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Autore: Indaco_    30/08/2020    3 recensioni
Mobius era una tavolozza di colori, specie, caratteri, culture, cibi e via dicendo. Pulsante di vita, la città datata secoli era un variegato multi gusto. La sua crescita economica e sociale era intessuta da persone particolari, da eventi dimenticati e poco conosciuti e da tanti, tanti soldi.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sonic the Hedgehog
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa:
Questa storia è in cantiere da ben due anni, è da tanto che volevo buttarla giù ma, per fortuna, ho aspettato pazientemente fino ad oggi. Sarà un racconto leggero e spero davvero di riuscire a raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissata: pulizia, ordine, chiarezza, una buona trama, equilibrio e un buon stile di scrittura. Ho deciso che i capitoli saranno lunghi quanto meritano, non voglio più utilizzare le 3-4 pagine word come base, bensì se un certo capitolo meriterà 1  o 10 pagine saranno pubblicate nella loro pienezza. A scrivere queste cose mi vien un po’ da ridere, probabilmente anche voi penserete che mi prendo troppo sul serio ma voglio migliorare tanto e mi servono le vostre critiche per arginare e spianare i difetti. Vedremo cosa salterà fuori. Spero davvero di mantenere l’equilibrio nella trama e, ovviamente, spero che vi piacerà.
 A voi.
 

PROLOGO


Il paesaggio di fronte a lui era letteralmente una tovaglia verde chiaro: la campagna piatta era coperta di grano e orzo verdissimo, quasi giallo, fin troppo rigogliosi rispetto alla stagione. Disposti seguendo il profilo del terreno, i fossati sembravano luccicanti fili che cucivano terra nuda, frumento e prati  unendoli in un’unica, grande e variopinta scacchiera. I canali erano carichi d’acqua, grigia come il cielo che si doppiava in quegli specchi naturali.
La superficie increspata come alluminio trascinava con sé foglie, rametti e una lattina vuota mentre, controcorrente, pesciolini neri nuotavano a branchi tra le alghe grigie e morte.
Qualche rarissimo albero riposava sulle sponde di quei nastri argentati come vecchi pennelli spelacchiati infilati in un portapenne altrettanto vecchio. I rami, già carichi di gemme compatte, si preparavano ad una primavera che, con largo anticipo, si prestava a baciare prati e boschi ricoprendoli di fiori chiari. La campagna assomigliava ad un’isola verde, attorno alla città, sfruttata sino all’ultimo filo d’erba, all’ultimo granello di terra, all’ultima goccia d’acqua.
Quel paradiso, profumato di salsedine, circondava per centinaia e centinaia di chilometri la metà settentrionale di Mobius; il cuore di ferro e cemento pulsante di vita. La grande città posta sulla costa era circondata per l’altra metà dal mare: una mezza ruota blu che iniziava dalla spiaggia e finiva all’orizzonte. Mobius era una tavolozza di colori, specie, caratteri, culture, cibi e via dicendo. Pulsante di vita, la città datata secoli era un variegato multi gusto. La sua crescita economica e sociale era intessuta da persone particolari, da eventi dimenticati e poco conosciuti e da tanti, tanti soldi.
                                                                                                                                                                                                                   

Il suo stesso  respiro, veloce e ansimante, riempiva i padiglioni auricolari del topo color ocra che non riusciva a percepire nient’altro che il suo cuore pulsante e il suo fiato saltellargli fuori dal petto.
Quel paesaggio bucolico sfilava davanti ai suoi occhi come la più comune delle auto senza attirare un minimo della sua attenzione. Le gambe magre, infilate in costosi pantaloni di lana, lo sostenevano appena in quella corsa a perdifiato e la lunga coda ad anelli seguiva il corpo smilzo con una serpentina flessuosa. Le spighe appena abbozzate sbattevano contro le ginocchia del roditore rallentando il suo percorso e minando i suoi sforzi già compromessi dalla scia di fusti schiacciati dietro di lui.
Continuando a correre, voltò la testa dietro di sé per un breve attimo cercando, in mezzo a quel verde piattume, il suo inseguitore. Lungo gli argini sgombri solo alcuni iris avevano preso posto e dietro di lui la calma più assoluta regnava sovrana.
Nonostante quella apparente solitudine il roditore strinse i pugni e diede fondo alle energie cercando di raggiungere il prima possibile un posto sicuro. Non facile in mezzo a quella tavola priva di nascondigli naturali e a quella pista che si lasciava alle spalle ad ogni passo.
Confuso e spaventato dalla scena a cui aveva appena assistito, il suo cervello non connetteva più, intento a rivedere e rielaborare quello che i suoi occhi avevano, sfortunatamente, visto pochi minuti fa. Non riusciva a pensare in modo lucido ad un nascondiglio efficace: era troppo frastornato. Davanti alle iridi color crema, quello che era accaduto poco prima si svolgeva e si avvolgeva in un loop infinito.
I polmoni e la trachea erano aridi dalla sete e dall’affanno, tanto da non riuscire più a respirare e a perdere così tempo e ossigeno. Il suo corpo iniziava ad abbandonare progressivamente il ritmo di marcia, trovandosi poco dopo con le mani appoggiate alle ginocchia, a bocca aperta e ansante. Un soffio di vento feroce fece ondeggiare la coda nell’aria rubandogli il respiro e un po’ di calore dal corpo.
L’odore della terra smossa, umido e pastoso, gli arrivò alle narici. Pentendosi di essersi fermato con un inseguitore così allenato e, soprattutto, più giovane, nonostante il dolore alla milza e la mancanza di aria nel petto, si accinse ad andare avanti e a tornare a casa il prima possibile: doveva avvisare il signore di quello che aveva visto. 
Sollevando il busto per riprendere la sua fuga, non ebbe nemmeno il tempo di concludere un respiro profondo. Davanti a sé un sinistro e familiarissimo ticchettio, simile alla molla dei vecchi carillon, annunciò che il carrello della pistola semiautomatica era stato caricato e che lo sparo era in sospeso.
Le orecchie del topo si distesero e presero a vibrare nuovamente al ritmo accelerato del suo cuore.  Il panico si insinuò nella sua esile corporatura facendolo tremare come una foglia nel bel mezzo di una burrasca.
Deglutendo la saliva acida che gli si era accumulata in bocca, si sollevò prudentemente di pochi centimetri, abbastanza però per trovarsi puntato la canna dell’arma impugnata dal suo instancabile inseguitore. Fresco come una rosa, l’individuo di fronte a lui sorrideva soavemente come se, al posto dell’arma da fuoco, avesse tra le mani una piuma di struzzo con cui stuzzicare la sua preda.
Piegando la testa appena, socchiuse le palpebre con evidente soddisfazione: i fatti suoi erano nuovamente al sicuro ora che quello spione era tra le sue mani.  Il topo si rizzò in piedi barcollante di paura.
Sempre più pallido non aveva mai nemmeno pensato che quel giorno sarebbe potuto morire. Anche perché, tra tutte le morti, non aveva mai nemmeno lontanamente pensato di morire braccato come un coniglio e infangato di terra e chissà cos’altro. Ed ora si trovava in aperta campagna con unica compagnia il pazzo armato.
Gli occhi color crema si tinsero della paura più profonda nell’ammirare con terrore quel tubo lucido, di fronte a lui, che minacciava di sputare morte da lì a poco. I sensi del roditore si affinarono nella speranza di salvarsi, l’odore metallico della pistola si depositò persino nella lingua congelata. La bocca, carica di parole ma asciutta come sabbia nel deserto, si aprì e si richiuse in silenzio, sillabando una poca interpretabile “pietà”.
Il tremore gli scuoteva le labbra come foglie facendogli sbattere persino i denti e la schiena, piegata in quella posizione innaturale, iniziava a farsi sentire pienamente minando la sua resistenza.
Come se non bastasse, il vento rapì le ultime parole del topo trascinandole e spargendole per tutta la campagna mentre un mulinello di sabbia sbatté debolmente sui vestiti di entrambi imbiancandoli di polvere. Le labbra già tirate dell’aguzzino si stirarono come due elastici facendo scorgere la dentatura troppo piccola e minuta per quella bocca.
< Uff, pa-te-ti-co > rispose a quella supplica con una ruotata d’occhi teatrale. La sua voce era acuta e precisa, ogni lettera era scandita con perfetta dizione. Tipico di chi era abituato da una vita a parlare con decine e decine di persone ogni giorno.
Indeciso se tirare o meno, utilizzò qualche attimo per ideare una soluzione che non comprendesse l’omicidio.
Poteva portarlo con sé ma poi? Dove avrebbe potuto metterlo? E soprattutto per quanto tempo? Avrebbe dovuto trovare un telepatico, cosa assai difficile vista la difficoltà nel trovarli, e ordinargli di cancellare quel ricordo. Ma l’impresa sarebbe stata lunga e, soprattutto, danarosa.
Lanciando un’occhiata veloce al costoso orologio agganciato al polso notò che era in ritardo con la sua tabella di marcia di ben quattordici minuti.
Un sospiro e la scelta ricadde sull’alternativa più semplice e sbrigativa.
Con evidente soddisfazione e sollievo, schiudendo la mano un paio di volte a mo’ di saluto, premette il grilletto prima che il morto, tra le lacrime e la disperazione, potesse anche solo mormorare un’altra parola.  

Spazio autrice:
Buonasera a tutti! Volevo pubblicare questo capitolo il primo di settembre ma so già che non avrò tempo quel giorno.
Spero di avervi incuriosito con questo piccolo capitolo iniziale.
A presto.
Baci.
Indaco


 
  
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