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Autore: TDwriter    31/08/2020    1 recensioni
"Alla fine, dopo aver dormito così poco e aver letto così tanto, il cervello di lui si prosciugò, e andò completamente fuori testa"
- Don Chisciotte della Mancia, Miguel de Cervantes
Alessandro Lombardi abita nella Riviera dannunziana, ha ventun anni e tutta una serie di presunte certezze alla Zeno Cosini. Alessandro però vivrebbe perennemente in un universo calviniano, sa orientarsi in mancanza di luce e sogna una fuga in pieno stile Mattia Pascal.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo III

Le settimane successive non furono facili. Non perché Alessandro non fosse realmente convinto, ma per le mail che ricevette, come richieste da un' altra dimensione. A quanto pare non c'era nessuno che si sognasse di rispettare davvero la sua scelta, qualcuno che gli dicesse qualcosa del tipo: “Ok, non ti capisco, ma lo accetto, buona vita, puoi tornare quando vuoi”. E tutti, ma tutti, si erano imposti di capire il perché.

Ma alla fine anche gennaio era passato, tra l'incredulità generale. Era andato sino ad Atene per Natale, in mezzo ai turisti, che sarebbero aumentati nel periodo estivo. Aveva visto i mercatini, le lucine sulle palme e su un grande pino e tutto il Partenone illuminato. Avrebbe voluto spedire qualche regalo, ma alla fine si limitò a delle brevi mail per Irene e Marco. Ritornò ad Atene per il Capodanno, si ubriacò con poco e niente senza nemmeno volerlo (non era mai stato un grande bevitore) e pensò a come sarebbe stato bello spingersi almeno fino in Sicilia, o tornare ma senza avvertire nessuno, magari trasferendosi in qualche paesino padovano. Riuscì in qualche modo a prenotare una stanza d'albergo dove far passare la notte e la sbronza. Vomitò. Per l'anno nuovo tornò ad Icaria e per gli inizi di febbraio si concesse di prepararsi una pizza, era comunque il suo compleanno: ventitre. “Ho fatto un Pollock!” proclamò a se stesso, in greco, senza nemmeno accorgersene, mentre gettava la mozzarella a casaccio sull'impasto steso col sugo. “Pollock era degli USA!” ribatté l'inquilino del piano di sopra. Dovevano essersi entrambi concessi due bicchieri, di nuovo.

E anche marzo arrivò. Ormai stava imparando la lingua, per l'estate avrebbe potuto trovarsi un impiego come barista, per ora si era limitato ad accettare quello che gli proponevano. Forse in futuro si sarebbe ritrasferito davvero. Riflettendo su ciò, apri il quaderno sulla pagina della sera precedente: “Pagare l'affitto, scongelare il pesce, terminare il racconto” più tutta una serie di considerazioni sulle scelte prese. Aprì il portatile e selezionò il documento di qualche giorno prima, intitolato: “Irene”. Avrebbe cambiato il nome successivamente, sapeva di non poterlo tenere, ma aveva paradossalmente bisogno di richiamarsi alle sue vecchie origini per non tornare ad esse. E aveva bisogno di mettere nero su bianco il modo in cui si erano salutati, seppur in maniera romanzata, seppur guadagnandoci. Iniziò a rileggere il racconto.

«Uscendo di casa al mattino, nella periferia cittadina, la prima luce visibile è quella al neon del discount: rosso fluo, undici caratteri cubitali racchiusi all'esatto centro di un cerchio perfetto. La scritta “Mini Market” troneggia sull'edificio. Sostituisce le albe degli operai al mattino, ma mai i loro tramonti alla sera: il negozio è aperto ventiquattro ore su ventiquattro. È come un piccolo Sole fisso, perennemente attivo, ma con raggi deboli.

Io ci passo davanti tutti i giorni, andando e tornando dal lavoro. Conto le undici lettere. Sono sempre lì, posso andare dove devo andare senza che il mondo mi cada addosso. Non che io debba andare in chissà quali posti. Sono un operaio anch'io e lavoro al discount, faccio i turni la notte e la cosa non mi dispiace, ho la mattinata per dormire e il pomeriggio per vivere. Ho una laurea, ma la cosa non m'importa più. A volte scarabocchio qualcosa tornato dal lavoro: inezie, inezie, inezie su inezie prese, sdoppiate e deformate, in un' accozzaglia di elementi ripetuti di volta in volta in maniera differente. Roba che messa insieme da vita a delle brevi storielle con cui riesco ad arrotondare, quando me le pubblicano sulle riviste».

Troppo crudo? Troppo autobiografico? Non necessariamente, avrebbe potuto tagliare la parte sullo studio, o sostituire lo scrivere con il disegnare. E anche se fosse, era a chilometri da tutta quella gente.

«Spesso seguono complimenti stupiti da parte dei miei conoscenti: gente che non capisce come qualsiasi persona con un livello medio alto d'istruzione potrebbe potenzialmente fare quello che faccio io, e che essere un genio è un' altra cosa; gente che mi chiede in maniera sfacciatamente cordiale e inopportuna perché non riprendo studiare.

Perché? Abbozzo un sorriso e butto lì un paio di frasi di circostanza. Non lo voglio sapere il perché. Perché a ventun anni ho smesso e mi sono rifugiato in periferia, fresco di triennale e con tante opportunità di fronte. Non lo voglio sapere. Alla fine sono solo un uomo medio, che ha avuto la fortuna di nascere in un periodo storico e in un punto geografico connotati da una caratteristica ben precisa: la libertà. Non dovrei lamentarmi, e in un certo senso non mi è concesso farlo. Ma posso far sì che il mio tempo libero sia incanalato in attività ricreative: aperitivi, happy hours, brunch. E stasera è sabato e io come un occidentale viziato uscirò con una delle poche persone che mi sono rimaste accanto».

Ok, qui forse stava esagerando. Dare dei cretini ai consumatori, seppur tacitamente. Non sarebbe piaciuto, considerando che molti di loro probabilmente l'aperitivo lo facevano davvero. Decise di sostituire “ricreative” con “stabilite dalla società” (critica meno graffiante, anche se più esplicita) e di eliminare gli esempi dopo i due punti, oltre a quel “occidentale viziato” che tanto non sarebbe stato colto. Procedette poi con una di quelle parti che tanto facevano scalpore.

«Ho bevuto. Ho bevuto e mi appoggio al sedile del passeggero, stordito da tutta quell'atmosfera consumista, da tutto quel vociare e da tutte quelle lucine. E dall'alcol. Appoggio una mano sulla coscia di Irene. Volto la testa e vedo scorrermi davanti tutto il lungo lago illuminato, tutto l'asfalto illuminato. Ho bevuto, e come sempre mi sembra che al mondo non vi possa essere persona veramente sola, che alla fine siamo tutti interconnessi nel profondo, che si tratta semplicemente di voler fare una scelta, la scelta giusta. Parte di me riesce ancora a razionalizzare quanto questo non sia vero, ma non importa.

“Parcheggia” le dico

“Non siamo ancora arrivati” mi fa, continuando a guardare la strada

“Lo so, parcheggia” le ordino quasi. Frena.

“Stai male?” chiede voltandosi

“No, volevo solo fare due passi” le dico. Non mi risponde, sospira e poi accosta in un angolo. Scendiamo dalla macchina e dopo pochi metri e quasi un paio di cadute sulla piccola scalinata riusciamo ad arrivare alla spiaggetta. Ci sediamo sui ciottoli bianchi, stendo le gambe. L'acqua mi bagna tutte le scarpe. Non ritiro i piedi. Sono un cretino.

“Tutto bene?”. La voce le esce sottile sottile, come se stesse tentando di entrare nella mia testa in punta di piedi, per paura che le chiuda la porta in faccia.

“Si”. Ho le scarpe fradice

“Cos'hai?” chiede ancora, sforzandosi come se si stesse strozzando per dirlo

“Non lo so”. Non è vero che non lo so. Penso al fatto che mi sto trasformando nel Professor Sabato di Pirandello. Un uomo colto e sbronzo, ubriaco per dimenticare di essere un qualcosa di piccolo e meschino tra cose che paiono piccole e meschine, in confronto allo splendore delle stelle. Ma non voglio dirglielo, non posso. Spiegarle Pirandello sarebbe come dirle tutto e dirle niente».

Si fermò. La rivista era per Young Adults, ossia per giovani dai 13 ai 18 anni. Avrebbe potuto rischiare di perdersi una buona fetta di consumatori, o la pseudo spiegazione sarebbe stata sufficiente? Pirandello si studiava ancora alle medie? Cercò i programmi ministeriali su internet, non senza un po' di nostalgia. Si, l'argomento si studiava ancora e la spiegazioncina, condita con tutta l'atmosfera da alcolisti anonimi, sarebbe bastata.

«“Secondo te che cos'ho?” chiedo semplicemente

“Posso dirtelo?” risponde più decisa

Annuisco. Alle persone piace darsi delle risposte da sole.

“Io credo che tu sia così tanto concentrato su ciò che risplende, da perderti la bellezza nella mediocrità”

“Non è vero” affermo con la voce impastata

“Si che è vero” continua

“No, non è vero” ribadisco biascicando, infastidito

“Lo è, lo sai che lo è” afferma nuovamente

“Perché dovrebbe?” non mi guarda nemmeno, tiene le gambe rannicchiate vicino al petto e le mani poggiate con forza contro i ciottoli.

“Perché hai tante opportunità di fronte a te e non hai nemmeno il coraggio di sceglierne una. Hai paura di determinarti, come se questo potesse limitare la tua presunta originalità. E poi vai ad omologarti come tutti gli altri, credendoti poetico solo per il modo in cui lo fai!”

Sta quasi urlando, ma non mi ha chiesto perché. Trema appena.

“Scusa” aggiunge poco dopo

“No, hai ragione. È che sono cose forti” mi affretto a rassicurarla

“Non credo siano forti, almeno non così tanto. Sono solo una parte di te poco accudita” dice torcendosi i polsi. Ha ragione, di nuovo.

La guardo, Irene. Irene che oggi si è alzata alle cinque di mattina, Irene che ha solo uno straccio di diploma, Irene che è dovuta crescere troppo in fretta, non riuscendo mai a crescere davvero. Ma anche Irene che è ancora qui per me all'una di notte, Irene che si porta sempre dietro un libro, Irene che forse vive con più tenacia di chi è uscito da una famiglia felice. Irene, stereotipo della generazione post sessantottina.

Credo di doverle molto, vorrei dirglielo al meglio. Sto zitto. Sono laureato e sto zitto. Tanto bravo nel parlare, quando si tratta delle parole di altri, quando posso esprimermi per metafore; altrettanto incapace quando si tratta di confrontarsi con ciò che provo davvero, con le cose spogliate del loro involucro: nude, crude, scottanti. “Il mio cuore messo a nudo” avrebbe detto Baudelaire. Ecco, appunto: metafore, riferimenti.

Sento una mano afferrarmi il polso, delicatamente decisa.

“Vuoi andare a casa?” è stanca, palesemente stanca, in tutti i sensi. Adesso sta davvero tremando, seduta sui ciottoli bianchi, sotto un immenso cielo di stelle piccole e meschine. Ritiro le gambe ormai ghiacciate e mi sollevo barcollando da terra, guardandola.

“Vorrei tornare a studiare”.

Non c'era nulla di più vero e di più falso assieme».

   
 
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