “Perché cazzo ti sei tenuta dentro questo fottuto segreto? Non ti fidavi di me, pensavi che andassi a sbandierarlo ai quattro venti?” alza la voce, trucidandomi con lo sguardo.

“No, io...” mi trema la voce, la mente spenta.

“Ci hai messo in pericolo. TU eri in pericolo e non mi hai detto un beneamato cazzo!” picchietta il dito indice sul letto, scaricando la frustrazione, fuori di sé.

“Non po-potevo dirtelo… avevo promesso...” non sono in grado di completare una frase, annientata dalla sua rabbia nei miei confronti, purtroppo giustificata.

“Abbiamo sempre condiviso tutto, tu ed io, sai che non ti avrei mai tradito. Nemmeno questa volta. E adesso guarda com’è andata a finire col tuo segreto!” è deluso, ferito dal mio atteggiamento.

E non posso dargli torto.
Ogni parola è una lama; ogni accusa una stoccata che mi trapassa l’anima, annientandomi.

“Edo, ascolta...” la mia voce esce bassa, incrinata, distrutta, come il mio cuore.

“Edo ascolta una sega, Amira! Ora è un po' tardi per le spiegazioni, non ti pare?”

“Cazzo vuoi che ti dica, eh?!” sbotto a mia volta, alzando la voce, disperata. “Mi dispiace averti messo in questo casino e di averti coinvolto. Non doveva andare così, tu dovevi rimanere all’oscuro il più possibile e volevo questo per non farti correre nessun rischio.”

“Ho notato.” è la sua stoccata acida.

“Vaffunculo Edoardo! L’ho fatto per te, credendo di fare la cosa giusta!” caccio indietro le lacrime, troppo arrabbiata per pensare a piangere e continuo la mia furia. “Non sono una veggente e non potevo prevedere che sarebbe andata a finire così!”

Lui fa per aprire bocca, ma non glielo permetto.

“Stai zitto!” batto un piede in terra, se per dare enfasi al mio discorso o per semplice capriccio, non lo so; so solo che sono stanca e non voglio perdere anche lui.

E sono anche stanca che qualsiasi cosa io progetti, cerchi di programmare svanisca come fumo nell’aria.
Da quando sono qui, in questo villaggio niente è andato come doveva andare; se per colpa della mia cattiva sorte, del karma o perché i licantropi portano sfortuna non lo so, ma sono stanca che qualsiasi mia azione comporti un disastro colossale.

“Perché cazzo credi che volessi farti tornare a casa? Eh, me lo spieghi?!” strillo tanto da sembrare pazza.

E non mi interessa neanche sapere che ci sono altre persone, oltre a noi, che stanno sentendo – ma non capendo, per fortuna – la mia voce alta e che potrebbero esserne contrariati.
Fa per aprire bocca, di nuovo, ma lo interrompo.

“Non fiatare, brutto idiota! Quello che ho fatto era per cercare di tenerti al sicuro. Non volevo che ti capitasse niente di male.” tiro in su col naso, in maniera poco femminile e al suo sguardo pietoso, misto alla vecchia dolcezza, indurisco il mio.

“Sei un cretino!” cerco di trattenere le lacrime, arrabbiata con lui, con me, e pure con i licantropi, benché sappia che loro non hanno alcuna colpa in tutto questo.

Beh, forse un pochino si.

“Lo so.” dice, abbassando lo sguardo, pere poi indirizzarlo su di me, un cucciolo bastonato che chiede scusa dopo la sfuriata.

“Vaffanculo se lo sai, allora!” mi scappa un singhiozzo che proprio non riesco a trattenere.

“Vieni qui.” la sua voce adesso è dolce e pacata.

Scuoto la testa, evitando di guardarlo, puntando i miei occhi sulle scarpe, sul pavimento dalle grandi mattonelle verdastre lucide, lanciando fugaci sguardi alle lenzuola bianche sulle quali è disteso e coperto Edoardo.
Intravedo la sua mano picchiettare sul bordo del materasso, accanto al suo corpo, in un chiaro invito ad avvicinarmi e sedermi, solo che rimango impalata, la testa china, sopraffatta da troppe emozioni.
Io e lui non avevamo mai litigato così duramente, né avevamo alzato la voce l’un l’altra, tanto meno si era comportato in maniera tanto distaccata.

“Mira, ti prego.” è poco più di un sussurro, dolce e carezzevole. “Ti prego, piccola.”

A questa supplica, i miei piedi si muovo da soli, non appartenendomi più, attratti dal suo richiamo.
Mi fermo al lato del letto, impalata come una statua, adocchiandolo di tanto in tanto.
Allunga la mano, quella sana, non bendata, dove non è attaccato l’ago della flebo, per prendere la mia, strofinando il pollice il dorso, avvicinandomi ancora di più a lui.

“Mi dispiace… io non volevo tutto questo...” stringo la sua mano, per trovare il conforto di cui necessito, bisognosa di sentirlo vicino, ancora spaventata che ci ripensi e non mi voglia parlare mai più.

“No, è a me che dispiace.” dice sommesso, tirandomi leggermente il braccio, per farmi avvicinare ancora di più. “Forza, sdraiati accanto a me.” mi sorride insicuro, non sapendo se dopo la sfuriata che ci siamo fatti, io me la senta.

Ma vedere che mi lascia lo spazio per permettermi di stare al suo fianco, in un tacito – non poi così tanto – invito a perdonarlo, mi si riempe il cuore di gioia e non ci rifletto su un attimo in più, prima di accoccolarmi alla sua destra, stando molto attenta a non urtargli la gamba ferita.
Mi circonda le spalle con il braccio e con la mano disegna linee immaginarie sopra la stoffa dei miei indumenti, mentre io adagio le mani sul suo addome.
Alzo la testa per poterlo guardare negli occhi; sguardo che lui ricambia con tutto l’affetto che nutre per me.
So di non meritarmi il suo affetto, io che mi sento così spregevole prima per avergli taciuto una verità che l’ha quasi ucciso, adesso un’altra, di verità, che potrebbe distruggerlo definitivamente. Il mio animo è diviso, combattuto se parlargliene adesso e mettere per sempre la parola fine al nostro rapporto, oppure seguire il consiglio del licantropo, ed aspettare che ci siano dei riscontri e magari, sperare in un miracolo.

Chissà, magari la loro Dea, potrebbe intercedere anche per gli esseri umani.

Alla fine, la parte egoista, quella che vuole a tutti i costi avere Edoardo al suo fianco, ha la meglio, e gli taccio la verità, per il momento, decidendo infine, di raccontargli la storia.

“Non doveva andare così. No, fammi finire, per favore.”

Lui sorride e aspetta paziente che io continui, non smettendo di coccolarmi.

“Io l’ho scoperto per caso… cioè, non proprio. Ho pedinato Garreth, credendo di essere finita dentro una setta o qualcosa del genere; non so, un villaggio di fanatici.”

“Wicker Man...” borbotta lui, divertito, sorridendomi tra i capelli. “Quel film ti ha fatto male.” constata, conoscendomi fin troppo bene.

“Già.” appuro io, ricordandomi di quando, a mia volta, lo pensai.

“L’hai seguito. E che cosa hai scoperto, Sherlock?”

“Che Garreth è il capo, insomma, lui è l’alfa e che stavano organizzando un attacco contro i cacciatori e che, beh… sono licantropi.”

“E che cosa hai fatto dopo?” gli è impossibile nascondere l’apprensione, nonostante ormai sia tutto passato ed io sia qui, con lui.

“Garreth si era accorto di me, io mi sono spaventata e sono fuggita nel bosco.”

“Ottima mossa. Te l’ha mai detto nessuno che sei imbattibile in strategia?” mi prende in giro, un largo sorriso a decorargli le labbra.

In risposta gli faccio la linguaccia.

“Molto matura.”

E questo teatrino, mi ricorda molto quello con Garreth, e un groppo amaro mi si forma in gola. Chissà dov’è adesso e se starà bene.

“Mi sono persa.” continuo, non badando alla sua battuta. “Per cercare di non farmi trovare mi sono nascosta dietro un albero, ma lui era sempre più vicino e così scappavo di nuovo. Ha provato a chiamarmi ed io ho provato a chiamare te.”

“Waooo…! Che triangolo amoroso intrigante.” non riesce ad essere serio nemmeno in un momento come questo.

“Cretino!” gli picchietto la mano sul torace, divertita dalla sua comicità. “Poi mi sono imbattuta nei cacciatori. Erano lì per scovare i lupi. Credevano che mi avessero aggredita e mi volevano portare dalla polizia.”

“Mira, tu i guai te li crei proprio. Aspetta aspetta...”

Chiudo la bocca, aspettando – credendo – che dica qualcosa di intelligente o quantomeno, utile.

“Amira sta ai guai come le api stanno al miele. Eh?” chiede conferma, con un largo sorriso sulla faccia.

Alzo un sopracciglio, incredula.

“Oppure senti questa…”

“Mi fai finire?!” lo interrompo, spazientita e divertita al contempo.

Non so come farei senza di lui e queste uscite idiote.
Cambio posizione, continuando la mia storia, non venendo più interrotta, mettendolo al corrente che ho sparato – per sbaglio – ad un cacciatore, che sono scappata a casa sperando che Alan non fosse sveglio. A malincuore, gli ho detto persino l’episodio dell’infermeria, guadagnandomi un’occhiataccia truce, per la mia stupidità.

“Sei una pazza incosciente.” mi rimprovera, perdendo ogni ilarità.

“Che ci potevo fare?! Stavo male e volevo dormire.” mi giustifico, ma a giudicare da come indurisce il viso, la mascella contratta, gli occhi ridotti a due fessure, concordo con me stessa dicendo che era meglio se non glielo dicevo.

“E drogarti ti sembrava un buon modo?”

Vorrei ribattere come ho fatto con Garreth, ma questa volta mi cucio la bocca ed ogni risposta che mi è venuta alla mente, me la tengo per me.

“Per fortuna c’era lui...” esala, una leggera nota di preoccupazione, sfumata via nell’aria.

“Ti ricordo che ha sfondato la porta.” gli faccio notare, con tono ovvio e seccato.

“Poteva anche demolire casa, se necessario.”

Rimango un attimo in silenzio, vinta dalla bellissima emozione che mi si è diramata nel petto, per l’affetto che Edoardo nutre nei miei confronti.
Continuo la storia, cercando di farlo tacere da ogni supposizione, quando arrivo a narrargli di Garreth e Julia, e basta un mio sguardo assassino, per farlo tacere e farmi proseguire.
Il mio racconto finisce e ce ne restiamo in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, ragionamenti e riflessioni; immaginando che per lui sia difficile da digerire tutta questa storia, come lo è stato per me.

“E chi l’avrebbe mai detto?” è lui il primo a parlare, dopo un tempo indefinito. “Invischiati in un branco di lupi. Di licantropi!” sembra quasi eccitato all’idea. “Ed io che credevo che la cosa che più mi avrebbe sconvolto nella vita, fosse stato scoprire di essere stato adottato.” aggiunge dopo qualche minuto.

Sì, mi ricordo quanto ne fu turbato quando gli venne detto dai suoi genitori che, impensieriti e nervosi, quel giorno, decisero di far venire anche me, come sostegno morale per il figlio.

“Che succederà adesso?” mi chiede, vedendo che ancora non mi sono mossa, né ho fiatato, continuando ad elargirmi coccole ed attenzioni.

“Garreth ha punito gli aggressori e adesso stanno dando la caccia ai cacciatori...” ridacchio per questo gioco di parole non voluto.

Io ed Edoardo ci guardiamo, una luce ci attraversa gli occhi e la bocca si piega in un sorriso complice, sapendo entrambi cosa stiamo pensando.

“Balbettante bambocciona banda di babbuini!!!” gridiamo in coro, ridendo come matti l’attimo dopo, per nulla seri, ripromettendoci che appena lui sarà guarito, ci guarderemo tutti i film di Harry Potter.

“Cosa dirai ai tuoi, quando tornerai a casa?” indico la gamba e la mano fasciata.

“La verità, credo...” si stringe nelle spalle, sminuendo ciò che ha appena detto. “Che Amira mi ha picchiato.”

Scandalizzata, gli tiro un leggero cazzotto sul braccio, avvalorando così la sua spiegazione.

Le nostre risate vengono interrotte dall’arrivo di Patrick che, appena ci vede sdraiati accanto, il sorriso gli muore e si fa serio.

“Eric mi ha mandato a vedere se vi stesse uccidendo.” dice, rimanendosene fermo, rigido, in mezzo alla stanza, l’espressione leggermente indurita.

Edoardo lo rassicura dicendo che adesso è tutto risolto e chiede scusa per le urla che, sicuramente, hanno sentito, non notando come l’atteggiamento del licantropo sia cambiato radicalmente.

Ma io sì, l’ho visto chiaramente.

Il suo viso si è trasformato in una smorfia infastidita, che non è riuscito a controllare.
Che mi stesse aspettando e si sia indispettito vedendomi stravaccata qui?
Passo in rassegna le altre opzioni, ma sono una più improbabile dell’altra.

“Tolgo il disturbo. Vi lascio soli.” si avvia verso la porta, ma viene fermato da Edoardo che lo invita a rimanere con noi.

Volgo lo sguardo dal licantropo al mio amico e viceversa, non perdendo l’occhiata penetrante che si sono scambiati.
Patrick, poi, rilassa i muscoli, abbozza un sorriso e prendendo una sedia, si avvicina a noi, iniziando a conversare ed informarsi sullo stato di salute del paziente.
Li lascio parlare, felice di vedere che i due si trovano in sintonia e che Edoardo non ha paura di loro, ma al contrario ne è affascinato, tanto da fare una domanda dietro l’altra.

A metà mattinata, sono costretta a salutarlo, con la promessa che ritornerò nel pomeriggio, perché voglio andare ad aiutare Ellie e gli altri con il nuovo branco.

“E’ in buone mani.” mi assicura Patrick, facendomi l’occhiolino.

“Ci conto.” è tutto ciò che dico, prima di sentirli ritornare parlare fitto fitto tra di loro.

Mah, sembrano amici di vecchia data.

Potrei quasi sentirmi gelosa.

Quando arrivo al tendone della mensa, alcune donne sono già occupate a preparare un pasto, quindi mi affianco alla lunga tavolata, saluto e dopo aver ricevuto direttive, mi unisco ai preparativi.
E come la sera precedente, anche oggi, serviamo qualcosa che sia caldo per combattere le temperature ormai sempre più in diminuzione e che risollevi un po' il morale a queste povere persone.

“Forse non te ne accorgi,” Ellie mi si affianca silenziosa, dando il cambio ad un’altra donna per poter parlare con me. “Ma hai fatto molto più di quello che credi, per loro.” gli indica con un cenno della testa, ed è così che vedo che sono un pochino più rilassati.

I visi sono distesi, qualcuno in più di ieri ha la forza di sorridere agli altri e vedendo loro, vengo invasa da una nuova speranza anch’io, leggermente più ottimista.

“Dovremmo aiutarli a ricostruire il loro villaggio… le loro case.” dico a voce non tanto alta, più a me che alla mia interlocutrice.

“Certo che lo faremo. C’è un patto di aiuto reciproco tra i branchi confinanti. Quando Garreth tornerà e la minaccia dei cacciatori sarà finita, li aiuteremo.”

Al nome del figlio, il cuore perde un battito e le guance mi si infiammano e so per certo che non è colpa del freddo.

“Ma lui dov’è? È andato via questa mattina ma non mi ha detto dove sarebbe andato.” cerco di non essere apprensiva o petulante, sopratutto di non essere pretenziosa, perché lui non è tenuto a dirmi niente, così nemmeno la madre e nessun altro del branco, ma sono preoccupata e non riesco a togliermi di dosso questa brutta sensazione che stia per accadere qualcosa.

“Non l’ha detto nemmeno a me, ma non c’è da preoccuparsi, tornerà presto.”

Mi affido alle parole della madre, perché chi meglio di lei potrebbe avere questa certezza?
Non io, di certo, che lo conosco da poco più di un mese.
In realtà potrei non conoscerlo affatto e non capisco, ancora, come Garreth sia riuscito a fare breccia nel mio cuore così facilmente, senza sforzo alcuno o alcun intento; come io sia stata in grado di affezionarmi – e ahimè, non solo – ad una persona, un uomo, – un licantropo, un creatura straordinaria e leggendaria – dopo quello che mi ero ripromessa e avevo spergiurato.
Forse tutta questa storia mi ha rimbecillita o sono rincoglionita senza accorgermene ancora prima che venissi qui.

Mi sono rincitrullita.

E, inevitabilmente, mi ricordo del cartone animato Bambi, quando lui e i suoi amici, uno ad uno, si rincitrulliscono per una femmina, proprio come aveva predetto il gufo.
Solo che non siamo in primavera ed a me, nessuno mi ha avvisata; nessun vecchio saggio gufo, mi ha messo in guardia.
Ridacchio tra me, per la buffa immagine che mi si è creata in testa.

“Tutto bene?” domanda Ellie, non capendo cosa mia sia preso.

La rassicuro, dicendole che non sono impazzita – anche se suo figlio ci potrebbe riuscire – e continuo il lavoro.
Quando ormai i pasti sono finiti, mi offro di portare via alcune stoviglie e lavarle, mentre le altre finiranno di sistemare.
La cesta è pesante, più di quello che immaginavo, e mi pento di non essermi fatta aiutare, ma detesto al contempo farmi vedere debole o in difetto di fronte a loro.
Arrivata a casa, non senza aver rischiato di far cadere tutto almeno un paio di volte, sistemo le cose nella lavastoviglie e attendo che finisca, per poi riportarla alla mensa.
Guardo l’orologio appeso alla parete della cucina, che segna le tre e mezza.
Ho ancora un’ora prima che l’elettrodomestico abbia svolto il suo compito, quindi nell’attesa mi riscaldo dell’acqua per una tisana e una volta pronta, tra un sorso e un altro, aggiorno mia cugina sugli ultimi accadimenti, scrivo ai miei per far sapere loro che sono ancora viva, prima di vederli comparire qui, come ha fatto quello sciagurato di Edo.
Con la tazza tra le mani, per scaldarle, salgo al piano superiore, entro nella mia stanza, affacciandomi alla finestra, senza motivo, in attesa.

Beh, forse il motivo lo so.

Spero di vederlo sbucare dal bosco, da un momento ad un altro, dirigersi qui, abbracciarmi, baciarmi e… basta!
Devo assolutamente smettere di pensare a lui.
Solo che persino questa camera mi ricorda Garreth.
Quella sera che è passato dal giardino qui sotto, io che scavalcai la finestra per seguirlo; la mattina successiva che mi ha trovata – salvata – da una quasi overdose di antidolorifici.
Stizzita da me stessa, per cancellare il suo ricordo dalla mente e dal corpo, decido di farmi una doccia e cambiarmi gli abiti, mettendone di più comodi e caldi.
In cucina la lavastoviglie è ancora in funzione, spazientita, prendo il cappotto infilo il cellulare in tasca ed esco, in direzione dell’infermeria.
Entro indisturbata, di Eric non c’è traccia e, memore della strada, mi dirigo sicura nella stanza dov’è ricoverato Edoardo.
Apro la porta piano, per non svegliarlo qualora stesse dormendo, ma lo trovo sveglio e, per fortuna, da solo.

“Come stai?” gli chiedo, sedendomi al suo fianco e scostandoli una ciocca di capelli che le è caduta davanti al viso.

“Meglio, anche se la gamba mi fa sempre male.” si lamenta, scoraggiato dal fatto di non potersi neanche muovere.

Il tuffo al cuore è inevitabile, difficile è mascherarglielo, proprio a lui che mi ha sempre letta come un libro aperto. Devo sforzarmi di non pensare, di essere positiva e di credere che andrà tutto bene.

“E fatti dare un antidolorifico da Eric, no?” domando con ovvietà, mascherando il dolore che provo per la sua condizione, di cui lui non è al corrente.

“Già fatto, un’ora fa. E poi lui è andato via.”

“E dove?” mi informo, trovando strano che lasci soli i suoi pazienti per tanto tempo.

A meno che, non sia successo qualcosa di più grave.
E se si trattasse di Garreth?
No, impossibile, mi avrebbero avvisata.

“Non lo so… stavamo parlando quando si è interrotto lì… proprio lì, in mezzo alla stanza.” indica il punto con un dito. “E’ rimasto inchiodato e ammutolito per qualche secondo e poi ‘Devo andare’ e se n’è andato.”

Questo comportamento era solito di Alan quando comunicano telepaticamente.
Mi domando cosa sarà successo di così urgente per far scappare Eric.
Il senso di irrequietezza si fa strada, ma provo a non badarci, rassicurandomi che che ci possono essere altre mille ragioni che spiegano il suo comportamento, e non necessariamente devono essere tragiche.
Vengo riportata coi piedi per terra dalla richiesta disperata di Edo, che mi supplica di mettere un po' di musica.

“C’è troppo silenzio, qui… rischio di impazzire.”

“Sei in infermeria, non in discoteca.” lo rimprovero, senza riuscire però ad essere seria.

“Ti supplico! La terremo bassa, ma ti prego, ti scongiuro, ti imploro!, dimmi che hai la musica!”

“Sei più drammatico di una tragedia greca.” mi alzo e mi sporgo fuori dalla porta, per accertarmi che non ci sia nessuno nei paraggi, poi la richiudo e tiro fuori dalla tasca del cappotto il telefono, selezionando qualche canzone.

“Ah Mira, tu sei la migliore!” mi sorride felice, guardandomi ritornare verso di lui.

“Sì, beh, non ci sperare troppo, non ho molte canzone qui dentro, non è mio il telefono e appena potrò permettermene uno, questo ritornerà al suo proprietario.”

Lui mi guarda storto, non capendo a cosa o a chi io mi riferisca.

“E che fine ha fatto il tuo?”

Mi siedo accanto a lui, distendo le gambe accomodandomi meglio nel suo abbraccio, mentre faccio partire la prima canzone.

“E’ finito dentro uno stagno.”

La melodia parte, il volume è davvero basso, ma non voglio disturbare gli altri pazienti, ma ha ragione Edoardo, qui dentro c’è troppo silenzio ed i pensieri mi stanno assordando.

“E come ci è finito?” mi guarda meravigliato, un accenno di sorriso a decorargli le labbra.

“L’ho lanciato.”

“COSAAAA!?!?!”

“Abbassa la voce, Edo!” lo sgrido, guardandolo male.

“E perché lo avresti fatto?”

“Ero arrabbiata e non ho ragionato.”

“Oh sì, immagino. Ricordami di non farti mai arrabbiare, allora...” ridacchia ed io con lui.

Passano alcuni minuti, la canzone è finita ed è iniziata un’altra; chiacchierando di cose futili, del passato, giusto per far passare il tempo.
Lo aiuto a sistemarsi con la schiena sui cuscini, chiedendogli se ha bisogno di altro.

“Oh si cara, vorrei un bel piatto di lasagne, quelle che cucina tua madre.”

“Anche io le vorrei...”

“Allora perché non me le cucini, quando verrò via da qui?”

“Oh ma certo, poi vuoi anche un massaggio e che ti rimbocchi le coperte e ti dia un bacino prima di dormire?”

“Sarebbe perfetto.”

“Ah, sognatelo.”

“Come sei acida, Mira. Non credevo di dirlo, ma ti preferisco quando c’è Garreth nei paraggi...”

Lo guardo sospettosa, aspettando che vada avanti e che mi spieghi cosa volesse dire.

“Voglio dire proprio quello che ho detto. Quando sei con lui, cambi e sei più calma, tranquilla… Aaaaaah, l’amore...” dice con aria sognante.

“Ma smettila scemo!” cerco di non pensare a ciò che mi ha detto, ma la sua frase mi ha fatto riflettere.

“Dico solo quello che vedo...” si stringe nelle spalle. “Oh oh oh! Questa mi piace, lasciala!” mi prende il telefono dalle mani, per assicurarsi che non la cambi.

Lo lascio fare, forse sono le medicine che gli ha dato Eric ad averlo reso ancora più scemo.

Inizia a canticchiarla, contagiando anche me. Una volta finita, ne mette un’altra e se non gli piace o non gli fa voglia di ascoltarla, passa alla successiva finché non trova quella che gli piace, intonandone qualche nota.

“Aspetta, ho la canzone perfetta per te!” digita qualcosa sullo schermo, impedendomi di vedere cosa sta scrivendo, perché probabilmente già sa che gli toglierei il telefono di mano se sapessi cosa ha in mente.

La musica parte, il volume fortunatamente è basso, e la melodia del pianoforte risuona dolcemente riecheggiando nella stanza.
Guardo il mio amico, non riconoscendo la canzone che ha scelto, ma bastano le prime parole cantante dal ragazzo, per avere la certezza di quale canzone abbia messo.

“Edo! Sei scandaloso!” mi fingo indignata per la scelta da lui fatta, mentre se la ride di gusto, senza sforzarsi di trattenersi.

La distanza che ci divide fa male anche a me.
Se non vai via, l'amore è qui.1

“Io trovo che sia perfetta, invece, per la tua situazione.” fa spallucce, allontanando il telefono per sicurezza. “E non puoi picchiarmi, sono convalescente ti ricordo.” fa notare ovvio, come suo solito, quando vede il mio sguardo assassino e la mano pronta a farli almeno un pizzicotto.

Nel frattempo, la canzone prosegue e, per avvalorare la sua frase di prima, inizia a canticchiarla, invitando me a fare altrettanto.

 

Sei un viaggio che non ha ne' meta ne' destinazione.
Sei la terra di mezzo dove ho lasciato il mio cuore, così.
Sono solo anch'io, come vivi tu, cerco come te… L'amore.1

 

Benché mi ricordi ancora le parole di questa canzone, lascio che sia lui a cantarla, decisamente più intonato di me, ripensando a quello che mi ha detto.
Questa canzone rispecchia la mia situazione.
Edoardo è folle, certe volte è pure strano, e questa sua affermazione lo dimostra, ma di tante cose bizzarre che ha detto, forse – e sottolineo forse – questa è la meno strampalata che potesse dire.
Che lui abbia visto in me un cambiamento che neppure io sono riuscita a notare? Che veramente io sia tanto diversa quando sono in presenza di Garreth e che sia stato proprio il licantropo a cambiarmi?
Certo è, che da quando sono qui, le cose sono diverse e pure io lo sono.
Che ne sia innamorata? Addirittura?
Attratta sicuramente.
Ma parlare di amore, forse è presto.
Non ci conosciamo, non so chi è. In parte si, ma solo ciò che fa vedere lui all’esterno, ma ciò che nasconde dentro di sé mi è totalmente ignoto.
Edoardo parla bene, lui rimane un eterno, inguaribile romantico, anche se ci è rimasto scottato con le relazioni passate; e lo sarei pure io se l’ultima non mi avesse messa al tappeto.
Per il momento non ci voglio pensare più, rischio di affollare la mente di troppi problemi, di dubbi e di farmi venire l’ennesima emicrania, quando devo essere lucida, stare bene per poter essere d’aiuto per Edoardo e per poter sostenere i membri del branco.
Fortunatamente la canzone finisce, così come le mie paranoie e io lo convinco a rimettere la palylist che ho sul telefono dove non ci sono canzoni smielate che lo possono indurre a fare congetture astruse.
Mettiamo canzoni di vario genere, che rispecchiano i gusti di entrambi, canticchiandole più o meno a tempo, o come meglio riusciamo per non stonare troppo, ma il nostro duetto viene interrotto bruscamente da un’affannata e seriamente preoccupata Judy, mentre la playlist riproduce Everything goes black e non so perché, ma è come se fosse un avvertimento.

 

But if you're never here, and I'm left all alone
Tell me what am I supposed to do?2

Vorrei salutarla, abbracciarla, perché in questi ultimi giorni non ci siamo mai viste e mi è mancata, vorrei presentarle il mio migliore amico ma qualcosa, più pesante della gravità terrestre, mi costringe a rimanere seduta, con il cuore in gola ed un peso sullo stomaco.

 

Whenever you're gone away.
The darkness hides the day.
Whenever you're gone.
The bleeding won't stop.
It hurts 'til you come back.2

 

“Finalmente ti ho trovata!” accorata, si avvicina con cautela.

Rimango in silenzio, afferro la mano di Edo che era già nella mia senza che me ne accorgessi.

“Sì tratta di Garreth. È stato gravemente ferito.”

Ed io sento il mondo crollarmi sotto i piedi.

 

Everything goes black.2







-Angolino mio- 

Ciao ragazzuoli.... Spero che il capitolo vi sia piaciuto... 
A questo giro non ho tardato molto l'aggiornamento. Fatemi sapere cosa ne pensate...

Le canzoni sono: 1. L'amore, Sonohra; 2. Everything goes black, Skillet

Al prossimo capitolo...

Un abbraccio, buona estate!
La vostra Nina <3 

  
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