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Autore: kurojulia_    18/08/2020    0 recensioni
Una raccolta di vicende. Una raccolta di speciali episodi per ognuno dei personaggi del mondo di
Vampire Devil. Eventi importanti, eventi insignificanti.
[Da leggere DOPO la storia principale.]
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Dawn & Eyes.




 

Avevamo otto anni quando ci venne detto come sarebbe stata la nostra esistenza. Come l'avremmo vissuta, in quali panni. Seguendo quali ragionamenti, pensando a determinate e precise cose.
Otto anni erano così pochi – davvero pochi. Inutile discuterne, quella era una minuscola finestra nella nostra vita, specialmente se messa a confronto con tutto il tempo che ci si spiegava davanti. All'eternità che stavamo per imparare a conoscere.

 

Mia sorella Lilith fece di sì con la testa. Un piccolo movimento, senza nessuna emozione, per tagliare corto e chiudere quella questione. Io, voltandomi verso i nostri genitori, restai immobile con le labbra serrate, cercando di metabolizzare quelle poche ma vitali informazioni. Quelle novità che riguardavano me e mia sorella.

Poi, ci dissero che potevamo tornare nelle nostre stanze, e noi seguimmo il suggerimento. Girammo sui tacchi e varcammo insieme la porta, uscendo in quel crocevia di lunghi androni – davanti a noi c'era il ponte che collegava questo lato del palazzo con quello di fronte, rivestito della luce accecante del sole. Al di sotto, l'ampio atrio, con tutte le sue piante, fontane e statue. L'acqua zampillava, lambendo le foglie verdi e le violette e le rose.

Ascoltammo il suono dell'acqua, gli uccellini cinguettare, appollaiati sulle piastrelle dei tetti. Indecise.

 

«Lullaby», mi chiamò mia sorella. «Non voglio. Non voglio fare... quel che mi hanno detto di fare».

Riflettei un istante, guardandomi le punte delle scarpe. «Nemmeno io vorrei, se fossi in te. Sembra.... parecchio noioso. E poi... », aguzzai la vista, come se volessi cogliere qualche particolare in fondo, molto in fondo. «Se una fa l'Imperatrice, come fa a trovare il tempo per andare a caccia di lucertole?». 

Lilith non mi rispose. Lei era più matura di me, era una cosa che saltava subito all'occhio. Si sapeva. Per questo, quando sentì che sarebbe stata lei la prima Imperatrice – la madre dei vampiri –, la caccia alle lucertole non le era minimamente passata per la testa. Probabilmente, aveva invece pensato che avrebbe dovuto sposare una persona che non amava; che avrebbe dovuto imprigionare qualcuno, un figlio dei suoi, per i crimini commessi; che avrebbe dovuto tenere tutti al sicuro, per essere degna di quel ruolo, altrimenti chissà cosa sarebbe accaduto.

Non ero in grado di leggere nel pensiero, ma... era mia sorella gemella. La conoscevo. Più lei, che me stessa.

«Non vuoi diventare Imperatrice», mormorai. Alzai le spalle. «Beh, allora, faremo in modo di non fartici diventare».

 

Le presi la mano, intrecciando le mie dita alle sue, stringendola forte. Cosicché potesse sentirsi protetta.

«Ti copro le spalle, sorellina».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

La penna mi rotolò giù, scivolando via dalla presa del pollice e l'indice. Esitò appena un attimo sul polpastrello dell'indice, ma poi si scontrò sulla carta, marchiandola di nero qua e là. Ghiacciata sulla poltrona, non potei fare altro che guardare la penna, ormai ferma, e minuscole gocce di inchiostro staccarsi dalla lamina di metallo per posarsi sul bianco. Le parole, le righe che tempestavano la pagina – adesso erano tutte mischiate fra loro, in un vortice nero, di linee e simboli, e mi faceva paura. Ebbi paura.

No. Non era così.

Che sta succedendo?, chiusi i pugni. Non era di quel vortice di sentimenti che avevo paura.

 

Avevo sentito un odore familiare. Prima ancora, un rumore. Un suono che penetra nelle orecchie, insidiandosi nella testa, fino a che non puoi più dimenticarlo. La carne che si lacera – che viene lacerata, ferocemente –, i legamenti che si abbandonano a se stessi. Poi, immediatamente, ferro acre. Sangue. Ecco, era di questo che avevo paura.

Le mie narici risposero subito allo stimolo. Al sangue. Al rosso denso, invitante e preoccupante.

Ma perché mi faceva paura? Avrebbe dovuto solleticare il mio appetito, semmai. La mia biologica curiosità, i canini che si nascondevano dietro alle labbra. Invece no.

Forse perché... a palazzo non dovrebbe verificarsi qualcosa di simile. Forse, mi dissi, era perché qui a palazzo non è permesso prendere il sangue dalla giugulare di nessuno – né da qualsiasi altro punto, a onor del vero. Questo, è un posto neutro. Dove non si può cedere agli istinti della fame, né da vampiro né da demone.

 

Scattai in piedi, scostando la poltrona con l'impeto. Il buio mi circondava. La notte era avanzata da numerose ore, avvolgendo con un panno scuro lo spazio intorno a me. Il palazzo era immerso nel silenzio, il silenzio del sonno e dell'osservazione dei cieli e delle stelle.
Io, nello studio degli Imperatori, ero sola, in attesa di Bael. Avrei dovuto rimanere là fino al suo arrivo ma, dopo aver percepito tutte queste cose insieme, non potevo restare lì e far finta di niente.
Trassi un respiro profondo e attraversai la stanza, abbandonano la scrivania sotto alla finestra e la luna che mi aveva osservata fino a quel momento – arrivai alla porta, aprendola piano.

L'androne era un cimitero. Senza spettri né parenti in lacrime.


Guardai a destra, dopo a sinistra. L'odore di sangue proveniva da sinistra, non c'erano dubbi. Dovevo prepararmi a rinchiudere un membro della servitù per essersi macchiato della colpa? – aver versato del sangue era la colpa. Ironico, quasi contro natura.

 

Mi scrollai dalla testa quei pensieri, ricordandomi che io, Lullaby, ero l'Imperatrice, e certe cose non dovevo nemmeno metterle in conto. Quelle erano le regole e le regole ci servivano per non soccombere – e diventare delle bestie.

«Lilith, in realtà», mi corressi, d'istinto. «Come cavolo faccio a sbagliarmi ancora?».

 

Mi incamminai, chiudendo la porta e svoltando a sinistra, lungo quel corridoio immerso nelle tenebre. I tacchi delle mie scarpe rimbombavano tra le alte e sconfinate pareti, raggiungendo il soffitto a volta, scrollando il sottilissimo strato di polvere depositato nelle fessure. Era l'unico suono, a parte il mio respiro, che dava un cenno di vita a quel luogo. Chiusi le mani in pugni e irrigidii le spalle, di riflesso. Perché ero così preoccupata? Non ero una sprovveduta. Non ero forte come Bael, sì, ma potevo difendermi. Sapevo difendermi.

Poi, mentre avanzavo, sola, mi accorsi che l'odore di sangue si allontanava.
Ed anche molto velocemente, pensai, aguzzando la vista per riuscire a vedere la fine del corridoio.

Allora capii. Stava scappando!

 

Illuminata da quella nuova considerazione, cominciai ad accelerare il mio passo, fino a trasformarlo in una corsa. Ora il rimbombo dei miei tacchi si era trasformato in un concerto assordante. Ma non potevo lasciarlo andare, non se aveva ferito – o peggio – qualcun altro, pur di sfamare la sua fame. Con quel pensiero in testa, corsi a perdifiato nell'androne buio, riuscendo a malapena a distinguere il pavimento dal battiscopa.
L'odore di sangue era sempre più vicino. Lo stavo recuperando. C'ero quasi! Continuai ancora, senza decelerare, con la brezza che mi picchiava sulle guance – la brezza?

Mi fermai, perplessa, perché ero sicura non ci fossero finestre in quel punto.

 

«Ma questo posto... », spalancai gli occhi, rivolgendoli alla mia sinistra. Ero così presa dall'inseguimento da non rendermi conto di essere arrivata alle scale che precedevano il terrazzo, il posto segreto dove io e Bael andavamo per stare soli. Inarcai le sopracciglia. Quindi, il mio criminale era salito lassù? – questa cosa mi irritò profondamente.

Mi piegai, sfilandomi le scarpe, prima dal piede destro e poi dal sinistro. A questo punto, salii i gradini delle scale, appoggiando entrambe le mani sulle pareti che le schiacciavano.

Sì, era qui. Ora ne ero certa. Il sangue era così forte che mi sembrava di averlo addosso.

Per un attimo, pensai di aver commesso io il crimine. Che le mie mani fossero sporche.

 

Arrivai in cima, accucciandomi per non farmi vedere. Spostai gli occhi da un punto all'altro, esaminando attentamente lo spazioso terrazzo. Da sinistra, vuoto, fino a destra, desolato. Poi tornai veloce verso il centro. C'era qualcuno.
 

«Bael?», mormorai. Mi vergognai, ma ero sollevata di vedere la sua schiena. Averlo accanto era la cosa più vicina al paradiso. Lui mi faceva sentire protetta.

 

Mi misi in piedi e, scalza, mi avvicinai di pochi passi verso di lui. «Bael? Che ci fai qui? Pensavo fossi insieme ai membri del Consiglio», mi fermai. «No, no, non importa. Ascolta, lo senti quest'odore di sangue? Qualcuno ha... ».

Bael guardava oltre il parapetto. La sua mana sinistra gli era agganciata, come se volesse stritolarlo. Sotto di lui, c'era il nostro paese. Il nostro popolo. Le luci accese, ma un silenzio di tomba, il sibilo del vento notturno. Sopra di lui, la luna brillava e irradiava la sua figura, baciandolo sulle guance.

«Bael?». La mia voce tremò. «Tutto... bene?».

 

Sentii la sua risposta. I suoi denti digrignare. Un verso, un ringhio sommesso, tenuto stentatamente a bada. Una chimera rabbiosa. Disperata?

La paura mi stava solcando le labbra. «B-ba... ». Lo vidi, mentre si voltava. Le sue spalle, fasciate dagli abiti blu e neri, i suoi capelli corvini spazzati via dal vento. E il sangue che gli dipingeva un sorriso storto sulla bocca – ed una vita strappata, sui vestiti.

I denti sporgevano oltre la bocca rossa. I suoi occhi, che avevano perso tutta la dolcezza, mi stavano divorando.

 

Riuscii solo a gridare il suo nome.

 

Mentre la nostra luna venisse eclissata dal sangue.

 

   
 
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