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Autore: Cladzky    17/08/2020    0 recensioni
Un cavaliere di ventura, dell'inizio del XII secolo, di ritorno dalle crociate, s'imbarca per andare a chiedere un feudo tutto per sé dopo il servizio reso in Terrasanta. Ma svariate figure sembrano frapporsi al suo cammino, fra cui un bel balivo biondo ligio al dovere e un cavaliere d'argento senza voce, che sembra deciso a reclamargli la testa. Ma la trama, in verità, è solo una scusa per la messa in scena di baruffe, complicazioni, intrecci d'amore, creature fantastiche, visioni celestiali e grandi mangiate. Un'opera anacronistica che si propone come un poema epico cavalleresco, buffonesco e cialtrone, che prende a piene mani dai capisaldi del genere per il solo gusto di giocare con i tópoi e rigirarli per far ridere o, si spera, anche emozionare.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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"Maledetto, maledettissimo imbroglione, maledetta la tua famiglia, la tua terra, la tua razza, maledetto il mondo intero per aver permesso che una malnata e malforme e malpensante creatura, quale tu sei, potesse vedere la luce!" E dicendo questo, Giminiano scuoteva Goffredo con quanta forza aveva in corpo, cioè poca, perché l'ultimo briciolo l'aveva usato per pulire il pavimento con la faccia di quest'ultimo e tristemente non ne aveva più per poterlo fare di nuovo come desiderava. Goffredo, nonostante gli scossoni che gli facevano dondolare la testa da fargli male al collo, continuava a ridersela tanto da sputare in faccia al ragazzo. Giminiano alzò un pugno per piantargli un ben poco aggraziato pestone sui denti, ma infine chiuse gli occhi e mollò pugno e presa. Goffredo tornò con la schiena poggiata al fusto del noce bianco, il capo appena sotto il manico dello spadone conficcato nella pianta. Giminiano si mise in ginocchio, le mani sulle cosce e gli occhi chiusi, mentre la risata di Goffredo andava a spegnersi, non per mancanza di voglia, ma perché non respirava e gli doleva la mascella dall'eccessiva risata di sberleffo.

"Me lo sarei dovuto aspettare" Ammise a capo chino il biondo "Mio padre mi aveva messo in guardia dalla povera gente e i suoi tranelli. È proprio vero che voi ne conoscete una più del diavolo".

"Modestamente è vero, gli ho insegnato tutto quello che sa" sospirò Goffredo, con la faccia di chi si addormentava ogni notte con la coscienza lieve. Seguì un altro breve risolino "Ma stavolta siete nel torto a dubitare della mia buonafede, sior balivo carissimo. Io non so proprio di che parlate, perché, vedete , io non vi ho teso alcun tranello".

"Ah, no?" E subito Giminiano gli avventò nuovamente addosso, lo afferrò per il bordo dell'armatura dove s'apre per far uscir il collo e proprio lì gli serrò uno dei suoi coltelli. Prese un gran respiro e gli sputò addosso di ogni "Tu, bugiardo, menzognere, imbonitore, frottoliere, millantatore, fedigrafo, transfuga, lestofante, mascalzone, filibustiere, canaglia, farabutto, insincero, venduto, spergiuratore, turlipinatore, falso, infame, carogna, voltagabbana, traditore figlio di puttana, spiegami come potrei credere a una singola parola di quello che dici".

"E se non mi credete, che ve lo spiego a fare?" Il sangue della ferita in cima la testa gli si era seccato in viso, creandogli una maschera rossa, ma quello continuava a ridersela.

"Basta con i giochi!" E gli premette il coltello sulla pelle, ma senza essere in grado di fargli mutare espressione "Perché indossi l'armatura del Gattapelata? Perché scappavi? Dove si trova il vero cavaliere? Dillo o non lascerò neppure un corpo da restituire ai tuoi cari".

Subito il viso di Goffredo si fece scuro, aggrottando la fronte. Ma era tutta una palese recita "Ma sior balivo, voi mi offendete. Il cavaliere Gattapelata sono io".

"Storie!".

"Oh, sì, si narreranno grandi storie di me! Forse voi non lo sapete, perché siete tornato a casa prima stasera, ma proprio oggi, fra le tre e le quattro di mattina, giù alla locanda, l'audace cavaliere, che voi conoscevate come il Gattapelata, si è detto stanco della vita guerriera errante e che si sarebbe ritirato ad arar campi. Così nominò un successore che avrebbe portato le sue armi e quel successore fui io. Ero così emozionato che subito mi dipartì dalla mia famiglia, il lavoro, la mia gente e la mia terra per continuare questo gravoso compito assegnatomi. Capirete, voi che siete figlio di nobile stirpe, che non potevo certo lasciare un nome glorioso, come quello del Gattapelata, a prendere polvere in un'angolino del tempo. Così, accontentandomi di un umile frisone da fatica che mi offrì, sia benedetto, un mio amico, io mi misi in marcia di buona lena per purgare ingiustizie e battermi con banditi, come si addice ad un buon cavaliere errante rispettabile. Ma invece finì solo per battermi con voi".

"Perché non ti fermasti quando te lo ordinai? Perché scappare e batterti con me, tutore della legge, tu che ti dichiari gran giustiziere della mia fava?" Giminiano non credeva ad una sola parola che quello gli proponeva, ma Goffredo aveva una faccia di bronzo tale che cominciò quasi a dubitare che fosse tutto vero.

"Perché per esser nominato cavaliere" alzò l'indice il vecchio, con fare da saputello "Uno deve essere puro come l'acqua e non aver mai commesso iniquità e nefandezze in vita sua, o aver già fatto penitenza per queste. Imperrocché di questo, io, che nulla avevo commesso contro la legge di dio e degli uomini, credetti che voi foste impazzito e cercai di trarmi in salvo alla vostra furia. Si trattò di legittima difesa".

"E non ti è mai passato per la testa, razza di animale, che, così conciato, ti avrei scambiato per l'uomo che cerco? Perché non vi fermaste a spiegare tutto prima che finissimo per azzuffarci? Così non avrei sprecato un'ora e più del mio tempo con te".

"Questa è solo colpa vostra, sior balivo" L'ultima goccia. Giminiano alzò il coltello per piantarglielo in una guancia e farlo sbucare dall'altra, ma quando calò la lama deviò il colpo per galanteria nei confronti di un nemico sconfitto, seppur cospiratore e gli mostrò misericordia piantando la lama nel tronco, all'altezza della sua tempia e di fianco ad essa, facendo compagnia allo spadone di Gattapelata. Quindi, con ancora la mano serrata alla base del collo dell'armatura, con la destra libera andò ad afferrargli il cinturone e lo alzò, lo portò al suo fianco e lo scagliò come un giavellotto. Atterrò sulle foglie di pancia, strisciando in avanti di una pertica intera, tanto forte era stato tirato. Quindi il balivo gli calò addosso di nuovo e lo rivoltò, pronto a ricominciare.

"Dillo di nuovo, dimmi ancora come poteva essere mia la colpa, io che sono la vittima dei vostri scherzi".

Goffredo esitò, mentre Giminiano ansimava dalla fatica e dalla voglia di sapere cosa stesse sbagliando di così ovvio. Poi riprese a sorridere.

"Pensavo fosse palese chi fossi e non mi piace ribadire l'ovvio a qualcuno che già lo sa, poiché lo trovo ridondante. Così credetti che voi ce l'aveste proprio con me, per un qualche ignoto motivo".

"Ma io non lo sapevo, gargantuesco citrullo! Come potevo immaginare che ci fossi tu sotto l'armatura del mio nemico?"

"Questa dicevo, è colpa vostra. Non ditemi che non vi è mai balenato in testa, neppure per un istante, che steste battendovi con il precedente Gattapelata. Lo stesso Gattapelata che ruppe una mandibola di drago a mani nude e una betulla con la testa. Lo stesso Gattapelata che aveva la forza di mettere in riga un intero locale a suon di schiaffi. Lo stesso Gattapelata che ha la forza e lo stomaco d'un bisonte" E qui scoppiò a ridere di nuovo tanto da lagrimare "Davvero voi credevate di averlo vinto, mingherlino come siete? Non per offendervi, ma una bestiaccia del genere? Siete un inguaribile ottimista ragazzo mio".

La presa di Giminiano si allentò.

"Quella ferita, che v'ho inciso in cima la testa, vi ha solo sfiorato. Io miravo al volto del cavaliere, ma voi, ben più basso, vi sfiorai appena lo scalpo. E allora perché tanto sangue ne sgorgò fuori?".

"Mah, lo sapete bene anche voi. Il vecchio Goffredo ha la pressione tanto alta che basta un taglio per riempire un fiume in secca".

Giminiano inspirò, espirò, ritrovando la calma, o almeno l'apparenza di questa, e si alzò, zoppicando, verso Betelgeuse. Per il dolore al fianco e la stanchezza poggiò male il piede e prese una brutta storta. Cadde in avanti, ma si aggrappò all'ultimo, con la destra al corno della sella e l'altra alle redini del purosangue. Il cavallo bianco nitrì appena per quello strappo improvviso alle sue briglie, per non dar pena al suo fantino, tutto grondante di sangue e sudore, che si trascinava in cima al suo groppone. Si issò con estrema lentezza, le gambe gli andavano in fiamme e non gli permisero di eseguire uno dei suoi caratteristici balzi, quindi, infilando un piede in una staffa e, elevandolo con gran fatica, facendo passare sopra l'arcione l'altro, facendolo scorrere giù dall'altro fianco del cavallo, infilò anche quello. Prese le redini, ma non gli venne voglia di farle scoccare, nè ne ebbe bisogno. Betelgeuse già si era messo al passo sulla strada da cui erano venuti. Giminiano non ce la faceva neanche a star diritto con la schiena in sella e guardava i piccoli zoccoli del suo cavallo affondare e rialzarsi dal terreno. La pioggia scendeva pigra. Goffredo, ancora disteso, alzò lo sguardo e vide il biondo balivo allontanarsi. Continuando a sorridere coi suoi denti ingialliti lo richiamò indietro, rimanendo disteso.

"Sior balivo! Dove se ne va di bello?" Ma Giminiano non rispose. Goffredo si alzò in piedi, acciaccato ma pieno di soddisfazione. Perché spesso, fra stanchezza e malumore, non c'è molta differenza e Goffredo se ne era completamente svuotato della prima e, in diretta proporzione, anche della seconda. Il suo frisone era scappato via, dunque si lanciò all'inseguimento a piedi. Ripescò l'elmo da terra e, galoppando più veloce del cavallo, stanco quanto il fantino che si teneva in groppa, gli si parò davanti a gambe larghe e braccia aperte, frenando Betelgeuse "Se se ne va a spasso guardi che le tengo compagnia. Dopotutto andiamo nella stessa direzione mi sa. Credo di aver dimenticato salutare mia cognata giù in paese".

"Dipartiti da me, uccello del malaugurio, e non intralciarmi mai più!" Fu l'ordine perentorio del giovane biondo, elevando il braccio a mano aperta, come a scacciare un moscone "Ho già sciupato tempo a sufficienza con te e ho una faccenda ben più importante cui attendere. Libera dunque il passaggio, perché io non ti girerei mai attorno, ma ti schiaccerei con questi stessi zoccoli che tu ostacoli".

E subito Betelgeuse si lanciò in un trotto. Goffredo, vecchio irriducibile, balzò d'un lato per non farsi investire, solo per tornare a corrergli dietro.

"Sior balivo, non vi offendete! È stato un gran bel duello in fondo. Certo, per tirare giù un vecchio brocco come me ci avete messo un po' però, siete fuori allenamento?"

"Dipartiti ho detto!" Fu l'ultimo gesto di collera di Giminiano. Dopodichè non alzò più la mano e neppure la voce. Non lo guardò neppure mentre correva a fianco della sua cavalcatura. Parlava come in sonno, mormorando parole appena udibili "Devo dirigermi al paese e farmi rendere ciò che mi spetta da Giorgione. E anche se tu mi avessi trattenuto in questo dannato bosco, a sfidarmi a singolar tenzone per una quaresima intera, ho la parola di quell'oste e in pegno la di sua testa. Se il Gattapelata, che voi proteggete con tanto affetto, non mi sarà consegnato come da patti, un'orrendo trofeo esporrò nella mia casa".

"Se vi fa piacere, allora, precipitatevi pure alla taverna. Da come dite non c'è modo per voi di perdere questa trattativa".

E Giminiano prese a galoppare, capelli al vento, lasciando quella vecchia figura in armatura indietro. Alle sue spalle, la risata di Goffredo, risuonava terribile come il tremolio d'una falce.

***

Appena fuori dal bosco, a due leghe di distanza, Giminiano già vide segni di cambiamento giù in paese. Dalla piazza del fumo andava ad elevarsi, acre e nero, sopra il tetto della caserma e guizzi di fiamma baluginavano, qui e là da porte e finestre. V'era grosso movimento intorno e due file di persone che andavano fino al pozzo e ne trasportavano l'acqua con secchi, pentole e barili di birra. La guarnigione locale era irriconoscibile dalla popolazione circostante. Pochissimi erano in uniforme e armatura, anzi, alcuni si davano da fare, portando acqua e salvando oggetti dal fuoco seminudi o in camicia da notte. Fino ad allora, il biondo balivo, era tornato a passo di trotto, ma al vedere una scena simile fu preso dalla disperazione e, mettendosi una mano alla bocca e l'altra alle redini, diede cenno di mettersi al galoppo al suo purosangue, che così fece, venendo giù dal bosco martoriando il terreno sotto i suoi zoccoli. Non aveva il tempo materiale per farsi la strada così com'era stata battuta, quindi indirizzò per bene il suo cavallo e questo, saltando oltre il fosso acquitrinoso, si mise a percorrere l'accidentato terreno d'un campo messo a maggese, poi un prato da pascolo e infine un campo di patate. Entrarono nell'agglomerato cittadino tutti e due coperti di terra e polvere, il bel manto candido di Betelgeuse reso grigio acciaio e la sua criniera soffice spettinata e crespa e Giminiano era di sì simile aspetto che quando giunse di fronte ai suoi uomini, non appena essi ebbero un momento per levare il capo al loro balivo, quasi lo ignorarono, credendolo un paesano qualunque. Nessuno aveva tempo di badare a lui nel mentre che lavoravano di asce e scuri per aprirsi passaggi e si passavano a vicenda secchi pieni e vuoti.

"Uomini, che accadde, perché tutto arde?" Disse Giminiano scendendo veloce di sella con un balzo. Ma le gambe gli dolevano e rotolò sul ciottolato della piazza, dentro la folla. Si rimise in piedi, aggrappandosi all'orlo della veste d'un fante che teneva indietro le persone con un'alabarda e tempestandolo di domande "Mi sono allontanato appena un'ora soltanto, qualcuno mi dica che succede"

"Succede che c'è da lavorare, mano ai secchi tu!" E con uno spintone dato con l'alabarda lo scostò da sé, non avendolo riconosciuto. Giminiano andò a gambe all'aria e non riusciva ad alzarsi, per la troppa gente attorno di curiosi. Dovette gattonare dove la mandria era meno fitta e lì giunse di fronte ad un grosso cumulo coperto da un telo bianco di stoffa, disseminato di macchie gialle. Si aggrappò ad esso per fare perno ed aiutare a rimettersi in piedi, ma quando ci provò la sua mano affondò in qualcosa di morbido e freddo, che al tatto pareva un grosso cumulo di stracci. Non resistette alla tentazione e alzò un lembo per mirare di cosa si trattasse questo grosso carico coperto nel bel mezzo della piazza. Si ritrovò davanti un volto peloso e lupino, dal muso squamoso, coccodrillesco, gli occhi, tutti e tre spalancati, gialli ma arrossati, la lingua violastra penzoloni e il sangue giallo che macchiava il telo. Era Alemanno, il drago fatto perire in maniera violenta dal Gattapelata la notte prima e poscia portato in dono alla locanda di Giorgione. Ma perché portare lì la bestia invece che tenerla in cantina sotto sale? Non ci stava capendo più nulla, gli pareva d'essere in un incubo. Il Gattapelata gl'era scampato, aveva perseguito la persona errata e ora la caserma che dirigeva era in preda alle fiamme. Si mise le mani fra i capelli, mentre gli si infossavano gli occhi e gli tremavano le gambe. Corse al pozzo nel mezzo della piazza, dove stava una donna che riempiva una brocca. Gliela afferrò la brocca con ambo le mani e quando capì che non gliel'avrebbe consegnata volentieri le diede una spallata e, ottenuta la brocca, se la versò in una cascata gelida sulla testa.

Subito gli si lavò via il sangue, la saliva, la polvere e la pazzia. Nuovamente lucido si rivolse alla signora che aveva gettato in terra e la prese da sotto le braccia per aiutarla a rialzarsi, ma subito quella si dimenò via e gli mollò un ceffone.

"Cosa sprechi l'acqua, lazzarone, in un momento come questo? Renditi utile piuttosto o impiccati, che è uguale".

"Che cosa posso fare signora?" La pregò lui "Tutto mi scivola e non capisco più nulla".

"Se vuoi fare qualcosa buttati nel fuoco".

"La smetta col sarcasmo!"

"Macché sarcasmo, biondo! Hanno detto che il servo dell'armaiolo sia ancora dentro. Lo avevano lasciato a lucidare l'arsenale stanotte ed è rimasto bloccato quando è divampato l'incendio".

Giminiano si sentì rianimare.

"Mille grazie signora" E si fece strada in mezzo la folla, dando e ricevendo gomitate per passare. nel mentre si strappò un brandello della sua bella veste già rovinata e inzuppata d'acqua e se lo legò sul viso, a coprirsi, con il drappo sgocciolante, naso e bocca. Infine giunse davanti la guardia di prima con l'alabarda.

"Altolà, le ho già detto di tornare con un secchio se vuole rendersi utile o di girare al largo!"

"Mi faccia passare, ho un dovere da compiere"

"Perché invece io sto qui a grattarmi le palle, dico bene?"

"Non ho tempo per simili sciocchezze" Gli afferrò l'alabarda parallela al terreno, gliela alzò al cielo, quello guardò per aria e lui gli mollò un calcio nello stomaco, che lo fece ruzzolare a terra raggomitolato. Rimasto con l'alabarda in mano, Giminiano, apertosi una breccia nel cerchio di guardie, poté passare, correndo come un'atleta del salto in lungo da come teneva innanzi a sé l'arma. Quando al biondo gli si pararono davanti altre guardie per tenerlo lontano dalle fiamme, quello non rallentò, ma anzi, pareva andare più veloce. E più che atleta parea campione quando piantò poi la punta dell'alabarda fra un ciottolo e l'altro e si levò in aria, perno la lama nella pietra, e li superò tutti e tre con un balzo impressionante. Quelli non capirono sul momento e lui ne approfittò, dirigendosi a capofitto verso l'entrata. Ne uscivano nuvole di fumo dall'odore pesante e irrespirabile, del sapore tipico del bruciato. Appena entrato il calore si fece insopportabile, l'aria era calda e gli opprimeva la gola, l'acqua che lo inzuppava si faceva già brodo e davanti a lui si estendeva un paesaggio infernale di pilastri lambiti dal fuoco, travi crollate e sfrigolanti e un tetto aperto e sfondato. Nell'aria piena di scintille di, davanti a lui il pavimento era crollato e dava sull'armeria sottostante. Ci buttò dentro un occhio, sporgendosi appena e vide, poveretto, un ragazzino riverso in terra, svenuto e la bocca semiaperta. Tosto ci si buttò dentro senza pensare. Atterrò duramente su un tavolino a piedi uniti, che sperava lo reggesse, ma così non fu e quel mobile, ricoperto di sciabole, asce e mazzafrusti, rovesciò in terra rumorosamente in un mare di assi spezzate, olio, pagliette d'acciaio, alcol e strofinacci. Ormai però non lo sentiva quasi più il dolore, quanto più uno stordimento angoscioso e si trascinò fino al ragazzo, che scrollò. Ma quello niente, non si muoveva, pareva morto, ma così non era, sentiva il petto sollevarsi a ritmo singhiozzante e il battito lento l. Doveva subito portarlo fuori e si guardò intorno. L'armeria era libera di fuochi, ma il soffitto crollava di continuo, sfrigolando e gettando scintille. Si rimise in piedi e corse verso le scale che portavano di sopra, ma queste ultime e la porta, ahimè, erano cinte dalle fiamme ormai. Non considerandola strada praticabile si mirò intorno e vide una scala a pioli poggiata in un angolo. L'afferrò e portò fino a dove stava il tavolo poco prima, dove la issò fino al buco soprastante. L'appoggiò ad un margine del buco e ci mise entrambi i piedi sul gradino per capire se reggeva, ma non resse. Il soffitto si spaccò solo di più sotto la pressione della scala e lui crollò in avanti, sbucciandosi il naso fra due pioli, sbattendolo sul pavimento. Perdette sangue ma non l'animo e, tiratosi su per l'ennesima volta, tirò su anche il ragazzo e se lo poggiò fra una spalla e l'altra, con un braccio sul retro dei ginocchi e l'altro sul collo. Quindi prese a risalire i gradini in legno che portavano nuovamente di sopra. Per i primi andò tutto bene, ma al terzultimo gli crollò sotto i piedi. Quasi rischiò di far cadere il ragazzo giù per le scale, ma ormai il suo corpo s'era fatto di pietra e le sue braccia non persero la presa nonostante lo scossone. Con la gamba sinistra infilata sotto le assi davanti a sé, il cavaliere fece una gran fatica, ma tirò su l'arto intrappolato, sebbene lo squarciò per bene nel legno spezzato, tirandolo fuori a forza. Riprese il cammino e davanti a lui gli ultimi gradini e la porta stessa ardevano di fiamma giovane. Ma Giminiano avanzò ugualmente e pose lo stivale destro sulla fiamma. Avrebbe voluto saltarla di fretta e subito buttar giù la porta prima di abbrustolirsi, ma con il carico sulla schiena non poteva in alcun modo permetterselo. Quindi, facendo affidamento sul buon cuoio della sua calzatura, procedette quella penosa salita, sperando le suole non gli bruciassero prima, che già le sentiva accaldarsi. Giunse alla porta e stava su un gradino le cui lingue di fuoco gli giungevano ora al polpaccio. Non volendo perdere le gambe si diede subito da fare, sollevò il piede sinistro e schiantò la sua suola di fiamma sul legno carbonizzato, che si aprì subito, cascando dai cardini. Credeva d'esserne uscito e invece ancora una tribolazione lo aspettava. L'entrata, da cui aveva fatto il suo ingresso nell'infuocata caserma, era ora ostruita da una grossa trave cascata nel posto peggiore possibile, ovvero con un'estremità sulla cornice e l'altra piantata nelle assi del pavimento, portandosi appresso anche tegole, mattoni e detriti vari dal tetto. Imprecò un'esclamazione che nel crepitio del fuoco e lo schianto della struttura non si udì. Ma non perse tempo. Poggiò il ragazzo per terra e si lanciò verso la grossa trave. Tentò di estrarla fuori ma non gli riuscì di smuoverla neppure. Da fuori, gli altri, vedettero quel che stava facendo e vennero a dargli una mano. Si unirono altre otto braccia allo sforzo, ma quella trave era tanto pesante e ben piantata nel pavimento che non la si sarebbe tolta in questo modo. Quindi Giminiano arretrò, saltò il corpo del ragazzo e riattraversò la porta che conduceva all'armeria. Gli si sfondò però il primo gradino sotto i piedi e finì con il percorrere i restanti capitombolando giù, ma appena arrivò a toccare il pavimento riprese a correre come se non avesse fatto nient'altro fino ad allora. Quindi corse verso un supporto per armi e ne trasse una grossa ascia bipenne da tagliare la zampa d'un elefante in un colpo secco. Risalì e stavolta le scale, che parevano consumarsi e rovinare sempre più ogni volta che le attraversava, gli crollarono del tutto quando fu quasi uscito. Ma piantando l'ascia nel pavimento del piano davanti a lui rimase appeso per un po', fino a quando riuscì a tirarsi su e attraversare la cornice della porta per dirigersi a completare il lavoro per bene. Saltò nuovamente il ragazzo steso e alzò l'ascia sopra la testa, infierendo il colpo sulla trave, corpo principale di quel gruppo di detriti. Ma dopo sei colpi capì che non aveva la forza necessaria, né il tempo per sbriciolarla pezzo per pezzo, tant'era spessa la sua scorza, imperrocché gli balenò un'idea migliore. Alzò nuovamente l'ascia sopra la testa, ma non colpì la trave, bensì il pavimento su cui poggiava una dei suoi lati. Ancora e ancora, fino a che, e qui ringraziò dio, questo crollò, portandosi dietro trave e detriti con sé, sotto nell'armeria, ma, e qui lo maledisse, con i detriti cadde anche lui. Sentendosi mancare la terra sotto i piedi agitò le braccia per spingersi e cadde all'indietro, riuscendo a non precipitare, rimanendo con le gambe a ciondoloni sul grosso foro che s'era formato dinnanzi la porta. Ritornò indietro e si rimise il corpo del ragazzo sulle spalle e si diresse nuovamente al foro. Vedendolo uscire il salvatore con il salvato, le persone di fuori, subito si prodigarono per riceverli, tendendogli le mani.

"Saltate che v'afferriamo!"

Ma Giminiano scosse la testa e fece cenno con gli occhi alla figura svenuta che si teneva sulle spalle. Allora quelli capirono e subito, le guardie, posero le loro alabarde a far da cavalcone sul recente orifizio. Giminiano posò il piede e quelle aste puntute si piegarono, ma non spezzarono. Attraversò la fenditura e fu di nuovo in piazza, con il sole che si levava appena sulle nubi e l'aria, parvergli, molto più fredda di pria.

"Chi siete?" Fu la prima questione che lo accolse, quando gli levarono di dosso quel giogo ch'era il ragazzo.

"Giminiano dei Benevanti" Ei rispose, togliendosi lo stralcio di veste ormai asciutta dal viso "Portate il ragazzo in salvo e me a casa che devo dormire" E li crollò di fronte ai suoi uomini, che lo ressero. Si risvegliò solo il giorno dopo.

   
 
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