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Autore: Cassandra caligaria    09/09/2020    3 recensioni
Tutti umani, trentenni. Le vicende narrate saranno ambientate per la maggior parte nella Boston dei giorni nostri.
La narrazione sarà tutta dal punto di vista di Edward, con qualche extra dal punto di vista di Bella.
Dal primo capitolo:
Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Jasper Hale, Rosalie Hale | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Leah/Sam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Avevi ragione: il delirio per il Black Friday non era niente rispetto a questo» mormorai esausto e Jasper annuì. Avevamo la stessa espressione distrutta, per fortuna era il 21 dicembre, l’ultimo giorno prima delle tanto sospirate vacanze natalizie. Ero riuscito a sopravvivere, totalmente sommerso dal lavoro, alla mia prima settimana lontano da Bella. La sentivo tutte le mattine prima di andare al lavoro e la sera facevamo una videochiamata su Skype, spesso mentre cenavamo.
Faceva male da morire stare lontani e non ci dicevamo tanto spesso quanto sentissimo la mancanza l’uno dell’altro; era dura stare separati e lo sapevamo entrambi, non avevamo bisogno di ripetercelo in continuazione. Quando ci sentivamo, cercavamo sempre di stare allegri e di parlare di altro; lo facevamo entrambi con la stessa intenzione: non peggiorare lo stato d’animo dell’altro.
Mi ero maledetto mille volte in quella settimana per aver acquistato dei biglietti non rimborsabili per Chicago – dannate promozioni a tradimento del black Friday – e i prezzi dei pochi posti rimasti da Boston a New York erano schizzati alle stelle. Certo, avrei potuto prendere l’autobus e raggiungerla, in fondo erano solo quattro ore. Il problema era che lei non voleva assolutamente che cambiassi i miei piani e che non andassi a Natale dai miei a Chicago per raggiungerla prima a New York.
Avevamo quasi litigato una sera per questo motivo e faceva già troppo male stare lontani, non c’era bisogno di aggiungere altro dolore. Inoltre, doversi chiarire a distanza, senza poter aver un contatto fisico, era davvero frustrante.
Avevo cercato altre soluzioni e l’avevo invitata per Natale dai miei, ma i voli da New York a Chicago per la Vigilia di Natale – perché fino al 23 doveva lavorare – erano già tutti pieni e anche i posti per il ritorno, il 26, quando sarei partito io, erano quasi tutti esauriti.
Eravamo destinati a trascorrere il Natale separati e mi faceva sentire il cuore a pezzi sapere che sarebbe stata da sola a New York il giorno di Natale.
Sapevo che non le importava granché delle feste, neanche a me importava molto a dirla tutta, ma quell’anno, con la sua presenza nella mia vita, Natale sembrava un giorno speciale e non mi piaceva l’idea di trascorrerlo separato da lei; ancora meno mi piaceva sapere che l’avrebbe trascorso da sola in una grande città.
Guardai l’ora e un sorriso spuntò sul mio viso alla vista dell’orologio che mi aveva regalato. Non lo toglievo mai, solo quando facevo la doccia. Lo indossavo anche quando dormivo.
Mancavano dieci minuti alle sei, non vedevo l’ora di staccare e andare a casa. Volevo vederla, anche se solo attraverso lo schermo del computer.


«Com’è andata oggi? Sembri esausto» mi disse dolce.
«È andata» le sorrisi.
«La tua valigia è pronta?»
«Quasi… devo solo sistemare il completo e la camicia per l’inaugurazione. Ah, e le scarpe!» me ne ricordai proprio in quel momento.
«Mi basta solo un completo, sì?» le domandai e annuì sorridendo.
«Per voi assistenti il dress code è richiesto solo per l’evento inaugurale. Per noi quasi tutti i giorni» sollevò gli occhi al cielo e la sua espressione mi fece tenerezza.
Non aveva imposto un dress code a Boston e capivo sempre di più le sue ragioni. Era uno dei tanti motivi per cui era così apprezzata tra i membri dello staff.
«Mi dispiace, tesoro» le dissi e fece spallucce con un mezzo sorriso sulle labbra.
Dio, quanto mi mancava baciarla.
La salutai dopo solo mezz’ora, perché avevo l’aereo per Chicago alle 22 e dovevo sistemare le ultime cose.
«Chiamami quando arrivi a casa» mi disse.
«Certo» la rassicurai sorridendole.
Fortunatamente i miei genitori abitavano in un bel quartiere poco distante dall’aeroporto: il mio aereo sarebbe atterrato a mezzanotte e sarei arrivato a casa poco dopo la mezzanotte, visto che a quell’ora il traffico era inesistente.


La cena della Vigilia di Natale era stata piacevole e dopo cena eravamo andati in chiesa per assistere al concerto degli alunni di mia madre, come ogni anno.
Avevo sentito molto più di quanto potessi immaginare la mancanza di Bella. Avrei voluto averla accanto a me quella sera e non solo quella sera. La volevo accanto a me per sempre.
La distanza aveva amplificato notevolmente i miei sentimenti per lei, anziché attenuarli. Era tutto così nuovo per me che ero sempre stato piuttosto disinteressato e distaccato per queste cose sentimentali. Pensavo di non essere tagliato per un rapporto serio e maturo e invece stare con lei e pensare al nostro futuro insieme era esattamente tutto quello che volevo.
Una volta tornati a casa, ci eravamo ritirati nelle nostre rispettive camere per la notte, ma io non riuscivo proprio ad addormentarmi.
Mi rigirai nel letto mille volte, finché, ormai prossimo all’esaurimento, non decisi di alzarmi per andare a farmi un tè: di solito mi rilassava.
Dalla finestra della cucina vidi che Rosalie stava fumando sotto il porticato, seduta sul dondolo, così la raggiunsi. Una sigaretta era meglio di un tè per rilassarmi.
«Ti serve l’amica, la psicologa o la collega?» mi domandò sorridendomi.
Chissà che faccia avevo.
«Quale delle tre mi offre una sigaretta?» le chiesi.
«L’amica» mi fece l’occhiolino e mi porse il pacchetto aperto. La ringraziai e accesi la sigaretta.
Avevo smesso di fumare da dieci anni – non che fossi mai stato un gran fumatore, avevo iniziato all’università perché il mio compagno di stanza fumava e una sera, prima di un esame, ero nervoso e mi offrì una sigaretta. Da allora avevo iniziato a fumare quando ero stressato o mi trovavo in compagnia, ma avevo smesso dopo pochi anni, perché non riuscivo più a correre come dovevo quando giocavo a baseball, mi mancava il fiato.
Da quando avevo smesso di fumare, avevo preso l’abitudine di masticare bastoncini di liquirizia. Quella sera, però, avevo proprio bisogno di una sigaretta.
I primi tiri dopo tanti anni erano strani, ma piacevoli. Restammo in silenzio per un po’ a goderci la calma che si respira solo in una serata invernale. Quando vidi arrivare mia madre, per poco non mi strozzai con il fumo che avevo in bocca. Nascosi la mano con cui reggevo la sigaretta dietro la mia gamba.
Rosalie offrì anche a lei una sigaretta e iniziò a fumare. Sembrava un gesto abituale, come se fosse un loro rito serale.
Non avevo mai visto mia madre fumare, sapevo che aveva smesso prima di sposarsi. Più o meno quando aveva smesso di farsi anche la permanente. Era sempre un argomento che suscitava ilarità durante i pranzi di famiglia, quando si sfogliavano i vecchi album di fotografie.
«Mamma» la salutai. Ero al buio e seminascosto da Rosalie, non si era neanche accorta della mia presenza, tanto era presa da quella sigaretta clandestina.
«Oh, Edward… Non dire a tuo padre che sto fumando» mi disse furtiva.
«E tu non dirlo a mia madre» le risposi imitando il suo tono e mostrandole la mano sinistra con la sigaretta tra le dita.
Mi sorrise, Rosalie ridacchiò e poi restammo in silenzio tutti e tre per qualche minuto, godendoci le nostre sigarette e guardando il cielo terso sopra di noi.
«Hai ricominciato a fumare, mamma?» le domandai a un certo punto.
«No, non ho ricominciato. Mi sono sempre concessa una sigaretta nei giorni di festa, anche se non ve ne siete mai accorti, perché sono brava a nascondermi con tua zia e conosco ottimi trucchi per camuffare l’odore. Queste sigarette di oggi non sono niente rispetto a quelle che fumavamo negli anni ’70 e ’80, per fortuna anche i profumi dell’epoca erano molto più intensi di quelli che si producono oggi per via dell’utilizzo di sostanze animali, quindi riuscivamo a coprire il forte odore di fumo prima di rincasare» ci spiegò e si perse per un attimo nei suoi ricordi di adolescente.
«E poi è piacevole stare un po’ da sola con Rosalie di sera a chiacchierare, mentre voi uomini dormite» mi lanciò un’occhiataccia scherzosa.
«Scusate, vi lascio subito sole» alzai le mani e spensi la sigaretta nel posacenere. Rosalie mi accarezzò un braccio e mi sorrise.
«E tu hai ricominciato, Edward? Sei di nuovo sotto stress? È per il lavoro?» mi domandò preoccupata.
Scossi il capo.
«No, mamma, erano dieci anni che non fumavo e non credo si ripeterà» la rassicurai.
«È per Bella» disse Rosalie. Non era una domanda. Annuii sospirando.
«Le cose non vanno bene tra di voi?» continuò mia madre allarmata.
«Le cose vanno benissimo tra di noi, è solo che mi manca. Mi manca terribilmente e sono preoccupato per lei. Vorrei che lei fosse qui con noi o che io fossi lì con lei. Sapere che starà da sola a New York il giorno di Natale mi uccide…» mormorai affranto.
Rosalie e mia madre si scambiarono un’occhiata e poi mia madre si alzò, mi venne vicino e mi diede un bacio sulla testa.
«Oh, Edward, non sai quanto sono felice» la guardai di traverso.
«Io sono triste e preoccupato e tu sei felice?» le domandai. Lei ridacchiò.
«Sono felice perché non ti vedevo così sereno da tanto tempo. Sei di nuovo tu e sono sicura che il merito è di questa ragazza» mi spiegò e poi si scambiò un’occhiata d’intesa con Rosalie.
Sentii un sorriso spontaneo aprirsi sul mio viso, come accadeva ogni volta che si parlava di lei e si tessevano le sue lodi.


La mattina di Natale normalmente dormivo fino a tardi. Quella mattina avevo particolarmente sonno, visto che mi ero addormentato molto tardi, ma qualcuno aveva deciso di scombinare i miei piani.
«Emmett» borbottai con la voce impastata dal sonno. Controllai l’ora sull’orologio: erano le sette e trenta. Ma che voleva da me a quell’ora?
«Teddy, ci si è fermata la macchina. Siamo usciti per fare colazione fuori stamattina, ma siamo rimasti a piedi. Non è che puoi venire a prenderci con la macchina di mamma?»
«Ma non puoi chiamare papà? Io vorrei dormire ancora un po’» piagnucolai.
«Dai, su, fatti una doccia, vestiti e vieni tu. Non voglio che papà sappia che la macchina ha qualche problema, lo sai che considera la Giulietta una specie di figlia».
Sospirai, era vero.
«Devo portare i cavi? Che problema pensi che abbia?» gli domandai mentre mi alzavo dal letto con una certa riluttanza.
«Sì, porta i cavi, sarà sicuramente la batteria. Avevo lasciato la radio accesa mentre facevamo colazione» alzai gli occhi al cielo.
«Sei un idiota, lo sai, sì?» gli dissi.
«Beh, dai, sbrigati, non fare sempre la paternale».
Alzai gli occhi al cielo.
«Dove siete?» gli domandai.
«Siamo da Jaffa Bagels sul lungofiume» rispose.
«Arrivo, ma sappi che lo faccio solo per Rosalie» lo sentii ridere e poi chiuse la conversazione.
Feci velocemente la doccia e indossai una tuta e le scarpe da ginnastica. Andai in garage e presi l’auto di mia madre. I miei dormivano ancora, beati loro!


Una volta arrivato lì, non c’era l’ombra di Emmett e Rosalie, né dell’auto di mio padre.
Parcheggiai, scesi dall’auto e iniziai a camminare nel parcheggio semi-deserto.
Ma chi cavolo andava a mangiare i bagels sul lungofiume alle sette della mattina di Natale? Solo a Emmett poteva venire in mente un’idea del genere.
Proprio mentre mi stavo dirigendo verso l’ingresso della galleria in cui si trovava il locale squillò il mio telefono.
«Oh, ma dove sei?» risposi stizzito. Avevo sonno.
«Proprio dietro di te».
Sgranai gli occhi. Non era la voce di Emmett.
Mi voltai e il mio sguardo incredulo la fece ridere mentre rimetteva nella tasca del piumino lo smartphone di mio fratello e allargava le braccia in un invito che non avrei mai potuto rifiutare. Dovetti strofinarmi gli occhi più volte prima di realizzare che era davvero lei, mentre le mie gambe, che si muovevano più velocemente del mio cervello, in tre falcate avevano annullato la distanza che ci separava.
La strinsi forte tra le mie braccia, affondando il viso nel suo collo.
«Amore mio» sussurrai, mentre respiravo forte il suo profumo e le lasciavo piccoli baci sul collo.
«Sei davvero qui? Non sto sognando? Non mi svegliare se sto ancora dormendo» dissi e la feci ridere.
«Sono qui» mi rispose lei sgusciando fuori dal mio abbraccio per guardarmi negli occhi.
«Mi dispiace per averti fatto svegliare presto, ma volevo farti una sorpresa» mi disse sorridendo, mentre mi accarezzava il viso.
Lei si scusava con me per avermi fatto svegliare alle sette e trenta, quando come minimo si era svegliata alle quattro per prendere il primo volo da New York. Scossi il capo e le sorrisi.
Le presi il viso tra le mani e premetti le mie labbra contro le sue: mi sentii finalmente bene, anche se il cuore mi martellava così forte nel petto che temevo potesse venirmi un infarto.
Non riuscivo a staccarmi dalle sue labbra, non volevo allontanarmi da lei per nessun motivo, ma Emmett e Rosalie ci avevano raggiunti e, per puro senso di civiltà, fummo costretti a interrompere il nostro bacio. La tenni stretta contro di me, con le braccia incrociate strette intorno alla sua vita, mentre lei chiacchierava amabilmente con Rosalie ed Emmett. Io ero ancora così frastornato da non riuscire a cogliere tutti i passaggi della loro conversazione.
«Grazie, Emmett» Bella restituì a mio fratello il suo telefono.
«È sempre un piacere» le rispose lui affabile.
«Noi andiamo a casa, devo riportare la macchina a papà. Voi fate con calma, ci vediamo dopo» Emmett mi fece l’occhiolino e Rosalie ci sorrise.
Bella si voltò di nuovo verso di me e mi diede un bacio.
«Non saranno buoni come quelli di New York, ma dici che possiamo dargli una chance? Tuo fratello mi ha assicurato che sono i migliori di Chicago e immagino che neanche tu abbia ancora fatto colazione» sussurrò allontanandosi da me e prendendomi per mano. La tirai di nuovo vicino a me per baciarla ancora e sentii le sue mani tra i miei capelli. Mi era mancata da morire.


Sebbene non ancora sazi di baci, entrammo nel bagel shop per fare colazione e mi raccontò che aveva deciso di raggiugermi per il giorno di Natale la sera in cui l’avevo invitata a casa dei miei e ci eravamo resi conto che era impossibile riuscire a trovare posto sui voli. Le era venuto in mente, quando avevamo chiuso, che sarebbe potuta partire la mattina di Natale: in effetti, quasi nessuno partiva proprio in quel giorno e c’erano ancora parecchi posti disponibili. Ci teneva, però, a farmi una sorpresa e con l’aiuto di Rosalie ed Emmett ci era riuscita.
«Io volevo raggiungervi direttamente a casa in taxi, ma tuo fratello è stato irremovibile ed è venuto a prendermi in aeroporto. Mi ha ricordato tanto qualcuno» mi disse facendomi l’occhiolino.
«Noi Cullen siamo cavalieri» le dissi prendendole la mano e portandola alle labbra con fare cavalleresco.
«Lo siete davvero» mi sorrise e si sporse in avanti per darmi un tenero bacio.
«In realtà, non volevo neanche presentarmi a casa tua e disturbare i tuoi genitori. La mia idea iniziale era quella di chiamarti una volta qui, pranzare insieme da qualche parte e poi ripartire subito dopo; ma tuo fratello mi ha detto che se vostra madre avesse scoperto una cosa del genere, vi avrebbe uccisi» ridacchiò.
«È vero. Conoscendo mia madre, se le avessimo fatto una cosa del genere, se la sarebbe presa a morte» ridacchiai anche io.
«Allora ti fermi fino a domani? Partiamo insieme?» le chiesi speranzoso.
«No, tesoro, riparto stasera. Non c’erano posti liberi per domani nel tuo stesso volo, come avevamo già visto, ce n’era ancora qualcuno sul volo precedente, ma non mi sembrava il caso di dormire a casa dei tuoi genitori subito dopo averli incontrati. Avrei potuto prendere una stanza in un hotel, ma anche in quel caso, credo che avrei urtato la sensibilità di più di un Cullen, così ho deciso di fare andata e ritorno nello stesso giorno» mi spiegò.
La mia dolce e sempre troppo scrupolosa e corretta Bella.
«Allora cambio il mio biglietto e parto con te stasera» le dissi deciso.
«No, Edward» mi mise due dita sulle labbra per fermare le proteste che sapeva sarebbero arrivate.
«Abbiamo resistito lontani per dieci giorni, possiamo farcela per un’altra mezza giornata. Godiamoci questo giorno insieme, trascorri un’altra mezza giornata di festa con la tua famiglia – Emmett mi ha raccontato della vostra abituale escursione della mattina di Santo Stefano – e poi avremo ben quindici giorni per noi da soli a New York» mi sorrise.
«Non mi piace vederti partire» mormorai.
«Lo so, amore, non piace neanche a me» mi accarezzò una guancia e le sorrisi.
Dopo colazione, passeggiammo per il lungofiume e le mostrai alcune delle vedute più spettacolari di Chicago, anche se lo spettacolo più bello era lei che camminava al mio fianco, con la sua mano intrecciata saldamente alla mia.


Quando arrivammo a casa era già quasi ora di pranzo: i miei genitori accolsero Bella con un affetto e un calore che quasi mi commosse.
Non avevo mai portato nessuna delle ragazze che avevo frequentato a casa mia neanche per un caffè, figuriamoci per il pranzo del giorno di Natale. C’era un tacito accordo che i miei genitori avevano fatto con me e con Emmett: eravamo stati sempre liberi di frequentare chiunque volessimo, non si erano mai intromessi nella nostra vita privata o nelle nostre scelte. Però, nel momento in cui avremmo portato in casa una ragazza, sarebbe stata una ragazza con cui avevamo intenzioni serie, non un’avventura passeggera.
Com’era prevedibile, i miei genitori rimasero affascinati da Bella e anche lei era molto presa da entrambi.
Mia madre probabilmente l’avrebbe adorata anche se non fosse stata così adorabile, perché era felice che avessi finalmente una persona così speciale nella mia vita, una persona per cui mi preoccupavo e che mi rendeva felice, una persona che mi aveva restituito una parte di me che credevo di aver perso.
Aveva portato una scatola di costosissimi cioccolatini svizzeri che aveva comprato da Teuscher al Rockefeller Center – perché non era cortese presentarsi a mani vuote a casa delle persone –, e si era scusata se non aveva potuto portare dei regali per Natale, ma non aveva potuto imbarcare nulla oltre al bagaglio a mano.
I miei l’avevano ringraziata, dicendole che si era disturbata fin troppo e che il regalo più bello che potesse fare loro era la sua presenza. Io l’avevo baciata davanti a loro, facendola arrossire. La adoravo.
Mia madre gongolava ogni volta che ci guardava.
Era il Natale più bello della mia vita.


Durante il pranzo, mia madre stava raccontando della sua mattinata trascorsa a casa di sua sorella Elisabeth.
«C’erano anche Claire e suo marito. Lo sapete che Claire è incinta?» aveva detto con un tono fin troppo allegro. Sperai che non avesse intenzione di lanciare qualche frecciatina. Intercettai lo sguardo di mio fratello che era seduto di fronte a me e vidi nei suoi occhi i miei stessi timori.
«Di già? Ma se si è sposata l’altro ieri» disse Emmett quasi inorridito.
«Si è sposata a ottobre e poi cosa dovevano aspettare?» replicò mia madre.
«Bah, si potevano godere un po’ di più i primi mesi da neosposi» continuò Emmett.
Mia madre lo liquidò con un gesto della mano.
«Neanche io e tuo padre abbiamo aspettato per avere dei figli» disse.
«E infatti siete stati puniti con Emmett per non aver aspettato» esclamai scatenando l’ilarità generale e beccandomi una linguaccia da mio fratello.
«Posso farle una domanda, Esme?» intervenne Bella, quando le risate si erano esaurite.
«Solo se mi dai del tu» rispose mia madre. Bella le sorrise.
«Sono solo curiosa di sapere come mai hai scelto per i tuoi figli dei nomi un po’ insoliti, anche se molto belli. Non ho mai conosciuto dei miei coetanei che si chiamassero Emmett o Edward. Spero non sia una domanda indiscreta» le disse gentile e mia madre le sorrise, scuotendo il capo.
Le presi la mano sotto al tavolo e lei me la strinse. Questa storia ero curioso di sentirla anch’io, non avevo mai pensato di chiedere a mia madre come mai mi chiamassi Edward e dubitavo che una curiosità del genere avesse mai sfiorato la mente di mio fratello. Bella era sempre sorprendente.
«Quando ci siamo sposati, abbiamo deciso che i nomi dei nostri figli avrebbero avuto tutti la stessa iniziale. Quando rimasi incinta, estraemmo a sorte e uscì la lettera E, la stessa iniziale del mio nome. Io volevo estrarne un’altra, perché non mi sembrava giusto nei confronti di mio marito, ma a Carlisle non importava» dedicò un caloroso sorriso a mio padre che era seduto a capotavola di fronte a lei.
«I nomi femminili con la E sono tutti stupendi, quelli maschili un po’ meno. Non avrei mai potuto chiamare uno dei miei figli Eric o Ethan e a Carlisle non piacevano i nomi biblici, come Elijah o Ezekiel. Avevamo pensato al nome Emma, se fosse stata una bambina, ma scoprimmo presto di aspettare un maschietto e così optammo per la variante maschile di Emma» le spiegò.
«E per Edward?» continuò Bella curiosa girandosi verso di me. Le accarezzai il dorso della mano con il pollice e le sorrisi.
«Stavo rileggendo Ragione e sentimento quando, circa un anno e mezzo dopo la nascita di Emmett, mi resi conto di essere di nuovo incinta. Edward deve il suo nome a uno dei protagonisti del romanzo» mia madre mi sorrise e Bella mi strinse la mano.
«Anche Emma era per Jane Austen?» le domandò Bella, quasi sicura di conoscere già la risposta.
Mia madre annuì sorridendo. Non aveva mai condiviso questa storia con noi.
Aveva una strana luce negli occhi mentre guardava Bella. Era rimasta davvero molto colpita da lei, ma non ero stupito per niente: Bella era brillante e chiunque la conosceva restava affascinato dalla sua personalità e dalla sua grazia.
«Non ce lo avevi mai detto» intervenne Emmett con tono quasi accusatorio.
«Voi non me lo avete mai chiesto» rispose mia madre, facendo l’occhiolino a Bella. Mi avvicinai di più a lei, le misi un braccio intorno alle spalle e le baciai una tempia. Si voltò verso di me e mi regalò un timido ma caloroso sorriso.
«Quindi, ho dovuto sopportare per trentatré anni di essere chiamato Teddy e nessuno ha mai pensato di dirmi che potevo prendere in giro Emmett perché il suo nome doveva essere Emma?» ghignai.
Bella ridacchiò, seguita da Rosalie. Emmett mi guardò malissimo.
«Se non fosse stato per te, non avrei mai avuto questa arma in mio potere. Ti sono debitore a vita» le dissi, facendole un mezzo inchino da seduto.
«Oh, andiamo, in fondo Teddy è un diminutivo di Edward ed è anche molto carino» intervenne mio padre.
«Ah sì, rispetto a Emma, Teddy è quasi un nome serio» sghignazzai mentre Emmett mi guardava di traverso.


Dopo pranzo ci spostammo in salotto per bere il caffè e per mangiare i deliziosi cioccolatini che aveva portato Bella. I tartufi erano paradisiaci.
Mia madre sparì a un certo punto per poi ritornare con una piccola confezione rettangolare da cui tirò fuori uno smartwatch.
«Mi aiutate per favore a metterlo in funzione? Vorrei iniziare a usarlo domani, durante la nostra escursione» ci spiegò.
Mia madre era la tipica persona che puntualmente il due gennaio si metteva a dieta e iniziava a fare attività fisica, salvo poi ripensarci dopo una settimana. Quest’anno aveva addirittura comprato l’armatura pesante.
Io e Emmett ci guardammo e scoppiammo a ridere. Rosalie tirò una gomitata nelle costole di Emmett per farlo smettere, Bella si limitò a guardarmi male.
Ci alzammo dai divani e scaricammo l’applicazione sul suo smartphone.
«Mamma, lo sai che con questo puoi anche misurarti la pressione e il battito cardiaco?»
Mio padre che stava chiacchierando con Bella e Rosalie si girò verso di noi e disse: «È impossibile che la misurazione sia precisa».
«E invece ti dico di sì» replicò Emmett.
«Facciamo una prova» tentai di mediare. Li convinsi. Mio padre andò nel suo studio a prendere lo sfigmomanometro, mentre Emmett mise subito in funzione lo smartwatch, allacciandolo al polso di mia madre che li guardava allibita. Non pensava di certo che avrebbe scatenato tutto quel casino con un semplice orologio.
«Dovremmo misurarla dallo stesso braccio per essere precisi» disse mio padre.
E così infilò il manicotto al braccio sinistro di mia madre che lo fulminò con lo sguardo, ma non proferì parola, perché c’erano le ragazze e non voleva fare una brutta figura; Emmett fece partire lo smartwatch nello stesso istante in cui mio padre iniziò a premere la pompetta. Io, intanto, ero stato incaricato di prenderle il polso dall’altro lato perché tutti e tre dallo stesso lato non ci entravamo per motivi di spazio fisico. Bella e Rosalie si godevano la scena dal divano, divertite.
«85/138 e 113 il battito» disse Emmett.
«80/140» dovette arrendersi mio padre.
«110 la frequenza. Sei un po’ agitata, mamma?» le domandai e mi guardò di traverso.
«Avete finito di giocare all’allegro chirurgo con me?» disse con una certa minacciosità nella voce spostando lo sguardo su tutti e tre.
Ci allontanammo immediatamente da lei. Le ragazze erano decisamente divertite e la raggiunsero in cucina, neanche le avesse chiamate. Quando se ne andarono, scoppiamo tutti e tre a ridere.


«Mi dispiace perdermi il concerto stasera» disse Bella a mia madre, mentre la salutava. Mia madre insegnava canto in due scuole e, da che avevo memoria, sia la sera del 24 che la sera del 25 c’era un concerto in qualche chiesa a cui dovevamo assistere.
«Dispiace anche a me, tesoro. Sono davvero tanto, tanto felice di averti finalmente potuto conoscere» le sorrise e la strinse in un affettuoso abbraccio che Bella ricambiò.
«Fa’ buon viaggio e abbi cura di te. Spero di rivederti presto» le baciò entrambe le guance e poi la lasciò libera di salutare mio padre.
«Grazie per essere venuta, Bella, questa giornata non sarebbe stata la stessa senza di te» mio padre le prese entrambe le mani e gliene baciò galantemente una.
La vidi arrossire e ridacchiai. Mi guardò di traverso sorridendo. Le baciai la testa e la abbracciai da dietro, mentre guardavamo i miei familiari uscire dalla porta.
Eravamo finalmente soli.


Le mostrai la casa, perché prima non c’era stato tempo di farlo.
«Questa è la mia stanza» le feci strada nella mia camera che era cambiata ben poco nel corso degli anni.
«Sei la prima e l’unica ragazza che abbia mai messo piede qui dentro» le bisbigliai nell’orecchio mentre guardava le foto che mi ritraevano da bambino appese su una bacheca.
«Ne sono onorata» mi rispose, voltandosi verso di me.
«Anche per me oggi è stata la prima volta che ho conosciuto i genitori di qualcuno che frequento, devo confessarti che ero un po’ agitata…» ammise arrossendo. Era così bella.
«I miei ti adoravano da prima ancora di conoscerti», le dissi, baciandole la fronte, «chiunque ti conosce, finisce per adorarti. Tu conquisti tutti, mia dolcissima e brillante fanciulla» scesi con la mia bocca sulle sue labbra e la trascinai sul letto insieme a me.
Non mi sembrava ancora vero che fosse tra le mie braccia, sul mio letto, nella mia stanza.
Continuai a depositarle piccoli baci su tutto il viso, finché non mi sdraiai di fronte a lei e restammo fermi a guardarci negli occhi, senza parlare per qualche minuto. Era un gesto molto intimo. Non avevamo bisogno di parole in quel momento, volevamo restare lì a guardarci, a sfiorarci, ad annusarci e a respirarci a vicenda perché in dieci giorni avevamo abbondantemente parlato, ma non eravamo potuti stare vicini fisicamente.
«Sai, c’è un'espressione brasiliana quasi intraducibile per questo gesto» mi disse, mentre faceva scorrere dolcemente le sue dita tra i miei capelli, «Cafuné. Credo sia la parola più bella del mondo, anche se suona un po’ male e in italiano mi ricorda una parola non tanto bella» fece una smorfia che le arricciò il naso e mi sorrise. Le baciai delicatamente la punta del naso e appoggiai la fronte alla sua.
Mi mise una mano sul collo e dalla manica sbucò fuori il mio Swatch giallo. Sorrisi e presi ad accarezzarle il polso.
«Non lo tolgo quasi mai» confessò.
«Neanche io» le dissi, mostrandole con orgoglio l’orologio che mi aveva regalato.
«I primi giorni non volevo indossarlo perché il retro della cassa aveva ancora il tuo profumo. Adesso, credo si sia mescolato un po’ al mio, perché lo sento molto più tenue. O forse l’ho annusato così tanto che ne sono assuefatta» ridacchiò, nascondendo la testa nell’incavo del mio collo.
Le baciai la testa e la strinsi ancora più forte a me. Sentivo ogni parte del suo corpo contro il mio.
«Posso sentire?» le domandai, la mia voce era più roca di quanto credessi.
Si sfilò in silenzio l’orologio dal polso e mi mise la cassa sotto al naso.
«Mi piace come si mescolano le nostre fragranze, sa di me e di te» mormorai annusando i nostri profumi che erano stati assorbiti dalla cassa dell’orologio e che avevano creato una fragranza che sapeva di entrambi.
«Piace anche a me» mi disse, sfiorandomi le labbra con le sue.


L’orario della sua partenza purtroppo arrivò fin troppo presto. La accompagnai in aeroporto e la baciai a lungo, l’aeroporto era semideserto, ma non me ne sarebbe importato comunque niente.
«Conterò i minuti che ci separano» mormorai appoggiando la mia fronte alla sua.
Mi diede un ultimo bacio e poi sparì di nuovo dietro quei maledetti tornelli.


Il mattino seguente io e la mia famiglia ci svegliammo di buon mattino per andare a fare l’escursione che facevamo ogni anno in un parco della città.
«Dai, su, aumentiamo il passo!» Emmett ovviamente faceva il coach anche quando era in vacanza.
Io e mio padre riuscivamo a stargli dietro, mia madre e Rosalie annaspavano a qualche metro di distanza.
«Io lo ammazzo» sentii mormorare mia madre a un certo punto, mentre Rosalie ridacchiava.
«Dai, dai! Quest’anno ti sei addirittura armata di smartwatch» la prese in giro mentre correva all’indietro rivolto verso nostra madre.
«Guarda dove metti i piedi, Emmett» lo rimproverò mio padre che rallentò un po’ l’andatura per camminare con mia madre e Rosalie. Io e Emmett, invece, iniziammo a correre.
«Sono fuori allenamento» mormorai senza fiato. Mi facevano male tutti i muscoli delle gambe.
«Dai, Teddy, ti devo rimettere in forma per Capodanno» mi fece l’occhiolino. Alzai gli occhi al cielo.
Immaginavo, anzi, speravo che lì da soli per quindici giorni avremmo approfondito il nostro rapporto. Per Capodanno avevo organizzato una cena romantica in un attico di Manhattan di proprietà di un mio vecchio amico newyorkese. Ci eravamo conosciuti in redazione e sapevo che possedeva un attico con una vista spettacolare sulla città. Non lo affittava mai per Capodanno, perché temeva che la gente su di giri in quella particolare sera dell’anno potesse rovinargli l’appartamento, però lo aveva fatto come favore personale a me, dal momento che saremmo stati solo io e Bella quella sera, niente dj o festini a base di alcol. Volevo mettere New York ai suoi piedi. Avrei messo tutto il mondo ai suoi piedi, se fosse stato in mio potere.
Ci fermammo per fare un po’ di stretching.
«Mi fanno male pure i muscoli che non credevo di avere» dissi, mentre allungavo le gambe su una panchina.
Emmett ridacchiò e mi aiutò a svolgere correttamente gli esercizi.
«Non ti ho ancora ringraziato per essere andato a prendere Bella ieri in aeroporto» gli misi una mano sulla spalla.
«Sono contento che sia venuta. Lo siamo tutti» mi disse sorridendo.


Emmett mi accompagnò in aeroporto, volevo prendere un taxi, ma ci teneva ad accompagnarmi lui. Rosalie era rimasta a casa perché aveva da fare con mia madre.
«Grazie, Emmett, ci vediamo l’anno prossimo» lo abbracciai.
«Tieni» mi porse una scatolina e sgranai gli occhi. Mi ero dimenticato di metterli in valigia.
«Fatene buon uso» mi fece l’occhiolino e io feci una risatina. Era proprio tipico di mio fratello regalarmi dei preservativi in aeroporto.
«Grazie, Emma, sei la sorella che tutti vorrebbero avere» lo presi in giro e mi scansai giusto in tempo per evitare un suo pugno.
«Grazie, Emmett» dissi poi serio «sei davvero il miglior fratello del mondo» lo abbracciai.
«Neanche io posso lamentarmi di te, poteva andarmi peggio» mi diede una pacca sulla spalla.


Le inviai un messaggio per avvisarla che ero salito a bordo e spensi il telefono. Cercai di rilassarmi in quelle due ore guardando un film sul tablet, ma mi distraevo di continuo pensando al fatto che di lì a poco l’avrei riabbracciata.
Recuperai il mio bagaglio e mi avviai verso l’uscita dell’aeroporto. Mi aveva avvisato che mi stava aspettando nella waiting area. Quando la individuai in mezzo alla folla del La Guardia sentii una strana calma pervadermi. Mi stava aspettando con un enorme sorriso sulla faccia e andava tutto bene.
La abbracciai forte, poi le presi il viso tra le mani e la baciai.
Sentii a un certo punto il manico del trolley sul mio sedere. Interruppi con riluttanza il bacio e la guardai interrogativo.
«Rischiavamo che ce lo portassero via, il bacio stava durando un po’ troppo secondo gli standard della tua guida» si giustificò ridacchiando e contagiando anche me.
«Andiamo?» mi domandò. Annuii e si allungò sulle punte per darmi un bacio leggero.
Le presi la mano e afferrai il mio trolley con l’altra. Il nostro uber ci stava aspettando e conosceva già l’indirizzo dell’albergo, perché era già passato a prendere Bella prima.
Ero così preso dalla contemplazione del suo viso che non mi resi subito conto che non eravamo più nel Queens. Sapevo che lei alloggiava lì, in un albergo non troppo distante dalla nuova sede della Volturi. Forse non aveva trovato posto nello stesso albergo per me? O forse non voleva creare fraintendimenti e quindi aveva deciso di dirottarmi a Brooklyn? All’improvviso, il panico si impossessò di me.


L’auto si fermò di fronte a un albergo a quattro stelle. Superammo la reception senza fermarci per il check in. Forse aveva già fatto tutto lei, visto che aveva i dati dei miei documenti. Continuammo a camminare in silenzio mano nella mano e anche il viaggio in ascensore fu stranamente silenzioso. Lei era tranquilla, mi guardava con una strana luce negli occhi, era quasi divertita. Io ero agitato, invece.
L’ascensore si fermò all’ultimo piano, c’era solo una porta su quel piano. Mi aveva preso un monolocale?
Tirò fuori dalla borsa la chiave magnetica e aprì la porta. La infilò nel vano per azionare le luci e chiuse la porta alle nostre spalle. Non era un semplice monolocale: era una suite, una bellissima e lussuosa suite con tanto soggiorno e terrazza con vista della città. Ero incredulo e ancora perplesso.
«Te l’avevo detto che ti serviva una camera doppia» sussurrò nel mio orecchio, baciandomi sul neo che avevo sul collo e che lei trovava sexy – come mi aveva confessato nel magazzino – e provocandomi un brivido lungo tutto il corpo.



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Cafuné è un'espressione portoghese che significa "passare dolcemente le dita tra i capelli della persona amata".
Visto che alla fine sono riuscita ad accorciare un pochino la distanza? Non potevo farli stare separati il giorno di Natale.
Vi ricordate che alla fine del sesto capitolo di questa storia vi avevo detto che c'era una frase che sarebbe ricomparsa più avanti?
È l'ultima frase che pronuncia Bella in questo capitolo. Chi se ne ricordava?
Questa è la parte della guida animata di New York a cui fa riferimento Bella:



 

NYC Basic Tips and Etiquette di Nathan W. Pyle
Qui ne trovate altre, se siete curiosi.



Spero che il capitolo vi sia piaciuto, attendo come sempre le vostre impressioni.
A presto, un bacione!

  
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