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Autore: BabaYagaIsBack    27/08/2020    0 recensioni
Jay ha diciotto anni e tutto ciò che ha imparato sulla vita le è stato insegnato da Jace, il fratello maggiore, e i suoi migliori amici. Cresciuta sotto la loro ala protettrice, ha vissuto gli ultimi anni tra la goffaggine dell'adolescenza, una cotta mai confessata e un istituto femminile di cui non si sente parte. E' ancora inesperta, ingenua e alle volte fin troppo superficiale, ma quando Jace decide di abbandonare Londra per Parigi, la sua quotidianità, insieme alle certezze, iniziano a sgretolarsi, schiacciandola sotto il peso di ciò che non sa
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Chapter thirty-two
§ Things left undone §
part three

 

If I was dying on my knees
You would be the one to rescue me
And if you were drowned at sea
I'd give you my lungs so you could breathe

I've got you brother-er-er-er "

- Brother, Kodaline

 

A tavola taccio, non oso proferir parola e nemmeno alzo lo sguardo. Jace mi è accanto, ma è come se per lui, ora, io non fossi altro che un fantasma. Con la coda dell'occhio lo vedo interagire con tutti: mamma, papà, nonna e Liz - l'unica che evita sono io. E non so come comportarmi. Le attenzioni generali sono su di lui, nessuno parla d'altro o con altri e in parte gliene sono grata, quasi temessi che parlando con me qualcuno possa erroneamente dar fuoco alla miccia di una bomba che prego non scoppi mai. La voce di mio fratello riempie la stanza, coinvolge tutti permettendomi di non incasinare maggiormente la situazione - e io gli lascio raccontare ogni aneddoto della sua permanenza a Parigi ascoltando in silenzio, continuando a scongiurare l'esplosione. Assimilo le informazioni, le metto in ordine nella mente per potergli poi rivolgere le domande che gli altri non gli faranno - ma solo quando finalmente tra di noi sarà tornata la calma; anche se una data precisa non c'è; come in qualsiasi guerra, gli armistizi arrivano placidamente, dopo estenuanti giorni o settimane in bilico tra collasso e tracollo.

Socchiudo gli occhi lasciandomi trasportare dal chiacchiericcio di casa, ingollando di tanto in tanto qualche boccone di sformato di patate finché tutti non sembrano aver finito. Catherine e Josephine si alzano, impilano i piatti e spostano bicchieri, rassettano alla bene e meglio per poi offrire del tè caldo o del caffè e, nel mentre, papà si confronta con JJ sull'andamento del Manchester United. Ritmicamente Liz prova a dire la propria, ma sappiamo entrambe che la sua conoscenza del calcio è pari, se non addirittura inferiore, alla mia di matematica. 
Non nego che i suoi sforzi siano onorevoli, che il tentativo di avvicinarsi un po' di più a nostro fratello sia logico, però non posso far a meno che trovarlo fastidioso - perché io non riesco nemmeno a rivolgergli la parola, mentre lei arranca quasi pietosamente tra una previsione calcistica e l'altra.

Mi mordo l'interno guancia, sentendo l'irritazione farsi strada in me. Forse non è saggio, da parte mia, restare qui ad ascoltare e fingere un'indifferenza che in realtà non mi appartiene. Non so fingere, lo sappiamo tutti arrivati a questo punto, così tendo un sorriso visibilmente forzato, alzandomi: «Io vado a studiare». Ho la voce un po' roca, la bocca impastata, però esce abbastanza potente da farmi sentire da tutti - e confonderli.

Mia sorella è la prima a corrugare le sopracciglia di fronte alla strana dichiarazione: «Sei seria?» Mi chiede con un'espressione di scherno e incredulità che non le biasimo: dopotutto il mio amore per i libri scolastici è tutt'altro che risaputo.

Annuisco, ormai decisa: «Cosa rara, lo so, ma capita».
Vedo Catherine sul punto di fermarmi, probabilmente intenzionata a sottolineare il fatto che è la prima sera di Jace a casa dopo mesi e sarebbe bello passarla insieme, ma la precedo: «Giovedì ho il primo esame, non posso perdere tempo». La sua espressione muta, non capisco se sia più delusa o sorpresa, eppure non prova a controbattere - nessuno lo fa e quindi scivolo via come l'ombra che sono diventata stasera, lontana da ognuno di loro, ma soprattutto da quel fratello che amo così tanto da venir ferita e martoriata dalla sua indifferenza.
Quando alle mie spalle la porta della stanza si chiude, senza riaprirsi più per il resto delle ore di veglia della famiglia, capisco che stavolta la frattura tra Jace e me è più profonda di quel che avevo creduto. Eppure non capisco, non ci riesco proprio.

***

Il primo giorno di esami, il fatidico giovedì di quasi fine Aprile, giusto poco prima di entrare in aula, due messaggi illuminano il display del mio telefono facendomi soffermare qualche istante di troppo sul cancello che divide la scuola dalla strada: sono di Seth e Charlie, ma non in quest'ordine. I loro auguri si susseguono a pochi minuti di distanza e si differenziano per alcune parole in più o in meno, ma l'affetto che ne trapela è pressoché identico e sufficiente a fermare per qualche istante il tremolio alle gambe. Entrambi provano a rassicurarmi, a farmi sentire il loro sostegno persino a distanza - e manca solo Jace, il mio fratellone, il ragazzo la cui camera è posta proprio di fronte alla mia e che non ha mai bussato, non una volta, per rendere tutto perfetto. Eppure lui resta distante, ferito o deluso da qualcosa che non comprendo fino in fondo. Il suo silenzio persiste, si fa assordante, ma io devo concentrarmi su altro, devo anteporre questi ultimi test a qualsiasi cosa stia accadendo nella mia vita al di fuori della Saint Jeremy. Ma è faticoso, non lo nego.

Così il primo giorno pare diventare il più tedioso degli ostacoli, mi distraggo ad ogni nuova domanda che riempie il foglio, quasi non avesse alcun valore - ma invece è importantissima, esattamente come quelle che la precedono e la seguono. Mi costringo a non pensare a Jace e la sua disapprovazione, a Seth e il freno che c'è tra noi, a Charlie e il suo distacco sempre più lacerante, riuscendo in qualche maniera ad arrivare alla fine, seppur stremata.

Caroline e Misha mi aspettano fuori dall'aula. Le loro espressioni non sono rassicuranti, lasciano trapelare la mia medesima stanchezza e ansia, mettendomi in soggezione - se loro si preoccupano, io dovrei sentirmi spacciata. 
Tra di noi non sfugge alcun saluto, sin da subito ci confrontiamo, i nostri sguardi si mettono a indagare i visi altrui provando a capire come è andata a loro - e l'agitazione non cala, anzi, aumenta sempre più fino al giorno successivo, quando con un trillo di campanella e una sorta di sollievo generale si conclude questa terribile sfida.

Dalle labbra faccio sfuggire un sospiro pesante, poi lascio che la testa vada all'indietro, penzolando leggermente. Tutte le forze sembrano improvvisamente venirmi strappate di dosso: è una sfiancante liberazione, ma anche una fastidiosa consapevolezza.

Il professor Plum, docente di matematica, chiama a coppie le studentesse che con diligenza si alzano, consegnano il fascicolo pieno di risposte e argomentazioni, ed escono zaino in spalla, pronte a dare inizio alla loro lunghissima estate.
Nessuna prova a rubare qualche secondo, a completare una frase lasciata a metà o modificare ciò che anche adesso non la convince, rimangono tutte immobili, in trepidante attesa - io invece mi domando solo come sarà, il prossimo settembre, non varcare più le porte di queste aule, battibeccare con Misha, addormentarmi tra una lezione di filosofia e di chimica. Siamo arrivate alla fine - se non della mia totale avventura scolastica, quantomeno di questa.
Intorno a me sento i passi delle compagne, i ticchettii delle loro scarpe, i fruscii delle gonne. I loro profumi, mischiati al sudore dovuto all'ansia e al calore, pizzicano il naso attenuandosi dopo pochi secondi, abbandonandomi sola con le incertezze.

Piano piano la stanza si inizia a svuotare. Restiamo sempre meno, finché arriva il mio momento. Un evento quasi solenne, estraneo.

«Raven e Robinson».

Riporto l'attenzione verso la cattedra. Plum vaga con lo sguardo alla ricerca delle studentesse chiamate, quelle in fondo all'elenco, non le ultime, ma quasi.

Betty Robinson si alza, il sorriso che le riempie il viso mi innervosisce. Pare soddisfatta di se stessa, sicura di aver fatto un ottimo lavoro - fortunata lei. Così, mentre avanza con passo cadenzato, io mi piego di lato, afferro la borsa e sbuffo ancora. Per qualche strana ragione ora mi sento ancor più spossata, stanca, dubbiosa; eppure non è andata così male - o almeno è quel che credo.

Provo ad alzarmi anche io, a procedere, a mettere fine a questa epopea durata fin troppi anni, ma il legno della sedia, unito alle mie cosce sudate, pare volermi impedire di andare via. 
Mi sforzo. 
Il distacco mi procura un fastidio simile allo strappo di un cerotto e, in quel preciso istante, capisco che una volta uscita da qui avrei bisogno di una spalla su cui sfogare le ansie e lo stress - Charlie però è a Bristol, Seth al lavoro e Jace... beh, lui non è propriamente incline a starmi vicino ora.

Mordo il labbro, lo faccio forte, poi deglutisco e mi avvicino al docente compiendo lunghe falcate. I suoi occhi mi scrutano, li sento sul volto, sulle mani che reggono i fogli, tremando appena.

Sicuramente non deve avere molte aspettative.
Non le ho nemmeno io. A dire il vero sto silenziosamente pregando di aver raggiunto almeno il punteggio minimo.

Allungo il braccio, gli consegno quest'ultima prova.
«Stia serena, Raven. Se si è preparata andrà tutto bene». 

Facile a dirsi, un po' meno a farsi, vorrei rispondergli con uno dei miei soliti sorrisi distratti - invece resto in silenzio, annuendo appena.

Costringendomi a non fissare la punta delle scarpe, in modo da non apparire avvilita, esco dalla stanza aggrappandomi alla spallina dello zaino, quello che mi ha accompagnata qui ogni mattina e seguita a casa nei pomeriggi di questi lunghissimi cinque anni.

Il cuore mi martella nel petto e la mente, finalmente, realizza che "è fatta", adesso non si torna più indietro: se sarò promossa la mia vita da adulta inizierà a prendere forma, se dovessi essere bocciata, invece, potrò dire addio a qualsiasi libertà.

Falcata dopo falcata, lentamente, nel mormorio delle alunne aggregate nei corridoi in attesa delle amiche, mi trascino lungo gli ambienti della Saint Jeremy sperando d'incontrare anche io qualcuno di familiare, una persona con cui distrarmi dalla consapevolezza di aver decretato, in parte, il mio futuro - ma Caroline e Misha sembrano essere sparite. Non le vedo in nessun angolo, nemmeno su sedie e panchine sparse qua e là. 

Forse sono in cortile, mi dico, ma passando accanto a uno dei bagni mi ritrovo a considerare un'altra eventualità. Il cartellino con sopra scritto "fuori uso", lo stesso che si può trovare quasi ovunque in questi giorni - un palliativo per le studentesse che cercano di barare - mi riporta alla mente il ricordo di quando ho scoperto della loro relazione. Rallento. L'azzurrino con cui è verniciato il legno della porta pare volermi parlare, invitare e respingere come un soggetto affetto da bipolarismo.

Forse sono nascoste proprio lì dietro, festeggiando e salutando questa scuola a modo loro, nonché infrangendo pressoché metà delle regole che vigono qui. E non nego che mi piacerebbe sapere se sia davvero così, per dare un senso alla loro assenza, però mi trattengo. Non sono psicologicamente pronta ad affrontare nuovamente una situazione simile - così scuoto la testa e riprendo a camminare.

Muovendomi tra un corridoio e l'altro saluto di sfuggita le poche ragazze che si ricordano di me. Scendo le poche scale che separano i due piani dell'edificio cercando di non farmi intralciare e, infine, metto piede nel cortile quasi deserto, concedendomi un nuovo, profondissimo respiro. 

Fuori.Libera.L'aria malsana di Londra scende lungo le narici, riempie i polmoni e nonostante io stia provando a trarne sollievo, a placare qualsiasi emozione negativa che mi si agita dentro, non posso negare di sentirmi a disagio - ma inaspettatamente, un suono giunge alle orecchie, facendomi sobbalzare e sputare fuori l'ossigeno inalato.

«Prega che sia andata bene, perché se mamma ti caccia io a Parigi non ti ospito».
La sigaretta svolazza via. Abbandona le dita di Jace per rimbalzare sul cemento e spegnersi da sola, abbandonata al suo destino - prima che lo faccia però, io mi getto al collo di mio fratello, stringendomi a lui come se lo vedessi oggi per la prima volta.

E' qui
Mi ha perdonata.

«Tanto l'appartamento è di nonna» mugolo con il tono di una bambina in procinto di piangere, persa in balìa della gioia - ed ora, di come siano andati gli esami, davvero non mi importa più nulla.


 

Ania:

Okay, nonostante sia una parte scritta completamente da zero, come parzialmente anche quella precedente, devo ammettere che non ne sono convinta.
Mi pare un po' forzata, ma forse è per via del fatto che sono stanca (scrivere e aggiornare di notte non è certo la cosa migliore, ma vabbé, ognuno ha i suoi mali) - ora vediamo come verrà il seguito. Mi aspetta l'aggiunta di qualche altra parte ai capitoli mancanti, un paio di modifichine e poi... chissà! Quindi, cari lettori, fatemi gli auguri >.<

 

 
   
 
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