Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: Moonfire2394    11/08/2020    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 34 – Il guerriero mascherato

Il sorriso argentato della fata dai capelli blu era uno spettacolo terrificante. I suoi canini affilati e lucenti davano i brividi, sembravano essere fatti per squarciare la carne viva a morsi. La ragnatela di cicatrici sulle sue guance smorte disegnava una mappa d’intricati disegni tracciati dalle lacrime. Un tempo doveva essere stata molto bella, avvenente tanto quanto la sorella, ma non vi era più alcuna traccia di quella antica beltà, cancellata dalle sue bugie. Sotto molti aspetti, la fata ricordava un essere angelico, un po’ per le ali, un po’ perché nelle credenze popolari i fatui vegliavano sugli umani accompagnandoli nelle loro scelte di vita. Ma non Frieda. La fata girò su se stessa facendo vorticare l’abito nero che si adattava al suo corpo, di una magrezza innaturale, come una seconda pelle. Un ciclone d’inchiostro su un fiume di rame fulgido e scarlatto. Il sangue di Carlotta.
La giravolta fece levitarle attorno lunghe ciocche sinuose color cobalto lasciando scoperta la schiena bianca e scheletrica su cui si potevano facilmente contare le vertebre. Sulle scapole ossute sporgevano due protuberanze in cancrena, simili ad arti amputati. Ciò che rimaneva delle sue ali, la sua identità di fata.
«Tutto questo è per me?» sussultò con un sospiro portandosi le mani dove avrebbe dovuto esserci il cuore. Leona non era certa che ne avesse uno. Il suono della sua voce era come unghie che stridono sulla superficie di una lavagna. Danzò leggiadra fino al tavolo più vicino e passò in rassegna i piatti più succulenti esposti sui vassoi. Strisciò il dito sulla testa di cinghiale glassato umettandosi i polpastrelli «Ti sei data da fare in questi ultimi secoli con le tue frivole celebrazioni. E’ dolce come il miele la vittoria non è così?» chiosò leccandosi la glassa. La succhiò rumorosamente dal suo dito come un lattante che si ciuccia il pollice e chiuse gli occhi godendosi gli aromi speziati.
«Come osi» sillabò furiosa la Regina con le labbra arricciate per la rabbia e i pugni stretti lungo i fianchi «farti vedere ancora al mio cospetto? Sei stata bandita dalle mie terre, che tu sia maledetta!» strillò cacciando fuori tutto l’ossigeno residuo nei suoi polmoni.
La risata vertiginosamente acuta di Frieda rimbombò nelle colonne che sorreggevano il vestibolo «Sta calma, sorellina o ti verranno le rughe sul tuo bel faccino, non hai più cent’anni» disse con una calma maliziosa.
«Pensavo che finalmente ti fossi decisa a invitarmi al tuo famoso Scao Leadh, dall’altra parte hai lasciato tu la porta aperta…».
Nel frattempo Kahel, attratto da tutto quel trambusto, si era fatto largo fra la folla «Madre cosa sta…»  il suo viso divenne una maschera di orrori. Si fece piccolo di fronte all’armata di abomini che troneggiava sulla famiglia reale e si fece pallido ancor più di un cencio alla vista del cadavere che Marlena teneva stretto a sé. Un bavaglio di sangue le correva lungo la mascella, gli occhi rubicondi e gonfi di lacrime e i capelli biondi chiazzati di rosso.
Lo sguardo affilato di Frieda si concentrò sul nuovo arrivato ed esclamò più che entusiasta «Il lussurioso Kahel» lo titolò con un ghigno beffardo «Il mio nipotino preferito! Che piacere rivederti, l’ultimo ricordo che ho di te risale a quando eri ancora un fagottino in fasce. Già allora eri una piccola peste che piegava tutti ad ogni suo capriccio». Quel tenero ricordò d’infanzia non ebbe alcun effetto su Kahel che invece s’irrigidì sputando a terra.
«Che cosa sei venuta a fare qui zia Frieda? Non sei più la benvenuta nelle terre di mia madre già da prima che nascessi, cosa ti fa pensare che adesso qualcosa sia cambiato». Il principe fece cenno alle guardie che si precipitarono attorno a lui e alla sua famiglia, pronti alla guerriglia.
«Ritira il tuo insulso esercito giocattolo di Abomini finché sei in tempo o non ti mostreremo alcuna pietà».
Frieda gli sorrise malignamente «Sei stato modellato da tua madre come creta fra le sue mani, non mi sorprende vederti abbaiare al suo fianco come un innocuo cucciolo di ogre. La vita viziata di corte ti ha reso debole, persino le tue intimidazioni risuonano insulse come la pasta di cui sei fatto. Devi aver preso da quel adultero di tuo padre…».
«Non ti permetto di parlare di lui in mia presenza!» replicò il principe.
«Mi sbagliavo assomigli molto di più al re fantoccio di quanto pensassi. Non vedi la realtà dei fatti, nemmeno tua madre ha proferito alcuna parola in sua difesa». Poi si rivolse nuovamente a Delilah «Mi chiedo ancora come tu abbia potuto cedere così facilmente a un matrimonio diplomatico, sorella, soltanto per infilarvi in letti altrui fuorché fra le vostre lenzuola nunziali. La mia cara, bellissima, sorella, prigioniera di un matrimonio senz’amore, ah! Che delizia. Proprio tu che fin dalla giovinezza sognavi il vero amore, fra le braccia del nostro Mordred».
A quel nome la regina parve afflosciarsi, perdere gradualmente le forze come se gliele stesse risucchiando via. «Mordred era solo un bastardo» sfuriò con asprezza.
«Oh, senz’altro» concordò la sorella «Ma tu l’amavi, tanto quanto lo amavo io. Non riesco ancora a perdonarlo per aver distrutto il nostro rapporto, ma non mi pentirò mai di averlo sedotto alla vigilia della vostra sacra unione…Non capisci, non potevo lasciare che tu donassi il tuo immenso potere per vivere accanto a un semplice umano». A Leona non suonava nuovo quel nome, era quasi certa di averlo sentito prima di allora. Ricordò un lontano pomeriggio trascorso fra i mille scaffali polverosi della biblioteca del castello insieme a Fabrizio. Si rifugiò in quell’angolo di pace alla ricerca di quel particolare che le aveva stuzzicato la memoria, isolandosi per un momento da quella sala di sangue e orrori. Fabrizio conosceva molte leggende che avevano come protagoniste le fate e lei amava ascoltare le sue storie, sussurrate fra torri di libri. Poi alla fine mise a fuoco e collocò quel nome alla sua fiaba e seppe perché quell’ uomo fosse stato cancellato dagli annali. Un eroe che aveva sacrificato ogni cosa, persino l’amore, in favore dell’immortalità. Relegato solo come una stupida leggenda che poco aveva di veritiero, le vicende di Mordred, il guerriero che si era trasformato nel primo vampiro mai esistito, erano sopravvissute sulla bocca di pochi cantori che avevano continuato a tramandarle di generazione in generazione fino a diventare poco più che una superstizione nell’epoca odierna. Si diceva che Mordred fosse un uomo che si era distinto per le sue abilità di soldato, bello e affascinante, vissuto in un’era assai lontana collocata fra il cinquanta e il sessanta a.C. La regina Delilah si era invaghita del giovane tanto da volersi unire a lui in matrimonio e farne il suo re. Una regina delle fate che dona il suo cuore ad un umano è destinata a condividere con lui la sua stessa vita in pegno del suo amore per lui. Ciò valeva a dire che avrebbe rinunciato a metà degli anni che le restavano da vivere per rendere il suo compagno simile a lei. Ma non era l’unica che riservava delle mire sul bel guerriero. La leggenda narrava che anche la sorella oscura di Delilah fosse innamorata di Mordred, tanto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per averlo al suo fianco. Così lo sedusse promettendogli il potere lusinghiero dell’immortalità, e per un lungo periodo, all’insaputa di Delilah, il guerriero si crogiolò fra le braccia delle due fate. Il segreto, spifferato da colui che poi sarebbe diventato il re consorte del regno delle fate, malauguratamente per i due amanti ebbe vita breve, e attirò su di loro la terribile vendetta della allora futura regina. Delilah rubò il ciondolo del sole dal tempio prima della sua incoronazione ufficiale per poter sfruttare il suo potere e coglierli in flagrante smascherando davanti a tutto il popolo fatato il loro amore proibito alla vigilia del suo matrimonio. Quando Mordred e Frieda la notte prima della cerimonia si incontrarono nella tenda nunziale, non potevano sapere che dietro l’innocente viso dell’ancella che in quel momento prestava servizio si nascondeva la gongolante Delilah, trasformata dall’incantesimo del ciondolo del sole. Proprio mentre i due si apprestavano a compiere il rito di trasfusione del potere che consisteva nel bere il sangue di una fata ancestrale, Delilah  si manifestò nella sua vera forma poco prima che il rituale fosse completato. Frieda negò fino all’ultimo la sua colpevolezza ma i suoi futili tentativi di scarcerarsi dalle sue menzogne non le fecero che farle guadagnare le cicatrici che adesso le tratteggiavano i contorni del viso. L’ira di Delilah sfociata dalla sua anima brutalmente ferita da quel doppio tradimento, si riversò furente su entrambi: la sorella fu deglassata dal suo ruolo di principessa delle fate, privata delle sue ali e di ogni diritto che vantava sul ciondolo della luna, mentre Mordred conquistò sì la sua agognata immortalità ma non esattamente nel modo che lui desiderava. Grazie al sangue di Frieda, Mordred acquisì anche tutti i poteri vampirici: forza, velocità, invulnerabilità. Ma Delilah lo maledisse e lo rese schiavo del richiamo del sangue, rendendolo la sua unica fonte di nutrimento per sopravvivere e…
Leona fece ritornò dal dedalo dei suoi pensieri. Come faceva a conoscere tutte quelle informazioni così dettagliate? Non ricordava che Fabrizio si fosse dilungato tanto sull’argomento, non avrebbe potuto sapere in modo così specifico il susseguirsi di quegli eventi accaduti più di duemila anni fa a meno che…
Leona si rese conto di essersi immersa così profondamente nelle vie intricate della sua memoria, al punto da aver attinto inconsapevolmente ai reperti atavici dei suoi antenati. L’effetto osmosi si era messo in circolo e le scorreva nelle vene infondendole il suo misterioso potere, il prezioso potere della conoscenza. La ragazza ebbe paura di come avesse perso il controllo della sua mente nel bel mezzo di una lite fra fate isteriche…Strinse i denti affondandoli nella lingua e ricacciò indietro il sapore metallico del suo stesso sangue. Riacquistò coscienza di sé e l’effetto osmosi si dissipò lentamente lasciandole un vuoto nello stomaco, un gelo dietro la nuca per la sua assenza. Mentre faceva a pugni con la sua dipendenza, perlustrò la tensione immutata della sala che non si era accorta del suo piccolo blackout.
Il silenzio snervante che ne seguì fu colmato dallo scoppiettio dei raggi incandescenti provenienti dal sole che ardeva sul collo della regina, come se rispondesse ad ogni minimo sbalzo d’umore e denudasse le sue ingestibili emozioni. Il ciondolo prese ad oscillarle facendo tintinnare le catene a cui era legato, i bagliori rossi sgorgarono fluenti irradiandole la pelle e fecero infiammare i suoi occhi come braci fra le palpebre. Il vento infuriò attorno alla sovrana circondandola come un ciclone e creando il vuoto attorno a lei. Fra la folla serpeggiò il panico e lo stupore mentre la loro regina protendeva un braccio dirimpetto indirizzandolo verso la dama nera che nemmeno per un attimo si era lasciata intimidire da quello spettacolo di fiamme e raffiche violente, e pronunciò un’antica formula in una lingua sconosciuta.
Frieda le mostrò quella sinistra artiglieria di denti argentati bofonchiando fra le risate «Hai davvero intenzione di farlo? I tuoi servi valgono così poco per te? Sai bene che quando rilascerai il potere non sarò il tuo unico bersaglio, vuoi comunque correre il rischio?».
La sfida dardeggiò sul fondo dei suoi occhi viola prima di avventarsi veloce come un cobra sulla crocchia disfatta e sanguinante di Marlena, strappata crudelmente dal corpo ancora caldo della sua amica. Con ancora le dita artigliate fra le ciocche dei suoi capelli, Frieda la strinse a sé circondandole il petto con un braccio e pressandole le unghie sulla gola. Marlena soffocò un grido quando le leccò il sangue di Carlotta dalla faccia. Fabiano riemerse dal suo stato comatoso, pronto ad essere ancora una volta il paladino della protettrice ma venne trattenuto da Gabriel.
«Mmm» mugugnò in estasi «delizioso sangue di protettore…quanto spreco» disse volgendo lentamente lo sguardo alla pozza di sangue alle sue spalle.
Il ringhio di Delilah sovrastò gli ululati del ciclone rosso che le vorticava attorno e avanzò verso la sorella «Lascia andare la ragazza, battiti con me se ne hai il coraggio!».
Frieda scosse la testa come se fosse delusa «Non ci penso nemmeno, non sarebbe uno scontro ad armi pari, non credi?». Poi la sua voce divenne tagliente «Mi hai tolto ogni cosa» borbottò cupa.
«Le mi ali, il ciondolo della Luna, la mia bellezza…» cominciò ad elencare.
«Guardami sorella? Le mie cicatrici non ti disgustano?» le urlò con una rabbia che le stava divorando le viscere.
«Non rispondo io delle tue menzogne» sogghignò stavolta la fata della luce con un sorrisetto simile a quella di Frieda «e poi non ti ho tolto proprio tutto…Alla fine hai avuto Mordred». «Lo hai maledetto!» l’accusò la fata oscura accanendosi sull’innocente che teneva in ostaggio.
Mentre le sue sorelle continuavano a punzecchiarsi, Leona tornò a studiare di sottecchi il suo possibile avversario, l’assassino di Carlotta, chiedendosi più e più volte quale motivo lo spingesse a celare la sua identità. Di cosa aveva paura, qual era la sua debolezza se ne aveva una? Non dava certo l’idea di essere una attendente alle prime armi, né tanto meno aver la fragilità di un umano. Stava eretto come se fosse costretto fra pareti di cemento e gli occhi azzurri, freddi come una ghiacciaia, fissi su qualcosa o su qualcuno…Leona tentò d’intercettare la traiettoria e si ritrovò ad osservare Fabiano con il viso contratto dal dolore. Lui non sembrava essersi accorto delle attenzioni che il guerriero mascherato gli stava rivolgendo insistentemente, con intensità, come se con il suo sguardo affamato potesse attraversarlo da parte a parte. Leona strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche. Se stava pensando di conquistarsi il suo prossimo bersaglio, lei avrebbe fatto l’impossibile per tenerlo lontano da lui, lo avrebbe difeso a qualsiasi costo.
«Ne ho abbastanza di rinvangare il passato, cosa sei venuta fare Frieda? Sei venuta a sfidarmi con le tue creature abominevoli? Non ti è bastata la sconfitta che t’inflissi tanti anni fa? Sappi che io e il mio popolo siamo pronti a batterci e questa volta la tua vita non verrà risparmiata…» l’avviso la regina.
«Mi chiedi cosa voglio?» disse adombrandosi con un ghigno crudele, il canino argentato in bella vista «voglio ciò che mi spetta di diritto, il mio trono» specificò la sorella.
«Non puoi comprarti la lealtà dei miei sudditi, Frieda. I tuoi guerrieri saranno anche abili ma saranno sempre in inferiorità numerica rispetto al mio esercito, non mi fai paura. Che ironia della sorte che tu abbia scelto proprio questo giorno in cui la storia si ripete…».
«Be’, questo lo vedremo» rifletté Frieda strofinando una guancia sulla testa di Marlena che aveva smesso di dimenarsi fra le sue braccia. Con la mano libera le prese il mento fra le dita e scrutò all’interno dei suoi occhi verdi distrutti dalla perdita. Non appena terminò di sondare fino allo strato più profondo della sua anima alla ricerca di chissà che cosa, esclamò senza velare l’insoddisfazione «Non è lei». Quindi prese Marlena per il braccio e la spinse via da lei gettandola come carta straccia sul pavimento. Leona le sentì borbottare il nome di Carlotta piano, con note basse, quasi insonore. Non aveva realizzato fino a quel momento quanto contasse per lei, e come avrebbe potuto? Marlena amava e venerava solo se stessa, troppo indaffarata a curarsi del suo ego per notare chi le orbitava attorno con pia devozione. Eppure poteva quasi avvertire la sua sofferenza danzargli sulla pelle, facendole drizzare i peli sulle braccia per la crudeltà con cui l’aveva trasformata. Qualsiasi insulto avrebbe voluto rivolgerle in quel momento si costrinse a ricacciarselo in gola.
«Non mi sorprende la tua arroganza sorella». La fata lasciò vagare i suoi occhi viola tutto intorno alla sala, indugiando sui dieci protettori mescolati fra la folla.
«Dormirei anch’io serena su un letto di piume se avessi fra le mie fila i leggendari dominatori degli elementi» la rimbeccò increspando la fronte. I gemelli deglutirono il groppone all’unisono senza essersi messi d’accordo, come se uno fosse l’immagine speculare dell’altro.
«Come sai…» cominciò a dirle Delilah.
«Non importa a chi è rivolta la loro realtà» proseguì ignorando l’obiezione della regina. «Alla fine avrò il loro prezioso sangue in ogni caso, non importa quanto siano potenti, il mio guerriero lo è di più».
«Ma davvero» esclamò una voce talmente familiare da poterla riconoscere fra milioni. «E cosa avrebbe di così speciale il tuo insulso abominio? Ne potrei abbattere dieci di quelli senza battere ciglio». La sfida che intonarono le corde vocali di Gabriel risuonarono ancora più sprezzanti del pericolo. Dannazione a te, fratello! Imprecò tra sé Leona in preda alla disperazione. Avrebbe voluto torcergli la lingua in una serie di nodi per impedirgli di cacciarsi costantemente nei guai, ma forse nemmeno quello sarebbe bastato. Gabriel era una vera calamita di disgrazie anche senza aver bisogno di aprir bocca.
Lo individuò in un batter d’occhio anche in mezzo a tutta quella calca e sorrise felice come una bambina che scarta il suo pacco alla vigilia di Natale.
«Eccola lì l’Akasha. La sento pulsare nella sala, viva, come un cuore che batte, talmente irruenta che potrebbe crepare gli affreschi» L’eccitazione incendiò gli occhi della fata oscura. «Sarebbe più facile darti una dimostrazione che spiegarlo a parole, mio caro medjai».
«Ti basti sapere che non è come gli altri, lei è diversa. Al contrario dei comuni abomini, il suo cuore non è più umano, letteralmente. Ed è per questo che ho pieno controllo su di lei» lo informò inclinando la testa di lato, soppesandolo dalla testa ai piedi.
Leona credette di aver capito male, non aveva mai pensato a quell’ammasso di acciaio e argento come a una lei e la cosa per qualche motivo la destabilizzò e rese la sua curiosità di sbirciare al di sotto della sua maschera ancora più morbosa.
«È incredibilmente raro trovare un cuore compatibile in grado di sopravvivere al rituale del Linkage, se non unico nel suo genere» disse fluendo fra il suo esercito come un fiume fra gli interstizi dell’acciottolato e lo strascico che la seguiva come una coda di petrolio portatrice di oscurità. «Cuori gemelli» spiegò ai più perplessi «Una coppia di cuori capaci di fondersi in una cosa sola, di battere all’unisono, questa è la condizione».
Delilah sbiancò «Allora era questa l’ingrediente mancante…due cuori innamorati».
«Non è necessario che l’amore sia corrisposto, basta soltanto che il donatore sia infatuato del ricevente affinché l’incantesimo abbia effetto. Il sacrificio dunque rimane indispensabile, e be’ dall’altra parte l’amore non è forse sacrificio?» domandò con un’insana ilarità.
«Uno sciocco vampirello che perde la testa per la sua cacciatrice, proprio come un agnello innocente che s’innamora della famelica leonessa».
Frieda raggiunse la guerriera mascherata e mise una mano sul cuore immoto del vampiro schermato dall’armatura. L’ex protettrice si piegò al suo volere trasformando i suoi occhi celesti in due covi tempestosi ed estrasse entrambe le spade. L’effetto domino si ripercosse fra i suoi fratelli d’armi e fu un baluginio di acciaio e bronzo. Come se si fossero specchiati, anche i curatores noctis si armarono per rispondere al riflesso di quell’offensiva. La tensione crepitò nell’aria circostante sotto forma di elettricità allo stato puro.
«Non deve finire per forza in questo modo» rimarcò Frieda inacidendo l’espressione «posso offrirti un’alternativa».
«Quando ti avrei dato il consenso di dettare condizioni?» ironizzò la regina ancora lambita dal tornado rosso.
«Credo valga la pena ascoltare la mia proposta, anche se, ovviamente, sono di parte. Non sono certo interessata ad inutili spargimenti di sangue, non vorrei punire il popolo di qualcosa di cui non è colpevole, anzi sono qui per offrirgli una scelta».
«Fammi indovinare la scelta sarebbe fra me e te?» domandò ripiegando la fronte in una serie di rughe intrise di  preoccupazione.
«Propongo una sfida simbolica fra due dei nostri migliori guerrieri per decidere le sorti della corona. Il tuo migliore campione contro il mio, invece che una guerriglia sanguinosa da cui entrambe ne usciremmo sconfitte. Il primo che verserà il sangue dell’avversario sarà proclamato vincitore e con essa verrà proclamata la nuova regina o riconfermata l’attuale reggente». Delilah considerò per un lungo istante la proposta della sorella, valutando se accettarla o meno per il bene stesso della sua gente.
«Avanti» la incitò Frieda «Non dirmi che non vedi l’ora di dare spettacolo».
 Delilah le offrì una smorfia salace: «Sei venuta qui solo per vantarti? E così una prova di forza, eh? Una gara a chi possiede il giocattolo migliore, proprio come eravamo bambine…».
Il viso di Frieda si colorò di presunzione «Oh, ma sta volta sono sicura che la mia bambola sia meglio di qualsiasi cosa tu possa metterle a confronto. Te l’ho già detto che non è come gli altri. Un normale abominio non sopravvive all’anno di età. Ma in lei…il linckage ha attecchito e ha messo radici nella sua mente, è il miglior esemplare mai riuscito».
«Questo lo vedremo» asserì la regina lasciando morire la tempesta rossa scaturita dal ciondolo.
La guerriera pilotata dalla volontà della sua creatrice avanzò facendo scricchiolare gli stivali sul pavimento di marmo ancora chiazzato di sangue secco e incrostato. I suoi fratelli abomini si allontanarono impercettibilmente da lei come sospinti da braccia invisibili che li costrinsero al margine della sala, a ridosso delle colonne, e si creò un vuoto circolare attorno a lei, un’arena improvvisata cinta da corpi di carne e ossa. Le doppie spade salde nell’impugnatura, pronte alla battaglia. Nei suoi movimenti c’era una sorta di grazia sbagliata, fluida ma allo stesso tempo asciutta, senz’anima. Delilah richiamò a sé il suo generale bisbigliandogli qualcosa all’orecchio. Leona straripava di potere ed eccitazione. Da quando la cerimonia aveva avuto inizio, non aveva smesso di accumulare il mana all’interno del suo corpo, come se si fosse aspettata che alla fine della serata si sarebbe giunti a quella conclusione. L’energia le scorreva sotto la pelle, insinuandosi fra  muscoli e tessuti, rinvigorendo il battito del suo cuore. Se lo avesse usato tutto in una volta, l’esplosione sarebbe stata incontenibile, era una bomba pronta a detonare.
Il fuoco nelle sue vene s’attizzò e per contenere le fiamme prese a giocare con le estremità sfilacciate del nastro che portava al polso.
Zolfus, una fata corpulenta, imponente come una montagna era il campione scelto dalla regina. Gli indicò di prendere il suo posto al centro della sala come avversario della guerriera che attendeva inquieta in posizione, dal lato opposto. La fata nerboruta dalle orecchie a punta deglutì e strinse le labbra, come se volesse provare a controbattere il comando della sua regina, ma in un caso o nell’altro sarebbe andato incontro alla morte per tradimento, per cui tanto valeva morire in un combattimento degno che da codardo.
Il filo rosso le circumnavigò il dito, la protettrice diede uno strattone e con un colpo secco sciolse il fiocco.
Le pareti del vestibolo sembravano tremare di terrore, tutti gli invitati trattennero il fiato in una perpetua apnea quando il Curatores Noctis trascinò pesantemente i piedi di fronte alla sua avversaria portando un pugno serrato al fodero della sua spada. Migliaia di paia di occhi erano focalizzati su di loro, accessi da quell’insostenibile attesa che li stava consumando da dentro, mentre le ciocche della ragazza come fiumi neri scintillanti alla luce della luna si abbracciavano e si attorcigliavano l’una dentro l’altra fra le sue dita in un intreccio complesso, soltanto per costringere quella spirale in un altro nodo di stoffa scarlatta.
Leona sentì Fabiano mormorarle deboli avvertimenti fra sospiri sofferti ma si decise a ignorarli, dipanandosi lenta e silenziosa, aggraziata come una pantera, fra le fate attonite e concentrate sull’incontro imminente che avrebbe deciso il destino del regno.
Per la prima volta la guerriera parlò, un suono freddo e metallico vibrò fra le sue labbra nascoste della celata: «No» proferì semplicemente.
La fata si mostrò offesa e inarcò un sopracciglio «No, cosa?» domandò con risentimento.
«No» ripeté oscillando il mento da destra a sinistra «Non sei all’altezza» articolò in seguito. Zolfus sferzato dall’umiliante giudizio del guerriero, s’irrigidì sul posto e digrignò i denti sguainando la spada dal fodero «Ma come ti permetti!» gli urlò gettandosi su di lei, caricando come un toro reso folle dal colore rosso. A pochi passi da lei la guerriera scartò di lato in un movimento incorporeo, quasi assente e distratto senza interrompere la corsa furiosa di Zolfus che inciampò rovinando sul pavimento. Rotolò dietro di lei e ergendosi in ginocchio annaspò come se una mano gli avesse strappato l’aria dai polmoni. Le sue pupille annerite si abbassarono lentamente sul ventre dove una falce vermiglia, densa e scura, era stata disegnata sulla sua cotta di maglia. Il colpo era stato inferto con il favore dell’invisibilità di un semplice scatto di polso veloce e impalpabile. Entrambe le spade dell’abominio erano di un fulvido colore argentato, immacolate, come appena uscite dalla forgia.
«No» ripeté una terza volta osservandolo impassibilmente mentre Zolfus si accasciava esausto su se stesso «Più forte» disse in un altro dei suoi monosillabi dalle molteplici interpretazioni. La ferita non era mortale, si trattava di un avvertimento, ma comunque il generale non sembrava più in grado di rialzarsi e  proseguire l’incontro, quindi strisciò lontano dal duello mortale, grato di aver riportato soltanto un taglio superficiale poco profondo. La maschera della guerriera si voltò verso la folla e incontrò lo sguardo denso di rabbia e follia della protettrice con l’abito azzurro che sgomitava fra la folla a piedi nudi.
Leona evocò il vento e piccole scie di fili invisibili si allungarono da ciascuna delle sue dita per poi raggrumarsi in folate ruggenti che le sgombrarono la strada fino ai confini del cerchio, curandosi a malapena del malcontento e lo stupore delle fate strattonate via brutalmente dal loro posto in prima fila. Si trovò ancora una volta a fissare il ghiaccio freddo e pungente degli occhi dell’abominio ricacciando in un piccolo anfratto della sua mente quel tarlo che continuava a ricordarle che lo aveva già visto prima d’ora. Si immaginò l’ombra di un sorriso farsi largo nell’unica porzione di viso visibile attorno ai suoi occhi, ma Leona non poteva esserne sicura. Il mana le stava trafiggendo ogni parte del suo corpo specialmente lungo le braccia e le mani dove il formicolio era più forte. Chiuse gli occhi immergendosi in quel vortice di introspezione per richiamare in superficie la sua allomanzia, alla ricerca del sapore del bronzo sulle sue papille gustative, ma qualcosa che odorava di rame ossidato si era avvinghiato al suo braccio e la forzò a riemergere dalla sua meditazione. Le dita di Marlena ancora umide e gocciolanti si erano impresse su di lei con la potenza stritolatrice di un serpente. Leona alzò gli occhi su di lei e si scrutarono per un lungo istante. Il suo dolore la investì facendo vacillare l’odio che come tronchi da ardere tenevano vivo il suo coraggio. Marlena smise di massacrarsi le labbra fra i denti e le disse l’unica cosa che la sua voce straziata e rotta le consentì di pronunciare: «Uccidi quella figlia di puttana». Quella preghiera disperata le diede una nuova carica, una nuova consapevolezza, la certezza che non sarebbe stata sola in quello scontro, i suoi amici erano con lei. Leona sganciò delicatamente la mano di Marlena dal suo braccio ribaltandole il palmo all’insù. Il sangue di Carlotta era ancora fresco e di un rosso acceso sulla sua pelle chiara. Ne raccolse un po’ con due dita e tracciò due linee parallele su ciascuna delle sue guance per portare un pezzo di Carlotta con sé quando avrebbe calato le kopis sull’abominio che le aveva tolto la vita. Prese un lungo respiro e le promise «Per Carlotta».
Marlena tirò su col naso e le fece eco «Per Carlotta». Poi Leona richiamò il bronzo a sé.
L’aria sibilò lasciando dietro una scia gelata di cristalli di ghiaccio che scese come neve su tutti i presenti. Le kopis le precipitarono come stelle comete sulle sue mani e danzarono elegantemente attorno ai suoi polsi emettendo nastri argenti di luce, prima di sentire il morso freddo del metallo sotto la sua pelle.
Frieda applaudì al limite dell’euforia e scelse un alcova da dove godersi l’incontro. Leona poté sentire il battito sordo del cuore di suo fratello sovrapporsi al suo, la sua rabbia corroderla come acido dall’interno. Sapeva che se solo avesse potuto, Fabiano avrebbe venduto la sua anima pur di tenerla lontana dalle spade della guerriera che minacciavano di portagliela via. Ma Leona non vedeva altro che l’abominio e l’elettricità statica che ronzava nello spazio che le divideva.
Leona si acquattò sulle ginocchia con i muscoli brucianti per la tensione e attaccò, il potere si avvolse a spirale attorno alle sue mani che impugnavano le kopis. Entrambe erano due danzatrici con due lame molto affilate, affamate l’una della sangue dell’altra. La velocità rendeva le loro armi solo ombre del passato, i loro movimenti copie duplicanti sospesi nell’aria come immagini residue. Presa in contropiede dal battito sovrastante del potere della sua avversaria, Leona restò prigioniera  di una raffica luccicante di pezzi d’acciaio, schiavati solo per un pelo.
Il clangore generato dallo scontro delle quattro spade viaggiava sulla brezza con stridii acuti, come campanelli distanti. L’abilità dell’abominio era sconcertante e sconvolgente, Leona non aveva mai visto nulla del genere in vita sua, in confronto gli abomini che aveva affrontato a Londra le parvero insulsi bambinetti che impugnano le armi per la prima volta. Le sue lame erano così intrise della sua volontà che in ogni colpo sferrato imprimeva loro sia la forza del lancio sia l’eleganza dell’esperienza. Combatteva con una grazia fastidiosa, la gestualità fluida della corrente di un fiume, nonostante la pesantezza della sua armatura. Per un attimo il suo viso illuminato dalla frenesia del combattimento si contrasse in una strana espressione divertita ma svanì troppo in fretta perché Leona riuscisse a coglierne le sfaccettature, e i suoi occhi ripresero a ricoprirsi d’ombre scure simili a pozzi vuoti di oscurità, inghiottendo le dolci sfumature celesti. Tutt’a un tratto l’abominio schizzò via dalla sua visuale ruotando su se stessa e tentò un affondo a rovescio con speranza di infrangerle la guardia.  La prima lama affettò l’aria sfiorandole il viso a pochi centimetri dalla sua guancia. Il morso dell’acciaio perdurò nell’etere e la privò di ogni senso, sepolta troppo in profondità per sentire nient’altro che le urla di suo fratello. La seconda, intercettata a mezz’aria scivolò sul piatto della kopis e nel breve lasso di distrazione Leona  rotolò con una capriola laterale che la fece atterrare in ginocchio sul tavolo più vicino. Il sudore le bagnò la fronte e le scese sugli occhi, il mana infuriava dentro le sue vene pretendendo di essere liberato. Ma non poteva, se gli avesse dato sfogo non le sarebbe rimasto nemmeno un briciolo di energia per contrastare la forza da vampiro delle sua avversaria, e tenere a bada quell’energia l’aveva tenuta in vita fino a quel momento. Arricciò le dita dei piedi nudi quando la guerriera la raggiunse senza nemmeno darle un attimo di tregua. Il respiro le si mozzò in gola e rantolò prima che l’ennesima scarica di fulmini argentati si abbattesse su di lei. E lei rispose col bronzo, facendo fremere il suo acciaio sotto le stoccate e le parate che vibrava, il potere delle stelle sprigionato dalle sue kopis ricurve. Ma per quanto a lungo avrebbe resistito? Non era mai stata messa alla prova da un avversario così forte, in grado di fronteggiarla o addirittura di sopraffarla. Leona sorrise di fronte a quella prospettiva, conscia che l’adrenalina in circolo le offuscasse il giudizio. La porcellana, una pioggia di forchette e cucchiai e i resti della cena volarono in mezzo a loro come coriandoli e il tavolo di legno protestò sotto i loro piedi minacciando di rompersi ad ogni scricchiolio ma nessuna delle due aveva intenzione di mettere fine a quel gioco appagante di acrobazie e scherma a doppia lama. Pochi riuscivano a maneggiare due armi contemporaneamente, si trattava di un arte che richiedeva anni di allenamento e inattaccabile concentrazione. Quelli che adesso per la protettrice erano gesti quasi automatici, dettati dalla foga del momento, le erano costati innumerevoli sacrifici e sudore, perché sebbene avesse attinto a quella tecnica grazie all’effetto osmosi doveva comunque mantenersi presente senza lasciare che la sua mente vagasse altrove fra i meandri di quell’incommensurabile memoria raccattata da secoli di medjai. Vedere quella donna rendere quegli stessi gesti così semplici e spontanei, ricamati da una leggiadra eleganza, le fecero provare una sorta di ammirazione nei suoi confronti, una vaga affinità che le legava. Arrivò persino a considerare l’idea che in un altro contesto magari le due sarebbero andate d’accordo. Leona si morse la lingua uccidendo quel ridicolo pensiero, ricordandosi che se avesse abbassato la guardia non avrebbe esitato a tagliarle la gola. Le due incrociarono le spade respingendosi con la sola forza che si irradiava dalle gambe e risaliva lungo le braccia. Doveva liberarsi in fretta prima di cadere all’indietro dove il tavolo finiva. Allentò la tensione sul lato destro di quelle croci di lame facendole perdere l’equilibrio, si accovacciò sotto la guardia e seppellì una gomitata nello stomaco dell’abominio per poi ruotare via dalla sua presa. Scivolò con un salto mortale all’indietro giù dal tavolo ma quando i suoi piedi si furono ben assestati sul pavimento e il suo sguardo saettò all’insù, dove avrebbe dovuto esserci la guerriera mascherata, non trovò nessuno. Un manto di gelo le deterse la pelle e si mise in allerta, pronta a parare qualsiasi colpo le avesse inferto quando sarebbe uscita allo scoperto dal suo gioco di prestigio. I suoi occhi perlustrarono in fretta il piccolo spazio riservato alla loro sfida e cominciò ad espellere lentamente l’anidride carbonica dai suoi polmoni.
Un taglio invisibile vibrò nell’aria accanto al suo orecchio e fece appena in tempo a scartare di lato con un rapido guizzo. Una ciocca di capelli neri svolazzò di fianco a lei planando sul pavimento con la stessa calma di una piuma. Leona detestava associare nella stessa frase forbici e capelli, perciò quando constatò che il ciuffo apparteneva alla sua chioma s’infuriò ancor di più e prese a roteare le sue kopis con una rinnovata furia divoratrice. Ma proprio mentre sembrava guadagnare un certo vantaggio sulla sua nemica, un’altra lama sibilò alle sue spalle e la costrinse a ripiegarsi a terra  prima che affondasse dentro la sua gola. Non si era nemmeno accorta che l’abominio di fosse spostato dietro di lei, come diamine aveva fatto!, si sorprese a imprecare. La risposta le morì in bocca non appena capì quello che era appena successo. Strabuzzò gli occhi per la sorpresa e cominciò a contare.
Un abominio mascherato a destra.
Un abominio mascherato a sinistra.
Due. Non uno. Due abomini spietati e invincibili.
Frieda non riuscì a frenare  le risate alla vista delle occhiate confuse che Leona rivolgeva alle due copie esatte e sputate del guerriero-abominio.
Merda, sbiascicò pianissimo per non farsi sentire. Non aveva considerato che anche un abominio potesse ereditare l’abilità vampirica del primo possessore che di per certo doveva esser stato un anomalo. Ma Frieda dopotutto l’aveva detto, quell’abominio in questione era un caso a parte. Avendo effettuato un trapianto di cuore, il suo potere doveva essersi accresciuto e conformato a quello del vampiro donatore.
Se le era risultato difficile battersi con uno solo di quelli, affrontarne due sarebbe stato impossibile. Leona non si scoraggiò, raccolse nuovamente le forze, raddoppiando la risonanza del mana, e menò un colpo per ciascuno di loro. Ma le servì a ben poco perché non solo entrambi i suoi avversari riuscirono a evitare i suoi fendenti con estrema facilità ma proprio mentre indietreggiava, un terzo e un quarto abominio cominciarono a prendere forma dai suoi fianchi, squarciandogli la pelle, sviscerando come ammassi di carne informi per poi trasformarsi in repliche esatte dell’originale. Leona trattenne appena in  tempo un conato di vomito. Ma sì certo Leona, offriti volontaria per confrontarti a duello con un cazzo di abominio micidiale che si duplica tramite mitosi, cosa ci sarà di male? Rifletté in mezzo ai pensieri in subbuglio che si rincorrevano fra loro nell’organizzazione caotica della sua mente da suicida.
La clonazione non terminò lì e altre tre copie si fecero strada attraverso di lei plasmandosi autonomamente una volta che quel miscuglio informe e viscido di carne, sangue e ossa si staccava dalla cellula madre in attesa di rielaborare le informazioni per dare inizio al processo di creazione. Sette replicanti e quattordici paia di spade in tutto la accerchiarono intrappolandola in una gabbia di lame taglienti e armature brillanti alla luce delle candele. Le sette guerriere ghignarono in coro preparandosi ad assestare la prossima mossa. Leona tremò, presto il suo sangue avrebbe bagnato il marmo su cui poggiava i piedi e avrebbe regalato una vittoria schiacciate a Frieda consegnandole su un piatto d’argento la sua tanto amata corona. I fendenti non tardarono a scattare come vipere in cerca di qualcosa su cui affondare i denti e infondere il loro veleno. La guerriera era dannatamente veloce e le sue stoccate terribilmente precise. Leona schivò e parò come poté ma quella pioggia di colpi che non le davano tregua, nemmeno un secondo per riprendere il fiato, cominciavano a sfiancarla. Ma avrebbe pianto con un occhio: se non avesse incanalato l’energia del suo mana probabilmente sarebbe morta molto tempo prima, ad appena pochi minuti dall’inizio dello scontro. Il mostro che si nascondeva dietro la maschera grugnì per l’esasperazione mentre la protettrice continuava a scivolare via dai suoi attacchi imitando la fluidità delle onde del mare. Ma non sarebbe bastato. Per combattere ad armi pari avrebbe dovuto evocare gli elementi naturali in suo aiuto. Una prospettiva allettante ma dalla dubbia fattibilità. Leona non controllava gli elementi, li assecondava e si muoveva con loro. Sentiva la loro energia, il loro battito vitale contro le ossa e vibrando sulla stessa frequenza divenivano una cosa sola. Ma come il suo mana, non poteva dargli la libertà, o poveri innocenti sarebbero stati coinvolti nella sua apocalisse di elementi. Avrebbe potuto imporgli dei confini ma a quale prezzo?
Il cuore le martellò nel petto mentre una delle lame lacerava la stoffa contro il suo fianco e mancava la carne del costato. L’unico e vero colpo di fortuna perché subito dopo un’altra spada calò dall’alto eclissandole la vista della luna. Quando lo schiocco di ossa rotte riempì la sala del suo eco, non urlò di dolore né la parte lesa s’inumidì del suo sangue. Una delle kopis le sfuggì dalla sua presa come se i nervi si rifiutassero di obbedirle e la spada di ghiaccio tintinnò a terra. Poco dopo un suono sgranocchiante si diffuse fra le costole dove l’elsa di una spada le era sprofondata nello stomaco. Il sapore metallico del sangue e bile si mescolarono nella sua bocca ma la ragazza si rifiutò di tracciare alcun segno di sofferenza nel suo viso e ringhiottì quel bolo aspro rintanandoselo in gola.  Non avrebbe versato alcuna goccia. Il cranio le pulsava frenetico mentre un dolore lancinante lo attraversava sfociando come martelli nelle sue tempie. In un attimo il pavimento si avvicinò e il freddo le intorpidì la schiena. Due mani per ciascun braccio si attanagliarono su di lei e uno schiniere argentato si posizionò sopra il suo petto per impedirle di respirare. Le due sfidanti cercarono ognuna lo sguardo dell’altra, uno trionfante, l’altro impertinente. Leona fu catturata dalla fredda raggiera di schegge celesti che coloravano le iridi della guerriera  e al di sotto di quella crudeltà, sepolta in profondità, le parve di sentire le urla di un’anima in trappola. Una risata vibrò contro lo schiniere che la soffocava vincendo il peso e la pressione di quella costrizione.
«Ce ne sono volute sette di te per mettermi al tappeto, io non la considererei una vittoria» riuscì a sussurrarle. Un ringhio riverberò dentro la maschera e la sua presa d’acciaio si fece più temibile. Una quarta figura danzò nella sua vista offuscata, un’ombra con due lunghe braccia sottili che si levavano verso l’alto.
«Devo ucciderli tutti» le rivelò l’abominio dando voce ai pensieri della sua padrona. Le palpebre di Leona scattarono per l’orrore di quelle parole e si spalancarono mostrandole il suo sguardo più adirato. Un calore rovente si espanse nel petto straripando dal suo cuore che batteva violento sulla cassa toracica. In un attimo si disperse come nitroglicerina nelle sue vene e prese a bruciarla formicolando da per tutto. Poco prima che il suo corpo prendesse fuoco insieme alle copie di quel mostro, un urlo si levò dal fondo della sala  e chiamò il suo nome con truce disperazione. Le lame restarono appese al cielo come se si fossero impigliate fra le nuvole e l’abominio barcollo all’indietro, trafitta e sgomenta dal suono della voce di Fabiano, e i contorni delle sue sei gemelle tremolarono nella notte. Il resto si susseguì a una velocità tale che ogni fotogramma si confuse con l’altro. La testa della guerriera scattò verso la folla alle sue spalle, verso la fonte della sua distrazione, e Leona esplose di energia, elevando un muro di fuoco fra lei e le sue assalitrici scaraventandole con la forza delle sue vampate che ardevano a centinaia di gradi Celsius. I bicchieri di cristallo vibrarono fino a scoppiare in migliaia di pezzi affilati e fiumi di vino, acqua  e succo di more si contorsero in aria come serpenti per poi disperdersi sotto forma di pioggia. Leona sentì risuonare dentro di lei il comando dell’acqua ma non era stata lei ad evocarlo. Suo fratello, poco lontano da quel caos con le mani protese verso il cielo, vibrava di potere. Sotto il tocco invisibile del dominio dell’acqua le gocce sospese in aria si brinarono trasformandosi in coltelli rossi e incolori. E con la stessa intensità con cui si mangiucchiava il labbro inferiore li sparse sull’esercito di Frieda colpendoli con le sue lame di ghiaccio. Molti non ebbero il tempo di correre al riparo, altri si gettarono nella mischia scontrandosi con le guardie della regina. E la battaglia infuriò e i due eserciti si scontrarono come due valanghe dai lati opposti delle montagne.
Leona si rimise in piedi con un salto e si fuse col metallo di cui era composto l’elmo della sua avversaria, ordinandogli di ripiegarsi all’esterno. Strinse le dita in un pugno ferreo lasciandosi trascinare dalle scricchiolio di metallo che stride su altro metallo. L’abominio trattenne con foga il copricapo sulla sua testa che minacciava di volarle via dalla sua presa pur di custodire la sua preziosa identità ma l’allomanzia di Leona ebbe la meglio e la celata si arrotolò su se stessa come la sottile lamina di alluminio di una scatoletta di tonno.
E Leona vide per la prima volta il suo viso, il suo vero volto, quello libero dal soggiogamento di Frieda, registrando ogni minimo particolare in quel fugace attimo che seguì. A parte le rughe di preoccupazione che si andavano disegnando sulla sua fronte e le ciocche color cioccolato che le rimanevano incollate sulle tempie e le scendevano sulle guance, non c’era alcuna traccia del Linckage su di lei. Il frastuono degli scontri che le avvolgevano fra grida e stridore di spade si ovattò alle orecchie della protettrice come se le fosse calato un velo insonorizzato sui timpani. Il fuoco che le danzava sulla pelle si estinse e i suoi muscoli divennero una statua di sale.
E allora capì perché quegli occhi azzurri le erano così familiari. La sua mente tornò a molti anni prima, in un lontano mattino piovoso d’estate. Un ragazzo si riparava all’ombra di un albero e scarabocchiava concentrato sulle righe del suo diario. Una fotografia faceva capolino fra le pagine e una bellissima ragazza le sorrideva. Una ragazza che sarebbe dovuta essere morta. Il suo cadavere disperso chissà dove, maciullato e dilaniato dai disperati tentativi di un incantesimo che non era andato a buon fine. La sala cominciò a vorticarle intorno e le tempie a pulsarle più forte di dolore.
«Prendi il sangue della medjai» le ordinò Frieda.
La ragazza guardò prima lei e poi i suoi occhi si piantarono sul ragazzo che si proteggeva alle spalle di Gabriel. Un singulto sofferto le risalì fino ai denti ma infine scosse la testa con decisione e disubbidì alla sua padrona.
«Non voglio» esclamò con non poca fatica come se qualcosa, una daga le stesse macellando le viscere dall’interno.
Leona non seppe dare voce alle mille domande che si affollarono nella sua mente che già la ragazza era scivolata via, inghiottita dalla furia dei combattimenti lasciandole in eredità le sue sei replicanti ferite. Tentò invano di riacciuffarla, per sincerarsi di ciò che aveva visto, ma suo fratello la riscosse dal suo intontimento dicendole alle prese con due tornado che si avvitavano a spirale dai polsi alle braccia «Leona! Siamo tutti disarmati!».
Leona imprecò fra sé per quella svista e rimediò immediatamente facendo appello alla sua geocinesi e riattivando la sua allomanzia sopita. Lance, spade e archi sfrecciarono lungo tutta la sala incontro ai loro proprietari. Ignorò il dolore sordo alle costole, sepolto dalla frenesia dell’adrenalina e raccolse la kopis che giaceva sul pavimento soffocando le punture che come aghi incandescenti le fecero tremare le articolazione del braccio. Vi concentrò il mana in modo tale da fungere da canale connettivo fra le ossa rotte e si ritagliò il suo piccolo spazio all’interno di quel vortice di violenza inaudita. La regina, irta nel suo mantello immacolato, sfiorò con un solo dito il ciondolo del sole  e punto il suo sguardo infuocato sulla sorella, che ancora una volta non aveva tenuto fede alle sue vane promesse. Fasci di luci rosso sangue riverberarono fra gli scontri ed esplosero come fuochi d’artificio fra le nebbie fatate che andavano diradandosi ad ogni fendente.
Nella sala da ballo dilagò il caos, i veli si squarciarono, i fiori appassirono, il vetro si frantumò, i candelabri incendiarono gli addobbi e le decorazioni sfarzose di quell’evento tanto atteso e conclusosi in tragedia. Una rappresentazione vivida, concreta, fin troppo reale dello Scao Leadh, come degli attori che perdono di vista la finzione del ruolo che interpretano, confondendo la realtà con la menzogna. Fiumi di rosso, azzurro, verde e bianco si mescolarono fra le armature scintillanti dei Curatores Noctis, i guerrieri della regina. Il popolo della sovrana rispondeva ai soprusi e alle minacce di colei che rivendicava il trono tutto per sé e del suo esercito di creature abominevoli. Gli attacchi elementali che brillavano di potere in punti diversi di quella folla combattente, ma qualcosa non andava. Le tribù dell’acqua e dell’aria attaccavano le proprie sorelle della terra e del fuoco, fazioni amiche che si trasformavano inspiegabilmente in nemiche. L’ennesima dimostrazione del connaturato opportunismo che caratterizzava le fate.
Leona individuò le sei figure intontite che strisciavano a terra come vermi e sbattendo forte un piede contro il gelido marmo crepò il pavimento e con esso spezzò le rune in esse tracciate mandando in frantumi i migliaia incantesimi di protezione che avvolgevano quel luogo mitologico. Quando fu certa che i suoi compagni protettori si trovassero lontani dalla linea di tiro, fece levitare per aria col controllo a distanza le macerie marmoree del pavimento e le scagliò con forza contro le sue avversarie lasciandole boccheggianti e sanguinanti. Decise di battere il ferro finché era caldo e le corse incontro gettando un urlo intimidatorio, le fiamme di un colore blu intenso che accarezzavano le sue kopis rendendole ancora più minacciose. Il freddo bruciante dei loro squarci aprirono la via a suon di stoccate imperversando con la furia che la sua proprietaria gli imprimeva. Una deliziosa sorpresa la fece ghignare di soddisfazione: le copie dell’abominio si facevano più deboli se allontanate dall’originale. Suo fratello intercettò il suo sguardo e accompagnato dalla melodia di Symphony la raggiunse fluttuando per aria sul flusso delle correnti come se stesse cavalcando un refolo ventoso. L’aria intorno a lui sferzava così celermente da rombare come un tuono e la pressione di quell’accelerazione inaspettata sgomentò i combattenti che scorrevano sotto di lui.
Le atterrò vicino con eleganza e le disse: «Vogliamo dare inizio allo spettacolo?» rise facendo vibrare la sua spada.
«Quando avevi intenzione di dirmi che avevi imparato a volare?!» lo rimproverò ferita nell’orgoglio mentre Symphony parava diversi colpi di un abominio inferocito.
«Vuoi davvero discutere ora di questo?» le rispose calciando in pieno viso un altro. Leona sbuffò d’invidia  prima di rovinare con i piedi uniti sul petto di un abominio, spingendo contro di esso e tornando al suo fianco tracciando un elegante arco perfetto, il vestito che schioccava al vento. Spostò con una scrollata la treccia che le ricadeva davanti e sfiorò la spalla di Gabriel con la sua scuotendo la testa.
«Io fuoco. Tu acqua» gli ordinò, rilegando la stizza dentro di sé, poggiando le kopis sul pavimento in rovina.
Gabriel seguì il suo esempio e coricò la sua symphony insieme alle sue kopis «Che cosa hai in mente?» le domandò allarmato.
«Tu fa come ti ho detto».
Proprio mentre i cloni dell’abominio riemergevano dal loro stordimento, emettendo ringhi cupi, il fuoco prese vita ancora una volta dalle sue mani sputando fiamme caldissime dalle dita. Leona seguì col pensiero il vorticare della vampate verso l’alto cercando di darle una forma. Sentendo su di sé il familiare calore di quelle onde roventi in un mescolanza di oro e rosso,  Leona di fuse con esse estendendosi con loro. La colonna di fuoco piovve dal cielo come un meteorite sui cloni e gridò «Adesso!».
Un fiume impietoso sgorgò dalle mani dell’altro medjai, infrangendosi sul fuoco evocato da Leona ed esplose in una nuvola di vapore incandescente. Il geyser di fuoco e acqua, elementi contrari e opposti, spazzò via tutto ciò che rientrò nel suo raggio d’azione e disintegrò i corpi delle loro nemiche. I due gemelli tornarono ad armarsi  con le lame donategli dai loro genitori e col favore dei vapori lattescenti del geyser si abbatterono sul resto degli abomini insieme agli altri protettori, nella loro prima e vera battaglia. Leona raggiunse Ethan che sorreggeva un Fabiano ancora instabile sui propri piedi feriti, offrendosi come spalla di ogni suo attacco, mentre Gabriel affiancò l’arciera rossa, fiera come lo era quel titano di suo padre. Il resto dei protettori si batté altrettanto valorosamente dal primo all’ultimo. Caterina era un tutt’uno con la sua lancia acuminata e sgomitava fra gli abomini sbaragliandoli come fragili birilli. La sua forza era a dir poco sbalorditiva, raddoppiata, no, quadruplicata, nessuno sembrava reggere al suo confronto e allo  stridore dei suoi strani guaiti. Norman le aleggiava attorno munito del suo arco coprendogli le spalle dai subdoli tranelli dei meta-vampiri. Marlena, urlante come una vedova afflitta dal dolore della perdita, affondava la sua lama squarciando la loro carne, traendone l’insano piacere della vendetta, i suoi occhi vagavano febbrili alla ricerca della guerriera mascherata per riscuotere la possibilità di farle assaggiare l’acciaio della sua arma, non le sarebbe bastata la punizione incandescente che Leona e Gabriel avevano inferto ai suoi cloni. Voleva veder soffrire la loro madre.
Ascanio orbitava attorno a lei come un satellite celeste circuisce la luna, snellendo il più possibile il fiume impetuoso di abomini che gli veniva contro. In tutto quel trambusto, col passo incerto e traballante di un ubbriaco, Fabrizio andava a caccia di lucciole perdendosi fra le nebbie che si condensavano simile a un vessillo spettrale avvallandosi ai margini della battaglia, con la Kiendjar a fargli da balia, evidentemente corrosa dai sensi di colpa per il suo stato.
Con l’aiuto dei protettori l’esercito della regina delle fate poté contenere i disastri che sarebbero derivati da uno scontro diretto con gli abomini della sorella e degli stessi traditori della sua corona.
Il fuoco bruciò, terra tremò, l’aria svaporò e l’acqua fluì violenta. Gli elementi furono allo stesso tempo alleati e complici dei medjai e nemici dei loro aggressori, si fecero guerra e si accoppiarono fra loro per dare vita a qualcosa di nuovo, nato dalle ceneri della distruzione, fino a quando la sorella codarda di Delilah non si decise  a battere la ritirata.
Frieda s’inoltrò dentro le nebbie fatate per fuggire alla furia rossa della regina e con un gesto frettoloso del polso aprì un varco dimensionale fra i mondi, affacciandosi su quello dei terrestri. Facendo slalom fra le saette rubiconde che il ciondolo del sole irradiava, raggiunse il portale gettandosi in avanti senza guardarsi indietro. Delilah urlò per la frustrazione e per poco non si decise a seguirla. Ma, conoscendola bene, non avrebbe mai potuto abbandonare il suo popolo che era sotto attacco, non poteva lasciare la sua bella isola alla mercé di quegli invasori senza scrupoli.
Mentre lanciava piroette infuocate dalle sue spade, Leona si scontrò con la schiena di Ethan.  I ragazzo non smise di sferragliare colpi decisi con la sua spada, ma facendosi più vicina alla protettrice le suggerì «Non resisterà ancora a lungo» disse riferendosi a Fabiano che continuava a combattere nonostante le ossa delle gambe traballassero come se non riuscissero più a sostenerlo, affogato in un mare di sudore, la pelle iridescente e pallida attorno agli occhi, accalorata e arrossata sulle gote, segno che l’infezione era sfociata in una febbriciattola che lo stava privando delle sue ultime energie. Leona sentì il proprio cuore sgretolarsi a quella vista.
«Che cosa proponi di fare?» domandò stringendo i denti.
«Possiamo farcela, l’esercito di Frieda si è assottigliato di molto, non sarà un problema tenerlo a bada per un altro po’. Ma sappiamo entrambi che ciò non risolverà il nostro problema, anzi non farà che rimandare l’inevitabile. Dovete impossessarvi di quel fottuto ciondolo e alla svelta»
«Ma come faremo? Il portale si è…» Symphony vibrò poco distante da loro conficcandosi nella testa di un abominio.
«Possiamo crearne uno noi» si offrì Gabriel spingendo con un calcio la spalla dell’abominio mentre sfilava via la lama incastrata nel suo cervello. La testa esplose in una fontana di sangue. Gabriel si asciugò le perle scarlatte che gli erano schizzate in faccia sulla sua camicia. «Siamo medjai in fondo» si giustificò.
«E’ una follia» lo rimbeccò Morgana nascondendo il viso dietro il suo arco, il cipiglio concentrato mentre sferragliava frecce a destra e a manca.
Gabriel le fece l’occhiolino «Io adoro le follie» le disse prima di volgere uno sguardo furbo verso le nebbie scintillanti d’argento. Il cuore balzò nella gola di Leona e della sua amica mentre suo fratello protendeva una mano sulla bruma fatata e con l’altra faceva a fette chiunque intralciasse il suo cammino. La nebbia come respinta dall’aura che irradiava si ritrasse dal suo tocco arricciolandosi sotto forma di onde vorticanti.
«Ho bisogno di vedere quel luogo» sembrò dire a nessuno in particolare. Ma Leona sapeva che lei era l’unica a condividere un legame tale con il gemello, l’unica in grado di lasciarlo entrare all’interno dei suoi pensieri. Leona infranse la barriera che le avvolgeva la mente e si sintonizzò con l’anima del fratello. Il battito del suo cuore che batteva nel suo. Cercò nel labirinto dei suoi ricordi quell’immagine e gliela mostrò. Gabriel spalancò gli occhi, raccolti in una concentratissima meditazione e ordinò alle nebbie di sciogliersi, dipanarsi e condurlo nel luogo da lui prescelto. Un vortice di ghirigori si disegnò attorno alla sua mano e si affacciò su un paesaggio nuovo, conosciuto soltanto nella memoria di qualcun altro. Gabriel rise «Te lo avevo detto!» esclamò con stupore.
Leona avrebbe voluto abbracciarlo fino a stritolargli le ossa, ma si sarebbe risparmiata quelle smancerie per quando avrebbe salvato le loro chiappe.
«Che cosa aspettiamo allora? Andiamo!».
Leona scosse la testa dissentendo «Andate avanti voi, porta via con te Fabiano, mettilo al sicuro, io devo prendere una cosa» disse perlustrando i rimasugli di quel bagno di sangue. Senza l’ampolla, non avrebbe raggiunto mai il nascondiglio del ciondolo della Luna, Delilah era stata molto chiara a riguardo. Con sguardo attento s’infiltrò in mezzo alla folla, cercando d’individuare disperatamente le guardie che l’avevano strascinata fin lì. Il caso volle che quella che le aveva confiscato il suo premio, stesse affrontando un abominio proprio sotto i suoi occhi. Ma lo scontro non stava andando esattamente a suo favore, il curatores indietreggiava impaurito di fronte al suo avversario che ghermiva l’aria fra loro con la sua ascia. Ascia che non tardò a trovar posto dentro il suo fianco, scavando dentro di lui fino a spezzargli la spina dorsale. La cintura a cui era appesa l’ampolla si slacciò dal suo fianco mentre il suo corpo veniva tagliato in due. L’ampolla volò, spinta dall’irruenza dell’ascia sul corpo della fata, e volteggiò in aria prima di posarsi sul palmo di una mano invece che rompersi sul pavimento.
Norman avvolse le dita sulla conca ricurva dell’ampolla e sorrise raggiante. Rotolò di lato qualche secondo prima che la stessa ascia che aveva smembrato il curatores noctis si abbattesse su di lui e corse via. Morgana si occupò dell’abominio centrandolo in piena fronte con una delle sue frecce. Scartando fra diversi cadaveri privi di vita disseminati al centro della sala, Norman li raggiunse gongolandosi «Cercavate questa?».
«Norm, sei stato incredibile» esclamò scoccandogli una bacio sulla guancia. Il protettore arrossì violentemente sia per quel tenero gesto di affetto che per il complimento.
«Bene, non so vogliamo farci una partitella a poker prima di partire o possiamo tergiversare altrove dove magari non possono massacrarci?» ironizzò Gabriel.
Leona gli rivolse una fugace occhiataccia delle sue. Gli diede le spalle e prese la mano di Fabiano con gentilezza conducendolo verso il portale. Ma, prima che potesse dare un altro passo, Leona cadde sulle ginocchia, divorata da un dolore lanciante che la fece boccheggiare al suolo. I polmoni gli si riempirono di sangue soffocandogli la gola e un bruciore folle cominciò a tracciare dei segni sul suo braccio, come se un uncino bollente le stesse scavando la pelle. Il dolore era così totalizzante che riuscì a malapena a capire cosa le stesse succedendo. Delle mani bollenti le scottarono le guance e due zaffiri limpidi si puntarono addolorati su di lei. Fabiano le urlava di restare con lui, continuamente, e lei avrebbe tanto voluto accontentarlo se quell’indicibile sofferenza glielo avesse permesso.
«Che cazzo sta succedendo?» sentì sbottare in lontananza suo fratello « Che cazzo sono quegli scarabocchi sul suo braccio?» domandò ancora più furioso. Avvertì le sue dita fredde sulla pelle contornagli i tatuaggi sanguinolenti che le erano comparsi sul braccio.
«Oh no» mormorò Morgana «Quelli non sono scarabocchi, sono le lettere del suo nome…».
«E questo che cosa vorrebbe dire? Parla! Cristo santo, mia sorella sta morendo». Morgana singhiozzò.
Le parole tentarono a fatica di farsi strada verso la bocca di Leona impastata dal sangue, sforzandosi di riemergere dal suo inferno personale «Il contr…il contratto» esalò vomitando un denso bolo rossastro sulla camicia di Fabiano. Le sue dita tremavano fra le ciocche dei suoi capelli.
«Il contratto» ripeté il gemello «Di che diamine di contratto sta parlando. Leona che cazzo hai fatto?» s’infuriò ancora di più.
Ma Leona non gli dava più retta, l’oscurità che danzava davanti ai suoi occhi  l’avvolse completamente cullandola in una pozza di nero cupo e senza speranza. Sentiva la sua vita scivolarle via dalle mani, reclamata dalla violazione di una promessa, dalla rottura di un contratto. Il suo nome inciso nella sua carne a garanzia della parola data in cambio di un favore.
Improvvisamente una voce la riscosse dal suo sonno eterno e le sbarrò la strada verso l’oblio. La afferrò per i capelli e la fece annaspare come se avesse finalmente ricordato come doveva essere respirare, fuori dalla polla di tenebre.
«Guida la mia freccia» pregò la voce della sua amica Morgana rimbombandole nell’orecchio.
Chiunque avrebbe creduto che quella preghiera fosse stata rivolta ad Artemide, la dea della caccia, ma Morgana non aveva mai creduto negli dei pagani. La vista tornò a schiarirsi quando Morgana scoccò la sua freccia, sibilando veloce nell’aria. Leona viaggiò con lei, risiedendo nella punta metallica di quel dardo. Prese il controllo della freccia puntando verso il suo bersaglio e virò poco prima che s’infrangesse nel petto della regina Delaliah. La punta si avvolse attorno alle catene del suo ciondolo e si staccò dal suo collo. La freccia curvò indietro e proseguì dritta davanti a sé finendo fra le mani di Leona. La gettò di lato estraendo il ciondolo del sole e lo tenne stretto vicino al cuore poco prima che un fiotto di energia vitale la riempisse come un vaso. Il dolore divenne solo un triste eco, un ricordo sbiadito come una cicatrice. La stessa forza la fece reggere nuovamente sulle sue gambe e afferrare Fabiano per il colletto della camicia e spingerlo all’interno del portale. Gabriel, indeciso se arrabbiarsi o abbracciare la sorella, colse l’attimo che non si sarebbe più ripresentato, prese il polso di Morgana e si precipitarono insieme seguendo a ruota l’esempio di Fabiano. Leona soppesando al tatto i due oggetti che si era conquistata con fatica e sacrificio, l’ampolla da un lato e il ciondolo del sole dall’altro, rivolse un sorriso sghembo ai suoi amici «Restate vivi». Detto questo, voltò le spalle alle ceneri morenti di quella battaglia e alla regina del regno che non smetteva d’inveire contro di lei, e attraversò il limbo fra i mondi richiamando a sé ancora una volta le sue fidate spade.
Le sue kopis di ghiaccio sigillarono il passaggio e Leona giurò di non fare più ritorno in quel mondo di creature incantate.

Angolo dell'autrice: Salve a tutti lettori! Mi rendo conto di esser diventata latitante negli ultimi tempi, ma ho compensato il ritardo della pubblicazione con la lunghezza del capitolo (moltooo lungo) e se siete giunti fin qua sotto avete avuto un bel fegato XD Chissà quanti di voi avranno capito chi si nasconde dietro la maschera del guerriero? Gli indizi sono molti e non sarà così diffcile capirlo ;) A presto per un nuovo capitolo! Baci :-*

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Moonfire2394