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Autore: _Lisbeth_    10/08/2020    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Quando Jake aprì gli occhi gli sembrò tutto normale, tranquillo. Si accorse di stringere il corpo della sorella tra le braccia e si guardò attorno.
- Josh?
Non ottenne risposta dal letto a castello sopra di lui. Forse Josh ancora dormiva.
Con delicatezza, per non svegliare Veronica, Jake si mise seduto sul letto, sentendo subito girare la testa. Era senza forze, si sentiva stordito, gli faceva male la gola, come se avesse gridato. Gemette, prendendosi la testa tra le mani. Non ricordava nemmeno di aver mangiato la sera prima. Stava cercando di mettere in ordine i pensieri e le idee, a malapena. Era certo di una cosa: si era addormentato stringendo la sorella tra le braccia, ricordava i singhiozzi di Ronnie, le urla della ragazza soffocate sul suo petto, ma non aveva idea del perché stesse piangendo.
E poi, come se un lampo gli avesse spaccato la testa a metà, ricordò tutto. Il fischio assordante dell’elettrocardiogramma e le sue stesse urla, Ronnie rannicchiata sul pavimento, il viso di Josh. Sam non era tornato a casa con loro.
Trovò la forza per alzarsi e scendere di sotto. In casa non c’era nessuno, nella camera dei genitori il letto matrimoniale era vuoto.
Se n’erano andati anche loro.
- M-mamma… - sentiva le proprie mani tremare e la testa martellare. – Mamma. – sollevò il viso, appiattendosi contro il muro. – Papà.
Sentì il petto stringersi, i suoi polmoni sembravano intrappolati in una morsa. Non riusciva più a respirare.
Si accorse di non poter prendere aria in nessun modo. Per quanto ci provasse, gli sembrava solo che ad ogni respiro che cercava di prendere il petto gli si stringesse ancora di più. Sentiva il cuore battere talmente forte da fargli male, gli veniva da piangere ma il suo intero corpo sembrava essersi bloccato.
“Sto morendo”, pensò. Si sentiva annaspare mentre cercava in ogni modo di respirare.
“Sto morendo”.
- Jake.
Ronnie.
"Non respiro."
- Jake, guardami.
Spostò lo sguardo verso sua sorella: i suoi occhi grandi e scuri lo guardavano con dolcezza, morbidi e rassicuranti. Si sentì prendere la mano tremante.
- Respira. Sono qui con te, non vado da nessuna parte, Jake.
Si sporse verso la ragazza, stringendola tra le braccia con il respiro accelerato. Le mani di Ronnie gli accarezzarono le spalle e la schiena e sentì le sue labbra posarglisi sulla parte alta della testa.
- Tranquillo, Jake.
Il ragazzo si sentiva privato di tutte le forze. Era esausto, come se gli fosse stata risucchiata ogni energia. Però gli sembrava di poter respirare meglio. Il battito del cuore rallentò a poco a poco, come se le braccia della sorella avessero avuto il potere di calmarlo.
Veronica lo guardò negli occhi, accarezzandogli uno zigomo. – Andiamo a mangiare qualcosa, fratellino.
 
 
Jake sentì la stretta delle braccia della madre attorno a sé, ma non la riconobbe. Karen era sempre la stessa, fatta eccezione per il viso stanco e l’espressione amara, però Jake era confuso. Perplesso. Sentiva di avere tantissime domande da farle ma non ne aveva la voglia. Non la vedeva da così tanto tempo da non saper cosa fare. Riconosceva il profumo dei suoi capelli, la morbidezza dei suoi abbracci. Quelli di cui avrebbe avuto bisogno per un anno e che non c’erano mai stati.
Si staccò dalle sue braccia nonostante le avesse aspettate così tanto e chiuse la porta, avendo poi il coraggio di guardare la madre negli occhi mentre deglutiva. – Che cosa ci fai qui?
Poté vedere lo sconforto e la tristezza negli occhi lucidi di Karen.
- Jake, che succede? Chi… - Veronica si fermò dietro di lui, i suoi capelli lunghi sfiorarono le spalle del fratello. Jake percepì il corpo della ragazza irrigidirsi, la vide indietreggiare.
- M-mi siete mancati così tanto… Ronnie… Mia dolce Ronnie. – Karen allungò una mano, come a volerle fare una carezza, ma non appena le sfiorò il viso la mano di Ronnie colpì la sua, allontanandola.
- Hai ancora il coraggio di toccarmi?
- Piccola mia…
- Stai zitta. – il tono era freddo ma la voce era spezzata. Jake si accorse delle lacrime che avevano iniziato a scorrerle sulle guance. – Io non sono la tua bambina. Non lo sono da quando ci hai lasciati da soli, distrutti, senza un fratello e senza dei genitori.
- Non vi ho abbandonati, io…
- Non ti sei fatta vedere per un anno intero, forse anche di più. E ti sei ripresentata a casa nostra così, come se non fosse successo niente. Ci hai lasciati da soli. – La voce di Jake era immobile, quasi monocorde, anche se il cuore gli batteva forte e sentiva lo stomaco in subbuglio dalla rabbia che provava.
- Fatemi entrare, per favore. Ho bisogno di voi, voglio parlarvi… Sono la vostra mamma.
- Hai idea di come siamo stati, senza la nostra mamma? Hai idea di com’è stato Jake, di come cazzo è stato Sam, che è chiuso in una clinica senza neppure avere tue notizie? – Ronnie si fermò, serrando le dita intorno a quelle di Jake, che le strinse a sua volta. – Hai idea di come… Di come sono stata io?
- Mi dispiace, mi dispiace. – Gli occhi di Karen erano completamente inondati dalle lacrime, la sua voce era incrinata e le sue gambe piegate quasi a far toccare dalle ginocchia il pavimento.
- Dov’è papà?
La donna si irrigidì, pietrificata. – L-lui non… Kelly è…
Jake aspettò, continuando a tenere la sorella per mano osservando gli occhi e i movimenti della madre. La vide tirare giù le spalle, come sovrastata da un peso doloroso. – Kelly mi ha abbandonata. E’ andato via, come io ho abbandonato voi.
Il ragazzo trasse un respiro profondo.
- Una mattina ho aperto gli occhi e… Semplicemente, lui non era più lì. Si era portato tutto quanto con sé, ogni cosa. Anche le vostre fotografie.
Jake fece un sorriso sprezzante, annuendo a se stesso e incrociando le braccia al petto. – Mi è proprio familiare, questa situazione. Forse perché anche io e Ronnie, una mattina, ci siamo ritrovati da soli. Senza saperne il perché, senza potercelo spiegare. Senza soldi, senza sapere cosa fare.
- E a che cazzo gli servono delle fotografie? – Ronnie stava urlando, tutta la rabbia che aveva tenuto dentro stava venendo a galla in quel momento. – Noi siamo qui. Siamo vivi, lo siamo sempre stati ma non ve ne siete neanche accorti.
Karen appoggiò le spalle sulla porta. - Stavamo così male. Così male per Josh, per il nostro bambino. Non riuscivamo a…
- Pensa che io con Josh ci sono nato. Era tutto quanto, ogni cosa. Avevamo gli stessi occhi e lo stesso sangue, eppure io non sono andato via. Non ho abbandonato mia sorella e mio fratello per pura codardia, e avevo ventidue anni. E Ronnie non ha abbandonato me. – Jake chiuse gli occhi, imponendosi di respirare a fondo e di rimanere in piedi. Gli venne in mente una delle tante frasi che gli aveva detto Tracy Ziegler.
“Per non perderti avrai bisogno soprattutto di te stesso”
Trasse un altro respiro, accarezzando la mano di Ronnie. – Entra dentro, mamma.
 
 
Quando Karen aprì la porta si trovò davanti Jake in condizioni pessime. Suo figlio era bagnato come un pulcino, dalla testa ai piedi, e tremava così forte da far muovere tutto lo zaino che era sulle sue spalle. Aveva un occhio pesto e il labbro inferiore gonfio. Karen non voleva nemmeno immaginare cosa fosse nascosto sotto al suo giubbotto che, di tre taglie più grandi, lo faceva sembrare ancora più piccolo.
- Jake, amore, che è successo? Entra, che fai lì sulla porta? – gli sfilò lo zaino dalle spalle e lo accompagnò in casa tenendolo per mano.
-  Bagnerò tutto il pavimento, mamma.
- Ma chi se ne frega del pavimento! – fece per sfilargli il giubbotto ma non appena gli toccò le spalle lo sentì pigolare. Quel suono le spezzò il cuore, inumidendole gli occhi.
- Faccio da solo, non preoccuparti. – la voce del bambino era sottile e flebile, anche un po’ tremolante. Nel toglierlo, il giubbotto gli cadde sul pavimento. – Scusami, non volevo farlo cadere.
- Jake, oggi tu vuoi proprio farmi arrabbiare. Pulirò dopo, che sarà mai un po’ d’acqua. – Karen vide Jake sorridere, e quello le bastò per stare leggermente meglio. La sua espressione cambiò nuovamente quando vide le braccia esili del figlio ricoperte di lividi e di graffi, le venne da piangere. – Piccolo… Chi è stato a ridurti così? Ora mi sono veramente stancata.
 
- Guarda un po’ cos’ho preso! La chitarra di Jakey!
Quando sentì quella voce, Jake alzò la testa e vide Liam, il ragazzino di prima media che l’aveva preso di mira da quando era arrivato in quella scuola, anche se il povero Jake non ne aveva ancora capito il perché. Stava facendo qualcosa di male? Voleva solo suonare un po’ il suo ukulele durante l’intervallo.
- Non è una chitarra. Dammelo, Liam.
Si sentì spintonare e per poco non perse l’equilibrio, rischiando di cadere in una pozzanghera che si era formata dopo la forte pioggia di quella mattina.
- Adesso sai leggere, analfabeta? – la voce dietro di lui era quella di Joe, che per Liam era una specie di cagnolino. Quelle parole lo ferirono più della spinta che aveva ricevuto.
- Lasciatemi stare, non ho fatto niente!
- No, certo. Ci davi solo fastidio con questo coso. – Liam osservò il piccolo ukulele rosso di Jake, facendo una smorfia che si tramutò poi in un sorriso beffardo. – Sarebbe un peccato se lo buttassi a terra.
Jake cercò di prenderglielo dalle mani, ma Joe lo tenne stretto a sé impedendogli di avanzare verso Liam. – Me lo ha regalato mia mamma, per favore! Lo ha pagato tanto!
- Oh, glielo ha pagato la mamma! – rise il maggiore, pizzicando una corda così forte che Jake ebbe paura che potesse spezzarsi. – la mamma ti paga anche le lezioni per imparare l’alfabeto senza confondere la F con la K?
Gli occhi di Jake si riempirono di lacrime. Era molto più piccolo rispetto a entrambi: pesava almeno dieci chili in meno, era di diverse spanne più basso e aveva solo otto anni. Liam lo guardò negli occhi, afferrandogli con la mano libera la mandibola. I suoi occhi azzurri lo fissavano, facendolo sentire così piccolo.  – A quanto pare, quelle lezioni proprio non funzionano. E allora nemmeno questo ti servirà a nulla.
L’ukulele incontrò il ruvido e freddo pavimento del cortile, Liam lo sbatté così forte che le corde produssero un rumore assordante, prima di spezzarsi insieme al legno. Vedendo il regalo di Karen finire in quel modo, Jake scoppiò a piangere e iniziò ad urlare il nome della maestra per chiederle aiuto, ma le risate di tutti i bambini nel cortile sovrastavano la sua voce.
Solo che Liam lo sentiva benissimo.
Iniziarono i pugni, i calci, e nessuno lo aiutava, come ogni volta.
Non lo aiutarono nemmeno quando crollò nella pozzanghera, bagnandosi i vestiti e i capelli.
 
Dopo aver sentito il racconto del bambino, a Karen sembrò di non riuscire più a respirare. Cercò di cacciar via le lacrime solo per non provocare altro dolore nel cuore del suo Jake.
- Mamma… Mi dispiace così tanto per l’ukulele, io…
Karen tirò suo figlio in un abbraccio, stringendolo forte ma facendo attenzione a non fargli male. Gli accarezzò i capelli lunghi, allontanandosi poi per fargli una dolce carezza sulla guancia e guardarlo negli occhi. – Non devi preoccuparti per il tuo ukulele, amore mio. Appena papà e mamma riusciranno a racimolare un po’ di soldini te ne compreranno uno molto più bello.
- Ma me l’avevi regalato tu. Era bello perché me lo avevi regalato tu.
- Lo so, Jake. Ma ti prometto che al più presto te ne regalerò un altro, perché te lo meriti. Perché non potrei essere più fiera di te e non potrei amarti più di così.
Il bambino sorrise, scatenando l’identica reazione della madre che lo abbracciò di nuovo.
- Ti voglio bene, mamma.
 

 
- Che vuol dire che hai sognato Jake?!
- Maggie, ti prego, non…
- Cioè tu… - la ragazza di alzò dalla sedia e sorrise, alzando le sopracciglia. – Tu ti sei presa una cotta per Mercoledì Addams!
Tracy pensò a quella strana comparazione aggrottando la fronte. – Ma sai che effettivamente gli mancano solo le trecce e… Gesù, no, non mi sono presa una cotta per Jake. E’ un mio paziente.
- Un tuo paziente che è il tuo tipo per eccellenza. Voglio dire, pensaci: magrissimo, capelli lunghi, faccia da topo.
La giovane psicologa sospirò e scosse la testa. – Maggie, ti prego. L’ho solo sognato una volta, non vuol dire che mi piaccia.
- Tracy, sei un’idiota. Hai sognato di baciarlo, non di portare a spasso i suoi cani.
- Non ha cani.
- Oh beh, siamo anche arrivati al punto della relazione in cui sai quali siano i suoi animali domestici, dottoressa!
- Sai com’è, la terapia serve a qualcosa chiamata parlare.
- Sì, ma mica di cani. Chi è che dalla psicologa parla di cani?
- Tu sai quali siano gli animali domestici di Brad?
- Certo, ha un cane che si chiama Jesse. E’ un golden retriever. E ha sei ann…
- Va bene, Maggie, va bene.
- Me lo hai chiesto tu.
- Sì, ma non voglio sapere anche il suo codice fiscale.
- I cani ce l’hanno, un codice fiscale?
- Effettivamente non me lo sono mai chiesta. Potrebbero, però.
- Hai sviato il discorso.
- Sì, perché era un discorso senza un senso, dato che non. Mi piace. Jake.
- Certo, e io sono Britney Spears.
- Sotto la doccia un po’ ti ci senti.
- Lo stai evitando di nuovo?
- Ma di cosa dovremmo parlare? – sospirò Tracy, passandosi una mano tra i ricci tinti di rosso. – Lo sapevo che avrei dovuto dirti che mi piaceva Piper.
- Mi sorgono dubbi anche su questo fronte.
- Ma che cosa sono, scusa? Una prostituta?
- Sì, ma della mente.
- Ti odio.
- Mi dispiace da morire.
 
 
Per un lungo periodo della sua vita, Tracy era stata fermamente convinta del fatto che le piacessero solo ed esclusivamente i ragazzi. Ed effettivamente non era del tutto errato, ma solo in parte. Le piacevano le ragazze e i ragazzi, e lo aveva scoperto grazie alla sua nuova compagna di stanza. C’era qualcosa in Maggie che le piaceva a tal punto da non poterla considerare solo e soltanto come un’amica.
Sì, Maggie le piaceva. Se n’era resa conto dal fatto che con lei il tempo scorreva sempre veloce, che mentre la guardava sentiva lo stomaco in subbuglio e la voglia di baciarla crescere sempre di più.
Si era sempre chiesta come fosse, baciare una ragazza. Forse più dolce, più morbido o, al contrario, più aggressivo e passionale. Ma non l’aveva mai provato.
- Ziegler, smettila di balbettare mentre parli con me, sembri un’idiota.
E sapeva che Maggie scherzava, ma la sua timidezza, talvolta, le provocava una lieve e fastidiosa balbuzie mentre le parlava.
E le era passata, col tempo, ma lei non era stata l’unica ragazza a piacerle.
Si era presa una sbandata fortissima per una tirocinante nella sua Università, giovane, bellissima, con una personalità dolce e un modo di fare tutto suo. Si chiamava Lucy.
“Dovremmo uscire insieme, qualche volta”, le aveva detto un giorno, prendendo coraggio. Solo che non aveva mai avuto il coraggio di dirle nient’altro.
Insomma, Tracy aveva appurato di essere bisessuale.
E questo era un altro tassello pronto a rendere la sua vita un bel brodo di complicazioni.
 
 
Tracy uscì dalla clinica in fretta e furia. Sapeva che era il suo turno, quella sera, di fare la spesa e se non fosse scappata al supermercato probabilmente avrebbe trovato tutto chiuso e addio pranzo e cena per tre giorni. Infilò gli occhiali da sole nella borsa, vedendo il cielo scuro. Si accorse della lieve pioggia che aveva iniziato a picchiettarle sulle ciocche dei capelli e sbarrò gli occhi.
“Cazzo, l’ombrello”.
Non lo aveva portato.
Fece un verso frustrato, stringendo i pugni e tirando un calcio a una foglia sul pavimento.
- Serve una mano, dottoressa?
Gli occhi di Tracy si spalancarono ancora di più. Quella voce era proprio… Quella voce. Jake le sorrideva lievemente, con un ombrello a coprire la testa di entrambi.
 
- Sono trentuno e sessantasei.
Tracy allungò i soldi sulla mano della cassiera e sorrise, prendendo le buste e salutandola mentre usciva dal supermercato. Jake la stava aspettando ancora fuori, tremava tutto e, nonostante l’ombrello, sembrava essersi bagnato leggermente.
- Eccomi. Dio, scusami, forse avevi da fare e ti ho trattenuto e… - guardandolo meglio, Tracy si accorse delle lacrime sulle guance del ragazzo. Lo aveva già visto piangere. Ma ora non erano nel suo studio, era una situazione così diversa e lei non sapeva assolutamente cosa fare. Senza pensarci due volte, lasciò le buste per terra e gli si avvicinò, gli occhi ricolmi di apprensione. – Jake, tutto bene?
Senza quasi rendersene conto sentì le braccia del ragazzo avvolgerla, ricominciando a percepire le gocce di pioggia caderle sui capelli. Un abbraccio, quello era un abbraccio.
Sebbene inizialmente titubante, strinse la presa a sua volta attorno al corpo magro di Jake, sentendolo tremare violentemente sotto ai vestiti.
Sentì la stretta di Jake farsi più forte sulla sua schiena e il cuore iniziò a batterle così forte da fermarle il respiro. Il profumo di Jake, misto a quello dell’erba bagnata, le riempirono completamente le narici. Sentendolo singhiozzare gli accarezzò con dolcezza le spalle, allontanandosi poi per allungare una mano sul suo viso per asciugargli le lacrime. Gli sorrise dolcemente e lo sentì deglutire.
In quel momento, le sembrava di essere in una fiaba. Era talmente emozionata da sentire le gambe tremare insieme al cuore, gli occhi di Jake erano puntati nei suoi, e anche se erano lucidi e rossi per il pianto, erano esattamente come nel suo sogno. Erano grandi, così grandi da poter contenere il mondo. Non si curavano della pioggia, ormai con i capelli completamente fradici.
Le loro fronti si toccarono, come i loro nasi.
Tracy sentì il respiro veloce di Jake contro le labbra.
E il contatto tra le sue e quelle del ragazzo fu così delicato e dolce che fece sparire ogni altro pensiero.
   
 
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