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Autore: Shadow writer    28/08/2020    8 recensioni
In una metropoli urbana dominata da corruzione e giochi di potere, una giovane donna cerca di farsi spazio attraverso strade poco lecite.
Dopo gli ultimi eventi, la duchessa si trova alle strette e la posta in gioco si fa sempre più alta: il potere e le persone che ama.
Quello che non sa, è che qualcuno le sta alle calcagna, impaziente di vederla crollare. Ma come può combattere un nemico invisibile?
Dalla storia:
“Sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».”
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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Un piccolo favore


 
 
L’aria era pervasa da profumi costosi e chiacchiere inconsistenti.
La villa in cui si teneva la cena “intima” di un centinaio di persone era di proprietà di un preside universitario ormai in pensione, la cui moglie aveva una passione per organizzare ritrovi per membri dell’alta società. Si vantava di avere un certo occhio nel distinguere chi provenisse da una famiglia altolocata e gli invitati alle sue cene si sentivano lusingati quando erano circondati da persone rinomate e ben conosciute.
Camille sorseggiava il suo champagne da un angolo, nella vaga speranza di mimetizzarsi con la tenda a stampa floreale che c’era al suo fianco. Evitava di incrociare qualsiasi sguardo per non dare a nessuno la possibilità di iniziare una conversazione.
Suo padre non attese uno scambio di sguardi per attraversare la sala e fermarsi accanto a lei.
«Tesoro, ne abbiamo parlato prima» le disse sottovoce in francese. La stanza era piena di gente che si credeva raffinata a studiare francese e pianoforte, quindi il signore Lefebvre non poteva parlare liberamente neanche nella propria lingua madre.
«Questa festa è piena di giovani non sposati che farebbero la fila per corteggiarti».
Camille lo guardò in silenzio, un’occhiata lunga e priva della dolcezza che caratterizzava ogni suo gesto. Questo era il suo modo di dimostrarsi disturbata.
«E io caro padre, ti ho ripetuto che sono una donna sposata e sarebbe sconveniente mostrare interesse verso altri uomini» replicò, prendendo subito dopo un altro sorso di champagne.
Suo padre le si mise davanti e la guardò dritta negli occhi. Le rughe sulla sua fronte ne manifestavano la preoccupazione. 
«Tesoro, so che quando Alexander tornerà ti sembrerà di poter riprendere il matrimonio da dove lo avete interrotto, ma non sarà così. Alexander non godrà mai più della credibilità che aveva prima e questo peso ricadrà su di te. Fidati di me, Camille, sei ancora in tempo per salvarti.»
Lei sospirò e posò con delicatezza una mano sul braccio del padre. Quando mosse il capo, i suoi capelli biondi ondeggiarono, spargendo il profumo nell’aria.
«Non sei riuscito a convincermi in questo anno e non ci riuscirai ora. Non ho bisogno di essere salvata da un matrimonio pieno di amore. Non mi importa quello che la gente penserà di Alexander, ma mi importa di essere la moglie che gli ho promesso di essere su quell’altare, finché morte non ci separi.»
Suo padre dovette notare il colorito che le sue guance avevano preso e con un suono a metà tra uno sbuffo e un sospiro lasciò cadere la conversazione, consapevole che non avrebbe portato nessun frutto.
«Mi auguro solo che tu stia compiendo la scelta giusta. Dopo un anno di carcere, Alexander sarà cambiato e nulla sarà come prima.»
Lei fece un cenno di assenso e, nascondendosi dietro al calice, distolse lo sguardo, nel tentativo di estraniarsi da quella conversazione e da quel luogo.
Non rimase sola a lunga, perché una figura le passò davanti per poi bloccarsi, come colpita da una visione inaspettata. Si trattava di un giovane uomo alto e snello, con i capelli scuri ben pettinati all’indietro e gli occhi di un azzurro brillante che indagavano il volto di lei. Si guardarono per qualche istante in silenzio, prima che lei dischiuse con sorpresa le labbra e mormorò un attonito: «Tristan?»
Sul viso dell’altro si aprì un grande sorriso. «Credevo ti fossi dimenticata di me».
Si piegò in avanti per salutarla con due baci e le narici di Camille furono invase dal suo profumo intenso. La donna si riprese dalla sorpresa e si concesse una risata sincera.
«I miei ricordi di te sono troppo cari per essere dimenticati» aggiunse, cercando sul volto di Tristan i tratti del suo amico d’infanzia.
La prima cosa che la colpì furono le stesse iridi color mare che le ricordavano delle estati trascorse in Costa Azzurra, nell’albergo della famiglia di Tristan. I due avevano anche studiato insieme per un certo periodo, fino a che la bancarotta dei suoi genitori aveva costretto Tristan a trasferirsi e finire le scuole superiori lontano da Parigi. Camille non lo vedeva da allora. Si erano parlati ancora al telefono, ma non erano mai riusciti ad incontrarsi. Le loro vite erano andate avanti nonostante la grande amicizia che avevano condiviso da bambini.
«Spero di non disturbarti. Mi sembra che questa sera tu non abbia voglia di stare in mezzo alla folla» le disse.
Lei sorrise. «Un vecchio amico non c’entra nulla con la folla che sto evitando. Perché non troviamo un luogo tranquillo e mi racconti tutto quello che mi sono persa?»
Gli occhi di Tristan si illuminarono e fece un entusiastico cenno di assenso, mentre le porgeva il braccio. Camille lo accettò di buon grado e si lasciò condurre in una sala adiacente meno affollata. Riuscirono a prendere posto su alcune poltrone dall’aspetto confortevole e un cameriere sostituì i loro bicchieri vuoti con altri nuovi.
Camille si sforzò di tenere la conversazione su Tristan e gli rivolse una domanda dopo l’altra per non dargli il tempo di porle domande a sua volta. Scoprì che aveva riacquistato l’albergo di famiglia e che si trovava a Tridell per affari, ma forse si sarebbe trattenuto più a lungo se il suo soggiorno sarebbe stato proficuo. La donna notò che Tristan aveva ancora l’abitudine di sorridere con lo sguardo schivo quando qualcosa lo imbarazzava e che, a volte, sembrava lo stesso ragazzino impacciato con cui scorrazzava sulle spiagge del sud della Francia, quando le sue mani si muovevano più del dovuto o la sua gamba tremava nervosamente. I suoi modi erano gentili e delicati, parlava di sé solo quando era lei a incoraggiarlo e non c’era arroganza o superbia nel suo modo di fare.
«Mi dispiace non essere riuscito a venire al tuo matrimonio» le disse ad un certo punto, cambiando direzione della conversazione. 
Camille si irrigidì involontariamente, ma il suo sorriso rimase largo e luminoso. Un anno prima Tristan aveva risposto al suo invito declinandolo, ma lei non si era sentita offesa. Le avrebbe fatto piacere rivederlo, ma i suoi ospiti erano stati comunque numerosi e non avrebbe potuto rincrescersi di ogni assenza.
«In quel periodo ero impegnato con le trattative per riacquistare l’albergo. Sai quanto ci tenesse la mia famiglia» aggiunse lui.
«Nessun problema» gli disse. «Sono felice di poterti vedere ora.»
Lui prese un sorso dal calice, con gli occhi persi in un punto indefinito tra il bracciolo della poltrona di Camille e il parquet. Quando tornò a guardarla, aveva un sorriso timido stampato sul volto.
«Come sta tuo marito?» le chiese con fare cauto. «Alexander, giusto?»
Lei annuì. Gli occhi di Tristan erano leggermente sgranati, con le ciglia scure allungate verso l’alto, mentre la scrutava in attesa di una sua reazione.
«Sta bene. Tra qualche giorno potrò riabbracciarlo.»
«Mi è dispiaciuto davvero sentire…» l’uomo esitò un istante, per assicurarsi che lei non fosse troppo a disagio. Il silenzio della donna lo fece proseguire: «…del suo arresto.»
Camille lo ringraziò con un cenno del capo, poi commentò, in tono più vivace: «Sono sicura che gli farà piacere conoscerti! Ti piace ancora giocare a tennis?»
Tristan annuì.
«Allora organizzerò una partita, così potrete incontrarvi e passeremo del tempo insieme» la voce della donna aveva preso una nota entusiasta e anche lui si lasciò coinvolgere da quell’entusiasmo.
«Non vedo l’ora» le disse, senza smettere di sorridere.
 
 
 
***
 
 
Noah frugava nella sua pila di giochi alla ricerca del pezzo mancante del puzzle ed Emily lo fissava seduta insieme a lui sul tappeto, con un sorriso sul volto.
Il bambino aveva le guance arrossate e i capelli arruffati e a lei sembrava un’opera d’arte.
«Avete fatto pace?» le domandò Roman, che leggeva poco distante sullo stesso tappetto, ma steso su di una coltre di cuscini per stare più comodo. Lanciò un’occhiata alla giovane scostando leggermente il libro.
«Certo» rispose Emily con un sorriso, ma prese subito un respiro profondo.
Aveva saputo fin dall’inizio che non sarebbe stato semplice, ma non credeva che avrebbe fatto così male. Noah ormai si era abituato e lei aveva cercato l’aiuto dei migliori esperti di psicologia infantile per assicurarsi che stesse bene. Eppure, c’erano ancora alcuni momenti in cui faceva i capricci e, come tutti i bambini, aveva il perverso potere di dire la cosa peggiore nel momento peggiore. Per Noah si era trattato di pestare i piedi per terra e gridare: «Non è vero che sei la mia mamma! Sei cattiva! Voglio andare via!».
Razionalmente Emily sapeva che era solo un’esplosione momentanea e che suo figlio non credeva a quelle parole – lui stesso glielo aveva assicurato poche ore più tardi, quando si era infilato nella sua camera da letto e con la testa china aveva farfugliato che gli dispiaceva e che non era vero. «Sei la mamma più bella del mondo» le aveva detto, cingendole il collo con le sue braccia e addormentandosi con il mento sulla spalla di lei. Ma la giovane non riusciva a cancellarsi dal petto quella sensazione di opprimente dolore che l’aveva schiacciata nell’udire per la prima volta quelle parole. Era ripiombata nella stessa situazione di terrore di quando le avevano portato via Noah e lei non aveva potuto far altro che rimanere a guardare, impotente.
Non importava l’abito di seta che indossava in quel momento, o la ricchezza del tappeto su cui sedeva, o il numero di camerieri che lavorava per lei. Dentro era la stessa ragazzina spaventata senza nessuno al mondo.
Nessuno tranne Roman, si corresse con un sorriso, guardandolo alzarsi in piedi per dirigersi verso la porta della stanza dove avevano bussato. Dopo aver scambiato due parole sussurrate sulla soglia, lo sentì tornare verso di lei e accucciarsi al suo fianco.
«Non immaginerai chi vuole parlarti».
Emily si voltò a guardarlo sbattendo le palpebre, perplessa. «Di sabato mattina?»
Lui annuì, con un sorriso ironico che fece comparire una fossetta sulla sua guancia.
«Camille» le disse e lei corrugò la fronte.
«Lefebvre?»
«Henderson» la corresse e lei fece una smorfia.
«Quella donna non ha brunch di ereditiere viziate a cui partecipare a quest’ora?» si lamentò mentre si alzava in piedi. «Noah, la mamma torna subito, con te rimane Roman, okay?»
Si avvicinò al bambino e gli lasciò un bacio sulla fronte.
«Mi stai estromettendo dal potere per relegarmi al ruolo di babysitter?» si lamentò lui, ma Emily lo zittì con uno schiocco di labbra e si diresse verso la porta.
Al di fuori l’attendeva il maggiordomo che aveva bussato e si lasciò condurre da lui verso l’ingresso.
Camille indossava un ampio cappello di paglia e, dall’alto della scalinata, quella fu la prima cosa che Emily vide. Una circonferenza chiara che faceva avanti e indietro sul suo pavimento di marmo. Da sotto al cappello comparivano i pantaloni a palazzo color acquamarina e i tacchi dello stesso color paglia.
«Che sorpresa» esordì la padrona di casa, cominciando a scendere le scale solo quando si fu assicurata di avere l’attenzione dell’altra.
Camille alzò gli occhi verso di lei e il suo volto comparve da sotto il capello, con un sorriso che metteva in mostra i suoi denti perfetti.
«Mi dispiace essermi presentata senza nessuno preavviso» si scusò subito, andandole incontro.
Non appena Emily posò i piedi sul pavimento, si rese conto della notevole differenza di altezza con l’altra, che con i tacchi la superava di più di venti centimetri.
Si raddrizzò e le rivolse un sorriso trattenuto. «Se ogni visita avesse un preavviso, la vita sarebbe banale».
Le fece cenno di seguirla e la condusse in una piccola sala adiacente all’ingresso. Mentre Camille prendeva posto su una delle due poltrone disposte intorno al tavolino, Emily chiese al cameriere di portare loro qualcosa da bere.
«Cosa posso fare per te, Camille?» chiese la padrona di casa, non appena due bicchieri di limonata furono posati davanti a loro.
Di solito Emily adorava crogiolarsi nell’attesa dei suoi interlocutori, ma in quel momento non aveva voglia di inutili preamboli. Doveva saperlo, ora, cosa ci facesse quella donna nel suo palazzo.
«Io…mi dispiace davvero comparire così e spero di non recarti alcun disturbo…» cominciò l’altra, ma dovette vedere lo sguardo palesemente impaziente della duchessa, perché affrettò le sue parole. «Mio marito, Alexander, esce dal carcere tra due giorni. So che le cose non torneranno ad essere come prima, ma vorrei aiutarlo e rendergli la vita più facile, se possibile.»
Emily trattenne a stento un sorrisetto storto e si allungò per prendere la sua limonata. La sua mente si figurava il momento in cui avrebbe detto ad Alex che la sua mogliettina era strisciata da lei a chiedere aiuto. Già vedeva il panico nelle iridi ambrate di lui.
«So che l’anno scorso sei stata un’alleata preziosa durante la campagna elettorale e mi chiedevo se potessi chiederti un altro favore.»
La duchessa sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».







 
 
   
 
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