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Autore: Enchalott    17/08/2020    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Frantumi di un cuore
 
Anthos, inginocchiato accanto al letto sul quale lei giaceva inerte, ritentò.
Ancora una volta
Prese le mani gelide della principessa tra le proprie, si piegò sul suo corpo, sfiorandole le labbra. Il suo potere ancestrale scaturì dal profondo e la accarezzò, la chiamò, penetrandola con dolcezza, tentando di convocarla a sé da Yfrenn-ammri.
Adara
Il pozzo delle ombre, spalancato nell’ovunque di un altro spazio, trattenne la propria preda nel luogo intangibile composto di assenza e male in cui era stata confinata, sfidando la volontà sovrumana del principe. Il risultato non cambiò: la ragazza rimase esanime, non viva, non morta. La corruzione dell’oscurità l’avrebbe consumata, le avrebbe sottratto per gradi il respiro e la luce, come Ishkur aveva decretato.
Nemmeno Leuhan aveva risposto quando il reggente si era avvicinato con il Medaglione al collo, nella speranza che reagisse alla presenza del gioiello e che il Crescente risvegliasse la sua portatrice. Né quello né l’uso delle proprie doti innate costituivano il sistema opportuno per strapparla al suo Nemico. Per farla tornare. Valicare il confine di Yfrenn-ammri di persona, come in precedenza, non sarebbe servito. L’avrebbe solo tenuto lontano da lei.
Non voleva credere che la maniera corretta non esistesse. Ogni sua fibra lo rifiutava. La razionalità del suo io annaspava soffocata dal tormento, dalla necessità e dall’urgenza. Avrebbe cercato a prezzo di scomodare gli dei, prostrandosi al loro cospetto come un umile supplice, a costo di sfogliare tutti i libri del creato a caccia di un indizio, di chiedere aiuto rinunciando all’orgoglio, genuflettendosi davanti a chiunque avrebbe potuto salvarla. Restituirgliela. Perché Anthos, nonostante fosse Anthos, non ne era in grado.
La sofferenza lo invase più dura, più intensa, provocandogli un dolore concreto. Non sapeva cosa fare. Per la prima volta nella sua esistenza il senso della perdita si insinuava nel suo animo con spietata violenza, una lama gli straziava il cuore riducendolo in mille pezzi. Non era l’umiliante sconfitta in una contesa o l’illegittima privazione di un diritto sacrosanto. Era la mancanza di un altro essere umano che gli veniva inflitta. E proprio lui, che non aveva mai mostrato misericordia per alcuno e non si era mai pentito del compiuto, ne veniva invaso, annegava in quella marea inesorabile. Tramite la coscienza di quella mancanza, una lenta e ineluttabile sottrazione, comprendeva appieno le parole della donna che stava stringendo a sé. Tutte quelle che lei gli aveva regalato quando lo aveva supplicato di salvare il suo Regno, di concedere un’opportunità, di intervenire. Gli erano entrate nell’anima, insieme con l’amore di lei, ma le aveva relegate in un posto remoto della coscienza, troppo acciecato dal desiderio di vendetta e dalla propria fierezza interiore. Dal dolore e dalla solitudine che gli erano state comminate.
Perdere lei. Inaccettabile. Sussurrò il suo nome, prendendola tra le braccia.
Erano trascorsi tre giorni da quando l’aveva riportata indietro. Leu-Mòr vegliava sulla regina di Iomhar, avvolgendola nella penombra riguardosa tra le colonne di pietra e le finestre ad arco, che gettavano la loro tenue luce sul suo volto cereo.
Una volta, lì dove l’aveva adagiata, si ergeva il bacile sacro di pietra nera. Non c’era più niente nella Torre, tranne la donna che aveva osato dare a quel luogo arcano il nome di casa: che la Dimora della Luna dunque la custodisse e la accogliesse. Anthos si prese la fronte tra le mani. Casa. Quel termine familiare, che non pronunciava mai, gli inflisse la tortura di un ricordo.
 
Il suono dei passi di Illtyd si disperdeva ovattato nella neve del Nord. L’algore della mattina impregnava l’aria di cristalli congelati e taglienti, che vorticavano impigliandosi nei lunghi capelli bruni della principessa e depositandosi sul pesante mantello blu del reggente.
«Dove mi stai portando, Anthos?»
«In nessun posto.»
«Allora perché siamo usciti a cavallo?»
«Affinché tu potessi conoscere il mio Regno. Hai giurato di proteggerlo dalla Profezia, dalla collera di Irkalla e persino da me. Osserva quanto stai preservando.»
«Con questa nebbia non riesco a vedere nulla.»
«Precisamente, nulla. Ti affanni per difendere una terra maledetta.»
«No. Se così fosse, non ci sarebbe vita. Invece persino Iomhar respira e, in base a questo, ha diritto alla sua occasione. Ogni singola esistenza che vi abita ce l’ha.»
Il principe aveva riso, incolore come il paesaggio. Il suo fiato si era librato come fumo impalpabile nel gelo. Aveva tirato le redini, fermando il purosangue bianco in mezzo alla landa gelata ai piedi della fortezza. Aveva avvertito i brividi di lei.
«Hai freddo?»
«Sì.»
«Rientriamo a Jarlath.»
Al suo comando di talloni, Illtyd si era girato verso le mura, invisibili in quel candore esagerato, trottando piano sul sentiero già tracciato dai suoi zoccoli.
«Il palazzo, la fortezza, Leu-Mòr» aveva elencato Adara «Non dici mai casa.»
«Non ho mai chiamato casa nessun luogo dell’universo. Mi sorprendo che tu lo faccia. In fondo per te non lo è.»
La ragazza aveva sorriso indulgente, voltandosi sulla sella che condividevano.
«Hai espresso lo stesso concetto quando eravamo sulla nave. Non comprendi perché io la chiami così?»
«Per niente.»
«Perché è il luogo cui appartieni. Quello in cui ci sei tu, Anthos.»
Il principe aveva strattonato le briglie, arrestando l’animale. L’aveva guardata sprezzante.
«Io non appartengo a nessun luogo.»
Lei aveva gli aveva appoggiato le dita guantate sul petto.
«Non si tratta di un posto fisico, ma di quello che il cuore non smette di desiderare. Casa per me è dove tu sei. Al tuo fianco, come ti ho promesso.»
Il reggente aveva spronato Illtyd in silenzio. Le porte della capitale si erano delineate all’orizzonte. Adara gli aveva stretto la mano libera nella propria.
«Puoi farlo anche tu. Chiamarlo casa.»
«Che cosa?»
«Il luogo in cui io sono. Quello in cui rimani accanto a me.»
Non le aveva risposto, ma le sue parole avevano lasciato un solco identico a quello che scorgeva nella neve compatta. Nel suo freddo, una traccia rovente.
 
Anthos la cinse più forte e pregò. Per la prima volta nella sua esistenza pregò.
«Torna da me, Adara. Torna a casa.»
 
Màrsali esitò un istante, poi si concentrò sul labirinto che i tortuosi dehalbh descrivevano sulla sua pelle. L’energia si incanalò attraverso i segni celesti, rivelandosi più una catena di sensazioni tattili che una visione mistica. La frastornò. Dolore. Morte. Assenza. Disperazione. Odio. Amore. Vendetta. Orgoglio.
Spalancò gli occhi chiari con un gemito affannoso, portandosi le mani al petto, sconvolta e priva di forze. Era stato insostenibile, prevaricante. Kesthar la sorresse con premura, inquieto.
«Quanto sono stata in trance?»
«Un minuto, poco più…» rispose il custode.
Narsas serrò tra le dita la corda dell’arco, aggrottando la fronte: gettò un’occhiata penetrante alla porta eburnea e invalicabile di Leu-Mòr. Qualunque spaventoso evento fosse accaduto, che ne fosse causa o bersaglio, il reggente si sarebbe rinchiuso lassù come nelle sue abitudini. E avrebbe trattenuto con sé la moglie. Si trattava solo di scoprire se era tornato.
«Lui è qui» mormorò Màrsali.
«Adara?» domandò impaziente l’arciere.
«Non lo so, ma ciò che avverto oltre quella soglia mi  sovrasta. Ho dovuto staccarmi dalle percezioni per non soccombere. Un oceano di sofferenza, un abisso infinito di dolore… oh, qualcuno sta sostenendo tutto questo e… rabbia, rivalsa, un fiume che sta per sfondare gli argini.»
«Anthos?»
Màrsali annuì, ma la sua espressione rimase insicura e afflitta, come se ci fosse qualcosa che non aveva il coraggio di rivelare.
Dessri, poco distante dai tre, la osservò ammirata. Tanta forza e determinazione in una creatura così fragile. Un esempio fulgido e silenzioso di non rinuncia. Il suo cammino la stava portando a incontrare persone che non si arrendevano e che lottavano strenuamente per il prossimo. Dare Yoon, Aska Rei e ora la veggente.
«Cosa facciamo?» domandò pratico Kesthar «Magia o meno, posso sempre sfondare la dannata porta a colpi d’ascia! Il legno è legno!»
La porta istoriata vibrò, come se avesse realizzato di essere il centro del dibattito: poi si schiuse di una spanna, avvolta nella propria luminescenza aurea. Narsas si fece avanti, intenzionato a salire nelle stanze private del reggente.
«Aspettate, bailye. Non voi. Devo andare da sola, il reggente mi attende.»
Il ragazzo la fissò contrariato. Poi inalò l’aria per calmare la tensione. Assentì a malincuore e cedette il passo.
Lo sguardo di Kesthar si velò di sconforto. Rinunciò a qualunque rimostranza, ma afferrò la moglie tra le braccia possenti, cingendola con amore in quella che avrebbe potuto essere la loro ultima volta insieme. Anthos non perdonava. Mai.
«Ti amo» mormorò, soffocando la commozione e la paura.
Lei rispose con le stesse parole, stringendolo forte. Poi attraversò la soglia temibile della Torre. La porta si serrò immediatamente alle sue spalle.
 
Anthos l’aveva sentita. La veggente di Odhran si era palesata attraverso il suo dono mistico ai piedi di Leu-Mòr, ma lui si era accorto da prima della sua presenza. Lo stava cercando, desiderava che la trovasse all'opposto di ogni logica aspettativa. L’accusa di alto tradimento non era stata revocata. Nel loro ultimo faccia a faccia era stato sul punto di strapparle la vita. Qualunque insania mentale o desiderio autodistruttivo avesse spinto quella ragazzina all’ingresso della Torre, il principe per una volta fu lieto che si stesse dimostrando tanto temeraria e di non aver portato a termine i propri efferati propositi. La chiaroveggenza di Màrsali era straordinaria. Non sbagliava. In tre occasioni aveva interpretato i suoi sogni o le sue azioni e gli eventi avevano preso l’esatta piega che lei aveva indicato. Ripercorse la predizione che più di tutte gli pesava sull’anima.
 
«Non è più soltanto un vostro dilemma quello di redimere i Due Regni dal male, poiché al vostro fianco c’è la donna che avete sposato. Qualunque opzione vi riserverete, essa coinvolgerà anche colei che si è legata a voi per indissolubile scelta. Se non porrete argine all’apocalisse, se persevererete nel vostro progetto personale, vostra moglie morirà. Accadrà con voi o per voi.»
 
La sensazione di responsabilità personale si sommò alle altre, inasprendo la pena. Nonostante la fiducia che Adara riponeva in lei, Anthos non aveva creduto a Màrsali, aveva reputato che stesse tramando contro di lui. Ora l’aveva ammessa alla sommità della Torre perché soltanto lei possedeva la forza e la lucidità necessarie per scorgere un’alternativa. Una scappatoia. Una qualsiasi deviazione dal prescritto che sarebbe concorsa a salvare la principessa. L’inconsapevole veggente teneva stretta tra le mani l’unica chance e con essa il suo cuore in frantumi.
 
Màrsali superò la porta della stanza nuziale, nella quale era entrata tante volte da quando Adara era giunta a Iomhar. Continuò a salire per la tortuosa scala a chiocciola in preda a una sensazione opprimente. La fosforescenza verde di Leu-Mòr aveva cambiato colore, ma il gelo e la paura erano gli stessi. Forse in quell’occasione vantavano maggiore incidenza, annunciando qualcosa di anomalo e angoscioso, come se la costruzione stessa fosse in supplizio.
La sequenza dei gradini si interruppe brusca difronte a una porta massiccia. Il battente era scostato e un taglio ondulante di chiarore si stagliava sul pavimento di pietra grigia in un silenzioso invito. Le vampe danzanti delle fiaccole apposte alle colonne slanciate la guidarono verso il centro della sala, ma la figura snella del sovrano del Nord si interpose sul suo cammino.
«Mio signore» mormorò, inchinandosi con umile deferenza.
Anthos procedette alla luce, trascinando il lungo mantello blu cobalto. Abbassò il cappuccio foderato di pelliccia bianca e la fissò. L’oro delle sue iridi era abbagliante, i suoi occhi inumani erano una fonte di chiarore. Di dolore insormontabile.
Il Medaglione luccicò tra i drappeggi della stoffa scura.
«Quanto ti ritieni impavida, veggente?» chiese aspro.
Non c’era sfida in quell’istanza. Era una domanda sincera, senza secondi fini, nella quale si intuiva un’urgenza che non avrebbe mai dichiarato direttamente.
«Sono ai vostri piedi, maestà.»
Il reggente la scrutò impassibile. Poi emise un lieve sospiro.
«Ho creduto anch’io che non esistesse nulla di peggio. Alzati e seguimi.»
Màrsali obbedì, superando la barriera bruna dei pilastri di pietra. Le mancò il fiato.
«Oh dei!» esalò sgomenta.
Si avvicinò al luogo in cui la regina di Iomhar giaceva all’apparenza senza vita. Le lacrime iniziarono a scenderle copiose sulle guance, mentre cadeva in ginocchio davanti a quel corpo inanimato, composto sulle pellicce candide.
«Perché…» sussurrò piangendo.
«Yfrenn-ammri» sussurrò il principe appena udibile.
Màrsali osservò il volto pallido di Adara, i capelli castani sparsi sul cuscino ricamato d’argento che le sorreggeva il capo. Le occhiaie livide che la segnavano, le labbra esangui. Percepì il pulsare remoto e tenue della sua vita appesa a un filo trasparente. Trasalì. Sollevò uno sguardo di sofferenza e rimprovero sul reggente, ma i termini di biasimo che le erano sorti spontanei le morirono in gola. Non gli rinfacciò che era quanto le sue azioni avevano causato, che lei l’aveva messo in guardia.
Il dolore immane che emanava da lui, centuplicato rispetto a quello che aveva già presentito quando erano entrati in contatto, la annientò. La commosse, le impedì di infierire. Continuò a piangere e lo fece per entrambi, con un atto umano che il principe non avrebbe mai compiuto.
Anthos aspettò accuse che lei non gli rivolse, quelle che aveva letto a chiare lettere nei suoi occhi azzurri e sconsolati. Strinse i pugni, riconoscendo che quel silenzio era peggiore di ogni condanna.
«I miei poteri non hanno successo. Non posso fare nulla per lei. Tu forse possiedi le facoltà necessarie.»
«Nessuna forza, per quanto poderosa, può stappare un’anima al pozzo delle ombre. Solo la luce.»
«Dimmi quale luce devo cercare» ribatté il reggente, privo della consueta arroganza.
Màrsali scosse la testa. Nessuna delle leggende su quel luogo oscuro e maligno riportava un’eccezione. Nessuno aveva mai fatto ritorno da Yfrenn-ammri e di sicuro Anthos ne era al corrente.
«Tu vedi l’oltre meglio di me, indovina» continuò lui «Aiutami a riportarla indietro e dimenticherò le tue azioni sconsiderate.»
«Altezza, non mi discolperò ripetendo che vi sono fedele. Non è importante ciò che riterrete giusto riservarmi, ma farò quanto possibile per la principessa Adara, che amo come una sorella. Se necessario, in quest’impresa sacrificherò la vita, come lei avrebbe l’avrebbe data per voi. Io credo in ciò che lei ha scorto in voi.»
Anthos strinse le palpebre turbato, ma non replicò che con un cenno d’approvazione.
Màrsali si rialzò dal pavimento e appoggiò le mani su quelle fredde della regina. Il cuore le diede una stretta angosciosa, ma impedì che la pena la disorientasse. Creò il vuoto interiore, immaginò la neve del Nord scendere lenta fino a cancellare il creato. Divenne bianco nel bianco, costringendo le proprie doti inesperte a obbedirle.
La visione irruppe attraverso i dehalbh, riversandosi con violenza nella sua mente, delineando le spire del buio che sorgevano dalle profondità dei desideri malvagi, dalle libere scelte di chi optava per operare il male. Il pozzo esisteva dall’eternità, come da sempre era presente la volontà perversa di alcuni esseri umani. Le creature dell’oscurità vi dimoravano, nutrendosi del nero presente nelle anime. Erano diventate rigogliose, invincibili, da quando la divinità chiamata Ishkur si era data in pasto ad esse ed era rinata come essenza demoniaca. Erano deamhan in tutto e per tutto, possedevano l’invadenza arrogante di chi non teme sconfitta. La volontà del male, attraverso il Nemico, era forte, determinata e non indietreggiava davanti alla luce di chi desiderava il bene. Altrimenti Adara sarebbe stata libera, non sarebbero mai riusciti a piegarla, a trattenere un’anima rifulgente d’amore come la sua.
Màrsali sentì mancare le energie in quella visione, che le offriva uno scenario terrificante, ma non presentava alcuna crepa. Fu sul punto di indietreggiare per proteggersi dalla lordura, ma avvertì sulle proprie mani tremanti il calore di quelle salde del reggente del Nord. La stava appoggiando. Anthos le consentì di attingere alla sua energia innata, della quale lei riusciva a intuire solo un infinitesimo. Forse perché aveva tenuto il Medaglione al collo e il suo vero potere ne era bloccato e celato. Sfruttò il suo prezioso supporto e s’inoltrò in profondità, mentre le creature maligne che strisciavano nel buco di tenebra si ritraevano sibilando minacce efferate, disgustate dall’amore che aveva in sé.
Scese a suo rischio, avvertendo le proprie fragili difese incrinarsi. Ma il principe innalzò una barriera, consentendole di continuare fino a sfiorare il Nulla, l’assenza, l’inesistenza di tutto ciò che di buono sussisteva. La visione s’interruppe e lei gridò, stordita da ciò che aveva captato, mentre i dehalbh le bruciavano sulla pelle come ustioni fresche. Le mancò l’appoggio quando vide la sala vorticare intorno a sé. Non cadde a terra. Anthos la sostenne con un solo braccio, all’apparenza non provato dall’esperienza mistica appena condivisa.
«S-scusatemi» balbettò lei, arrossendo per quella situazione insolita.
Il reggente la lasciò.
«Comprendo perché tu sia sconvolta. Non hai mai scrutato nelle profondità dell’ombra. Soprattutto in qualità di sua avversaria.»
Màrsali spalancò gli occhi, sorpresa nell’udire parole che parevano indicare il reggente stesso come parte della terrificante oscurità. Rifiutò di considerare quell’eventualità. Come se Adara stessa lo avesse suggerito con il suo esempio, con la sua promessa di restare con lui.
«Voi non avete nulla in comune con quel luogo, mio signore. Altrimenti desiderereste entrare per rimanervi, non svincolare la vostra sposa.»
«Mh. Sentiamo come dovrei fare.»
La ragazza bionda si portò le mani al cuore in atto di sincerità.
«Non potete. Per quanto smisuratamente forte, un uomo non può sovrastare un dio. Se Ishkur non fosse divenuto Yfrenn-ammri, voi sareste stato in grado di sconfiggere deamhan senza sforzo. Ma ora…»
«Cosa!?» ringhiò il principe furente.
La sua aura dorata scintillò per un istante, frenata subito dal Medaglione. Gettò un’occhiata a Adara e inspirò con lentezza, imponendosi di non cedere all’ira, controllandosi a fatica per lei. La collera rientrò, non così la sofferenza. Gli occhi di Màrsali si riempirono di lacrime nel percepire il dolore inespresso, relegato oltre un confine d’orgoglio estremo e radicato, che ne impediva l’umano sfogo.
«Perdonate se le mie parole vi recano offesa. Solo un Superiore può piegare il volere di un suo pari. Non esiste altra possibilità e non sono neppure certa dell’eventualità che, una volta abbattuto il Nemico, il pozzo delle ombre si indebolisca a tal punto da allentare la propria morsa fatale.»
Anthos gettò indietro il mantello e si mosse verso la finestra con l’incedere di una belva selvaggia imprigionata. Appoggiò le mani sulla vetrata, fissando la pioggia scrosciante e il fiume di fango che si riversava impetuoso nelle strade di Jarlath.
«Gli dei non intervengono a vantaggio dei mortali» asserì gelido «È come se mi stessi persuadendo a rinunciare. Sai bene che non ti ascolterò.»
«Né voi né io dichiareremo la resa. Quanto affermate è vero: gli Immortali sono forse indifferenti e lontani. Ma uno di essi non lo è. Uno di essi risiede qui a Iomhar.»
Il reggente si voltò di scatto. Le sue iridi dorate rifulsero come fiaccole roventi.
«Mi stai suggerendo di evocare Irkalla!?»
«Sì, altezza. Non esiste altra soluzione.»
«Quale follia ti governa a una tale, baldanzosa convinzione? Perché Irkalla dovrebbe correre in nostro aiuto?»
»Abbiamo un nemico in comune» considerò Màrsali «Noi tutti miriamo a eliminare il Traditore. Se pur non volesse appoggiare i mortali per misericordia, sarebbe interessato a eliminare l’odiosa creatura che è causa della sua maledizione.»
«Logica impeccabile. Ma non tieni conto che si tratta del Distruttore.»
«Se il divino Irkalla annientasse Yfrenn-ammri, chi è imprigionato tra le sue spire tornerebbe libero. Lui potrebbe realizzarlo.»
Anthos la fissò per un lungo attimo, poi scosse la testa.
«Il dio della Distruzione dovrebbe dissolvere l’intero creato per cancellare  il pozzo delle ombre dall’esistente. Non rimarrebbe speranza per alcuno. Neppure quella di rincontrarci in una prossima vita. Le anime imprigionate in quel luogo maledetto non si reincarnano.»
Màrsali raggelò. Lo sconforto scese in lei come una marea asfissiante.
Il reggente tornò a fissare il suo Regno morente.
 
La piega dello spazio-tempo era più angusta dell’ordinario, come se chi se ne stava compreso all’interno non desiderasse alcun tipo di compagnia. Incurante dell’avvertimento, Valarde si materializzò nella zona che era e non era. Si sistemò lo scialle rosato con un brivido, come se il potere della divinità che aveva prodotto il fenomeno stesse riducendo la temperatura naturale dell’ambiente.
«Irkalla…»
Il Distruttore non rispose e non si mosse. Seguitò a volgerle le spalle, ammantato nella stoffa scura dei suoi abiti, il cappuccio tirato sul capo, statico come una scultura sbalzata nel basalto. Continuò a osservare la giovane donna che riposava da giorni sulla vetta di Leu-Mòr in un’immobilità che rasentava quella della morte. Era solo un passo a separare la regina di Iomhar dal confine. Uno solo quello che divideva Irkalla da lei, oltre la linea invisibile della piegatura che lo occultava agli occhi umani.
Valarde si fece coraggio e avanzò verso di lui.
«Irkalla» chiamò ancora, usando la stessa dolcezza di una madre che riesce a comprendere la lacerante sofferenza di un figlio e che vorrebbe portargli conforto.
«Vattene!»
La dea della Montagna non si impressionò per la reazione ostile e lo raggiunse sul limitare della zona incorporea, pur rispettando il suo spazio.
La ragazza mortale che lui vegliava era bella, da lei proveniva una debole luce, ma la sua essenza si stava esaurendo. Stava lottando per non soccombere, dispersa tra le ombre, fiamma di una lampada prossima a restare senza olio.
Valarde gli appoggiò una mano sulla spalla con affetto. Lo sentì sussultare.
«La Profezia è infranta, il Traditore ti attende. È tuo dovere affrontarlo e stabilire le sorti dell’universo, comprese quelle del pantheon cui appartieni.»
«Aspetterà!» ribatté lui tagliente «Aspetterete…»
«Perché indugi qui, Irkalla?»
«Non ho più udito le preghiere di questa donna. Si è rivolta a me omaggiandomi, unica tra tutti i mortali. Non permetterò che muoia sola a causa del mio Nemico.»
La dea sorrise, indulgente e comprensiva. Il solito arrogante, orgoglioso, reticente, mascolino immortale. Ma lei lo conosceva meglio di tutti.
«Non è questo il motivo, non quanto ti ho chiesto.»
«Lasciami in pace, Valarde!» minacciò il Distruttore.
L’energia possente scaturì dal suo io, facendo vibrare la piega sovrannaturale e scompigliandole gli abiti color glicine. Ancora una volta la dea della Montagna non si lasciò fuorviare dalle apparenze e lo provocò.
«È dunque costei più importante del destino stesso, dell’ultima battaglia, della rivalsa, del tuo ego ferito?»
Irkalla si voltò, stringendo con ferocia i pugni, fino a conficcarsi le unghie nella carne umana in cui era racchiuso. Dalla penombra del copricapo sollevato le sue iridi chiare dardeggiarono, ruggenti come braci stuzzicate da un incauto.
«È rilevante?»
Valarde si passò dietro l’orecchio un disobbediente ricciolo color mogano e si sollevò sulle punte dei piedi, raggiungendo con una carezza il viso occultato di lui.
«Infinitamente» rispose, ignorando il suo brusco sottrarsi.
Si soffiò sulla mano e il cappuccio che celava il dio punito gli ricadde sulle spalle. I capelli, prima trattenuti dalla stoffa, gli scesero liberi lungo il collo. Il Distruttore imprecò, ma non tornò a nascondersi. Il suo volto era una maschera di inesauribile dolore. Gli occhi sotto la fronte aggrottata erano persi in una sofferenza che non trovava né varco né requie, ma erano asciutti e duri come punte di pugnali. Li rivolse all’amica, arrendendosi alla sua benevola insistenza con malcelata irritazione.
«Perché?» tranciò in un respiro affannato.
«Oh, Irkalla, non chiederlo a me quando già lo sai. La Profezia è annullata come desideravi, ma una parte si è verificata, non nel modo che attendevi.»
«Questo non è…!»
Valarde gli impedì di continuare, posandogli le mani affusolate sul petto.
«Il tuo cuore è in pezzi, Irkalla” sussurrò, precludendo ogni obiezione «Come scritto.»
Il Distruttore fremette di sdegno, esaminando frenetico una riserva che avrebbe confutato quell’irriverente affermazione. Poi si abbatté spossato. Era inutile recitare con Valarde, negare l’evidenza difronte alla persona che più di tutte gli voleva bene.
«Più importante del fato cui mi sono opposto, più della battaglia che ho atteso, più della rivalsa che ho a lungo meditato, più del mio ego ferito» ripeté, finalmente rispondendo alla domanda «E fa così male.»
La divinità della Montagna si asciugò una lacrima con il lembo dello scialle, sorridendo e piangendo insieme. Lui la guardò allibito.
«Una metà di me brilla di gioia, Irkalla. L’altra condivide l’atrocità della tua sofferenza.»
Il Distruttore ricusò l’ultimo granello d’orgoglio: si abbandonò all’abbraccio dell’amica, in un’accettazione silenziosa e consapevole.
«Non posso nulla per impedire la sua morte, anche se sono l’essere più potente del creato.»
«Che sciocchezze! Tu che ti arrendi? Il fatto che sinora non sia mai accaduto, non significa che sia impossibile.»
«A cosa ti riferisci?»
«A tutto ciò che stai pensando.»
Irkalla la strinse forte, accennando un sorriso. Un raggio di sole bucò il cielo plumbeo.
   
 
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