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Autore: Sognatrice_2000    21/08/2020    0 recensioni
"Mi chiamavo Piton, come il serpente. Nome di battesimo: Harry.
Avevo dodici anni quando fui ucciso, il 5 dicembre 1992."
All’inizio del suo secondo anno a Hogwarts, Harry scompare misteriosamente.
Pochi giorni dopo, alcuni dei suoi vestiti e pezzi del suo corpo vengono ritrovati nella foresta proibita.
Il racconto è affidato alla voce di Harry, che dopo la morte narra dal cielo la vicenda.
Le vite degli amici di Harry, spezzate dalla sua tragica scomparsa, verranno raccontate con la dolcezza e l'ingenuità dell'infanzia.
(Ispirata al libro “Amabili resti” di Alice Sebold)
Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Il trio protagonista | Coppie: Harry/Severus
Note: Movieverse, OOC, What if? | Avvertimenti: Incest, Non-con | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Dentro la palla di neve sulla scrivania di Silente c’era un pinguino con una sciarpa a righe bianche e rosse.

Il pinguino è tutto solo, avevo pensato la prima volta che ero entrato nel suo studio e avevo visto la sfera di vetro, e mi angustiavo per lui.

Quando lo dissi a Silente, lui sorrise e rispose: “Non preoccuparti Harry, sta benissimo. È intrappolato in un mondo perfetto.” 

 

 

 

** 

 

 

 

 

Sono frammenti. Schegge. 

Attimi che s’insinuano sotto la pelle, in cui i pensieri tacciono e la volontà si annulla.

Tra lenzuola e pareti nere, con i peluche a fissarci dalle mensole con i loro occhi tondi e vuoti, un corpo sudato che scivola e affonda nel mio.  

 

Non mi toccare, smettila! Non affondare, non ansimare, non... non... 

 

In cui la mente è libera di vagare lontano e smarrirsi tra i meandri di un sogno.

Immagino di essere in un altro posto, lontano da questa stanza, dove il male non mi guarda e non mi tocca. 

Immagino di essere nel cielo, in sella alla mia scopa, e di volare via, lontano lontano, in un posto in cui il dolore non esiste.

 

Soffoco, sei pesante, togliti, togliti! 

 

 

 

Fai il bravo bambino.  

Accoglilo. Stringi le cosce attorno ai suoi fianchi. Assecondalo. 

Sento le sue mani addosso, grandi, ruvide. Il suo peso.

I suoi movimenti febbrili. 

 

 

Basta vai via via VIA! 

 

 

Vorrei gridarlo a squarciagola, ma non posso farlo.

Non posso gridare, non posso nemmeno parlare, perché lui mi ha infilato una mano nella tasca della divisa, ha tirato fuori il cappello che mi aveva fatto la mamma di Ron e me l’ha cacciato in bocca. 

Da quel momento, l’unico rumore che mi esce è il tintinnio soffocato dei campanellini. 

Labbra voraci sulla mia spalla, una scia umida che serpeggia lungo la clavicola, la traccia dei denti che mi graffia la pelle. 

Rantoli dal timbro profondo, maschile.

 

Mi viene da vomitare, basta, basta. 

 

Disgusto. Nausea. 

Si muove su di me, dentro di me, e fa male, così tanto male… se è questo è l’amore, perché fa così male?

Voglio un altro modo di amare – carezze, fruscii, labbra delicate, dita lente e leggere…

Un modo gentile, morbido. 

Un modo diverso – diverso dall’essere invaso. Violato. 

Ti piacerà, piccolo, vedrai. 

 

No, non mi piace, basta ti prego basta. 

 

Ansima e affonda e mi bacia, mi stringe, mi soffoca. 

Disgusto. Paura.

 

 

Non voglio, non... non... 

 

Attimi senza tempo, senza dimensione, senza pensieri, solo... solo giochi e risate e nulla che mi prenda mi violi mi faccia del male. 

 

 

Piango e lotto per non sentire. Rimango immobile fino a quando è tutto finito. 

Le spinte finalmente cessano, un corpo sudato e pesante mi inchioda al materasso. 

 

 

Mi sento sporco, così sporco, devo correre a lavarmi…

Se strofino abbastanza forte, forse la mia pelle cadrà e ne nascerà una nuova, pulita, pura, incontaminata dal male. 

 

 

Mentre tremo prendo coscienza di un fatto impressionante: dopo quello che mi ha fatto ero ancora vivo. 

Tutto qua, respiravo ancora. 

So che mi ucciderà. Però ancora non mi sono reso conto di essere un animale che sta già morendo. 

“Perché non ti alzi?” Dice. Si rotola su un fianco e mi si accuccia accanto. 

Ha la voce bassa e melliflua, incoraggiante, dolce eppure velenosa allo stesso tempo.

Un ordine, più che un consiglio. 

Non riesco a muovermi. 

Non riesco ad alzarmi. 

Non gli do retta – fu solo per quello, soltanto perché non seguii il suo consiglio? – e allora lui allunga il braccio verso il ripiano accanto al letto. 

La mano torna stringendo la bacchetta.  

Lui mi sfila il cappello di bocca. “Dimmi che mi ami.” 

Glielo dico dolcemente. 

“Avada Kedavra.”

La fine arrivò comunque.

  
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