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Autore: Shadow writer    04/09/2020    6 recensioni
In una metropoli urbana dominata da corruzione e giochi di potere, una giovane donna cerca di farsi spazio attraverso strade poco lecite.
Dopo gli ultimi eventi, la duchessa si trova alle strette e la posta in gioco si fa sempre più alta: il potere e le persone che ama.
Quello che non sa, è che qualcuno le sta alle calcagna, impaziente di vederla crollare. Ma come può combattere un nemico invisibile?
Dalla storia:
“Sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».”
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La duchessa '
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Ricordi dal passato
 



Il giorno era arrivato.
Lo aveva immaginato tante volte, steso sulla sua brandina con gli occhi fissi sul soffitto grigio della cella. La sua mente aveva creato scenari ipotetici su come tutto si sarebbe svolto, su come sarebbe tornato un uomo libero. Alexander si sentiva eccitato come un ragazzino e allo stesso tempo terrorizzato.
Aveva vissuto come un’ombra durante l’anno precedente e temeva che quella sensazione di vuoto interiore lo avrebbe seguito anche una volta tornato un uomo libero.
L’attesa lo stava logorando. Sapeva che ci sarebbero state carte da firmare e che mancavano alcune ore alla sua liberazione, ma era impaziente. Lo avevano lasciato in uno stanzino scarsamente illuminato, dove gli avevano permesso di cambiarsi, e nessuno si era più fatto vivo per qualche decina di minuti.
Quando finalmente vide la maniglia della porta abbassarsi, ricevette il primo schiaffo in faccia dalla realtà. Ancora non poteva dirsi un uomo libero e già una vecchia conoscenza gli si palesava, prima di tutto sotto forma di una voce irritante.
«Spero che tu sia vestito, ma in ogni caso nulla che io non abbia già visto» disse la voce mentre la porta si apriva e rivelava la figura della duchessa sulla soglia.
Lei gli lanciò un’occhiata, quasi delusa di vederlo già coperto, poi entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle.
«Cosa ci fai qui?» ringhiò lui, stringendo i pugni. «Credevo di essere stato chiaro. Non voglio avere nulla a che fare con te.»
Emily rise e si appoggiò al tavolo su cui stava piegata la tuta che Alexander si era appena tolto.
«Sai qual è il segreto di un buon matrimonio?» gli chiese e lui sentì chiaramente di star perdendo la pazienza. Le orecchie presero a ronzare e il sangue gli andò alla testa.
«Non ho più voglia di ascoltare le tue stronzate» le disse trapassandola con lo sguardo.
Emily inclinò il capo, incuriosita e divertita dalla conversazione. I suoi capelli ondeggiarono, una cascata di ricci scomposti che le ricadeva sul petto e sulle spalle.
«La comunicazione, Alexander. La comunicazione».
Si staccò dal tavolo per andargli incontro e lui rimase saldo nella sua posizione. Non avrebbe indietreggiato di fronte a una ragazzina.
«Sono stanco» le disse in tono fermo, ma lei continuò ad avanzare fino a che non fu sotto al suo naso.
«Di me?» lo istigò la giovane e subito il suo volto si illuminò con un sorriso. «Sembra che al tuo matrimonio manchi della comunicazione, caro. Camille è venuta da me e mi ha implorata di aiutarla. Di aiutare te a riprendere in mano la tua vita. Sa che sei un uomo troppo orgoglioso per accontentarti di vivere nell’ombra della maldicenza. Vuole che io ti reinserisca nell’alta società.»
Fece una pausa e gli posò una mano sul petto, facendosi ancora più vicina. Alex le afferrò il polso e scacciò la mano, ma lei non fece una piega. Continuò a guardarlo negli occhi con aria divertita.
«Ironico, no? Vuole che la ragazzina povera aiuti l’ereditiere a rientrare nel mondo da cui era scappato».
Emily risollevò la mano e la portò sulla guancia di lui, per accarezzargliela come si farebbe con un amato. Questa volta lui la lasciò fare, ma il suo volto era di marmo.
«La vita si prende gioco di noi, Alexander, credimi».
«E a te riesce bene distruggere quella degli altri».
Lei roteò gli occhi e si staccò da lui, poi si diresse verso la porta.
«Non crederti migliore di me» gli disse, voltandosi leggermente, ma senza guardarlo. «O vuoi spiegarmi perché tua moglie dopo un anno non sa che sono stata io a farti finire in prigione?»
Si ruotò quanto bastava per lanciargli un’occhiata fugace da sotto le ciglia scure. «Anche i segreti distruggono la vita delle persone, Alexander.»
Attese per un secondo una risposta che non arrivò, così con un sospiro se ne andò.
 
Lo fecero uscire un’ora più tardi. Non appena mise piede fuori dal perimetro del carcere, notò l’auto nera di suo padre. La portiera si aprì e ne uscì una figura sottile fasciata da un abito di un bianco accecante sotto il sole flebile di quel giorno. Un colpo di vento fece ondeggiare la gonna e lei sembrò un’immagine vaga tratta da un dipinto impressionista.
Mentre gli correva incontro, Alexander si accorse che si trattava di Camille e quando lei gli si gettò al collo, la strinse a sé, inspirando il suo profumo che non sentiva da troppo tempo. 
Camille si scostò quanto bastava per guardarlo negli occhi e lui si accorse che stava piangendo.
«Mi sei mancato» gli sussurrò e lo baciò.
Alexander si lasciò andare a quel bacio, accarezzandole i capelli lisci.
«Anche tu» le sussurrò a fior di labbra.
Tenendosi per mano, si diressero verso l’auto.
Robert Henderson non si scomodò a scendere, ma rimase sul sedile del passeggero e quando gli altri due furono saliti, fece cenno all’autista di partire.
«Ben tornato tra di noi, Alexander» fu il suo unico commento. Il figlio gli rispose con un cenno del capo.
Per tutto il viaggio, Camille rimase seduta vicino a lui, con la testa appoggiata alla sua spalla e un braccio che gli circondava il petto.
Lui cercò di lasciarsi cullare da quella sensazione piacevole, ma non riusciva a togliersi dalla testa l’incontro con Emily di quella mattina. Camille era davvero andata a parlarle? Se così fosse stato, comunque non gli avrebbe detto nulla, ma lui sapeva che sua moglie non era il tipo di persona che poteva mettersi in affari con la duchessa e uscirne incolume. Camille era troppo ingenua e tendeva a vedere il meglio in ogni persona.
Ma c’era qualcos’altro che stava martellando la sua testa minacciando un acuto mal di testa. Emily aveva ragione. Perché lui non aveva detto nulla a Camille? Non lo aveva fatto fin dall’inizio, ma non è così che si comportano marito e moglie.
Strinse i denti e cercò di distrarsi guardando fuori dal finestrino. Non riusciva a smettere di pensare a cosa ne sarebbe stato del loro matrimonio.
 
 
 
 
***
 
 
 
Mentre inspirava l’odore del terriccio appena sistemato, Roman pensò che era impaziente per l’arrivo della primavera. Adorava passeggiare nel giardino fiorito e lasciar vagare il suo sguardo sulle piante ben potate o le sculture che Emily aveva fatto sistemare lungo le siepi.
Si fermò di fronte alla statua bianca di una donna coperta da un leggero velo, che poco nascondeva delle sue forme. Con il braccio destro sorreggeva un’anfora, ma il suo volto puntava nella direzione opposta, con gli occhi che scrutavano l’orizzonte.
«C’è qualcosa nella sua espressione che non mi convince»
La voce veniva dalle sue spalle, ma Roman non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere il proprietario. Rimase a fissare la statua e, mentre sentiva i passi avvicinarsi, pensò che avrebbe dovuto chiedere a Emily di mettere il veto anche sul giardino. Non voleva correre il rischio di incappare in Gabriel ogni volta che usciva per fare una passeggiata.
«Nessuno ti costringe a guardarla» replicò, cercando di rimanere calmo.
Vide Gabriel entrare nel suo campo visivo a sinistra, ma non si prese la briga di distogliere lo sguardo dalla donna di marmo.
«Non capisco l’origine del tuo astio nei miei confronti» commentò il nuovo venuto. Roman sapeva che lo stava fissando, ma non gli diede la soddisfazione di ricambiare lo sguardo.
«Sei l’incarnazione di ciò che vorrei sparisse da questo mondo, Leroy. Non prenderla sul personale» replicò sarcastico. 
«Ma abbiamo così tanto in comune!» protestò l’altro come un ragazzino in punizione.
Roman si voltò a guardarlo e incrociò i suoi occhi di ghiaccio.
«Non potremmo essere più diversi» gli disse con una smorfia di disgusto.
«Entrambi teniamo alla cara duchessa» ribatté Gabriel, come per provare il suo punto.
Roman scoppiò a ridere, scuotendo il capo. Non aveva né la voglia né le forze di replicare.
«Io e lei non siamo così diversi» aggiunse Gabriel.
Roman gli rivolse uno sguardo bieco e si accorse che gli occhi dell’altro non lo stavano più guardando, ma si erano spostati su qualcosa alle sue spalle. Si voltò e notò che le vetrate del patio che affacciava sul giardino erano aperte, lasciando intravedere all’interno la figura di Emily che passeggiava con Noah tra le braccia.
Roman tornò a guardare Gabriel e notò che aveva stampato sulle labbra un sorrisetto che non prometteva niente di buono.
Non fece in tempo a parlare, perché un cameriere li raggiunse e gli disse che qualcuno lo stava aspettando. Roman nascose la sorpresa davanti a Gabriel, ma si sottrasse volentieri alla sua presenza seguendo il cameriere verso il palazzo.
Come tutti gli ospiti inattesi e sconosciuti, anche questo era stato fatto accomodare nel salotto rosso, una piccola stanza vicino all’ingresso dove erano sistemate alcune poltrone intorno ad un tavolo da caffè. 
«Ha detto di chiamarsi Isabel Lopez e di voler parlare con Roman Deleon» gli riferì il cameriere. Lui fece un cenno di assenso e lo ringraziò prima di entrare nella stanza.
Isabel Lopez era una donna di media statura dalla pelle di bronzo e i capelli color pece raccolti in una coda di cavallo. Indossava ancora il cappotto e se ne stava vicina alla spessa tenda color carminio che oscurava l’unica finestra della stanza.
Sul tavolino erano già stati sistemati due bicchieri e alcune bottiglie di vetro che lasciavano intravedere il contenuto di colori diversi.
«Posso offrirle qualcosa da bere?» domandò Roman avvicinandosi al tavolo. Aveva bisogno di prendere tempo per cercare di ricordare se avesse già visto la donna e intanto le lanciò un’occhiata fugace. Lei teneva le mani nelle tasche del cappotto, ma tutto della sua posizione lasciava intuire una certa tensione, come se fosse pronta a scattare da un momento all’altro.
«No, grazie» rispose. Aveva una voce bassa e calda.
Roman versò un bicchiere per sé e le chiese: «Vuole accomodarsi?»
Lei sbatté le palpebre, poi fece un cenno di assenso e cominciò a sbottonarsi la giacca.
«Certo»
Quando si tolse il cappotto, rivelò che al di sotto portava una camicia chiara e dei pantaloni blu che le davano un’aria formale. Sistemò la giacca sulla sedia e prese posto di fronte a Roman.
«Devo indovinare il motivo della sua visita o mi grazierà con una risposta?» le chiese lui, scrutandola.
Era abbastanza certo di non aver mai visto la donna prima. Il suo portamento, i suoi occhi luminosi, i tratti decisi del suo volto, erano qualcosa che non avrebbe dimenticato facilmente. Ancora non era riuscito a leggerla. Era così riservata da apparire impenetrabile.
«Certo» ripeté lei e frugò nella tasca interna del capotto. Quando ne estrasse un distintivo, Roman si sentì impallidire. «Detective Lopez, sono qui per farle alcune domande.»
«La mia gentile padrona di casa non apprezza molto le visite a sorpresa della polizia. Forse dovrebbe parlare prima con lei, per non correre il rischio di offenderla» replicò lui e si portò il bicchiere alle labbra per prendere un sorso.
«Da quello che mi risulta la casa è intestata a lei, Roman Deleon.»
Deglutì il drink a fatica. Qualcuno ha fatto i compiti, pensò.
«Quindi credo che non ci sia motivo di scomodare la duchessa». Pronunciò quel titolo con un velato disprezzo e sarcasmo.
Roman la fissò impassibile. «Ancora non mi ha detto perché è davvero qui».
Lei prese dalla sua borsa una cartelletta. L’aprì, ne estrasse una fotografia e la mostrò all’altro. Era il ritratto di un uomo di mezz’età, con i capelli ingrigiti e le rughe che incorniciavano i suoi occhi.
«Ha mai visto quest’uomo?»
Roman lo fissò per qualche istante, con la fronte corrugata, poi scosse il capo.
«Dovrei?» chiese, riportando lo sguardo sulla detective.
L’espressione di lei gli fece capire che non gli credeva.
«Si chiamava Andrew Bellingham ed è stato assassinato otto anni fa in casa propria» gli disse, tenendo la fotografia di fronte a sé.
Roman rise: «Quindi lei è venuta qui per parlare di un omicidio avvenuto otto anni fa? Avete chiuso tutti i casi più recenti e non vi resta altro da fare?»
La donna gli mostrò un sorriso palesemente falso, poi ripose la fotografia nella cartelletta.
«Sono emerse nuove prove e gli eredi hanno chiesto di riaprire il caso.»
Rimasero a fissarsi per un istante in silenzio.
«Lei sembra giovane, detective Lopez, e immagino che sia all’inizio della sua carriera. Le voglio dare un consiglio: impuntarsi su un caso impossibile non la aiuterà a fare strada.»
«Non ho bisogno di nessun consiglio» replicò lei secca.
Roman scrollò le spalle e si alzò in piedi. «Dunque, non abbiamo altro da dirci»
La donna capì che la stava congedando e che non avrebbe detto una parola di più.
Si rimise il capotto e si diresse verso la porta.
«Jacob l’accompagnerà all’uscita» le disse Roman indicando il cameriere che aveva atteso all’esterno del salotto. 
«Non si disturbi, mi ricordo la strada» replicò lei.
Roman fece cenno a Jacob di seguirla ugualmente e attese fino a che non vide entrambi sparire alla fine del corridoio.
Una volta rimasto solo poté rilassare i pugni e si accorse che le sue mani tremavano. Con il respiro affannato, si affrettò verso il bagno più vicino e aprì il lavandino. Riempì le mani di acqua gelida e se la gettò sul volto, poi alzò gli occhi e guardò il proprio riflesso nello specchio. Era pallido e quegli occhi sgranati gli davano un’aria terrorizzata.
Prese un respiro profondo, mentre cercava l’asciugamano, e cercò di calmarsi. Dopo cinque anni con Emily aveva capito che poteva concedersi un minuto di panico e poi doveva tornare un freddo calcolatore per progettare la mossa successiva. Alla duchessa riusciva alla perfezione, era una maestra nel soffocare i sentimenti e lasciare posto ai piani, ma lui non riusciva ad essere insensibile come lei.
Si sentì afferrare dal panico e si coprì il volto con le mani.
 
 
***
 
 
Il pub puzzava di birra e, anche se fuori c’era ancora chiaro, più di un cliente sembrava ormai completamente schiavo dei fumi dell’alcool.
Gabriel prese posto sullo sgabello e ordinò da bere. Si lanciò un’occhiata alle spalle, ma vide solo gente ubriaca senza alcun interesse nei suoi confronti. Doveva immaginarselo che l’avrebbe fatto aspettare. Voleva sottolineare la sua superiorità, voleva ribadire che lui, Gabriel Leroy, sarebbe strisciato fino a quel pub ogniqualvolta avesse avuto bisogno di soldi, ma che non aveva alcun potere.
Lo lasciò attendere meno di quanto Gabriel si aspettasse. Sentì la porta aprirsi e lo vide entrare.
Era nuovamente vestito di nero dal capo ai piedi, con il volto nascosto dalla folta barba e gli occhi in ombra sotto il cappello nero di feltro. Teneva una mano in tasca e una stretta su una valigetta di pelle.
Gabriel scese mollemente dallo sgabello e gli tese la mano. L’uomo gli rivolse uno sguardo scettico, ma non la strinse.
«Sarà meglio che tu abbia qualcosa» gli disse rudemente e ordinò da bere. Prese posto al suo fianco e si mise la valigetta sulle gambe, ma continuò a tenere saldamente l’impugnatura.
«La scarsa considerazione che la gente ha di me sta cominciando a diventare offensiva»
L’uomo gli rivolse uno sguardo di pietra e Gabriel capì che era tempo di cominciare a parlare. Fece un sorrisetto.
«Se volete distruggere la duchessa, il suo punto debole è il bambino, Noah.»
 
 


 

 
   
 
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