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Autore: Cladzky    17/08/2020    0 recensioni
Un cavaliere di ventura, dell'inizio del XII secolo, di ritorno dalle crociate, s'imbarca per andare a chiedere un feudo tutto per sé dopo il servizio reso in Terrasanta. Ma svariate figure sembrano frapporsi al suo cammino, fra cui un bel balivo biondo ligio al dovere e un cavaliere d'argento senza voce, che sembra deciso a reclamargli la testa. Ma la trama, in verità, è solo una scusa per la messa in scena di baruffe, complicazioni, intrecci d'amore, creature fantastiche, visioni celestiali e grandi mangiate. Un'opera anacronistica che si propone come un poema epico cavalleresco, buffonesco e cialtrone, che prende a piene mani dai capisaldi del genere per il solo gusto di giocare con i tópoi e rigirarli per far ridere o, si spera, anche emozionare.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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I passi dell'abate e del cavaliere non si udivano neppure tanto forte la pioggia scendeva scrosciosa, tamburellando sui tetti, frustando le piante e spaccandosi in terra, mentre i tuoni cascavano regolari. L'abate sfuggiva alla figura in cotta di maglia, non per paura, ma sdegno e questa la seguiva, tutta timorosa, come fosse la sua ombra, allungando le mani per invocargli di fermarsi e gridando cose che si perdevano nel vento umido e gelido, stessa sostanza di cui era fatta l'indifferenza dell'ecclesiastico. Passando sotto il portico che circondava il chiostro, il padre cercò rifugio nella chiesa del monastero, passando per una porticina di legno che dava nel transetto della struttura, ma anche lì, fu lesta ad infilarsi la cospicua massa con la cotta di maglia. E questa, pregante, si buttò in ginocchio, e, presogli fra le mani la tonaca nera, lo richiamò disperato, ginocchi sul marmo e sgocciolante.

"Ascolta fratello mio, prestami attenzione. Non sei tu forse allegro che son tornato? Che ti è successo in questi mesi, che ti fai tristo e iroso? Dimmi, che così mi fai impazzire!"

E allora, la figura, si voltò furibonda, strappandogli la tonaca dalla stretta e si chinò per ben urlargli addosso "No che non sono contento, assassino! Perché sei tornato a casa e non te ne sei rimasto a macinar teste come ti aggradava tanto giù a Gerusalemme? Non dirmi che forse ti sei pentito e cerchi perdono, perché io sarei il primo a non crederti!"

"Pentito?" Chiese il cavaliere "Pentito di che?"

"E poi mi chiedi perché non sono allegro, ascoltati! Io non sono cambiato affatto, tu piuttosto, guardati bene dentro, perché io ho paura ad abbracciare un uomo che ignora l'aver le mani sporche di sangue, seppur mio fratello. Allontanati da me, da questa chiesa, non macchiare altri del tuo stesso peccato" E l'abate si rimise diritto e gl'indicò la porta, ancora aperta da cui entrava il vento della tempesta, con mano tremante e viso contratto in smorfia d'odio. Ma il cavaliere non si allontanò affatto, si rimise in piedi, con occhi rossi di fiamma quanto la sua barba e si avvicinò anzi di più all'abate, petto in fuori, ma questi non si smosse né dalla sua postura, né dalla sua posizione.

"Tu mi chiami assassino, peccatore..."

"E pure carogna".

"Basta!" Alzò le mani al cielo e il suo gridò riempì la vuota chiesa, rimbombando più forte dei fulmini "È forse questo il modo di accogliere il sangue del tuo stesso sangue?"

"Se avessi saputo che venivi qui non ti avrei accolto neppure al monastero, ti avrei lasciato fuori ad annegare nel fango. Tu che ponesti il tuo piede sulle teste di Saraceni ed Ebrei, che sputasti sul tempio di Salomone e ne demolisti le mura, che come un cane hai inseguito la gloria e il tuo signore, imbracciando il ferro, come osi tornare?"

"Oso, perché io non ho fatto altro che rendere un servizio, anche grosso, alla cristianitade, servendo alle crociate. Perché ora mi devo sentire appellare in tal modo, dopo che mi sono battuto e rischiato per te, per la tua religione? Tu che mi chiami assassino, peccatore e carogna, hai la minima idea di quel che ho passato, che ho dovuto sopportare e fare? Tu, vigliacco che te ne stai rinchiuso fra i monti a marcire fra i tuoi manoscritti mentre il mondo va in rovina, tu che spergiuri la tua fede imbracciando libri e pergamene, che accusi me, di uccidere, distruggere, depredare, cosa vuoi saperne tu, ignavo? Non fosti forse tu lo stesso che quando nostro padre faticava nei campi fosti il primo ad abbandonarlo e farti frate?"

L'abate scosse il capo.

"Non avrei mai dovuto lasciare che partissi. Tu sei cambiato, da che eri dolce e servizievole hai ora ucciso e lo rifaresti ancora". Ed ei si allontanò ma il cavaliere lo seguì.

"Ascoltami" Gli gridava dietro "Ho ucciso, sì, io ho ucciso tanti uomini che neanche li conto più. Provai orrore, colpa, pentimento, recriminazioni, piansi e mi disperai per quelle teste mozzate, quegli arti tagliati, quei corpi spiccati in due, i fori procurati, le ossa sbriciolate con mazza, scure, spada, lancia e le nude mani. Ma io ti dico, che se rinascessi lo rifarei, cento e altre cento volte ancora!"

L'abate, senza voltarsi a rispondere, prese a salire la scalinata che portava all'altare. Dietro di esso, nell'abside, su un'impalcatura in legno povero, un uomo sporco di tempera andava a rifinire un affresco quasi completo. E il cavaliere continuò.

"Tu ora mi rinneghi fratello, dici che la mia vita è perduta, tu che vivi timorato di dio, che segui le scritture come un fariseo, ma io ti dico, che senza aver visto in faccia la morte mia e degli altri, non mi si sarebbero mai aperti gli occhi".

"Te li sei cecati invece!" Alzò la mano in segno irato l'abate "Dimenticasti forse il quinto comandamento?"

"Dimenticai il numero senza dubbio. Di che si tratta?"

"Non uccidere! E tu, in Terrasanta, non credo cogliessi margherite".

"Saul ha ucciso i suoi mille, Davide i suoi diecimila".

L'abate si voltò, preso in contropiede.

"Primo libro di Samuele, capitolo diciotto, versetto sette. Cosa insinui con questo?"

"Insinuo, mio caro fratello, che anche i re d'Israele, che tu tanto veneri, hanno le mani sporche di sangue e più di quanto potrei sporcarle io in una vita intera. Loro, che prima di noi, conquistarono la Terrasanta di Canaan, liberandola dai Filistei, i Fenici, gli Amorrei, le genti di Gerico e Ai. Fecero forse, anche loro, torto alle leggi di dio, che pure egli stesso aveva ordinato quelle imprese sanguinarie?"

"Cosa vuoi interpretare tu, mente ignorante e rozza, le scritture antiche?".

"Non osare sviare il discorso! Rispondimi, in nome del dio in cui tu credi! Mosè, Giosuè, Giuditta, Davide, Salomone, son tutti assassini quali io sono?"

"No, certo".

"E allora perché essi tu li celebri come eroi e tratti me come un demone, io che sono fratello tuo?"

"Perché essi combatterono per causa giusta, per che combattesti tu, se non per vil denaro e terra?"

E qui, il cavaliere se la rise, tanto che dovette afferrarsi ad un candelabro per reggersi. Poi levò il pugno.

"Per causa giusta tu dici! Per causa uguale, aggiungo io, noi abbiamo combattuto. Come i Giudei che entrarono a Gerico e ne fecero strage, tanto che non scampò uno solo, e si pigliarono oro, vivande e velluti, che facemmo noi forse di diverso, quando sbrecciammo ad Antiochia, Nicea e al santo sepolcro? Nulla facemmo, se non, similemente, ripercorrere le gesta dei fondatori".

"Tu ti paragoni ai grandi re del passato, tu che fino a qualche tempo, mai troppo lontano, ancora aravi i campi, concimavi la terra e tiravi la macina. Ti ordinò forse dio stesso di menarti fino in oriente e falciar teste? Fosti mosso da ispirazione divina, tu che l'ultima volta che entrasti in chiesa fu per rubare le offerte da fanciullo?"

"Forse io no, hai ragione. Ma il signore che io ho servito, che a sua volta serviva l'imperatore e che sua volta ancora serviva il papa, che per ultimo serve il creatore, loro, la fede, mi sa che ce l'avevano eccome, e da svendere pure".

"non mettere alla prova la pazienza mia, pazzo".

"Io voglio solo che tu la smetta di vedermi come un mostro. Io che ho agito tale e quale a come agisce un santo".

"No, tu non lo facesti neanche per scherzo. Perché anche l'intenzione dietro un gesto è importante! Mira!" E l'abate gl'indicò il grosso affresco che il pittore andava diligentemente a finire. Rappresentava, simpaticamente, l'inferno, con un grosso Belzebù, in fondo al centro, atto a masticarsi il capo d'un uomo sfigurato dall'orrore e tutt'intorno uomini appesi per il collo e le palle ad alberi, altri cotti allo spiedo con un pungolo che gli entrava dal culo e usciva dalla bocca, altri buttati nei pentoloni, altri punti da scorpioni e calabroni, altri inseguiti da cani, altri sommersi nella merda, altri mutilati da diavoli muniti di falcione e altri, legati a cavalli infernali per le braccia e le gambe, divisi in due.

"Tale e quale a Gerusalemme" Commentò il cavaliere. Poi si mise una mano alla bocca e gridò a gran voce "Ohi, pasticciatore di pennelli, guarda che quelle budella che hai disegnato mica son fatte così però!"

Il pittore si voltò, il volto sporco quanto la camicia "Quali budella?"

"Quelle la" E tosto gli indicò la figura di un uomo tagliato in due da uno spadone diabolico, con l'intestino tenue che gli cadeva di lato, avvolto a chiocciola "Il sangue è troppo poco, le ossa non gliele hai fatte e quelle interiora sembran più quelle di un vitello"

"Io un uomo scisso in due non l'ho visto mai per fortuna" Si scusò l'artista, scrollando le spalle e accennando un sorriso. Il cavaliere non gli sorrise indietro.

"Si vede".

"Ma insomma" sbottò l'abate "Hai mirato o no?"

"Quattro scarabocchi" rispose il cavaliere "Conoscevo un tale senza braccia che te li faceva meglio e lo pagavi di meno"

"Tu ridi di fronte all'idea della dannazione perché hai paura!"

"Io dannato? E perché mai? Io che andai a casa del cristo per ridargliela".

"Superbia!"

"Superbia, chi non l'ha avuta mai?"

"Accidia!"

"Accidia io? Ma se combattei per la fede!"

"Ira!"

"Iroso? Un po' ma nel mio mestiere è necessaria. Un mercenario senza ira è un mercenario senza pane".

"Gola!"

"Stiamo giocando a questo gioco eh? Vediamo se me le becco tutte allora! Oltre al pane dovresti vedere che gran soldoni che si fanno!"

"Avarizia!"

"E che gran donnoni mori che ho conosciuto".

"Lussuria!"

"Certo, mai quanto le concubine e i puttanoni che si portava in tenda il nostro signore"

"Invidia!"

"Sette su sette! Hai sentito pasticciatore?" Chiese il cavaliere, scuotendo forte l'impalcatura in legno. Così forte in realtà che crollò e venne giù tutta intera in pezzi. Il povero pittore si ritrovò ancora col pennello e la tavolozza in mano a cascare giù e finì in braccio al cavaliere che lo prese al volo. Assestatosi il fracasso, il cavaliere riprese "Allora, che ho vinto?"

Subito il pittore scese dalle braccia dell'armato e corse via dal portone, lasciandolo spalancato, in mezzo alla pioggia. Il cavaliere se la rise ancora e ancora, che si dovette reggere sulle ginocchia. Ma subito l'abate lo prese per l'orecchio e glielo tirò per gridargli bene dentro.

"Cosa ti ridi, dannato, che l'inferno ti aspetta?"

"Occhio Gragnaniello mio!" Si fece serioso il cavaliere, scostando via la sua presa "Che l'ira ti prende e poi all'inferno mi ci devi accompagnare, che tu lo conosci bene pare".

E giù di nuovo a ridersela. Gragnaniello, l'abate appunto, si dovette contenere per non prenderlo a schiaffi da fargli rintoccare le guance come campane e se la filò via, ancora adirato.

"Guardati e riguardati! Che all'inferno, per come sei messo ora, ti ci sei guadagnato un posto d'onore!"

"Ma va la!" Gli replicò dietro l'armato "E se così anche così fosse, ci anderei solo per togliermi lo sfizio di tagliar la coda a Minosse, pelare la barba a quel Caronte, scaraventar dalla sedia Plutone, farmi un sorso del Flegetonte, inghiottirmi Flegias in un sol boccone e Belzebù far fuggir via come un dromedario in Siria! Perché mai si udì di un cavaliere dannato e io non fo eccezione!"

E ancora una volta, Gragnaniello dovette voltarsi, sconcertato.

"E quando mai?"

"Quando mai chiedi tu" Rise il cavaliere appoggiato all'altare, dove aveva sganciato e buttato sopra il ferro. Gragnaniello era ormai sceso dalla scalinata e dovette abbassare il mento per vederlo negli occhi "Ma da sempre. Un cavaliere, si sa, si deve astenere da certe nefandezze mondane per essere investito e all'inferno, così facendo, non ci finisce mica. Orlando, Brandimarte, Oliviero e Bradamante son tutti lassù ad aspettare il loro compagno in sì nobile arte".

"No, menzognero, non quello!" E Gragnaniello risalì le scale e gli si fece accanto. Come il fratello anche lui aveva un aspetto imponente e gli era quasi pari "Quando mai fosti tu un cavaliere! Da che io ricordi partisti da fante che neanche possedevi un paio di scarpe. Tu cavaliere? Ma fammi il piacere, mi trovi più scettico di san Tommaso".

"E come Gesù benedetto mostrò le ferite a Tommaso io ti mostro le mie. Solo che non son ferite, bensì carta firmata e timbrata da Goffredo di Buglione in persona".

E mettendosi una mano sotto la maglia ne trasse fuori un papiro ingiallito e glielo srotolò, fra gli scricchioli, davanti agli occhi. Gragnaniello volle afferrarlo e controllarlo per bene, ma subito ricevette una schicchera sul dorso.

"Mirare, ma non smanacciare".

L'abate sbuffò e diede un'occhiata attenta allo scritto. Pareva proprio vero. Il timbro con lo stemma dalla croce dorata maggiore che ne divideva quattro minori su sfondo bianco era corretto e la formula di investitura pure. Recitava il testo:

Noi, Godefridus Bullionensis, Advocatus Sancti Sepulchri, Duca della Bassa Lorena e duce crociato, sotto il re di Francia Philippum I e il pontefice Urbano II:

Dichiariamo, di fronte a Dio, massimo fattore ed eccelso creatore, che null'opera è fatta senza costui, siano testimoni i santi sui, Michele e Giorgio, affidagli loro, portino ad egli fascio littoro, cavaliere sia fatto seduta stante, sopra lo trono de vecchio Agramante. Ei che è detto Gattapelata, pugnator massimo e grande guerriero, la di lui degna fama sia elevata, sinanche alle nubi fino al cielo.

"Gattapelata?" Stralunò Gragnaniello "E chi accidenti sarebbe?"

"Io, chiaramente".

"Chiaro un bel niente!" Sbottò e lo spinse via, rischiando di danneggiare il prezioso foglio "Che io sappia tu ti chiamavi Fermorante l'ultima volta che t'ho visto salpare su quella nave Veneziana".

"Ma non sai che un cavaliere cambia nome quando viene investito? Come un papa, diciamo".

"No, non la sapevo e mi puzza di menzogna. Attento all'ottavo comandamento! Se fosse vero, e io non lo credo, vorrei proprio sapere come ha fatto un contadino pidocchioso come te a farsi investire dal duca della Bassa Lorena in persona".

"Il magnanimo duce crociato" Iniziò pomposo Gattapelata "ha preso nota delle mie più svariate imprese in Terrasanta. Per esempio, durante l'assedio di Nicea, fui io, con le mie sole forze a trascinar massi e creare una diga al lago che dava acqua alla città, forzandoli alla resa. O ancora, alla battaglia di Dorylaeum, quando i normanni furono circondati dai turchi, io, considerando la mia mazza non sufficiente, sradicai un faggio e lo adoperai come tale per liberarmi di quei fastidiosi arcieri a cavallo. O ancora, quando ci fu da costruire le famose torri d'assedio per la presa di Gerusalemme, indovina chi fu a portarsi in spalla le navi dal mare per il legname necessario".

"Bugie, tutte bugie! Non sai far altro che raccontar frottole da quando sei qui! Ti aspetti che io creda a storie simili? Il documento lo avrai rubato ad un vero cavaliere, detto veramente Gattapelata e che ha veramente compiuto imprese!"

"Ma perché non mi credi, mio adorato Gragnaniello?"

"Perché come posso fidarmi di uno che non ha mai combinato niente in vita sua e ora, tornato, mi racconta di aver preso da solo tutta l'Asia minore?"

"Da solo non proprio, una mano Francesi, Italiani e Normanni me l'hanno data in fondo".

Gragnaniello diede un'occhiata fuori. Aveva quasi smesso di piovere.

"Ti ho sopportato a sufficienza. Fila via ora, non ti voglio più vedere, se non vestito di sacco e penitente come un abitante di Ninive!"

"Ma insomma, non capisci?" E qui Gattapelata saltò sull'altare spoglio, sfondo l'abside infernale e sottofondo un rumore di tuoni e pioggia sommessa. Guardava il fratello con occhi di fiamma "Hai ragione, non combinai nulla di rilevante in vita mia sinora. Ma guardami ora! Investito, cavalierato e acclamato, andrò da Pipino il Lungo e reclamerò un feudo su cui governare. Coloro che pria mi lanciavan sassi e insulti e dicevano -Arriva il mascalzone, Fermorante- ora lanceran fiori al mio passaggio e mi aduleranno -Lode a te, paladino e barone!-. Mai più soffrirò la fame e mai più mi mancherà la terra!"

"E la cosa peggiore di tutte è che potresti anche aver ragione" Lamentò l'abate "Perché viviamo in un mondo dove assassini, saccheggiatori e bugiardi come te, se abbastanza convinti, la faranno sempre franca. Tu, nella ricerca di diventare qualcuno, ti sei fatto araldo di ogni iniquità e mondezza e ora spero tu sia contento del tuo nuovo prestigio. Ma in verità, in verità, io ti dico, verrà il giorno in cui, canuto e spento, ti pentirai infine, di non aver dato retta al sacro comandamento, mentre il tuo spirto verrà trascinato all'eterno tormento".

Gattapelata ebbe un attimo di smarrimento. Poi pianse, non di rammarico, ma tenerezza.

"Hai ragione Gragnaniello, c'è del giusto in quel dici. Tu non sei cambiato affatto e io, da quando ho sperimentato la violenza e devastazione sì, per intero, dalla radice alle foglie. Ho dismesso i panni dello scemo del villaggio per indossare quelli dell'assassino, del povero per il ladro, dell'ingenuo per il truffatore. Dai pure alito alla tua bocca, elenca tutti i peccati che il tuo dio ti ha fatto lista, ma rammenta che sarà inutile, perché io tutti li commisi, dal primo all'ultimo! Ma sul finale, no, ti sbagli, non giungerà alcun pentimento, né rammarico, né colpa, né rimpianto e, soprattutto, punizione alcuna. Perché se in terra di Cristo, Gesù benedetto, ho scoperto qualcosa è che lui è falso tanto quanto Maometto! Perché se così fosse, quel che ho visto in Terrasanta, era un miraggio, un illusione o qualche altra stravaganza. Ma illusione non era ma assai reale; carnaio di corpi, violento e viscerale. E se il papa, poi, dice lo vero; dio è malvagio e io non lo spero. Credo che quando ordinò le crociate, stesse lanciando solo minchiate; frutto di mente vogliosa di terra, feudi per tutti dall'Asia a Gibilterra; E allor che faccio, non ne approfitto? Io mi ci butto tosto a capofitto, per non lasciarmi sfuggir la fonte: di baroni, marchesi, duca e visconte! Se lo posson permetter loro e non io, che zappai la lor terra con tanto brio? L'occasione mi ha fatto ladro, non lo nego, ma non mi vergogno di ciò che ti spiego! Largo ora, passa il Gattapelata; guai a chi lo incrocia lungo la strada! Né dio, né signore lo fermano più; prenderebbe a calci in culo san Pietro e Belzebù!"

E, sistemossi la cotta di maglia e saldato ben l'elmo sulla testa, a piè veloce si diresse fuori, mentre il sole, timido, dava i primi bagliori, oltre la nebbia e oltre le strade le strade, rese dall'acquazzon acquitrinate. Sol lo accompagna lo sguardo sì pieno, di sconforto del fratello alto e austero. Varca i battenti della chiesa, lasciati aperti, e nel fango sguazza, sorca le pozzanghere la sua cavalleresca stazza. E infine al portone leva la trave, la scaglia in terra, dove affonda grave; il ronzino richiama con uno squillo, ma quello risponde sol con uno strillo e via per il portone, se la batte dal monastero, sleale se la fugge senza cavalliero. A piedi rimasto, lo ingiuria e offende, poi si volta all'abate e tristezza lo prende; Il cuore lo strazia, non lo sopporta, che la sua anima nostalgica sia nota e scorta. Si passa la mano sulle lagrime amare e subito vorrebbe buttarsi nel mare, per aver reso sconforto a suo fratello, così innocente, sciocco, ma d'animo bello. Tempo non v'è per recriminare pensa, Or che la fame si è fatta tanto densa! E subito pensa al bel mangiare, alle distese di cibi che depredò oltremare, quelli che da baron, si sarebbe fatto cucinare e alle feste signorili, a cui sarebbe stato a banchettare. Ma lo spirto gl'è vuoto quanto lo stomaco al veder il viso di quel tristo monaco. Non si da pace, quindi si dice: Che il diavolo ti porti, tonaca avvinghiatrice! Tu mi rubasti l'amor del fratel mio, che ora m'odia tanto osanna il suo dio, tu chiesa che m'hai menato fin in Israele, a far da puttana sotto le più nefande schiere, io ti bestemmio e così ti maledico, finché aria respiro, ascolta che ti dico: Non avrò pace finché starai in piedi, tu che dividi i re dagli alfieri, fratelli e padri e madri e amici, da un mare di libri, tutti abbindolatrici. Essi mostrano più fedeltà ad un dio, che visto hanno mai se non in disio, piuttosto che alle genti in ossa e carni e così di tutta la società nascono i malanni. Io ti sradicherò, lo giuro con fede, più di quanta ne abbia chi ti venera e crede, abbi paura, o spirito santo, ti rovescerò dal trono fatto di bugie e vanto. Speranza tu sei di quelli indolenti, che preferiscon pregar che levar i mali dolenti, da lo mondo malato che questo è, mirano piuttosto a quello che gli prometti te.

Così ragionando si dipartì. Il viaggio verso il castello di Pipino il Lungo era ancora lungo e il cavallo rischiava di arrivarci prima di lui.

I passi dell'abate e del cavaliere non si udivano neppure tanto forte la pioggia scendeva scrosciosa, tamburellando sui tetti, frustando le piante e spaccandosi in terra, mentre i tuoni cascavano regolari. L'abate sfuggiva alla figura in cotta di maglia, non per paura, ma sdegno e questa la seguiva, tutta timorosa, come fosse la sua ombra, allungando le mani per invocargli di fermarsi e gridando cose che si perdevano nel vento umido e gelido, stessa sostanza di cui era fatta l'indifferenza dell'ecclesiastico. Passando sotto il portico che circondava il chiostro, il padre cercò rifugio nella chiesa del monastero, passando per una porticina di legno che dava nel transetto della struttura, ma anche lì, fu lesta ad infilarsi la cospicua massa con la cotta di maglia. E questa, pregante, si buttò in ginocchio, e, presogli fra le mani la tonaca nera, lo richiamò disperato, ginocchi sul marmo e sgocciolante.

"Ascolta fratello mio, prestami attenzione. Non sei tu forse allegro che son tornato? Che ti è successo in questi mesi, che ti fai tristo e iroso? Dimmi, che così mi fai impazzire!"

E allora, la figura, si voltò furibonda, strappandogli la tonaca dalla stretta e si chinò per ben urlargli addosso "No che non sono contento, assassino! Perché sei tornato a casa e non te ne sei rimasto a macinar teste come ti aggradava tanto giù a Gerusalemme? Non dirmi che forse ti sei pentito e cerchi perdono, perché io sarei il primo a non crederti!"

"Pentito?" Chiese il cavaliere "Pentito di che?"

"E poi mi chiedi perché non sono allegro, ascoltati! Io non sono cambiato affatto, tu piuttosto, guardati bene dentro, perché io ho paura ad abbracciare un uomo che ignora l'aver le mani sporche di sangue, seppur mio fratello. Allontanati da me, da questa chiesa, non macchiare altri del tuo stesso peccato" E l'abate si rimise diritto e gl'indicò la porta, ancora aperta da cui entrava il vento della tempesta, con mano tremante e viso contratto in smorfia d'odio. Ma il cavaliere non si allontanò affatto, si rimise in piedi, con occhi rossi di fiamma quanto la sua barba e si avvicinò anzi di più all'abate, petto in fuori, ma questi non si smosse né dalla sua postura, né dalla sua posizione.

"Tu mi chiami assassino, peccatore..."

"E pure carogna".

"Basta!" Alzò le mani al cielo e il suo gridò riempì la vuota chiesa, rimbombando più forte dei fulmini "È forse questo il modo di accogliere il sangue del tuo stesso sangue?"

"Se avessi saputo che venivi qui non ti avrei accolto neppure al monastero, ti avrei lasciato fuori ad annegare nel fango. Tu che ponesti il tuo piede sulle teste di Saraceni ed Ebrei, che sputasti sul tempio di Salomone e ne demolisti le mura, che come un cane hai inseguito la gloria e il tuo signore, imbracciando il ferro, come osi tornare?"

"Oso, perché io non ho fatto altro che rendere un servizio, anche grosso, alla cristianitade, servendo alle crociate. Perché ora mi devo sentire appellare in tal modo, dopo che mi sono battuto e rischiato per te, per la tua religione? Tu che mi chiami assassino, peccatore e carogna, hai la minima idea di quel che ho passato, che ho dovuto sopportare e fare? Tu, vigliacco che te ne stai rinchiuso fra i monti a marcire fra i tuoi manoscritti mentre il mondo va in rovina, tu che spergiuri la tua fede imbracciando libri e pergamene, che accusi me, di uccidere, distruggere, depredare, cosa vuoi saperne tu, ignavo? Non fosti forse tu lo stesso che quando nostro padre faticava nei campi fosti il primo ad abbandonarlo e farti frate?"

L'abate scosse il capo.

"Non avrei mai dovuto lasciare che partissi. Tu sei cambiato, da che eri dolce e servizievole hai ora ucciso e lo rifaresti ancora". Ed ei si allontanò ma il cavaliere lo seguì.

"Ascoltami" Gli gridava dietro "Ho ucciso, sì, io ho ucciso tanti uomini che neanche li conto più. Provai orrore, colpa, pentimento, recriminazioni, piansi e mi disperai per quelle teste mozzate, quegli arti tagliati, quei corpi spiccati in due, i fori procurati, le ossa sbriciolate con mazza, scure, spada, lancia e le nude mani. Ma io ti dico, che se rinascessi lo rifarei, cento e altre cento volte ancora!"

L'abate, senza voltarsi a rispondere, prese a salire la scalinata che portava all'altare. Dietro di esso, nell'abside, su un'impalcatura in legno povero, un uomo sporco di tempera andava a rifinire un affresco quasi completo. E il cavaliere continuò.

"Tu ora mi rinneghi fratello, dici che la mia vita è perduta, tu che vivi timorato di dio, che segui le scritture come un fariseo, ma io ti dico, che senza aver visto in faccia la morte mia e degli altri, non mi si sarebbero mai aperti gli occhi".

"Te li sei cecati invece!" Alzò la mano in segno irato l'abate "Dimenticasti forse il quinto comandamento?"

"Dimenticai il numero senza dubbio. Di che si tratta?"

"Non uccidere! E tu, in Terrasanta, non credo cogliessi margherite".

"Saul ha ucciso i suoi mille, Davide i suoi diecimila".

L'abate si voltò, preso in contropiede.

"Primo libro di Samuele, capitolo diciotto, versetto sette. Cosa insinui con questo?"

"Insinuo, mio caro fratello, che anche i re d'Israele, che tu tanto veneri, hanno le mani sporche di sangue e più di quanto potrei sporcarle io in una vita intera. Loro, che prima di noi, conquistarono la Terrasanta di Canaan, liberandola dai Filistei, i Fenici, gli Amorrei, le genti di Gerico e Ai. Fecero forse, anche loro, torto alle leggi di dio, che pure egli stesso aveva ordinato quelle imprese sanguinarie?"

"Cosa vuoi interpretare tu, mente ignorante e rozza, le scritture antiche?".

"Non osare sviare il discorso! Rispondimi, in nome del dio in cui tu credi! Mosè, Giosuè, Giuditta, Davide, Salomone, son tutti assassini quali io sono?"

"No, certo".

"E allora perché essi tu li celebri come eroi e tratti me come un demone, io che sono fratello tuo?"

"Perché essi combatterono per causa giusta, per che combattesti tu, se non per vil denaro e terra?"

E qui, il cavaliere se la rise, tanto che dovette afferrarsi ad un candelabro per reggersi. Poi levò il pugno.

"Per causa giusta tu dici! Per causa uguale, aggiungo io, noi abbiamo combattuto. Come i Giudei che entrarono a Gerico e ne fecero strage, tanto che non scampò uno solo, e si pigliarono oro, vivande e velluti, che facemmo noi forse di diverso, quando sbrecciammo ad Antiochia, Nicea e al santo sepolcro? Nulla facemmo, se non, similemente, ripercorrere le gesta dei fondatori".

"Tu ti paragoni ai grandi re del passato, tu che fino a qualche tempo, mai troppo lontano, ancora aravi i campi, concimavi la terra e tiravi la macina. Ti ordinò forse dio stesso di menarti fino in oriente e falciar teste? Fosti mosso da ispirazione divina, tu che l'ultima volta che entrasti in chiesa fu per rubare le offerte da fanciullo?"

"Forse io no, hai ragione. Ma il signore che io ho servito, che a sua volta serviva l'imperatore e che sua volta ancora serviva il papa, che per ultimo serve il creatore, loro, la fede, mi sa che ce l'avevano eccome, e da svendere pure".

"non mettere alla prova la pazienza mia, pazzo".

"Io voglio solo che tu la smetta di vedermi come un mostro. Io che ho agito tale e quale a come agisce un santo".

"No, tu non lo facesti neanche per scherzo. Perché anche l'intenzione dietro un gesto è importante! Mira!" E l'abate gl'indicò il grosso affresco che il pittore andava diligentemente a finire. Rappresentava, simpaticamente, l'inferno, con un grosso Belzebù, in fondo al centro, atto a masticarsi il capo d'un uomo sfigurato dall'orrore e tutt'intorno uomini appesi per il collo e le palle ad alberi, altri cotti allo spiedo con un pungolo che gli entrava dal culo e usciva dalla bocca, altri buttati nei pentoloni, altri punti da scorpioni e calabroni, altri inseguiti da cani, altri sommersi nella merda, altri mutilati da diavoli muniti di falcione e altri, legati a cavalli infernali per le braccia e le gambe, divisi in due.

"Tale e quale a Gerusalemme" Commentò il cavaliere. Poi si mise una mano alla bocca e gridò a gran voce "Ohi, pasticciatore di pennelli, guarda che quelle budella che hai disegnato mica son fatte così però!"

Il pittore si voltò, il volto sporco quanto la camicia "Quali budella?"

"Quelle la" E tosto gli indicò la figura di un uomo tagliato in due da uno spadone diabolico, con l'intestino tenue che gli cadeva di lato, avvolto a chiocciola "Il sangue è troppo poco, le ossa non gliele hai fatte e quelle interiora sembran più quelle di un vitello"

"Io un uomo scisso in due non l'ho visto mai per fortuna" Si scusò l'artista, scrollando le spalle e accennando un sorriso. Il cavaliere non gli sorrise indietro.

"Si vede".

"Ma insomma" sbottò l'abate "Hai mirato o no?"

"Quattro scarabocchi" rispose il cavaliere "Conoscevo un tale senza braccia che te li faceva meglio e lo pagavi di meno"

"Tu ridi di fronte all'idea della dannazione perché hai paura!"

"Io dannato? E perché mai? Io che andai a casa del cristo per ridargliela".

"Superbia!"

"Superbia, chi non l'ha avuta mai?"

"Accidia!"

"Accidia io? Ma se combattei per la fede!"

"Ira!"

"Iroso? Un po' ma nel mio mestiere è necessaria. Un mercenario senza ira è un mercenario senza pane".

"Gola!"

"Stiamo giocando a questo gioco eh? Vediamo se me le becco tutte allora! Oltre al pane dovresti vedere che gran soldoni che si fanno!"

"Avarizia!"

"E che gran donnoni mori che ho conosciuto".

"Lussuria!"

"Certo, mai quanto le concubine e i puttanoni che si portava in tenda il nostro signore"

"Invidia!"

"Sette su sette! Hai sentito pasticciatore?" Chiese il cavaliere, scuotendo forte l'impalcatura in legno. Così forte in realtà che crollò e venne giù tutta intera in pezzi. Il povero pittore si ritrovò ancora col pennello e la tavolozza in mano a cascare giù e finì in braccio al cavaliere che lo prese al volo. Assestatosi il fracasso, il cavaliere riprese "Allora, che ho vinto?"

Subito il pittore scese dalle braccia dell'armato e corse via dal portone, lasciandolo spalancato, in mezzo alla pioggia. Il cavaliere se la rise ancora e ancora, che si dovette reggere sulle ginocchia. Ma subito l'abate lo prese per l'orecchio e glielo tirò per gridargli bene dentro.

"Cosa ti ridi, dannato, che l'inferno ti aspetta?"

"Occhio Gragnaniello mio!" Si fece serioso il cavaliere, scostando via la sua presa "Che l'ira ti prende e poi all'inferno mi ci devi accompagnare, che tu lo conosci bene pare".

E giù di nuovo a ridersela. Gragnaniello, l'abate appunto, si dovette contenere per non prenderlo a schiaffi da fargli rintoccare le guance come campane e se la filò via, ancora adirato.

"Guardati e riguardati! Che all'inferno, per come sei messo ora, ti ci sei guadagnato un posto d'onore!"

"Ma va la!" Gli replicò dietro l'armato "E se così anche così fosse, ci anderei solo per togliermi lo sfizio di tagliar la coda a Minosse, pelare la barba a quel Caronte, scaraventar dalla sedia Plutone, farmi un sorso del Flegetonte, inghiottirmi Flegias in un sol boccone e Belzebù far fuggir via come un dromedario in Siria! Perché mai si udì di un cavaliere dannato e io non fo eccezione!"

E ancora una volta, Gragnaniello dovette voltarsi, sconcertato.

"E quando mai?"

"Quando mai chiedi tu" Rise il cavaliere appoggiato all'altare, dove aveva sganciato e buttato sopra il ferro. Gragnaniello era ormai sceso dalla scalinata e dovette abbassare il mento per vederlo negli occhi "Ma da sempre. Un cavaliere, si sa, si deve astenere da certe nefandezze mondane per essere investito e all'inferno, così facendo, non ci finisce mica. Orlando, Brandimarte, Oliviero e Bradamante son tutti lassù ad aspettare il loro compagno in sì nobile arte".

"No, menzognero, non quello!" E Gragnaniello risalì le scale e gli si fece accanto. Come il fratello anche lui aveva un aspetto imponente e gli era quasi pari "Quando mai fosti tu un cavaliere! Da che io ricordi partisti da fante che neanche possedevi un paio di scarpe. Tu cavaliere? Ma fammi il piacere, mi trovi più scettico di san Tommaso".

"E come Gesù benedetto mostrò le ferite a Tommaso io ti mostro le mie. Solo che non son ferite, bensì carta firmata e timbrata da Goffredo di Buglione in persona".

E mettendosi una mano sotto la maglia ne trasse fuori un papiro ingiallito e glielo srotolò, fra gli scricchioli, davanti agli occhi. Gragnaniello volle afferrarlo e controllarlo per bene, ma subito ricevette una schicchera sul dorso.

"Mirare, ma non smanacciare".

L'abate sbuffò e diede un'occhiata attenta allo scritto. Pareva proprio vero. Il timbro con lo stemma dalla croce dorata maggiore che ne divideva quattro minori su sfondo bianco era corretto e la formula di investitura pure. Recitava il testo:

Noi, Godefridus Bullionensis, Advocatus Sancti Sepulchri, Duca della Bassa Lorena e duce crociato, sotto il re di Francia Philippum I e il pontefice Urbano II:

Dichiariamo, di fronte a Dio, massimo fattore ed eccelso creatore, che null'opera è fatta senza costui, siano testimoni i santi sui, Michele e Giorgio, affidagli loro, portino ad egli fascio littoro, cavaliere sia fatto seduta stante, sopra lo trono de vecchio Agramante. Ei che è detto Gattapelata, pugnator massimo e grande guerriero, la di lui degna fama sia elevata, sinanche alle nubi fino al cielo.

"Gattapelata?" Stralunò Gragnaniello "E chi accidenti sarebbe?"

"Io, chiaramente".

"Chiaro un bel niente!" Sbottò e lo spinse via, rischiando di danneggiare il prezioso foglio "Che io sappia tu ti chiamavi Fermorante l'ultima volta che t'ho visto salpare su quella nave Veneziana".

"Ma non sai che un cavaliere cambia nome quando viene investito? Come un papa, diciamo".

"No, non la sapevo e mi puzza di menzogna. Attento all'ottavo comandamento! Se fosse vero, e io non lo credo, vorrei proprio sapere come ha fatto un contadino pidocchioso come te a farsi investire dal duca della Bassa Lorena in persona".

"Il magnanimo duce crociato" Iniziò pomposo Gattapelata "ha preso nota delle mie più svariate imprese in Terrasanta. Per esempio, durante l'assedio di Nicea, fui io, con le mie sole forze a trascinar massi e creare una diga al lago che dava acqua alla città, forzandoli alla resa. O ancora, alla battaglia di Dorylaeum, quando i normanni furono circondati dai turchi, io, considerando la mia mazza non sufficiente, sradicai un faggio e lo adoperai come tale per liberarmi di quei fastidiosi arcieri a cavallo. O ancora, quando ci fu da costruire le famose torri d'assedio per la presa di Gerusalemme, indovina chi fu a portarsi in spalla le navi dal mare per il legname necessario".

"Bugie, tutte bugie! Non sai far altro che raccontar frottole da quando sei qui! Ti aspetti che io creda a storie simili? Il documento lo avrai rubato ad un vero cavaliere, detto veramente Gattapelata e che ha veramente compiuto imprese!"

"Ma perché non mi credi, mio adorato Gragnaniello?"

"Perché come posso fidarmi di uno che non ha mai combinato niente in vita sua e ora, tornato, mi racconta di aver preso da solo tutta l'Asia minore?"

"Da solo non proprio, una mano Francesi, Italiani e Normanni me l'hanno data in fondo".

Gragnaniello diede un'occhiata fuori. Aveva quasi smesso di piovere.

"Ti ho sopportato a sufficienza. Fila via ora, non ti voglio più vedere, se non vestito di sacco e penitente come un abitante di Ninive!"

"Ma insomma, non capisci?" E qui Gattapelata saltò sull'altare spoglio, sfondo l'abside infernale e sottofondo un rumore di tuoni e pioggia sommessa. Guardava il fratello con occhi di fiamma "Hai ragione, non combinai nulla di rilevante in vita mia sinora. Ma guardami ora! Investito, cavalierato e acclamato, andrò da Pipino il Lungo e reclamerò un feudo su cui governare. Coloro che pria mi lanciavan sassi e insulti e dicevano -Arriva il mascalzone, Fermorante- ora lanceran fiori al mio passaggio e mi aduleranno -Lode a te, paladino e barone!-. Mai più soffrirò la fame e mai più mi mancherà la terra!"

"E la cosa peggiore di tutte è che potresti anche aver ragione" Lamentò l'abate "Perché viviamo in un mondo dove assassini, saccheggiatori e bugiardi come te, se abbastanza convinti, la faranno sempre franca. Tu, nella ricerca di diventare qualcuno, ti sei fatto araldo di ogni iniquità e mondezza e ora spero tu sia contento del tuo nuovo prestigio. Ma in verità, in verità, io ti dico, verrà il giorno in cui, canuto e spento, ti pentirai infine, di non aver dato retta al sacro comandamento, mentre il tuo spirto verrà trascinato all'eterno tormento".

Gattapelata ebbe un attimo di smarrimento. Poi pianse, non di rammarico, ma tenerezza.

"Hai ragione Gragnaniello, c'è del giusto in quel dici. Tu non sei cambiato affatto e io, da quando ho sperimentato la violenza e devastazione sì, per intero, dalla radice alle foglie. Ho dismesso i panni dello scemo del villaggio per indossare quelli dell'assassino, del povero per il ladro, dell'ingenuo per il truffatore. Dai pure alito alla tua bocca, elenca tutti i peccati che il tuo dio ti ha fatto lista, ma rammenta che sarà inutile, perché io tutti li commisi, dal primo all'ultimo! Ma sul finale, no, ti sbagli, non giungerà alcun pentimento, né rammarico, né colpa, né rimpianto e, soprattutto, punizione alcuna. Perché se in terra di Cristo, Gesù benedetto, ho scoperto qualcosa è che lui è falso tanto quanto Maometto! Perché se così fosse, quel che ho visto in Terrasanta, era un miraggio, un illusione o qualche altra stravaganza. Ma illusione non era ma assai reale; carnaio di corpi, violento e viscerale. E se il papa, poi, dice lo vero; dio è malvagio e io non lo spero. Credo che quando ordinò le crociate, stesse lanciando solo minchiate; frutto di mente vogliosa di terra, feudi per tutti dall'Asia a Gibilterra; E allor che faccio, non ne approfitto? Io mi ci butto tosto a capofitto, per non lasciarmi sfuggir la fonte: di baroni, marchesi, duca e visconte! Se lo posson permetter loro e non io, che zappai la lor terra con tanto brio? L'occasione mi ha fatto ladro, non lo nego, ma non mi vergogno di ciò che ti spiego! Largo ora, passa il Gattapelata; guai a chi lo incrocia lungo la strada! Né dio, né signore lo fermano più; prenderebbe a calci in culo san Pietro e Belzebù!"

E, sistemossi la cotta di maglia e saldato ben l'elmo sulla testa, a piè veloce si diresse fuori, mentre il sole, timido, dava i primi bagliori, oltre la nebbia e oltre le strade le strade, rese dall'acquazzon acquitrinate. Sol lo accompagna lo sguardo sì pieno, di sconforto del fratello alto e austero. Varca i battenti della chiesa, lasciati aperti, e nel fango sguazza, sorca le pozzanghere la sua cavalleresca stazza. E infine al portone leva la trave, la scaglia in terra, dove affonda grave; il ronzino richiama con uno squillo, ma quello risponde sol con uno strillo e via per il portone, se la batte dal monastero, sleale se la fugge senza cavalliero. A piedi rimasto, lo ingiuria e offende, poi si volta all'abate e tristezza lo prende; Il cuore lo strazia, non lo sopporta, che la sua anima nostalgica sia nota e scorta. Si passa la mano sulle lagrime amare e subito vorrebbe buttarsi nel mare, per aver reso sconforto a suo fratello, così innocente, sciocco, ma d'animo bello. Tempo non v'è per recriminare pensa, Or che la fame si è fatta tanto densa! E subito pensa al bel mangiare, alle distese di cibi che depredò oltremare, quelli che da baron, si sarebbe fatto cucinare e alle feste signorili, a cui sarebbe stato a banchettare. Ma lo spirto gl'è vuoto quanto lo stomaco al veder il viso di quel tristo monaco. Non si da pace, quindi si dice: Che il diavolo ti porti, tonaca avvinghiatrice! Tu mi rubasti l'amor del fratel mio, che ora m'odia tanto osanna il suo dio, tu chiesa che m'hai menato fin in Israele, a far da puttana sotto le più nefande schiere, io ti bestemmio e così ti maledico, finché aria respiro, ascolta che ti dico: Non avrò pace finché starai in piedi, tu che dividi i re dagli alfieri, fratelli e padri e madri e amici, da un mare di libri, tutti abbindolatrici. Essi mostrano più fedeltà ad un dio, che visto hanno mai se non in disio, piuttosto che alle genti in ossa e carni e così di tutta la società nascono i malanni. Io ti sradicherò, lo giuro con fede, più di quanta ne abbia chi ti venera e crede, abbi paura, o spirito santo, ti rovescerò dal trono fatto di bugie e vanto. Speranza tu sei di quelli indolenti, che preferiscon pregar che levar i mali dolenti, da lo mondo malato che questo è, mirano piuttosto a quello che gli prometti te.

Così ragionando si dipartì. Il viaggio verso il castello di Pipino il Lungo era ancora lungo e il cavallo rischiava di arrivarci prima di lui.

 

   
 
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