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Autore: time_wings    11/08/2020    2 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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7. Cera e ghiaccio

 



Vigilia di natale, 1989
 
Peter Minus era stato speciale. I cinque minuti e trentadue del suo successo gli avevano affibbiato l’incredibilmente raro epiteto di Testurbante. Un evento unico, che per Peter si era tradotto in cinque minuti e trentadue di soggezione e sudore.
Il Testurbante indicava un mago il cui tempo di smistamento superava i cinque minuti. Il silenzio del cappello gli era sembrato il primo di una lunga serie di scherzi cattivi nei suoi confronti.
Si aspettava di finire nel mirino dei bulli, una volta a scuola, ma non certo dopo neanche unʼora da quando aveva messo piede lì.
Peter, negli anni, aveva pensato a lungo al motivo di quei cinque minuti, a cosa avesse lui, che era solo Peter, per aver dato tanto da pensare a quel povero cappello. All’inizio, quando era giovane e sotto l’influenza dei suoi amici sicuri, si portava dietro quella storia come una coccarda, perché gli aveva dato spessore e validità. Era stato complicato per cinque minuti e trentadue, meritevole di attenzione e di ragionamento. Era stato il centro del pensiero di qualcuno, anche se di un cappello.
Dopo dodici anni dalla fine della scuola, Peter aveva iniziato a vedere le cose in un’altra maniera. Si era chiesto se il cappello avesse passato quei cinque minuti e trentadue a chiedersi se ci fosse almeno una casa che facesse per lui e non ad arrovellarsi su quale delle sue capacità spiccasse tanto più delle altre da reclamare a sé il verdetto.
Peter, più che sentirsi tante cose, aveva iniziato a sentirsi nessuna.
“Percy, staccati da quel topo,” Fred glielo prese dalle mani con non troppo garbo, posandolo a terra, “inizi a diventare inquietante.”
“Si dà il caso che sia il mio topo,” Percy rifilò a suo fratello uno sguardo che solo un tredicenne minaccioso poteva padroneggiare.
“Chiedigli se gli va di trasformarsi in una bella signorina.” George, seduto al lato di Percy che non era occupato da Fred, mimò le labbra carnose di un’attraente fanciulla, “magari si vuole unire a noi per il Natale.”
Percy alzò gli occhi al cielo, alzandosi dal sofà foderato arancione per liberarsi dalle grinfie di quelle due palle al piede. Lasciò stare Crosta e si diresse alla tavola imbandita: il cenone della vigilia sarebbe stato un autentico mercato, come al solito.
Crosta colse l’occasione di potenziale solitudine per passare attraverso lo spiffero della finestra e fare un salto nei campi che accerchiavano la Tana.
Quando fu certo di essersi allontanato abbastanza da occhi indiscreti, si concesse una trasformazione.
Il sole tramontava placido e arancione dietro le colline, che già assumevano un tono caldo e scuro. Il fresco della sera in arrivo superava gli insufficienti strati dei suoi abiti logori e lo avvolgeva sereno, facendolo rabbrividire piacevolmente. Gli stessi vestiti che indossava quando, al banco dei pegni, aveva pagato cara la sua libertà.
Peter avvicinò le gambe al petto e poggiò la testa sulle ginocchia, continuando a fissare il sole.
Quando tornava ad assumere la sua forma umana, tutte le emozioni che aveva incamerato e processato in maniera blanda fino a quel momento lo invadevano a cascata, come atomi spinti improvvisamente a legarsi gli uni agli altri a rendersi molecole, più complessi, più incomprensibili.
Peter aggrottò la fronte e dondolò appena, nervoso.
Il sole era calmo, le risate divertite della famiglia Weasley gli giungevano all’orecchio ovattate e qualche corvo si attardava nel cielo cobalto, gracchiando in lontananza. Tutto era così sereno. Forse era esattamente quello, il problema, forse era la serenità a rendere più crudo il dolore, perché bruciava secco, come acqua su pietre incandescenti.
Peter continuò a fissare il sole, in attesa che lasciasse posto alla ben più nota notte. Era un uomo libero, sì, che era scappato dalla morte, certo, ma non era più nessuno. Era Crosta, forse, e a volte sperava di poterlo diventare completamente.
E il senso di colpa, il pentimento, quando tutto era finito, non si era certo dimenticato di entrare prepotente nella sua testa. Era uno spillo che gli trapassava il cranio, ma non gli permetteva di morire dissanguato.
Peter non voleva la morte, ma la redenzione, voleva tornare indietro o abbandonarsi al Signore Oscuro una volta per tutte e farla finita. Diventare suo, che era mille volte più facile, bisognava seguire la strada spianata e i cartelli che puntavano in direzione ‘paura’. Peter aveva un fiuto naturale per quel genere di sentieri.
James Potter era morto da otto anni e non c’era giorno che non pensasse a come avesse preso cinque vite a cui teneva e le avesse abbattute tutte, la sua per prima. Aveva contro di sé il mago in vita che più temeva, dietro quattro sbarre che lo separavano dall’inevitabile scoperta che era ancora vivo e i sostenitori più feroci dell’altro mago che più temeva; lui, però, era morto.
Se c’era qualcuno da cui sarebbe potuto tornare, suo malgrado, era proprio dal secondo, perché poteva essere riportato in vita e forse la gloria e la dimostrazione della sua immensa fedeltà avrebbero curato gli animi dubbiosi dei maghi che lo incolpavano.
Peter era un traditore in ogni mondo e il sole caldo e arancione era ormai prossimo a sparire.
Una sola lacrima amara cadde fino al palmo della sua mano, poi lasciò che Crosta attutisse tutto il dolore che un corpo umano grande e grosso non era in grado di contenere.
Quella sera Peter Minus passò i cinque minuti e trentadue più vuoti della sua storia, tornato a essere nessuno.
 
***
 
Il rumore curioso di uno stomaco che gorgogliava interruppe il silenzio della Sala Comune. Il ragazzo sgranò gli occhi scuri e si guardò attorno.
“Pete,” James alzò un sopracciglio ironico verso di lui, “hai davvero ancora fame?”
Lui si strinse nelle spalle, intingendo la piuma nell’inchiostro. “Ho lo stomaco vuoto,” si limitò a rispondere e Sirius sfruttò quella succulenta occasione per alzare la testa dal libro per un’occhiata ironica.
“Certo, Pete, in effetti è quello che succede a tutti venti minuti dopo aver cenato.”
James rise insieme a lui e Remus si premurò di lanciar loro un cuscino a testa addosso, giusto perché era riuscito a farli stare zitti a studiare nella stessa stanza per ben venti minuti e voleva mantenere quel record.
“Per piacere, sto studiando,” ribatté Sirius, alla muta e aggressiva presa di posizione del suo amico. James sbirciò sul suo libro e iniziò già a sghignazzare.
Sirius si schiarì la voce, con gli occhi puntati su un rigo particolarmente interessante de ‘Le Forze Oscure’. “La trasformazione mensile non può essere evitata in alcuna maniera,” iniziò e Remus inspirò affranto. Una parte di sé lo costrinse ad affrettarsi con lo sguardo nella Sala Comune, constatando con sollievo che non ospitava altri studenti oltre che loro. Sirius si poggiò con la testa sul bracciolo della poltrona di Lupin e continuò a leggere: “Avviene a ogni luna piena e il soggetto è portato ad attaccare indiscriminatamente chiunque gli capiti a tiro, parente o sconosciuto che sia.”
Remus si ritrovò, sorpreso, a sorridere del tono annoiato e perfettamente naturale con cui Sirius stava leggendo quelle parole. 
“Per fortuna sto studiando, altrimenti non ce lʼavrei proprio fatta a imparare queste stronzate,” mormorò e James e Peter scoppiarono a ridere. “I lupi mannari sono creature aggressive e maligne.”
“Oh, puoi dirlo forte,” confermò Remus, annuendo come se gli fosse capitato di avere a che fare con un lupo mannaro, una volta o due.
“Sirius, leggi bene, c’è scritto che può staccarti la testa se metti le mani nella sua scorta di cioccolata,” gli diede corda James e Sirius annuì solenne.
“Però non dicono che sono super noiosi.”
“E che non vanno svegliati prima delle otto del mattino!” aggiunse Peter.
“Affamati, noiosi e dormiglioni, Pete, devi dirci qualcosa?” Sirius aggrottò la fronte sconcertato e fissò un falso sguardo dubbioso sul suo amico. “No, perché non so se ce la farei mai ad avere un amico lupo mannaro.”
Peter roteò gli occhi. “Stronzo.”
I tre ragazzi risero e dichiararono chiuso il discorso lupo mannaro. Proprio in quel momento, infatti, Dorcas e Mary tornarono alla Torre di Grifondoro.
Sirius, seduto ancora a terra, si lasciò cadere nuovamente con la testa contro il bracciolo della poltrona di Remus e poggiò svogliatamente il libro sulle ginocchia, sfogliandolo come se l’avesse scritto lui. Remus lo osservò per qualche secondo, genuinamente divertito da quell’atteggiamento. Notò con un pizzico di distante ironia che quando Sirius aveva deciso di non tagliare i capelli aveva fatto sul serio. Era diventata una cosa importante per lui, forse perché le bandiere Grifondoro e i poster delle ragazze rimanevano a Grimmauld Place, mentre poteva evidenziare la sua differenza ogni giorno, quando si guardava allo specchio. Forse sottintendeva un bisogno anche estetico di farsi notare più di quanto già non facesse, di essere diverso non solo dalla sua famiglia, ma dal mondo intero… o forse solo da ‘se stesso, vecchio ed erede’.
Remus non aveva dimenticato le sue parole, anche se pronunciate prima di un momento che per lui era stato tragico.
Comunque credeva che gli donassero e che, a dirla tutta, a guardarli sembrassero soffici, che sarebbe stato interessante assaporarne la consistenza sotto i polpastrelli, passarci le dita in mezzo...
“Potter,” la voce tagliente di Lily Evans lo costrinse a tornare in sé. Per un attimo si chiese dove fosse e, soprattutto, che espressione avesse. Quasi dimenticò quanto strano si fosse sentito negli ultimi trenta secondi.
“Evans,” la salutò James, “posso esserti d’aiuto?”
“Sì,” replicò lei, gli occhi che si riducevano a due fessure, “ho una richiesta.”
“Vedrò cosa posso fare.”
“Lascialo in pace,” ribatté perentoria, nella voce neanche la minima traccia della richiesta che aveva menzionato.
“Parli di Mocciosus? Ma io gli ho fatto un favore!”
Sirius, accanto a lui, ridacchiò.
“Mi spieghi in quale universo appenderlo a testa in giù è considerato un favore?”
James alzò gli occhi al cielo come se avesse dovuto spiegare la cosa più ovvia del mondo al più stupido degli esseri umani. “Bastava chiedere,” replicò con aria superiore, “io gli ho reso onore.”
Lily lo osservò disgustata, ma anche vagamente confusa dal motivo per cui attaccare un ragazzino potesse essere considerato un onore.
James sapeva benissimo di cosa parlava. Era stata una mossa strategica. Severus era diventato sempre più inquietante e il suo atteggiamento viscido aveva iniziato a disturbarlo in maniera insopprimibile. Lo disgustava, non c’era fibra del suo corpo che non lo urtasse istintivamente e, allo stesso tempo, che non gli gridasse di attaccarlo. Gli avrebbe fatto pena se non fosse stato così dedito alle Arti Oscure. James si sentiva in dovere di proteggere il mondo da lui e, soprattutto, quando camminava per i corridoi con Lily Evans,  qualcosa proprio al centro dello stomaco lo turbava. Era sbagliato. Ormai erano mesi che lo vedeva scribacchiare su quel dannato libro di Pozioni e, qualunque cosa fosse, stava funzionando alla grande. Piton era semplicemente imbattibile in materia: riusciva quasi a immaginarlo nei sotterranei Serpeverde a preparare intrugli rivoltanti per compiacere Lumacorno. Sospettava anche che stesse tentando di ingraziarselo solo per seguire Lily agli incontri speciali che organizzava il professore.
James aveva pensato bene di sbirciare. Aveva notato quello scarabocchio di “Levicorpus” e ci aveva messo tutto se stesso per distinguerne le lettere. Non ci aveva messo molto, invece, a capire a cosa servisse. Il bastardo, adesso, inventava anche incantesimi!
Era solo giusto che, prima ancora che potesse metterli a punto, li testasse anche. E quale modo migliore di testarli che sperimentarli sulla sua pelle? James ne era praticamente convinto: gli aveva fatto un favore. Che poi il favore l’avesse fatto anche a se stesso era un altro discorso.
Per quanto le ragioni di James fossero nobili, a detta sua, Lily era più decisa che mai a guardarlo in cagnesco. E James non aveva alcun problema a ricambiare con la stessa moneta.
Sirius interruppe quello scambio di sguardi con un colpo di tosse. “Ma tu non ci detestavi? Perché non vai a farlo da un’altra parte?” Il repertorio di battutine di Sirius che Lily ignorava con la leggerezza di chi non le aveva neanche sentite aveva ormai raggiunto livelli che Arsenius Jigger, con i suoi tomi di seicento pagine, poteva solo sognare.
“A volte penso, Potter, che tu abbia un serio problema di fiducia in te stesso,” sputò fuori Lily, un sorriso sprezzante giocava astuto sulle sue labbra.
Passò qualche secondo di silenzio, James addirittura sembrò colpito, poi i quattro amici scoppiarono a ridere contemporaneamente, nessuno escluso.
“Scusa, Lily,” si intromise Remus, che aveva ormai un bel rapporto con la ragazza, basato sulla stima e il rispetto reciproco, “però James è davvero l’ultima persona che definirei così.”
“Ehi, la penultima,” si unì Peter, alzando un dito, “l’ultima è Sirius!”
“Ah-ah, molto divertente,” ribatté lui, ma forse non se la sentì di negare.
“Devo ricredermi, Evans, sei simpatica,” la provocò James, negli occhi una scintilla che quasi la implorava di iniziare a litigare.
“La verità,” la ragazza alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa per contenere l’irritazione, “è che forse non hai le palle di affrontarlo senza i tuoi trucchetti.”
Era incredibile come James fosse in grado di mantenere la calma in qualunque situazione. Sirius sarebbe scattato e avrebbe distrutto tutto, Peter avrebbe abbassato lo sguardo e avrebbe trovato il modo più veloce ed efficiente di darsela a gambe e Remus si sarebbe rabbuiato, colpito nel segno e consapevole. James, invece, si limitò a scrollare le spalle con la disinvoltura di chi non si lasciava mai toccare da niente. Abbassò lo sguardo sulla patta dei suoi pantaloni, poi lo rialzò su di lei. “L’ultima volta che ho controllato cʼerano, le mie palle.”
Lily sbuffò esasperata: era come parlare a un muro. “Sei così volgare,” ribatté con sdegno. Poi, senza aggiungere altro, sfoderò la bacchetta e la puntò, con somma sorpresa di James, non sulla sua faccia, ma sui suoi pantaloni. “Be’, ricontrolla, idiota.”
Evans incrociò le braccia al petto e, con quell’ultimo incantesimo, prese la strada per i dormitori femminili, sotto gli sguardi divertiti di Sirius e Peter.
Non appena se ne fu andata i due scoppiarono a ridere. “Ricontrolla, idiota,” la scimmiottò Sirius, tenendosi la pancia dalle risate. “Esilarante, davvero.”
“James, va tutto bene?” chiamò Remus, che si era finalmente accorto che il suo amico fissava un punto impreciso del tavolino davanti a sé, senza nessuna espressione particolare in viso.
“James?” Peter aggrottò le sopracciglia, accigliato.
Il ragazzo si limitò ad alzare lo sguardo più calmo e beato della Terra sui due ragazzi, dedicando un’occhiata tutta a Peter e poi una unicamente per Remus. Un attimo dopo si morse la lingua in riflessione, tornando a fissare quello spigolo di tavolino che doveva aver attirato tutta la sua attenzione.
“Sirius?” chiamò, picchiettando con una mano sul suo braccio, ma continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, “mi devi dare una mano,” esalò, infine, contraendo finalmente le sopracciglia in una smorfia preoccupatissima.
“Aspetta, ti ha davvero…” Sirius lo guardò per un attimo in faccia, poi prese a squadrarlo dalla testa ai piedi. Non resse un secondo di più e la risata più rumorosa di tutta Hogwarts gli scoppiò nei polmoni. “Ti ha davvero incantato le palle?!” riuscì a domandare, tra le lacrime.
“Non lo so, ma ha fatto qualcosa. Tu mi devi aiutare,” ribatté James, lo sguardo serissimo e pregno di timore che si specchiava in quello divertito di quell’inutile del suo migliore amico.
“Riesci ad alzarti?” domandò Sirius, tirandolo su e non smettendo un attimo di ridere. “Andiamo in bagno.”
“Sirius, mi devi aiutare.”
“Tranquillo, James, ti salvo io.”
Remus e Peter si guardarono per un secondo, due scintille gemelle di divertimento illuminavano i loro sguardi.
“Non so tu, ma io questa non me la perdo, Pete,” decretò infine Remus, alzandosi dalla sua poltrona e raggiungendo Sirius e James, offrendo anche la sua spalla all’amico infortunato. James lo guardò con la gratitudine di chi è nelle mani del suo angelo.
I tre amici e il morto si incamminarono a tutta burrobirra verso i bagni più vicini.
 
***
 
La povera Bertha Jorkins, quella mattina a colazione, subì un’incredibile tortura. Quattro paia d’occhi si erano puntate su di lei, come a sfidarla a mettere in giro qualche altra voce sul loro conto e sui loro prossimi scherzi.
James mosse pericolosamente la sua fetta di pane e burro davanti alle facce dei suoi amici, richiamando l’attenzione su di sé. Si sistemò meglio gli occhiali sul naso e addentò un angolo del suo pane. “Quella deve stare lontana da noi,” commentò James, con la serietà di un generale che organizza una fondamentale spedizione, “manca una settimana alla fine della scuola,” ricordò ai suoi amici, senza dimenticare un’occhiata più significativa a Sirius e Peter, per una questione che li stava mandando in seria agitazione nell’ultimo periodo. “Questo scherzo non si può rimandare per una soffiata di una ficcanaso e noi dobbiamo…” James si interruppe, lo sguardo perso da qualche parte al tavolo dei Corvonero. I tre amici si scambiarono una veloce occhiata confusa. “Sirius.” 
Il ragazzo, che si stava grattando scompostamente alla base del collo come ad eliminare chissà quali pulci, si bloccò con un gomito a mezz’aria, per incontrare gli occhi divertiti di James. “Che c’è?”
“Ti fissano,” lo informò lui, con un cenno della testa in direzione di due ragazze Corvonero.
Sirius inarcò un sopracciglio e si voltò veloce verso il tavolo della casa. In effetti due ragazze, in quell’instante, saltarono sul posto con qualche udibile risolino e si voltarono a dar loro le spalle in men che non si dica. Sirius inclinò la testa di lato, come a ponderare qualcosa di non ben definito. Una delle due, con lo sguardo basso e un sorriso timido, si voltò appena a mostrare il profilo. L’espressione di Sirius non cambiò considerevolmente, si limitò a bagnarsi le labbra con la punta della lingua, prima di voltarsi di nuovo verso i suoi amici, pratico e spiccio, una scrollata di spalle già appoggiata addosso, come pronta a partire. “Okay, ricapitoliamo. Io...”
“Credo sia arrossita,” commentò Remus, un sorriso ironico a rimarcare lo scambio di occhiate prima avvenuto, lo sfottò che faceva da sfondo al suo commento.
“Lupin, ti devi concentrare,” gli intimò Sirius, sventolandogli un dito davanti come se si trattasse di una questione improrogabile. “Quindi, io prendo gli slittini…”
“Per l’ultima volta, Sirius,” lo interruppe esasperato Peter, “quelle sono assi di legno con dei cardini trasfigurati in delle ruote.”
“Prendo gli slittini, dicevo, e voi vi fate trovare alla base della Torre di Astronomia, prima delle scale.”
I ragazzi annuirono e quattro sorrisi furbi strisciarono sui loro volti. James alzò entrambe le mani per dare il cinque ai suoi amici. Prima che Peter e Sirius potessero ricambiare, però, i tre si guardarono in faccia sconvolti, poi girarono il collo verso le finestre della Sala Grande così velocemente che Remus credette che si fossero rotti l’osso del collo.
Un ticchettio si infrageva sui vetri.
“Piove!” esclamò Peter, sconvolto, come se avesse passato l’ultima settimana a recarsi sul tetto della scuola a esibirsi nella più disperata danza della pioggia che riuscisse a gestire. Il che non si discostava troppo dalla verità.
Remus li guardò, chiedendosi se non fossero impazziti tutti di botto. “Sì, anche stanotte è piovuto,” replicò, mentre una parte di lui si domandava se fosse giusto dargli corda quando si comportavano in maniera così bizzarra.
“Che stai dicendo?!” Sirius si voltò di scatto verso di lui come se della finestra non gli fosse più importato un fico secco. “In che modo? In che modo pioveva?” gli domandò, poi, come se ne fosse valso della sua stessa vita.
Remus, aggrottò la fronte vagamente allarmato da tutta quell’aggressività. “E io che ne so? In modo normale, con l’acqua.”
“Ma quanto?” James era altrettanto ansioso.
“Ragazzi, tutto bene?”
“Quanto, Remus?” Peter ripeté.
“Un po’, credo, niente tuoni, come adesso, però dovrebbe rischiarare nel pomeriggio.”
I tre ragazzi si scambiarono un’occhiata afflitta. Avevano nascosto quelle dannate pozioni al buio, come da manuale e, a quel punto, avrebbero solo potuto aspettare l’arrivo di un temporale. Il problema era che, se fossero tornati alle rispettive case per le vacanze estive, non sarebbero stati a scuola per riesumare la pozione. A quanto pareva il mondo aveva deciso di portare sulla Terra l’estate più asciutta del secolo!
James sospirò e lasciò andare la testa indietro con uno sbuffo.
La voce spaventata di Peter raggiunse flebile le sue orecchie, “James, che facciamo se…”
“Non voglio neanche pensarci.”
Remus ascoltò lo scambio di battute degli amici accigliato, poi rifilò una gomitata leggera nelle costole di Sirius. “Mi spieghi che avete?”
Sirius scosse la testa per liberarsi di un ciuffo che gli era ricaduto sul naso. “Fa molto caldo,” commentò infine, squadrando le finestre della Sala Grande come se stesse intrattenendo una di quelle conversazioni brevi da ascensore.
Remus aggrottò la fronte e lo fissò in attesa, ma Sirius non ricambiò il suo sguardo e la loro conversazione finì così.
 
***
 
“Io non glielo lascerei fare,”
“Remus, staʼ zitto, sto lavorando,” gli intimò Sirius, in bilico su quello che lui amava definire slittino, ma che era pur sempre una piattaforma con le ruote. Sempre dannatamente in bilico agitò un altro po’ la bacchetta sul caschetto di James, senza successo.
Aveva ben pensato, infatti, che presentarsi con un caschetto rosa da protezione fosse una mossa ridicola e per questo divertente, ma da quando l’aveva messo non era più riuscito a toglierselo dalla testa… letteralmente. Così aveva optato per chiedere una mano ai suoi amici.
“James, glielo stai davvero lasciando fare?” domandò Peter, come se non glielo stesse già lasciando fare.
“Ehi, vi vorrei ricordare che una settimana fa sono stato io a mettergli a posto le palle,” puntualizzò Sirius, prendendo la testa di James tra le mani e costringendolo ad abbassarla per guardare meglio, “grazie per la fiducia.”
“Io ti darei la mia vita in mano,” confessò James, alzando lo sguardo sul suo migliore amico quel tanto che bastava per mandargli un bacino.
“E io la passerei a Pete, ci saprebbe fare molto più di me,” aggiunse Sirius. Nessuno dei ragazzi lo notò, ma Peter alzò gli occhi sui suoi amici, profondamente colpito da quella confessione sbadata che Sirius si era lasciato sfuggire come se fosse stata la scelta più ovvia. Pensò che avrebbe fatto davvero di tutto per essere all’altezza di quel compito.
Con un ultimo colpo di bacchetta, Sirius spaccò il casco a metà, riuscendo nel delicato intento di evitare di riservare lo stesso trattamento alla testa di James. “Hai la testa dura, Jamie, ti ha salvato di nuovo.”
James alzò gli occhi al cielo e rise, passandosi una mano nei capelli per farli tornare al loro antico capolavoro di autentico disordine. “Si va?”
I quattro teppisti guardarono la lastra di ghiaccio davanti a loro, Peter alzò un sopracciglio preoccupato, ma poi si fermò un secondo a osservare i suoi amici. Sirius e James erano su di giri e un sorrisetto eccitato piegava le labbra di Remus.
Sirius fu il primo a muoversi. Si sedette sullo ‘slittino’ e si prese un attimo per stabilizzarsi, poi puntò la bacchetta davanti a sé e rinforzò la lastra artificiale che stava già prendendo a sciogliersi.
“Chiudo io,” annunciò James orgoglioso, “vai, Remus.”
Prese posto proprio alle spalle di Sirius, seguito da Peter e, per finire, da James.
“Durante la corsa costruite la lastra di ghiaccio. Tutti,” intimò loro Peter, con un tremolio nella voce.
Annuirono, inspirando l’aria insolitamente fredda e preparandosi al lancio.
“Reggiti,” sussurrò Sirius, lasciando quell’invito alle sue spalle. Remus non aveva assolutamente idea del perché non fosse corso ad assicurarsi sui fianchi del suo amico, soprattutto con Peter che, dietro di lui, sembrava addirittura volergli strappare lo stomaco.
“Sì, scusa, stavo…” Remus scosse la testa. Non aveva neanche idea di cosa stesse facendo. Abbracciò Sirius senza aggiungere altro. Lui gli sorrise, uno sbuffo quasi impercettibile che non voleva prenderlo in giro. Remus ricambiò.
“Che stiamo aspettando?”
“Sei una spina nel fianco, James,” ribatté seccato Sirius, lasciando un ultimo cenno divertito a Remus, prima di voltarsi.
In un attimo i ragazzi si trovarono a scivolare su una lastra di ghiaccio costruita centimetro dopo centimetro dalle loro bacchette, neutralizzando ogni forma di scale che fosse mai esistita. Guadagnarono velocità in pochissimo tempo, visto quanto si trovava in alto la Torre di Astronomia da cui erano partiti.
Schizzarono veloci come la luce tra i cunicoli di Hogwarts, con il loro carrellino incantato per sostenere curve e scossoni. Risero di gusto, mentre tutta la scuola si faceva da parte per far passare quattro pazzi che sfrecciavano su uno slittino di fortuna, che sembrava del tutto intenzionato ad arrivare come un razzo fino alle porte della Sala Grande. 
“Ma che cosa…”
“Non ci credo.”
Sirius sentì distintamente la risata di Marlene, mentre Lily cercava ancora di capire cosa diavolo ci facesse lì del ghiaccio e perché James Potter ci stesse sfrecciando sopra. Ma la verità era che era già troppo tardi, erano ormai lontanissimi da lì, il vento del loro gelo gli arrivava in faccia senza farsi troppi problemi.
“La Sala Grande!” gridò Peter, l’adrenalina che fluiva inarrestabile, costringendolo a poter solo ridere e impedendogli categoricamente di preoccuparsi.
Le grandi porte della sala si pararono loro davanti, gli occhi di mezza scuola erano già puntati sul carrellino e sul suo ingresso trionfale a cena prima che tutti gli altri vi si recassero.
Erano vicini alla soglia, a un passo dall’attraversarla…
E Minerva McGranitt sciolse con un colpo di bacchetta tutto il ghiaccio rimanente, facendo frenare il carrello bruscamente sulla pietra scabra e facendo risultare il tanto agognato ingresso trionfale in un ribaltamento secco del veicolo.
I ragazzi caddero rovinosamente a terra, non riuscendo però a smettere di ridere.
“Saltiamo il momento in cui mi fornite delle scuse che non reggono e passiamo a quello in cui finite tutti e quattro dritti in detenzione?” propose la donna, con occhi velati di rassegnazione. Un pizzico di divertimento, però, le illuminava l’espressione. I ragazzi non seppero dire se fosse sadismo, ma sospettavano da tempo che, in realtà, la donna provasse una certa simpatia nei loro confronti.
“Mi pare ingiusto, Minnie,” disse Sirius, rialzandosi e spazzolandosi i vestiti senza alcuna grazia, “in galera senza processo? Questo è l’insegnamento che si dà alle giovani menti?”
Sirius notò con la coda dell’occhio il numero consistente di curiosi che si erano affacciati nella Sala Grande, già preparata in vista della cena. Un pubblico era tutto ciò che gli mancava.
“Signor Black…” iniziò la donna, rassegnata.
“Avanti, Minnie,” Sirius sfoderò il sorriso più seducente che gli riuscì, “so che non vuole farlo.”
La professoressa McGranitt pensò che se avesse continuato a dare corda alle ridicole avances di quel ragazzino avrebbe perso la testa. Incrociò quindi le braccia al petto e rifilò un’occhiata pungente al compagno di merende di Black.
“Singor Potter,” esalò già sfinita, “lo sai, vero, che in questa settimana ci sono gli ultimi allenamenti?”
“Oh, andiamo,” James scosse la testa, “il quidditch è fondamentale, non me li farà mai saltare.”
Minerva strinse le labbra, sfidandolo con lo sguardo, ma James sapeva troppo bene che aveva una certa predilezione per quello sport. “No, infatti,” concesse, “per questo i tuoi amici ti ringrazieranno caldamente, visto che sconterete la pena stasera,” e qui riservò uno sguardo eloquente a Sirius, “subito dopo cena.”
Peter sgranò gli occhi. “Ma domani ci sono le consegne degli elaborati di fine anno!”
“La prossima volta, signor Minus, ci penserai due volte prima di lanciarti nell’ennesima scorribanda con i tuoi amici,” sottolineò la donna, con vago sdegno, “e con un po’ di fortuna imparerai qualcosa,” concluse severa, lasciando la sala con un ultimo sguardo significativo in direzione di Remus.
 
***
 
“Dodici marzo,” sussurrò Sirius, passandosi una mano sugli occhi e poggiando entrambi i gomiti sul banco di legno.
Erano chiusi da oltre due ore in quello che Gazza amava chiamare il suo ufficio, ma che sembrava più uno sgabuzzino con un tavolo e due sedie. La detenzione più noiosa del mondo non accennava a concludersi, perché a copiare e ordinare i rapporti danneggiati dei crimini degli studenti non si finiva mai. Sirius stentava a comprendere il motivo per cui far leggere ai delinquenti più famosi della scuola le infrazioni degli altri potesse essere educativo o vagamente punitivo. Al massimo li avrebbe aiutati a ideare lo scherzo successivo!
Remus gli diede un colpetto leggero nel fianco. “Non abbiamo finito.”
“Sto morendo di sonno,” si giustificò lui, condendo il tutto con un grande sbadiglio che non si preoccupò di coprire con una mano. Remus lo osservò con un sopracciglio alzato, mentre Sirius appoggiava la testa su una mano e chiudeva gli occhi.
“Non farò tutto io.”
“Non farlo. Ce ne occuperemo tra qualche mese,” si limitò a rispondere, con una scrollata di spalle, “non penserai che questa sia l’ultima detenzione,” una scintilla di divertimento gli brillò negli occhi stanchi.
Hanno aperto una voragine nel pavimento,” lesse Remus a fatica, ignorandolo e procedendo a copiare il crimine su una pergamena nuova di zecca.
“Avanti, lascia stare,” lo pregò Sirius, appropriandosi del documento decrepito e lanciandolo alla rinfusa in un cassetto. Remus si lamentò quel tanto che bastava per fingersi quello responsabile del duo, poi sospirò assonnato, lasciandosi cadere con il busto sullo schienale della sedia. Sirius gongolò vittorioso e appoggiò senza troppe cerimonie la testa sulla sua spalla, sbadigliando ancora una volta.
Remus alzò una mano distratto, contagiato dal suo sbadiglio. L’abbassò delicatamente sulla testa di Sirius, lasciando scorrere le dita tra i capelli scurissimi e sorprendendosi del fatto che neanche la luce della lampadina di Gazza donasse loro un riflesso più chiaro. Chiuse gli occhi stremato, non interrompendo quella carezza assonnata.
Sirius mormorò qualcosa a mezza voce, ottenendo, come risultato, null’altro che un verso indistinguibile di contentezza, poi mosse appena la testa per andargli incontro. Quando la spostò per costringerlo a grattare dietro l’orecchio Remus ridacchiò e, senza pensarci troppo, disse: “Sembri un cane.”
Sirius alzò la testa con un sorriso. “Davvero?”
“Ehm… Credo?”
“Ci scommetteresti su?”
“Eh?” Remus scosse la testa, chiedendosi se il sonno lo stesse confondendo o se fosse Sirius ad essere troppo stanco per mettere tre parole vicine che avessero senso.
“Sì, scommettiamo.”
“Ma su cosa?”
“Se tu vinci avrai sei mesi per decidere di farmi fare qualunque cosa; se perdi sarò io a decidere,” propose Sirius, lo sguardo prima spento scintillava furbo sotto la stessa lampadina di Gazza. Di colpo la lampadina non sembrava più la cosa più luminosa nella stanza.
“Io non sono sicuro di aver capito su cosa stai scommettendo,” ammise Remus, confuso.
Sirius scrollò le spalle. “Fidati.”
E poi fece una cosa che fece provare a Remus una serie di emozioni tutte insieme: disgusto, confusione, nervosismo e ancora disgusto. Sirius si sputò letteralmente al centro del palmo della mano, come uno scolaretto di cinque anni fissato con gli insetti e a caccia di bruchi.
“Perché ho la sensazione che, in un modo o nell’altro, ci andrò a perdere?” gli domandò Remus lanciando un’occhiata non troppo allettata alla mano di Sirius e spostando velocemente i documenti che avevano già compilato per proteggerli dalla sua saliva colante. Poi squadrò unʼultima volta la sua mano e si decise a stringerla. L’avrebbe davvero fatto, se solo lui non l’avesse ritratta di scatto.
“Ah-ah,” lo ammonì, porgendogliela di nuovo, lentamente, “anche tu,” disse, con un cenno del capo verso la sua mano.
Remus aggrottò la fronte. “Scordatelo.”
Sirius alzò gli occhi al cielo. “Avanti.”
Il ragazzo sospirò affranto, poi, con sua somma sorpresa, si sputò davvero su una mano. “Me ne pentirò,” decretò, ricambiando la stretta con vigore e alzando un sopracciglio inorridito al sentire il contratto della loro scommessa sciogliersi letteralmente tra le loro mani, “è disgustoso,” commentò e Sirius si alzò spezzando la stretta e ripulendosi la mano sui pantaloni. Remus preferì un incantesimo.
“Bene, andiamo a salvare James e Peter,” proferì Sirius, deciso, e Remus non ebbe nulla da contestare.
 
***
 
Novembre, 1981
 
Caldo.
Faceva un gran caldo, ovunque. I quadri sembravano, inquieti, voler sbattere contro la parete ricoperta di carta da parati brillante. L’aveva lucidata e in effetti rifletteva la luce sinistra della lampada a olio appoggiata su una piccola cassettiera di legno d’ebano.
Faceva un gran caldo, anche se novembre era appena entrato. Lei quel periodo lo detestava. Era abituata ormai da anni a credere che nella sua tragica vita avesse avuto un marito e un unico figlio, entrambi morti prematuramente a lacerarle il cuore fino all’ultima fibra. L’arrivo di novembre e il ricordo del parto erano un altro colpo al petto annuale.
Quel giorno, però, qualcosa era cambiato.
Un’ondata di orgoglio, un misto di gioia repressa e sorpresa assopita le scoppiò nel cuore al sentire la notizia più discussa di tutte, quasi quanto la fine del Signore Oscuro.
Doveva ammettere che non l’avrebbe mai creduto possibile, eppure, nella disperazione dei suoi lutti, quello che una volta considerava un figlio aveva fatto un passo nella direzione corretta.
“Oooh, lui ci ha provato,” gracchiò Walburga Black, tra le mani un candelabro colante cera. Questa cadeva a gocce grosse e incandescenti sulle assi di legno dell’enorme tenuta che era casa Black, solidificandosi e prendendo un colore più freddo.
Di quella casa conosceva ogni angolo.
Da quando qualcosa era scattato nella sua testa la casa sembrava divisa come la sua persona. Lucidava delirante le pareti, come se la carta da parati lo richiedesse, credeva addirittura di potercisi specchiare dentro e poi afferrava un candelabro e lasciava che la cera colasse in terra senza preoccuparsene. Kreacher, quando la donna aveva questi scatti, la seguiva ubbidiente e a testa bassa, ripulendo le gocce sulla via della solidificazione e ustionandosi le mani già contuse e doloranti. Non fiatava e si limitava ad ascoltarla impotente nel suo borbottare e mugugnare, la più totale disperazione per non esser riuscito a portare a termine il compito del suo padrone che bruciava ancora viva come due anni prima.
“Lui ci ha provato, il traditore,” ripeté lei, quasi in un gemito. Le parole si accavallavano, come a rincorrersi per avere la meglio e risultare più eloquenti. “Ci ha provato!” gridò di colpo, smettendo di borbottare e allargando le braccia come se avesse voluto rivolgersi a un pubblico. A quel gesto improvviso, dell’altra cera si staccò dalle candele accese e mancò Kreacher per un soffio.
“Ma,” proseguì, gli occhi sgranati in maniera innaturale si soffermarono finalmente sull’elfo, come se avesse avuto improvvisamente un’importanza da non sottovalutare, “il sangue è sangue, sai,” un sogghigno le scappò dalla linea spezzata delle labbra. Kreacher annuì incurante e procedette a pulire la cera dalle assi di legno.
“Il suo sangue è nero,” rise, la lucidità sembrava lasciarle lo sguardo a ogni battito di ciglia. “Può correre quanto vuole, quanto vuole, ma non potrà andare troppo lontano, ce l’ha scritto nel sangue!”
Walburga Black rise forte. Le mura accolsero quella risata facendola rimbalzare e diffondendola in tutta la casa vuota.
Non c’era più nessuno lì. C’era solo lei, delirante, con la fronte che pulsava e il senno che l’abbandonava di minuto in minuto.
Si appoggiò contro la carta da parati che aveva da poco lucidato e lasciò cadere finalmente lo sguardo a terra. Sorrise, non seppe se sprezzante o orgogliosa. “Ce l’ha scritto nel sangue,” ripeté, il tono stranamente pacato, come se avesse costretto anche il figlio a cedere alla verità.
Walburga lasciò cadere il candelabro ancora acceso sulle pagine della Gazzetta del Profeta. Una candela tra le tre si prese la briga di incendiarla.
Lingue di fuoco presero a divorare, voraci, l’inchiostro nero sulle pagine del giornale. Un titolo assurdo bruciava di secondo in secondo.
 
Sirius Orion Black, 22 anni, uccide senza pietà dodici babbani innocenti e il mago Peter Minus. Dichiarato colpevole, è stato ora trasportato nella prigione di Azkaban.
 
Presto quella notizia non fu altro che cenere.
Onore alla famiglia.




 

Note di El: Uelà, mi scuso immediatamente per il ritardo, ho palesemente fatto male i miei calcoli e quindi niente, eccoci qui anche se è martedì. Sirius è nato a novembre, per questo sul giornale c'è scritto "22 anni", così, a scopo informativo.
Comunque piccola questione su Walburga. Allora, io ero sicura, certa, ragazzi, proprio convinta che nel canon fosse impazzita. E invece non è vero, pare. Ho cercato di ripensare a tutte le fic che ho letto e mi sono accorta che è una cosa che non ho mai visto neanche in una fic. Quindi pare che abbia un headcanon che non sapevo di avere. Vabbè, per quello che vale, eccolo. Poi, sempre su quella scena, "può correre quanto vuole, ma non può andare troppo lontano" è una semi-cit di una canzone che comparirà di nuovo, semplicemente perché è bellissima: Mrs. Potter's lullaby dei Counting Crows, ecco, citiamo le fonti. Detto questo, questa sono io che mi impegno per fare le note corte, CIAO!
No, okay, invece no, informazione di servizio. Poiché non scrivo un capitolo a settimana è evidente che un bel giorno quelli da parte finiranno. Poiché il prossimo è diviso in due parti usciranno sempre a distanza di una settimana (mi pare troppo ingiusto, altrimenti), ma dall'8 in poi pensavo di aggiornare ogni 10 giorni, per mantenere una costanza molto poco tipica del mio carattere, ecco. Il 14, invece, potrebbe uscire una settimana dopo il 13. "Sì, ma che me ne faccio di questa notizia adesso?" non lo so, avete ragione, non lo so.
Grazie miiiiiille per aver letto!
Adieu,

El.

 


 
   
 
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