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Autore: beavlar    09/09/2020    4 recensioni
Fili e Kili sono morti, hanno sacrificato tutto per il loro re, per la loro gente, ora anche Thorin dovrà rinunciare a tutto, ai suoi pregiudizi, alle sue idee, alle sue alleanze, per il suo "tesoro" e il suo popolo.
Dall'altra parte una mezz'elfa divisa tra due razze, dovrà invece fare i conti con il suo oscuro passato, accettando se stessa e accettando accanto a se il re di Erebor.
Due animi carichi di dolore e rimorsi, in cerca del loro posto al di sotto della Montagna e al di sopra delle stelle.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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PreNote dell'autrice:
PERDONATEMI ç.ç!
Non ci sono giustificazioni per l'immenso ritardo di questo capitolo, ma sappiate che mi sto odiando dal più profondo del cuore:
ma almeno è arrivato e con arrivato volgio anche sottolineare che è il capitolo piu’ lungo che io abbia mai scritto.
31.000 caratteri porca paletta! Quindi dai vale come due capitoli.
Non ho nienta aggiungere se non per dirvi…bhe… che l’attesa ne sarà valsa la pena?
Che dovete preparare dei secchi? Ehm…Possibile cambio di rating, ma sono rimasta molto soft, quindi …

Preparate due secchi, uno per le lacrime e uno per... bho decidete voi XD
 

Zabd-ê





 






«Permettete?» La domandò la nana allungando di poco il collo verso l’interno della sua stanza indicandola sorridendole affabile con il lato della bocca.
 
La bocca di Ghìda ancora leggermente aperta si mosse più’ volte prima che riuscisse ad elaborare un pensiero logico che andasse in contrasto con il turbamento che non le permise per alcuni lunghi istanti di esprimere una singola parola.  Chiuse velocemente la bocca ancora leggermente schiusa in un misto di sorpresa, mischiata però anche alla profonda delusione che l’aveva adombrata appena aveva visto la nana alla sua porta. La mano che artigliava con forza la maniglia della porta, tanto sorpresa quanto scossa rispetto a chi ora le chiedeva di poter entrare nella sua stanza; ancora una volta era stata guidata dalle sue stupide speranze, ma al contempo si sentì quasi risollevata che non ci fosse Thorin alla sua porta: l’adrenalina e l’eccitazione l’avrebbero poi probabilmente fatta crollare, o peggio le avrebbero fatto compiere una sciocchezza come quella che aveva compiuto ore addietro, non riuscendo a controllarsi neanche per quei pochi attimi.
 
Si rese conto di essere rimasta in silenzio forse troppo a lungo quando la nana ancora in attesa di una sua risposta inarcò un sopracciglio nero mascherandole a stento un sorriso nervoso che ebbe il potere di riscuoterla in meno di un attimo e dandole la possibilità di lanciarsi da sola una maledizione nella testa riversa verso i suoi pensieri
 
«S-si certo.» Si ritrovò a balbettare talmente nervosa che si ritrovò ad abbassare ancora di piu’ lo sguardo verso il pavimento di marmo.
 
Con un singolo passo si spostò leggermente di lato alla porta spalancandola ancor di piu’ per farla passare tenendo il pomello dorato fra le dita ancora con tale forza da far diventare le nocche bianche, abbassando la testa in una piccola riverenza silenziosa alla quale la principessa rispose con un piccolo cenno del collo verso il basso prima di sorpassarla ed entrare nella sua stanza.
Lanciò uno sguardo verso il corridoio delle stanze reali, al vivace muoversi delle fiammelle delle torce a ritmo ormai delle grida e delle risate ovattate dal fondo del palazzo e in un gesto involontario controllò che non ci fosse nessun altro e come volevasi dimostrare sia alla sua sinistra, verso il portone dorato che alla sua destra, verso la balconata non c’era nessuno: era sola dunque, perché?
 
Si voltò nuovamente verso la nana che osservandosi intorno camminava a piccoli passi nella sua stanza, partendo dalla sua porta fino al confine con il suo letto al centro della stanza, strusciando la gonna del vestito blu sulle pellicce e tappeti che sovrapposti ricoprivano gran parte del pavimento; si muoveva con a testa alta, regale, austera: erano così dannatamente simili, fin troppo.
 
Nella Terre Brune, per quel poco che era riuscita a scrutarla in volto nella notte neanche se n’era accorta, troppo presa dalla brama di salvare una nana che disperatamente accettava la sua fine, attaccata a un muro di una roccia acuminata; nel palazzo, non era riuscita a vederla neanche una volta, seppur fosse un suo grande desiderio poterla incontrare, anche per caso, eppure adesso che la poteva guardare alla luce se ne rendeva pienamente conto. I capelli corvini come la pece erano intrecciati in una lunga treccia che dal lato della spalla le arrivava fino sotto i fianchi, adornata di singoli anelli e catenine dorate che le finivano in mezzo alal  alla fronte con una singola gemma blu, i tratti rigidi ma dolci, forse l’unica cosa che li distingueva, a parte gli occhi, quelli di Thorin erano un mare in tempesta, i suoi erano freddi come la neve.
 
Chiuse la porta dietro la sua schiena indietreggiando e lasciandosi andare con entrambe le mani sul pomello dietro di sé osservandola camminare dentro la propria stanza, non separandone mai lo sguardo benché meno quando con lentezza si avvicinò al letto che torreggiava in mezzo voltando la testa verso vari punti della stanza  facendo tintinnare la miriade di catenelle nei capelli; la osservò mentre voltava con calma  il collo da una parte all’altra seguendo dei percorsi invisibili con gli occhi nel frattempo che con un piccolo sorriso che le si dipinse mano a mano al lato della bocca.
 
La incuriosì e molto, ma i piccoli battiti veloci che continuava a sentire nel petto non smisero di tormentarla facendo scioglierle le mani dal pomello dorato dietro la sua schiena e a calare verso la leggera sottana bianca di raso finendo per torturane le pieghe con le sue dita. Il perché si sentisse in quel modo le sfuggì: i pensieri che l’avevano portata al re erano totalmente scomparsi ma forse la somiglianza con il suo tormento personale, il fatto che fosse sua sorella o anche che questo fosse il loro primo incontro dopo tutti quello che era successo in quei giorni avevano sostituito la sua inquietudine con una profonda titubanza.
 
Decise di parlare interrompendo quel pesante silenzio che non faceva altro che aumentare solo il suo innaturale timore. «Dovete perdonarmi, non ero pronta a ricevere visite, men che meno da voi se mi permettete.» Ammise cercando di mantenere il tono del piu’ calmo possibile spostando lo sguardo sul profilo della nana che ora si trovava di fronte al camino acceso : il vestito da cerimonia blu reale che alla luce rossastra divenne quasi verde scuro, così come la pelliccia grigia intorno alle sue spalle, quasi bianca.
La nana si fermò dal suo vagare silenzioso voltandosi leggermente di nuovo verso di lei bloccando qualsiasi altra parola avesse potuto dire alzando una mano dal suo ventre sul quale aveva tenuto le mani poggiate l’una sull’altra da quando era entrata.
 
«No, sono io che vi devo le mie scuse, mi rendo conto che non è un buon momento e mi rendo anche conto che sarei dovuta venire da voi molto prima.» Le interruppe un’ ennesima scusa formale che già stava formulando nella testa, sorridendole amabilmente con il lato della bocca, spiazzandola ancor di piu’ di quando già non fosse.
 
Non rispose abbassando nervosamente solo di poco lo sguardo verso la sedia di fronte al caminetto dove prima era raggomitolata su se stessa; non sapeva come comportarsi, cosa dire, cosa non dire, non era un incontro politico, non era niente che le era mai capitato prima e che le sarebbe mai capitato ancora: la confondeva, tutto ciò la confondeva.
Era una principessa come lo era lei, forse piu’ di quanto lo fosse lei, era la sorella del re di Erebor, una figlia di Durin, ma dall’altra parte era sarebbe stata anche… legata a lei, da molto di piu’ di un titolo. Non si sarebbe mai aspettata quella visita, benché nel profondo sapesse fin troppo bene che, prima o poi, sarebbe giunta; se ne sentì improvvisamente in colpa: forse era lei che doveva andare a presentarsi, ma da quel giorno non l’aveva piu’ vista ma non si sarebbe mai aspettata una sua visita, non lì, non così, non in quel momento.
 
«Non è un incontro idoneo alla situazione oserei dire.» Riuscì a commentare a stento aumentando la presa sul tessuto bianco guardandola di nuovo.
 
Per risposta ricevette un breve sbuffo simile a una risata sommessa accompagnata da un piccolo movimento della testa in segno di negazione. «No, non lo è ma gli incontri ufficiali in questi casi li ritengo quasi futili, possono far uscire fuori ben altro di quello che dovrebbero  e… “Fece una breve pausa incerta. “Avrei voluto conoscervi prima di questa sera.» Il tono della voce le si andò a piegare in una scusa velata, che accettò in silenzio ma lei non alleggerì le sue di torti.
 
«Ho anche io la mia dose di colpe, sarei dovuta essere io a presentarmi, vi sarò dovuta sembrare estremamente scorretta.» Le fece notare dando libero sfogo ai suoi pensieri.
 
La nana di fronte a lei sospirò leggermente quasi facendole pensare di poter aver accettato la sua versione dei fatti e le sue scuse, ma poi alzò un sopracciglio nero seguito da un piccolo ghigno dal lato della bocca che le fece stringere i denti per controllare il respiro: troppo dolorosamente simili.
 
«Allora credo che per arrivare a un accordo possiamo dire che la colpa è di entrambe… che ci siamo dovute ambientare entrambe, suppongo.» Sottolineò entrambe ammiccandole con una piccola strizzata di occhio e una fuggevole risata sommessa tra le labbra a malapena aperte.
 
Ghìda si ritrovò a sorridere sinceramente a un tale gesto che se da una parte la scioccò ancora di piu’ dall’altra si sentì sollevata che il discorso stesse diventando meno rigido e fittizio di quanto si sarebbe mai immaginata o anche sperato, aiutandola anche a rilegare i pensieri nefasti di poco prima in un angolo nella sua testa.
 
«Penso di poter accettare questo compromesso.» Ammise infine di fronte alla sua ennesima prova testardaggine della stirpe di Durin ma non ebbe nemmeno il temo di dire altro che la parola le venne rubata.
 
«Potete anche accettare che non è solo per le presentazioni che mi trovo qui?»
 
Ghìda sgranò leggermente gli occhi, colta alla sprovvista da una simile domanda e tutte le preoccupazioni che per pochi istanti la nana era stata capace di esiliare ritornarono, forse piu’ pressanti di prima così come una miriade di domande, tra cui una che le formò un nodo alla gola: possibile che sapesse?
 
No, non  poteva, anche se ormai era sicura che tutti nella montagna sapessero, o che l’avessero vista quella mattina: miriadi di altre possibilità le si pararono di fronte agli occhi ma forse a causa del suo mero desiderio egoistico di non rispondere o peggio di prepararsi a una risposta che potesse giustificarla, l’unica opzione possibile le ridondò nella testa rendendola muta.
 
La fissò in silenzio, non volvendo aggiungere altro, in attesa che fosse lei stessa a dirle qualcosa, già pronta mettersi sulla difensiva ma la nana non ci mise molto a mettere un freno alle sue domande nella testa, rispondendole perfino con lo sguardo. Spostò gli occhi ghiaccio dal suo viso verso il suo fianco dove steso stava il braccio scoperto, la cicatrice ancora rosa accesso che le attraversava l’avambraccio in una linea curva dal basso verso l’alto tagliando a metà una delle rune, così come quella sul suo fianco che seppur rimarginata sentiva ancora formicolare, soprattutto quando Dìs vi puntò lo sguardo corrugando le sopracciglia.
 
Annuì come per darsi una risposta da sola prima di guardarla di nuovo in viso, prendendo un piccolo respiro tremante. 
«Io sono venuta qui per ringraziarvi.» Cominciò veloce facendola sobbalzare leggermente dalla sorpresa e mordere l’interno della guancia. «Vi sarò per sempre grata per quello che avete fatto e per il rischio che avete corso per salvarmi e quello che avete fatto per molta della mia gente in realtà.»
 
Dalla bocca di Ghìda  non uscì altro che un respiro sommesso trattenuto troppo a lungo, nel frattempo che quelle parole le entravano nello sterno: nessuno l’aveva ringraziata, mai da quando si era svegliata, non c’era mai stato un ringraziamento, non ne sentiva il bisogno, non lo aveva richiesto neanche una volta, i suoi gesti non erano stati diversi da quelli di un qualsiasi altro guerriero, chiunque lo avrebbe fatto, chiunque altro guerriero sarebbe corso in aiuto dai suoi compagni, sarebbe corso in aiuto di una nana in difficoltà o di un qualsiasi essere in quella situazione. Che la nana che avesse salvato con quel suo gesto fosse Dìs, figlia di Thràin era stato un mero caso: sarebbe stato così terribile rivelarle che non lo sapeva chi fosse, o ancora che era venuta a conoscenza della sua identità solo pochi giorni prima da una piccola nana curiosa?
 
Potevano dei ringraziamenti pesarle così tanto?
 
Ghìda abbassò gli occhi verso terra, in un breve inchino accennato imponendosi di comportarsi come avrebbe fatto in qualsiasi altra circostanza  «E’ stato un dovere, con tutto il rispetto non sapevo neanche quale fosse il vostro viso.»
 
Sulla nana di fronte a lei si dipinse un ennesimo sorriso gentile. «E non rende il vostro atto ancora piu’ degno d’onore forse, Ghìda figlia di Telkar?» La interrogò diretta ancora con una domanda meramente di circostanza, che non pretendeva risposta.
 
Gli occhi da terra le scattarono repentinamente verso il volto della nana: rimase basita, incapace di ribattere qualsiasi cosa, quando quella verità le venne sbattuta in faccia come se fosse per la principessa una delle cose piu’ naturali del mondo, ma sentirselo dire a voce alta le fece gonfiare il cuore in un profondo orgoglio per ciò che aveva fatto, un sentirsi fiera dei suoi gesti che sempre le era stato negato.
 
La verità è che quando dai una cosa troppo per scontata e poi ti viene posta davanti, te ne stupisci, anche troppo e per Ghìda furono quei ringraziamenti, così sinceri e puri che silenzio aveva ricevuto da tutti i visi che aveva incrociato nei corridoi o per le scale, che aveva ricevuto perfino da Thorin in quelle notti in cui lei non sapeva aveva vegliato su di lei quasi sempre sveglio, o dal severo capitano delle guardie che le aveva rivelato quel leggero grazie a malapena sussurrato andandosene per aver salvato la nana che amava, o perfino dei piccoli nani che diversi piani di distanza da lei in quel momento erano disposti piu’ che mai a dimostrarlo.
 
Ma lei non lo sapeva, non l’aveva mai saputo.
 
Dìs non ebbe bisogno di una sua risposta, in realtà neanche la voleva, non ve n’era risposta alal alla sua domanda, ma non riuscì a celare un sorriso leggero di fronte alal alla sua reazione, che divenne sempre più grande quando la vide sorridere con il lato della bocca verso terra lasciando finalmente andare la sottana chiara in un gesto che le valse piu’ di mille parole.
Alzò lo sguardo di nuovo verso la stanza intorno a lei, sfiorandone ogni angolo con gli occhi come se fosse la prima volta che vi entrasse, indugiò nei punti in cui prima non si era soffermata, tutto era come se lo ricordava e si ritenne una sciocca: appena era entrata non era riuscita a controllarsi e a non fare quello che si era imposta di fare, il lasciarsi andare.
Fu il suo turno dare voce ai suoi pensieri e ai suoi gesti; ruotò su se stessa e fece un paio di passi in vanti e di lato per osservare meglio ogni piccolo anfratto della camera.
 
«Queste stanze appartenevano a mia madre e a sua madre prima di lei, sono sempre sta invidiosa che non sarebbero mai state mie sapete?» Le disse attirando la sua attenzione e voltando di poco il capo verso di lei, tornado a osservare poi il muro, il letto, le piccole sedie e il tavolino di fronte al camino, l’armadio infondo alla stanza, le tende blu dei bagni coperte dal parasole intarsiato, i tappeti sovrapposti e poi verso l’immensa cassettiera info alla stanza. «Da piccola ero spericolata, una vera furia, non sapevano come tenermi ferma e  mi nascondevo dentro quella cassettiera per sfuggire alle balie o mastro Balin appena si accorgevano di una mia malefatta, ci rimasi perfino incastrata una volta.»
 
Ghìda non riuscì a trattenere un sorriso compiendo dei piccoli passi verso di lei per sporsi meglio nel vedere verso il punto che stesse indicando: seguì i suoi occhi che scrutavano infondo alla sua stanza, vicino alle tende per il bagno dove una cassettiera scura ad ante governava gran parte della parete, abbastanza grande da farci entrare un nano adulto. Nella sua testa si immagino una piccola nana nasconderci dentro. Inevitabilmente però al sol pensiero la sua mente si spostò su ricordi ben piu’ personali, ben piu’ propri: una bambina che immersa con la testa in dei libri pesanti si nascondeva sotto il letto e poi una giovane ragazza che si muoveva sulle lastre bianche del pavimento muovendo i piedi in battaglie nella sua testa, con dei tatuaggi rossastri freschi che le pizzicavano a ogni parata o in attacco.
 
Si portò una mano a sfiorare  le rune sull’avambraccio a quel semplice ricordo, ricordandosi chi era perché le aveva sulla pelle e ciò che ne conseguì a quel gesto, fino a quel momento. «Ne portate dei ricordi lieti.» Si ritrovò a mormorare riuscendo però a mascherare con un sorriso fuggevole i pensieri che vertiginosi le erano saliti alla mente.
 
«Ogni cosa porta dei ricordi lieti e dei ricordi nefasti, ma questa stanza… è uno dei pochi posti in cui ho solo ricordi piacevoli…» Sussurrò la nana di rimando continuando tenere lo sguardo fisso sulla cassettiera e a portare di nuovo le mani sul ventre chiudendola l’una sull’latra in una morsa. «E spero che altri ne abbiano quanti ne ho avuti io.»
 
Non seppe ad un primo momento a chi stesse parlando se a lei o a un qualcosa che non era in grado di vedere, visto il suo sguardo ancora fisso verso il fondo della stanza, ma in qualsiasi caso gli occhi le saettarono sul letto, verso il suo cuscino e verso la sedia ancora ferma attaccata a muro vicino ad esso, rispondendo silenziosa nella sua testa a quella affermazione : si, avrebbe voluto risponderle,  il piu’ piacevole, il piu’ bello che avesse mai avuto, ma non era in grado di rivelarglielo,
 
Come Dìs non sarebbe mai stata in grado di dirle cosa era in grado di vedere in quella stanza: si rivedeva in tra quelle mura dorate e verdi, viva come lo era in quel momento, ma aveva mentito, il piu’ della volte non era Balin a venirla a prendere, colui che la veniva a ripescare era anche colui dalla quale spesso si nascondeva, due occhi verdi e vispi, le nocche le sue già tatuate e coperte di piccole cicatrici che avanzano in un breve invito a seguirlo. Dwalin.
 
Ma era tanto, troppo tempo prima, quando tutto era diverso.
 
Si forzò a cancellare quei ricordi infantili lasciando scomparire i fantasmi di un passato che ormai sapeva troppo ben essere passato, per quanto doloroso, tutto passava, tutto.
 
Voltò il capo verso la figura dietro di se che osservava sorridendo un punto indefinito sul letto rifatto, sulle lenzuola blu e dorate e la pelliccia candida che le ricopriva.
 
«Ve ne ha portati a voi? Questo palazzo, questo regno, da quando siete arrivata qui mia signora?» Le chiese cauta osservandone il profilo, e solo ossecrando con attenzione si rese effettivamente conto che non era una nana, affatto non era la mancanza di barba sulla mandibola, o la punta dell’orecchio che seppur coperta si poteva notare uscirle dai capelli,…erano le sue espressioni. Erano marcate cento volte di piu’: dallo stupore quando era entrata, fino alla guardia su cui si era portata fieramente appena le aveva cominciato a parlare, come il sorriso che per lei poteva sembrare a malapena accennato ma che per una nana era fin troppo accesso. O quel gesto, quella carezza malinconica che era stata in grado di cogliere così come le decine di nani che attaccati alle ringhiere dorate erano rimasti spettatori basiti di quel piccolo gesto verso Thorin, quel piccolo ma prezioso gesto che era stata la goccia definitiva a portarla nella stanza della ragazza in quel momento: se prima Dwalin non sapeva dare una risposta alal alla sua domanda, ora lei la sapeva benissimo e sapeva troppo bene cosa dovesse fare.
 
La bocca di Ghìda infatti si deformò, mossa da dei ricordi dai quali non era ancora riuscita ad uscire, sebbene sentisse lo sguardo della nana ghiacciato su die lei. «Ne ho molti, forse… anche dei piu’ preziosi che abbia mai avuto oserei dire.» Seppur titubante confermò annuendo con la testa ricambiando di nuovo il suo sguardo
 
Dìs le si affiancò a piccoli passi per poter osservare ancora meglio dove stesse guardando ma non notò niente di particolare, per un attimo la sua curiosità di chiederle cosa la facesse sorridere in quel modo la tentò ma poi osservò cosa era adagiato proprio di fronte a lei, sopra il letto,  un oggetto che prima aveva solo sfiorato con lo sguardo ma che ora dovette schivare con i piedi per non toccarne lo strascico che lungo arrivava dal materasso fin a toccare il pavimento; le scappò un sorriso malinconico avvicinandocisi passando lo sguardo su ogni piccola ventura dorata.
 
«Anche questa sera mi auguro ne abbiate dei nuovi…» Le disse  senza staccare mai lo sguardo dal sontuoso abito allungando la mano verso i ricami dorati sul corpetto sfiorandoli leggermente e poi verso sulle maniche spaccate sistemandone una che si era piegata su se stessa distendendola sulle lenzuola. «I banchetti in questo palazzo possono essere alquanto…»
 
«Estremi?»
 
«Imprevedibili.» La corresse ridendo sommessamente quando ricordi ben vividi le si pararono di fronte. «Molti o sono finiti dopo giorni o sono terminati in minacce di guerra tra clan che poi la mattina dopo si concludevano in un nulla di fatto, tutti troppo ubriachi anche per ricordarsi le offese arrecate o con la lingua troppo pungente di tabacco per parlarne.»
 
Ghìda annuì ricordandosi del breve assaggio che aveva avuto settimane addietro, rendendosi perfettamente conto di come quella affermazione potesse essere veritiera, non riuscendo neanche a immaginare, ora che la montagna era di nuovo totalmente funzionate, cosa sarebbe potuto accadere.
 
«Voi amate i banchetti?» Le chiese sinceramente curiosa.
 
Dìs incrociò le labbra pensate per qualche attimo scrollando poi le spalle divertita. «Diciamo che… anche io tornavo nelle mie stanze con la mia dose di dolore alle ginocchia e alle caviglie e di solito anche con la testa così ovattata e con dei i dolori alle tempie così lancinanti la mattina dopo che avrei dichiarato io guerra a un clan se mi avessero svegliato la mattina presto.» Commentò in maniera alquanto esasperata posandosi un dito sulla tempia al solo pensiero lanciando un ultimo occhiata al vestito rosso prima di spostare nuovamente l’attenzione di fronte a se.  «Voi no?»
 
Ghìda si concesse un lieve sorriso mesto. «Nei mari  dell'est tendono ad essere rari e se avvengono si concludono in breve tempo, niente di come ho visto accadere qui.»
 
L’altra annuì, forse conoscendo già quel dettaglio «Ho sentito molte storie sulla vostra terra natia, ma credo che ormai sitate colma delle continue domande, ma è un luogo talmente a sud che credo che pochi in questa montagna l’abbiano visto con i propri occhi.»
 
«Credo di aver potuto dire lo stesso quando sono giunta qui mia signora, se non fosse stato per le canzoni e i racconti avrei anche dubitato che fosse reale, Erebor toglie il respiro.»
 
 «Non vi siete mai spinta così a nord?» 
 
Ghìda sobbalzò lievemente di fronte a quella domanda, ripensando al giorno di quando posò per la prima volta lo sguardo su Erebor vergognandosi della risposta perfino della reazione che avrebbe potuto suscitare, in quegli occhi azzurri che continuavano a fissarla curiosa.
 
«In verità non sono mai uscita oltre i confini dell’Harondor se non per venire qui dopo l’arrivo del corvo a palazzo, è stato il mio primo viaggio oltre i confini del regno.»
 
L’altra annuì formando con le labbra una linea dritta, spingendo le labbra una sull’altra prendendo atto delle parole che aveva sentito e conoscendone già la ragione.
 
«Ho conosciuto vostro padre, ai Colli Ferrosi quando prendemmo Moria, ci fu in incontro con tutti i capi clan, è un signore dei nani che non si dimentica facilmente. Ma voi probabilmente neanche eravate nata, non potete ricordare» Le spiegò con un tono che sia andò ad affievolire a ogni parola, sempre piu’ gentile, sempre piu’ cauta e dalle sue parole, ma quel suo essere cauta non impedì a Ghìda di serrare i denti.
 
Il volto di suo padre le si parò davanti: no, non era un nano che si dimenticava facilmente, così come lei non riuscì a dimenticar quel giorno. anche se flebilmente ricordava anche quello, ricordava la partenza di suo padre, e anche il suo ritorno e anche le sue piccole mani, all’epoca solo di una ragazzina, premute contro la roccia bianca della sua finestra chiedendosi cosa potesse esserci al di là delle scogliere bianche.
 
Gesto che aveva compiuti per tutti quegli anni.
 
«Potrei stupirvi… l’aspetto trae in inganno, il mio lo ha fatto molte volte.» Ammise controllando i ricordi e aspettandosi già la reazione che già aveva imparato a intuire che infatti non tardò ad arrivare.
 
Gli occhi azzurri le fremettero a quella affermazione, inclinando la testa di lato e facendo un ultimo e decisivo passo che le portò a pochi centimetri l’un dall’latra: la studiò dalla testa ai piedi, passando lo sguardo prima alle sue braccia, poi piu’ su verso il collo, in cerca dei segni indelebili del tempo, poi ancora piu’ in alto verso il viso e infine verso i capelli mori alla ricerca di qualche ciocca bianca che ne potesse tradire l’età, ma non ne trovò alcuna e ne rimase quasi senza parole.
 
«Quanti anni avete? Non potete averne piu’ di cento.» Le chiese sicura dell’ultima parte della frase, anche se la sicurezza della ragazza che la osservava con gli occhi scuri quasi divertita le fecero capire che era totalmente fuori strada.
 
«Temo dovrete salire di qualche anno.»
 
«Centoventi?» Le chiese ancora curiosa facendosi ancora più’ vicino, gli occhi azzurri vispi e attenti che le studiavano il viso.
 
Le scappò una piccola risata quando il viso le si contorse in un’espressione accigliata avvicinandosi ancor di piu’ studiando dapprima le sue radici dei capelli, o passando le iridi blu veloci sotto i suoi occhi o sulla sua bocca.
 
«Centocinquantotto fra cinque mesi.»  Rispose infine mordendosi il labbro inferiore lievemente divertita.
 
La bocca della nana si aprì e si chiuse piu’ volte mentre il suo viso si allontanò lentamente di nuovo continuandolo a scrutare forse con ancora piu’ attenzione di prima i suoi lineamenti, soffermandosi ancora di piu’ su dei punti precisi.
 
«Avete la mia stessa età qualche anno in meno eppure…» Sussurrò incredula di fronte a una tale rivelazione, non riuscendosi a spiegare come questo fosse possibile, se l’avesse vista in qualsiasi altro posto: ma la interruppe prima che potesse continuare la frase in una maniera che già conosceva e che già troppe volte aveva sentito.
 
“Sembrate una ragazza.”
 
«La mia vecchiaia secondo i guaritori è solo rallentata nell’aspetto, i miei anni li sento tutti sotto la mia pelle, dovete credermi su questo.»
 
Ed era vero, per quanto il suo aspetto fosse ormai rimasto lo stesso da quasi un secolo: dentro di se era cambiato tutto troppo e, soprattutto in quel momento, osservando le rughe della nana di sfuggita, si ritrovò a desiderarle, così come i ciuffi bianchi che spesso cercava di fronte allo specchio, non trovandoli mai.
 
La parte del sangue di Ghìda che creava sempre più dubbi e incertezze.  I guaritori ad Elcar non sapevano come comportarsi non l’avevano mai saputo fare, da quando era nata, ma infine mentirono al loro signore, che in cuor suo sperava ricevere un'unica risposta ma che loro non gli diedero: era solo uno stadio passeggero. Ghìda figlia di Telkar sarebbe cresciuta e sarebbe invecchiata, se anche avesse vissuto fino alla veneranda età di cinquecento anni, alla fine sarebbe morta, come i nani, come tutti loro, perché la seconda opzione era così terribile che non riuscirono a dirla a nessuno e Ghìda non aveva mai neanche osato pensarci, mai, neanche una volta.
 
«Molte nane sarebbero invidiose di questo dono.» Commentò Dìs sapendo quanto potesse essere vero sorridendole con lato della bocca.
 
«Molte nane non sanno che essere trattata come una ragazzina dopo tutti questi anni alla fine diventi fastidioso.»
 
L’altra alzò un sopracciglio nero divertita. «Ne ho conosciute di molte che preferirebbero cento e cento volte ancora farsi trattare come delle bambine che invecchiare.»
 
Ridacchiarono entrambe, poi l'altra annuì «Allora dovrete presentarmele appena ne avrete l’occasione.»
 
Dìs di fronte a lei annuì con un breve cenno del capo prima di spostare nuovamente lo sguardo verso i suoi capelli, ma questa volta non si soffermò toppo sulla radice, ma guizzarono su e giù in un movimento veloce mente una piccola smorfia divertita le arriccio le sopracciglia; si avvicinò di un paio di passi e allungò dapprima la mano verso il suo viso cautamente facendola irrigidire, ma le labbra incrociate tra di loro e lo sguardo pensieroso non la fecero muovere, solo seguire la mano che con un gesto caute le scostò un ciuffo ribelle dietro le spalla.
Le scostò dal viso un ciuffo che le era scappato dalla presa delle trecce ancora incompiute e pettinandoglielo di nuovo con un movimento del dito dietro la spalla.
 
«Sì, credo di aver trovato una maniera per farvi perdonare la mia intrusione.» Appuntò fieramente e senza che avesse il tempo di domandare a cosa si riferisse allontanò la mano dal suo viso e si girò su se stessa camminando verso il tavolo di fronte al caminetto; solo quando la vide spostare lo specchio che vi era posato sopra  indirizzandolo di lato o contare con il dito tutti gli anelli runici dorati su questo capì a cosa si riferisse e incredula aprì la bocca per dibattere ma non ne ebbe il tempo neanche di fare questo.
 
«Non dov-…»
 
La nana con un movimento cauto scostò con entrambe le mani la sedia facendola gracchiare sul pavimento e fermandole le parole in gola, voltandola da verso il camino che scoppiettava verso lo specchio dorato e le lanciò un’occhiata di incoraggiamento.
 
«Sedetevi.» Le disse lanciandole un’ occhiata di incoraggiamento allungando perfino la mano sulla sedia per invitarla ancora una volta notando il suo scetticismo probabilmente.  «Non mordo ve lo posso giurare» Si pulì le mani l’una sull’altra prima di portarle entrambe sui fianchi con un piccolo ansimo.
 
Ghìda si sentì arrossire passando lo sguardo veloce verso la sedia che le porgeva, colpita, forse anche troppo colpita da un simile gesto e infine sotto gli occhi giudicatori della nana non trovò altra alternativa che annuire, abbassando la testa in un piccolo ringraziamento, prima di muoversi a piccoli passi verso la sedia che occupava fino poco prima.
Vi ci sedette sentendo un piccolo sospiro soddisfatto dietro di lei e in un gesto automatico drizzò la schiena sulla sedia ma il collo in avanti aiutandola a muovere i capelli dalle sue spalle dietro verso il sedile della sedia; si lasciò andare alle folte pellicce su questa, il calore del camino accanto a se cominciava a entrarle nelle ossa di nuovo, così come il leggero calore che dà dentro la scaldava di fronte a quel gesto che anche se così fuori luogo, così fuori da ogni etichetta conosciuta in qualsiasi razza della terra di mezzo.
 
 Ma non le dispiacque affatto.
 
Lascio andare leggermente la testa all’indietro mentre le dita abili della nana si muovevano e si districavano tra i ciuffi, dividendoli e poi unendoli: poteva notare la sua espressione concertata attraverso il piccolo specchio rialzato sul tavolo, o quella accigliata ogni qual volta non riusciva ad aprire un fermaglio al primo tentativo prima di chiudere una treccia.
Si ritrovò piu’ volte a sopprimere un piccolo gemito di dolore o un soffio che invece sfogava stringendo la gonna della sottana ogni qual colta con un po' piu’ di ardore la nana andava a prenderle i ciuffi piu’ nascosti e a tirarglieli il più del dovuto acconciandole le trecce, con una precisione impeccabile, quasi fosse un lavoro minuzioso di oreficeria. E si sentì quasi una bambina, anche se non lo era più da parecchio troppo tempo: seppure fosse un piccolo gioco nel quale Màr si divertiva spesso, a frugarle tra le ciocche e le trecce, a smuovergliele aggiungendone delle nuove e districandogliene altre, in quel momento era diverso, ma non per questo non riuscì a non sopprimere un sorriso.
 
Dìs le prese una ciocca dal lato della testa, passandosela tra le dita più’ volte prima di prender quella accanto e per unirla insieme ma le si bloccò il respiro appena mosse il ciuffo scoprendo il piccolo orecchio appunta impallidendo: grande come quello di un umano era ricoperto di piccoli anelli dorati, quasi uguali a quelli che gli stava impilando nei capelli.
La sua indole, il suo passato, il suo stesso sangue le imponeva di provare un briciolo di repulsione, di disgusto, ma non ci riuscì affatto, ringraziando Durin non provò niente di tutto ciò, seppure ora potesse osservare così bene cosa lei fosse, il marchio indelebile di ciò che lei fosse in realtà, ma non le importò. Ne rimase quasi incantata, non aveva mai visto nulla del genere e mai forse sarebbe mai riuscita a vedere nulla del genere: essere ciò che era, non era colpa sua.
 
Flebili ricordi si fecero strada nella testa, così tanto lontani nel tempo che le sembrarono una flebile carezza, una dolorosa ma flebile carezza.
 
 
“Zio tu hai mai visto un elfo? Loro sono come noi?»
 
«Kili fai mangiare lo zio così puoi andare con lui e tuo fratello a provar-»
 
«No Kili non sono come noi.»
 
«Thorin…»
 
«Ma perché…»
 
«Perché siamo diversi, loro hanno il loro mondo, noi il nostro. E il loro mondo ci ha traditi molto tempo fa.»
 
«Thorin bast-»
 
«Ma hanno, piedi, mani, occhi, non hanno la barba però, ma sono comunque come noi non è così? Anche noi abbiamo queste cose, quindi non siamo tanto diversi non è vero?»
 
 
Il suo soldatino aveva ragione, l’aveva sempre avuta.
 
In quel piccolo frangete forse era rimasta ferma troppo al lungo e il suo riflesso nello specchio sul tavolo l’aveva tradita, rivelando come si era fermata a metà dell’opera con l’occhio puntato sulla punta affusolata che usciva dalle ciocche scure; la mano di Ghìda infatti saettò tremante verso i suoi capelli, pronta ad afferrare una ciocca in avanti per coprirsi.
 
«No.» La bloccò prima che potesse avvicinare la mano, bloccandola a mezz’aria con la sua. «Non fatelo, sono…uniche.» Mormorò stupendosi perfino di se stessa al suono di quelle parole e forse non fu l’unica perché la mano di Ghìda ancora ferma a mezz’aria si chiuse in un pugno lentamente, il palmo che tremava quasi spaventato di fronte alle sue parole.
 
«Siete la prima a definirle così.» Sussurrò guardando verso terra.
 
Spalancò ancora di piu’ gli occhi incredula a quella reazione, soprattutto quando con lentezza cominciò ad abbassare di nuovo la mano e a rimanere ferma e immobile, come una statua: la sentiva rigida sotto il suo tocco, stava tirando la testa in avanti come se volesse sfuggirle, come se avesse perfino paura ad essere toccata di nuovo.
 
Erano solo orecchie, eppure ne provava davvero una simile vergogna.
 
Dìs parve accorgersi di qualcosa, non che potesse del tutto in realtà ma il suo tono l’aveva tradita con molta probabilità perché sentì la presa sui suoi capelli farsi piu’ gentile, tanto da alleviarle la tensione che dalle orecchie le tirava fino al collo; gli occhi azzurri della nana si specchiarono ben presto nello specchio di fronte a se, accostandosi al lato della sua testa sorridendole gentilmente.
 
«Sono orecchie, offendere delle orecchie mi pare quantomeno eccessivo, soprattutto quando sono così a malapena visibili e …» Le fece notare dolcemente prima di spostare di nuovo lo sguardo verso la sua nuca arricciando il naso, puntandolo verso un punto ben definito: qualcosa le sembrò dare fastidio, molto fastidio. «E soprattutto sotto questa montagna di capelli!» Poté perfino giurare di sentirla sbuffare quando con stizza fiondò di nuovo le mani tra i capelli; Dìs cominciò a scostarle le ciocche scure ponendogliele ancora di piu’ alto della spalla per agguantare quelle dietro la nuca con foga: le si erano intrecciate tutte, di nuovo, l’una sull’altra in un insieme di rovi e di nodi che per un attimo le fecero perdere la pazienza.
 
«Nel nome di Durin poi mi chiedono perché li porto sempre legati insieme!» Esclamò fra se e se ma Ghìda riuscì a sentirla benissimo così come un ennesimo sbuffo dalla sua bocca che le smosse con il fiato un ciuffo in avanti solleticandole il naso e facendole scappare un piccolo sbuffo divertito.
 
L’aria intorno a loro era diventata leggera, una mera speranza che entrambe si erano auspicate, e entrambe ne furono grate in un certo senso, Dìs piu’ di Ghìda, che sentiva ancora il senso di colpa ghermirle lo stomaco ogni istante che passava di più in sua compagnia, così come la vera regione della sua visita che le tamburellava nella testa.
Un silenzio privo di imbarazzo si espanse tra di loro, rotto solo dalla musica sempre piu’ alta e da un urlo di battaglia ben più acuto degli altri seguito da diversi battiti di mani che alto giunse fin sopra le stanze reali rimbombando rumoroso, seguito da delle grasse risate che fecero voltare Ghìda verso la porta che non riuscì a controllare una risata ripensando alle parole della principessa.
 
Imprevedibili.
 
Ma fu anche per Dìs un ennesimo segnale che non poteva piu’ permettersi di indugiare: piu’ il tempo passava e piu’ i pendagli sul tavolo andavano a finire e piu’ così anche la sua possibilità di parlare. Fermò la treccia appena completata osservandole il profilo attraverso lo specchio e ora con le mani libere portò una mano all’altezza del petto stringendo il cerchio runico tra le dita socchiudendo lievemente gli occhi appena oltrepasso la piccola runa a forma di V, deglutendo rumorosamente quando rivide di fronte a lei un paio di occhi scuri, dei ciuffi biondi, quando risenti una mana calda sul viso, un paio di labbra sulla sua tempia e un paio di braccia che la stringevano a se, finendo però tutto inevitabilmente a sfumare un paio di mani ferrate e tatuate fino ai polsi intorno alle sue.
 
No, lei quello non lo aveva piu’, non poteva averlo piu’ ma non voleva che suo fratello se ne privasse così, non era giusto e lei, Dìs, figlia di Thràin, non lo avrebbe permesso, non poteva permetterlo.
 
Slacciò le mani dal pendaglio intorno al collo, focalizzando la sua attenzione di nuovo verso la matassa di capelli scuri: ne afferrò una ciocca dietro la nuca, passandosela tra le dita, dividendola lentamente in tre ciocche ben definite dando poi parola ai suoi pensieri.
 
«Vi siete innamorata di lui non è vero?»
 
Gli occhi scuri dapprima fissi sulla porta schizzarono nello specchio osservando il proprio riflesso: la bocca le si aprì e si chiuse ancora una volta, una silenziosa risposta alla sua domanda che inconsapevole la ragazza si era lasciata sfuggire.
 
«Perché Thorin tiene a voi.» Sottolineò sicura delle sue parole.
 
La vide sussultare ancora una volta, ma distolse lo sguardo dal riflesso nello specchio contraendo la mascella in uno spasmo; con quello che fu un gesto netto allontanò la testa in avanti facendole togliere le mani dai capelli e  fece così ricadere di nuovo le ciocche sulla schiena. «Vi assicuro mia signora che il re mi vede solo per ciò che sono e anche io…» Cominciò rigida, ferma ma Dìs non voleva sentire altro, non da un muro, non così.
 
«Di conseguenza» La interruppe bruscamente riuscendo a crepare quel muro di indifferenza che vacillò.
 
«C-cosa?»
 
«Di conseguenza.» Ripeté ancora.
 
Ghìda alzò nuovamente lo sguardo verso di lei. «Non credo di comprendere.» Tentò di sviare il discorso, in qualunque modo conoscesse: sapeva cosa intendesse in realtà, lo sapeva perfettamente ma non era in grado di dirlo a voce alta e nemmeno a pensarlo, non poteva neanch pensarlo per errore.
 
«Io credo che abbiate compreso bene invece.» Ribatté  la nana sicura  facendole stringere il petto in una morsa. «Siete una dama onorevole, leale e siete ciò che il vostro ruolo vi impone, voi sarete ciò che lui vorrà che voi siate indipendentemente da ciò che voi desideriate.»
 
Al suono di quelle parole Ghìda cercò di rimanere calma, fredda, come lo era in quel momento ma il suo corpo la tradì come faceva sempre: si irrigidì e la mani dapprima solo poggiate sulla sottana si mossero andando a cercare un appiglio verso il suo braccio; spostò la mano verso il braccio ferito, posandola sulla cicatrice in rilievo stringendola, ma la nana non aveva finito e disse altre parole ben piu’ devastanti.
 
«Avete cercato il suo sguardo, nessuno mentre patisce un simile dolore cerca il tocco di un'altra persona se non ha la paura che questa gli possa scomparire davanti agli occhi da un momento all’altro.»
 
Non dovette nemmeno chiedere a cosa si riferisse, la cicatrice sotto i suoi polpastrelli riscaldata dal calore sempre piu’ asfissiante del camino era già una risposta, una dolorosa e devastante risposta. Strinse gli occhi gettando lo sguardo basso verso di questa.
 
 «Vedere il proprio re prima di morire credo che sia l’ onore a cui tutti aspirino e anche io l’ho desiderato, se questo rende i miei sentimenti diversi rispetto all’essergli fedele, dovreste porre la stessa domanda a tutti i nani della Montagna.» Ribatté decisa, non lasciando trasparire nulla, mentendo spudoratamente alla nana dietro di se, nascondendosi dietro una menzogna.
 
Dìs scosse la testa di fronte a: non riusciva a vedere il suo riflesso, il viso troppo in alto, ma non fu difficile immaginarsi il viso inespressivo così come la sua voce.  «Voi non avete ancora proclamato nessun giuramento verso il Re Sotto la Montagna, la vostra lealtà dovrebbe essere rivolta verso vostro padre e la vostra gente, il vostro unico desiderio dovrebbe essere quello, mio fratello dovrebbe essere solo il vostro mezzo per onorare un patto, un giuramento e un accordo tra due signori dei nani.»
 
«Dubitate della mia lealtà verso il Re Sotto la Montagna o la mia gente?» Un moto di avversione le proruppe nel petto facendola quasi ruggire di fronte a quella parola, portandosi sulla difensiva: la mano che le strinse il braccio, una rabbia incontrollata e che non riuscì a spiegare.
 
«E’ proprio perché ho visto quella lealtà e quello sguardo che sono sicura delle mie parole e proprio perché so che la vostra fedeltà non è rivolta a un re ma ciò che vi è sotto che rende l’amore verso il vostro popolo ancora piu’ solido e vero. Essere leale a un re, lo sanno fare tutti, essere leali a un semplice nano, è un dono raro.»
 
«Thorin non è un semplice nano.»
 
«No.» Ribatte la nana subito, aggressiva quasi, sembrò ruggirle a sua volta ma il suo tono andò a scemare come se quel no avesse affievolito anche i suoi pensieri.  «Non lo è mai stato e mai lo sarà, e questo lo sappiamo entrambe…» Continuò flebile e calma «Sin da quando era principe tutti, compreso lui, sapevano che non sarebbe mai stato un semplice nano, non voleva neanche esserlo e sapeva anche che non sarebbe mai stato amato come un semplice nano, da… da nessuno.» La voce calma le vacillò quando seppur involontariamente quelle parole la portarono e ricordare una sua stessa frase, che mai come da adesso descriveva ciò che aveva detto alla perfezione.
 
“Ti amavano come un padre Thorin, morire per te, era l’unica morte che avrebbero accettato o l’unica in cui avrebbero sperato.”
 
Dìs dovette aggrapparsi allo schienale della schiena di fronte a lei con entrambe le mani, per incassare il colpo, rimanendo ferma a se stessa ma quel piccolo gesto le fece però ciondolare giù dal collo, in mezzo i seni il ciondolo argentato che ripido le catturò lo sguardo: socchiuse gli occhi rilasciando un respiro tremante. «E sapeva cosa volesse dire, essere amati in quel modo dal proprio popolo: molti sono morti per amore suo anche se per alcuni amarlo è sempre stato un dovere, piu’ che un volere.»
 
Ghìda riuscì a sentire la voce della nana dietro di lei tremare, così come le mani stringersi sul legno dietro la sua schiena; alzò di poco lo sguardo e riuscì a malapena a vedere il suo riflesso: gli occhi azzurri puntati verso un fermaglio runico  legato al collo che le scendeva giù sul petto.
Non stava parlando con lei o almeno non solo di questo era certa: gli occhi azzurri che malinconici seguivano ogni suo piccolo movimento e come un fulmine a ciel sereno dei ricordi non suoi le si pararono nuovamente di fronte agli occhi: due ragazzi, due ragazzi che nei colori grigiastri fissavano una pila d’oro, montagne di monete e poi quel dolore, quella fitta lancinante al petto, quelle grida tra le macerie, il dolore, il dolore di Thorin il dolore di… di Dìs.
 
Riuscì a dare un senso alla frase che le aveva rivolto e con tutta la forza che ebbe in corpo si strinse con fermezza il braccio, tentando di rimanere lucida, tentando di non dare peso alle parole che aveva appena detto, tentando di non dare retta alle fitte al petto che le stavano imponendo di lasciarsi andare. Nel silenzio che passò il volto della nana si fece mano tirato, e lentamente afferrò nel palmo della mano il fermaglio matrimoniale interrompendo il suo ciondolare e nascondendolo di nuovo sul suo petto.
 
«Cosa volete voi?» Le chiese Dìs ancora, ferma.
 
«Rispettare l’accordo stretto da mio padre, riverire l’unione tra Erebor e Elcar, essere la protettrice della stirpe di Durin e della nostra gente e essere la regina che onori il nostro popolo, non desidero altro… non ho mai desiderato altro.» La risposta arrivò chiara definitiva, come se qualcun altro avesse preso possesso del suo corpo e stesse parlando per lei e forse era proprio questo le successe, perché per la prima volta in vita sua quelle parole le uscirono come un’immensa menzogna.
 
Essere una nana, questo voleva, per questo aveva accettato tutto ciò, per essere riconosciuta come tale, per essere degna di essere tale, per essere adorata come tale, per essere vista come tale, per essere quello che voleva essere, ma sbiaditi erano ormai i suoi desideri, tutto si era sbiadito. La sua lealtà era sbiadita, tutto intorno a lei sembrava sbiadito: allora era davvero così, lei non sapeva piu’ quale fosse il suo volere e il suo dovere, o forse adesso era il suo valore il suo stesso dovere.
 
«Essere la sua regina non è così?»  Le chiese a bruciapelo, spiazzandola; alzando lo sguardo di nuovo verso lo specchio, scrutandola così intensamente e disperatamente che sembrò trafiggerle l'anima e così conscia che lei gli stesse mentendo che le rese impossibile per fino esprimere una singola sillaba.
 
Quelle parole la colpirono come una freccia dritta nel cuore, fracassandoglielo e la mano dapprima solo stretta al suo braccio si chiuse ancora di piu’, talmente con tanta forza che ebbe il timore di riaprirsi la cicatrice con le unghie nella carne.
 
La sua regina.
 
Il suo stesso essere regina era legato a lui, lui stesso ne era giudice e carnefice e esecutore, lei sarebbe diventata regina, regina perché lo avrebbe sposato, regina perché lui era re, avrebbe avuto quello che voleva, tutti l’avrebbero amata se sarebbe diventata regina, tutti alla fine lo avrebbero fatto.
Se ora in quel momento, avesse potuto avere la scelta di poter essere regina, di essere tutto quello che nel piccolo cuscino aveva sognato di essere, di essere regina cosi che tutti l’avrebbero accettata, di diventare quello che sempre sarebbe voluta essere, una nana, ma senza di Thorin, senza che lui fosse lì, senza che lei avesse la possibilità di averlo accanto a se, senza che fosse lui stesso accanto a lei, lo avrebbe fatto? Avrebbe rinunciato alla sua via per lui, avrebbe rinunciato ai suoi desideri, per lui? Avrebbe accettato di essere un mostro per sempre, fino a che Mahal non l’avesse reclamata, avrebbe vissuto nel dolore e nella vergogna, per lui, se avesse potuto scegliere, avrebbe scelto se stessa o lui? Perché lo voleva, perché ne aveva bisogno, perché lo amava con tutta se stessa?
 
Non poteva averli entrambi e Thorin aveva scelto per lei: lei sarebbe stata regina, ma lui non sarebbe stato suo, e allora se voleva solo essere regina, perché non riusciva ad accettarlo, perché lo doveva amare a tal punto?
 
Gli occhi le si riempierono di lacrime, la mano ormai stretta al braccio finì per farle quasi male, le unghie le graffiarono la pelle, un enorme groppo in gola le rese impossibile perfino respirare se non a respiri spezzati che sembravano iniettarle veleno a ogni movimento del petto.
 
«Perché siete venuta qui?» Sussurrò con la voce spezzata, le difese ormai abbattute, non ne sentiva neanche un briciolo della sicurezza, sembrava essersi volatilizzata svuotandola e rendendola nuda di fronte a quella verità.
 
Sentì un leggero spostamento d’aria la mano della nana accorta aggrappata alla sedia dietro di lei che cigolando si staccò e poi un vestito blu entrò nel suo campo visivo, così come il volto della principessa che si era inginocchiata di fronte a lei. Lo sguardo dritto nel suo, serio ma talmente triste che neanche la sua compostezza riuscì a celarlo.  «Perché io non ho bisogno di sapere se Thorin Scudodiquercia avrà onore, obbedienza, lealtà da voi, io ho bisogno di sapere, se lo amerete, se amerete il nano che si cela sotto quella corona, voglio sapere se voi, amate Thorin.»
 
Ghìda si morse il labbro mentre quell’ultimo briciolo di lucidità andava scemando e nascose il viso abbassandolo verso le rune deformate dalla stretta sulla sua pelle. «I miei sentimenti verso di lui qualunque cosa accada, rimarranno ciò che il mio ruolo ne richiede, nulla di piu’. Non posso e non saranno piu’ di questo, lealtà, onore, non gli darò piu’ di questo, io non avrò piu’ di questo.» Strinse gli occhi e serrò le labbra in una linea dritta mentre il formicolio sulle labbra aumentava e il calore delle braccia del nano sembrò come riavvolgersi intorno al suo corpo fece piu’ presente che mai: ogni singola parola una bugia, una bugia che la portò a dire la piu’ devastante delle verità. «L’amore di un re è un privilegio che non ho mai preteso e l’amore di Thorin è un dono che non ho mai preteso.» Ammise fatica lasciandosi andare del tutto, rompendo gli argini che la circondavano, liberandola.
 
Dìs la guardò attonita, lo sguardo verso il volto basso che si andò a posare sulla mano rigida intorno al suo braccio, ormai rosso quanto lo stava stringendo celandosi dietro un muro che lei conosceva bene, conosceva fin troppo bene. Cautamente avvicinò la mano alla sua, poggiandola sopra le dita tese della mano che non smisero di stringere neanche quando vi poggiò sopra il palmo circondandogliele in una presa lieve.  «L’amore non lo si chiede, avviene e basta, che sia per destino o per il passare del tempo, arriva che lo si voglia a no. Io non conosco i vostri sentimenti, come non sono in grado di conoscere quelli di mio fratello, lo sapete solo voi, e mi riterrete una sciocca a dirvi queste parole ma se avrete l’amore di un re, lui vi amerà come nessun nano avrà mai amato, come solo un re può amare. Come un re può amare la cosa piu’ preziosa che possiede.»
 
«E quando un re non vuole amarvi?» Sussurrò alzando finalmente lo sguardo verso il suo: gli occhi lucidi, la mano che si sciolse dalla presa, come se quelle poche parole l’avessero svuotata, e in parte era vero, le aveva dato l’ultima definitiva , cosa le ie lei e suo fratello celassero all’intera Erebor.
 
Si amavano, entrambi si amavano, ma la paura di perdere, la paura di scomparire, la paura di se stessi, tutto questo li aveva infine consumati.
 
«Vi amerà il nano dietro il re, e quando questo lo farà non c’è corona o regno che glielo impedirà… mai.»
 
 
 
 
 
 
Il vento freddo gli si scontrava sulla barba scura smuovendogliela a ritmo dei soffi congelati, il fumo bianco che usciva dalla pipa si andava a confondere con i fiocchi bianchi che leggeri si andavano a poggiare sui mucchietti di neve formati tra i pinnacoli del bastione e sul tappeto di neve che ricopriva tutta la vallata. Il silenzio della notte interrotto solo dalle urla e dalla musica dietro di se così radiosa che perfino le finestre di Dale in lontananza sembravano solo luci di piccole flebili candele pronte a spegnersi a contrasto con i sentimenti di Thorin che lo ardevano talmente intensamente che era dovuto andare cercare il freddo della notte e dell’inverno
 
Non era ancora entrato nel salone e già vedeva il suo viso, già sentiva la sua voce e mai nella sua vita si sentì spaventato, non così non a quella maniera, spaventato di ciò che avrebbe potuto fare appena l’avrebbe rivista: la mano sul petto che si fece reale come se lo stesse toccando oltre la cotta in pelle, le parole che gli aveva rivolto un flebile sussurro del vento nella notte che lo abbracciava. Doveva cancellare il suo viso, doveva cancellare quel gesto prima di mettere piede lì dentro, doveva cancellare le sue labbra sopra le sue prima di impazzire: per tutto il giorno non era riuscito a tenere la testa fuori da quei pensieri, l’acqua gelata dopo il loro incontro, il caricarsi di lavoro inutile, costringersi in un lavoro estenuante su inchiostro, carte e lettere.
 
La mano intorno alla pipa gli tremò e si ritrovò a stringerne il bocchino con la punta dei denti: no, lui non aveva ripensamenti e non li avrebbe avuti, il suo giuramento era suo e solo suo.
 
Ma lei, lei dopo quello che aveva fatto ne avrebbe avuti, forse non era solo la paura di rivederla la paura di non sapere cosa avrebbe fatto quando l’avrebbe rivista, forse la sua paura era che dopo aver visto di cosa era capace, Ghìda sarebbe stato in grado di fare quello che lui non era piu’ in grado di fare. E se fosse successo, sarebbe stato in grado di accettarlo?
 
Ma quei pensieri si andarono a spegnere, si andarono a rinchiudere in un angolo remoto del cuore dove li avrebbe sigillati per sempre, e poi li lasciò volare via, traportati dal vento invernale con la cenere della pipa dopo lunghi minuti finalmente spenta.
 
 


 
 
 
 
 
La musica risuonava alta, rimbombando per tutto il salone riuscendo a malapena a sovrastare le alte risate o gli schiamazzi profondi che provenivano da ogni singolo tavolo, un mare di tessuti colorati che si muovevano da lato a lato, trasportando barili ricolmi di birra, vassoi su vassoi con qualsiasi tipo di cibo ci si potesse immaginare.
Pedate per terra, rumore di posate metalliche che sbattevano l’una sull’altra, le urla allegre di alcuni piccoli nani che si rincorrevano intorno ai tavoli nascondendocisi sotto per qualche istante prima di essere scoperti e ricominciando  quindi il giro d’accapo, come Nìm con suo fratello che al primo inciampo su una colonna di marmo furono repentinamente sgridati: ma neanche le urla della loro povera madre riuscirono a fermare quello schiamazzo a cui si aggiunse ben presto il resto della compagnia; altri nani ben piu’ piccoli invece si affacciavano da dietro o da sotto le gonne delle nane sedute, per osservare meravigliati lo spettacolo che molti di loro non avevano mai avuto la possibilità di vedere nelle montagne dell’ovest.
Il calore e la luce delle torce e del camino infondo alla sala riuscivano ad illuminare anche le infinte scale che, dall’entrata scandita da piu’ e piu’ colonne, si potevano osservare in tutta la loro magnificenza, scaldando non solo i corpi ma anche gli spiriti, di quella che molti urlando dai tavoli descrivevano come una notte che “sarebbe passata alla leggenda”.
 
Se qualcuno avesse mai dovuto usare un aggettivo per quella notte? Viva.
 
La montagna era ricolma di una vita e di un calore che le fucine sotto i loro piedi a confronto sarebbero state aggettivate come una landa ghiacciata e inospitale. Centinaia se non quasi migliaia di cuori battevano a ritmo di battiti di mani nella stessa stanza, scanditi dallo sbattere dei piedi o dalle imprecazioni che ogni tanto si sentivano dai droghieri che ormai avevano le dispense svuotate o dei cuochi che con piatti impilati l’uno sull’altro non facevano altro che uscire ed entrare nel salone, schivando per pura fortuna bocconi o pezzi di cibo che volavano da un tavolo all’altro creando delle trincee letali per chiunque avesse problemi di equilibrio.
Intorno a i tavoli decine e decine di nani si stringevano l’uno all’altro in lunghi abbracci mentre decantavano storie, urlavano antichi nomi e leggende oppure raccontavano dell’impresa che sarebbe dovuta essere onorata con quella serata che per molti non era dedicata solo ai soldati che per quel viaggio erano riusciti a riportare l’ultima carovana sana e salva, no era di piu’ : non era solo l’essere riusciti a portare a casa sani e salvi i loro parenti, era l’essere di nuovo tutti insieme, di nuovo a casa tutti insieme, e il merito era solo di un gruppo di nani seduti solo a pochi tavoli di distanza. Il nome di Thorin Scudodiquercia e dei membri dalla compagnia infatti risuonò e uscì ben piu’ di una volta dalla bocca di diversi nani, urlato, cantato, così come il nome di Gandalf Il Grigio e di un coraggioso Hobbit. Molti però in realtà si chiesero cosa fosse un hobbit e vane furono le domande, così come le ricerche che si scambiarono da sedia a sedia: molti se lo immaginarono come un nano molto alto, alti come un elfo molto baso, altri ancora come un animaletto, ma quelli che avevano conosciuto lo scassinatore, ancora ne riportavano dei ricordi felici e potevano confermare che non fosse nessuna delle tre cose.
 
«Oh dateci un taglio vi prego, ho la testa che mi sembra che Mahal mi ci abbia dato una martellata! Per non parlare del piede, mi sembra sia rimasto incastrato sotto una pressa per ore.» Mugugnò Nori portandosi il boccale freddo sull’occhio nero emettendo un gemito dolorante.
 
«Il piede? Ti ha anche pestato un piede Nori? Ti rendi conto che queste cose nella nostra famiglia accadono solo a te?» Si lamentò Dori posandosi un dito sulla tempia studiando il fratello che lo guardò dal basso verso l’alto gemendo dal dolore un'altra volta quando tentò di muovere la mascella.
 
«Oh avanti fratello abbi cuore, se non riuscirò piu’ a camminare chi te le va a fare le commissioni nei mercati a sud della montagna o chi porta i libri a Ori fino a casa?»
 
Bofur che ancora stat stava ridendo sotto i baffi da quando lo avevano visto tornare con il volto basso, scosse la testa avvilito togliendosi la pipa dalla bocca indicandolo con la punta del bocchino. «Si può sapere che le hai detto nel nome di Durin?»
 
«Ha davvero importanza? Non mi sembra che il risultato cambi Bofur.» Mugugnò il nano premendosi ancora con piu’ forza il boccale gelato sulla palpebra sibilando tra i denti.
 
Uno schiocco di una lingua e una risata profonda subito dopo attirarono l’attenzione del tavolo: Dwalin che per tutto quel tempo era rimasto in silenzio aveva puntato un piede sul tavolo indicando il povero Nori con la mano impegnata dalla pinta. «Quando dicono che le donne della nostra razza non sanno assestare dei bei ganci potranno sempre chiedere a Nori, se è la verità. Sicuro racconterai la verità.» Ammiccò lanciandogli un’occhiata oltre le sopracciglia nere bevendo tutto di un sorso il contenuto del bicchiere tra le mani prima di farlo ondeggiare verso il passo puntando l’avambraccio sul ginocchio.
 
Nori borbottò qualcosa stizzito di rimando, imprimendo ancora di piu’ la pinta sull’occhio lasciando andare la testa all’indietro sulla sedia per osservare Dwalin da dietro le spalle di Bofur.  «Ho sempre avuto successo con le nane, questo è stato un caso isolato!»
 
«Infatti vedo che hai un anello runico di fidanzamento nei capelli, fratello.» Ribatté Dori colpendolo sul punto facendolo mugugnare ancora una volta verso il basso.

Bofur si avvicinò a Nori tenendo la pipa solo con le labbra avvicinandosi le mani l’una nella altra in maniera teatralmente sognante e poggiò la testa sulla sua spalla. «Tu sai che la nana che entrerà nella vostra famiglia verrà a conoscenza di tutti i tuoi pregi vero: l’amore per l’arte, per il vino invecchiato, le lunghe cavalcate al chiaro di luna…» Gli mimò in maniera drammatica un piccolo bacio oltre i baffi che inavvertitamente fece cadere un po' di cenere dalla pipa. «E il tuo grande amore anche per tutto ciò che non è tuo.» Concluse facendo partire una risata contagiosa per tutta la tavolata.
 
«Molto divertente Bofur davvero molto.» Appuntò facendogli una smorfia ma appena ci provò gemette un un’ennesima volta piegandosi su se stesso e lasciandosi andare con la fronte sul tavolo.
 
«E russi e anche in maniera piuttosto rumorosa se posso dire» Si intromise Ghìda portandosi il boccale verso la bocca e prendendo un sorso di birra scura facendo scattare lo sguardo di Nori di nuovo su dal tavolo, pallido come un lenzuolo: il panico lo aveva colto facendogli addirittura abbassare il boccale scioccato.
 
«V-voi come fate a sapere che russo?»
 
Ghìda si morse leggermente il labbro facendo spallucce, colpevole. «Diciamo che…quella notte all’accampamento, potrei avere avuto il giaciglio vicino al tuo, o abbastanza vicino, da sentirti chiaramente e da sapere che fossi effettivamente tu.»
 
A quella parola la mascella dolorante di Nori si aprì in una botta sola e il suo pallore si trasformò in un rosso purpureo come il vestito che indossava Ghìda.
 
«Io- io- io no, basta, è troppo bizzarro, vi prego ditemi che non ho fatto altro, che non ho…Oh par la barba di tutti i padri…» Balbettò imbarazzato gettando di nuovo il volto sul tavolo nascondendosi con il braccio e lasciando andare esasperato la pinta sul tavolo borbottando tra le pieghe della manica.
 
Inutile dire che di fronte a tale reazione si levò una risata collettiva, e  una serie di risate e di ammicchi verso Nori che ben presto si andarono a intersecare una serie di battute su vecchi ricordi o vicende che molti cercarono di sottolineare come molto piu’ imbarazzanti rispetto a quello che era appena successo andando perfino a sdrammatizzare
 
L’unico nella tavola che non si unì alla risata era l’unico nano che al contrario di tutti gli altri, faticava a rimanere tranquillo e sereno mentre i pensieri riguardanti Ghìda non l'abbandonavano così come il suo sguardo schivo non riusciva a non spostarsi verso di lei, lottando con la superfice del tavolo per rimanere fermo.
 
Piu’ sorrideva, piu’ sentiva una lotta con se stesso, piu’ rispondeva agli altri nel tavolo, piu’ voleva dare fiato alla bocca, piu’ ne ricambiava i gesti e le attenzioni, piu’ le voleva bloccare la mano nella sua, piu’ partecipava in piccoli giochi tra forchette ammaccate e piatti quasi rotti piu’ voleva tornare ad essere un principe e buttarsi in quelle situazioni troppo lontane da lui da troppi anni.
Come ci riusciva? Come faceva ad essere così? A controllarsi, a celarsi in quel modo? Lui per farlo doveva rimanere in silenzio, chiudersi in una armatura spessa come il ferro grezzo, in cui si stava imponendo di non lasciare che quello che aveva detto a Dwalin, né quello che nella sua debolezza le aveva lasciato compiere di fronte a tutta Erebor, uscisse ancora, mascherandosi dietro il suo orgoglio ancora una volta.
 
Questo lei intendeva con dovere? Ormai il per lei sorridere era un dovere perfino?
 
Era come aveva sospettato prima di entrare in quel maledetto salone, piu’ la guardava e piu’ la desiderava, piu’ voleva solo che gli dicesse che era sua e piu’ la tentazione di smettere con quella farsa di fare ammenda per i suoi peccati proprio lì in quella  diventava troppo da gestire. La sua mente volava ogni manciata di minuti nei piani piu’ alti del palazzo verso l’oggetto che giaceva intonso tra le coperte del suo letto, in quello stesso letto in cui si era ritrovato sudato e preda dei suoi stessi incubi e dei suoi stessi sogni, del suo corpo, delle sue parole e delle sue mani colme di desiderio, lo stesso desiderio che lo bruciava in quel momento.
 
Un mano gli si andò a poggiare su quella stretta sulla fine del bracciolo della sedia, delle dita coperte di tatuaggi e anelli dorati gli strinsero con delicatezza intorno alle sue dita tese; riscosso dai suoi pensieri Thorin si girò verso la sua destra, il volto di Dìs era scostato verso il resto della tavolata, ma la stretta intorno alle sua mano si fece sempre piu’ sicura fino a che non girò leggermente le pupille donandogli un piccolo sorriso con il lato della bocca, nascosto a tutti tranne che a lui.
 
Tu sai sempre tutto non è così sorella?
 
Si lasciò uscire un sospiro e ricambiò la sua stretta portandosi la sua mano verso la bocca e lasciandole un fugace baso sul dorso e poi sulla punta delle dite a cui lei rispose con una stratta leggermente piu’ forte prima di lasciar scivolare via le sue dita dalla mano che, di nuovo libera, andò ad afferrare la pinta di fronte a lui bevendone tutto il contenuto in un sorso diventando di nuovo lo spettatore silenzioso che era sempre stato, uno spettatore silenzioso di quella sua personale tortura.
 
Ghìda invece non era tranquilla, affatto, si stava sforzando di sorridere piu’ del dovuto, di urlare piu’ del dovuto e di non guardare assolutamente alla sua destra, mai neanche una volta. Mahal solo sa quante volte aveva dovuto mantenere lo sguardo basso per non osservare di nuovo la seduta reale, o di quanto si sia dovuta alienare nelle grida e nella musica sempre piu’ alta tutto intorno alla sala. Entrambe quelle cose  erano riuscita un minimo a cullarla, così come la birra che pian piano le cominciava a salire alla testa, facendogliela ondeggiare dolcemente di tanto in tanto, ma le parole di Dìs, quelle parole non la lasciavano in pace neanche un attimo.
Da una parte voleva andarsene e aspettare, dall’altra parte avrebbe solo voluto prendergli il viso tra le mani e rischiare tutto, ma il poter sentire il suo odore di cenere mischiato al pino, percepire perfino il suo calore che sovrastava quello del camino nel fondo della sala o il rumore del suo respiro pesante che inghiottiva le urla le rendeva il tutto ancora piu’ difficile.
E da quando era entrata non poteva farci assolutamente nulla, sentiva il suo sguardo addosso, sentiva Thorin: sulla sua fronte, sulla sua bocca, sotto le sue mani, sul suo collo; il non poterlo vedere la logorava, e piu’ tentava di far finta che non esistesse, piu’ le sembrava di ferirsi da sola.
Come in quel momento: piu’ osservava Glòin muovere le mani per aria raccontando di suo figlio Gimli, piu’ lo sentiva come una lama dietro la schiena, piu’ la mano che aveva sul grembo afferrava il tessuto del vestito, piu’ questa voleva muoversi dietro di lei ad afferrare la sua.
 
Accanto a lei Balin non era riuscito a non notare le mani strette nel tessuto ed era abbastanza saggio e vecchio ormai da sapere a chi fosse dovuto quel comportamento, così come lo poteva intuire da Thorin dietro di lei che non le staccava gli occhi di dosso neanche per un attimo. Per quanto avesse sperato che la situazione si risolvesse in poco tempo, quel comportamento gli fece capire che non era stato affatto così e suo fratello era stato ben muto su quello che era accaduto quella mattina, anche se l’avvenimento si era venuto a sapere a macchia d’olio nel giro di un paio d’ore.
 
Incredibile come si possa amare e come al contempo si possa odiare la stessa persona, o quanto l’orgoglio riesca ad annullare entrambe le cose rendendole nulle.
 
« State bene, ragazza? » Le urlò Balin, sporgendosi verso di lei e facendola sobbalzare sulla sedia, impegnata com'era ad osservare gli altri.
Ghìda batté un paio di volte gli occhi scombussolata sorridendogli con il lato della bocca. « S-si sono solo molto stanca.» Gli rispose, cercando di alzare quanto più possibile il volume di voce per farsi sentire.
 
Òin accanto a Balin che l’aveva sentita fece un'espressione preoccupata, aggrottando la fronte e si fece in avanti verso di loro «Hai male all'anca?»
 
Ghìda lo guardò confusa, per poi scuotere la testa e sorridere; portò le mani a coppa e gliele poggiò sull'orecchio, ripetendogli la frase. Il nano, allora, annuì e le indicò il braccio destro con la mano libera, puntando il dito.
 
«Posso mia signora?» Le chiese allungando il lato della testa con la tromba di bronzo per sentire una risposta sotto lo sguardo curioso come quello di Balin in mezzo al loro.
 
«Si certo.» Annuì sorridendo nervosamente e si lanciò una mano verso il braccio sul ventre e con uno scossone fece scivolare i lembi della manica biforcuta dall’avambraccio scoprendo tutto il braccio e la cicatrice su di esso.
 
Portando il braccio verso il tavolo, lo distese attentamente, mostrando al vecchio nano per tutta la lunghezza l’avambraccio e la cicatrice perlacea che, seppur al centro ancora rosa accesso, stava guarendo totalmente: attentamente si tenne la manica girando e rigirando il braccio per mostragli tutto e due i tagli dei canini.
 
«Mhmm bene bene.» Borbottò Òin tra se e se afferrandole gentilmente il polso e aiutandola con i movimenti bloccandola quando notava qualcosa di sospetto. «Quella sul fianco come va?» Chiese passando il pollice sopra una delle cicatrici studiandola con attenzione.
 
«Allo stesso modo, non mi fanno male, sono guarite del tutto.»
 
Balin accanto a lei annuì entusiasta avvicinandosi a sua volta verso il braccio tirato di fronte a lui passando gli occhi su entrambe le lacerazioni, che si ricordava ben peggiori di quelle che adesso aveva di fronte agli occhi e se ne rallegrò.
 
«Si è già cicatrizzata così bene ragazza? Beh dovete avere dei poteri magici per far guarire una ferita del genere in così poco tempo»
 
«Nessun potere magico, ho avuto un ottimo curatore, davvero mastro Òin, grazie» Ringraziò il vecchio facendogli un piccolo inchino con la testa ritraendo poi con attenzione il braccio oltre Balin che continuava ad osservarlo e cautamente così come Òin che le sorrise scuotendo la testa prima di prendere la parola.
 
«Non dovete ringraziare me ragazza, non posso prendermi tutto il merito e non siete stata se ve lo posso dire una paziente facile, ma dopo la prima notte è stato tutto un viaggio in pianura. » Ridacchiò annuendo un’ultima volta verso il suo braccio e di punto in bianco si adombrò rendendosi conto solo in quel momento di ciò che aveva detto
Thorin che stava ascoltando la conversazione con attenzione fremette a quelle ultime parole facendo saettare gli occhi verso il nano stringendo la mascella e come la vide chinare il capo assottigliò lo sguardo puntandolo verso il tavolo, non reggendo il peso di quelle parole, non riuscendo raggere il peso di quei giorni o anche solo il ricordo di ciò che aveva visto, e di come l’aveva vista.
 
Ghìda abbassò lo sguardo annuendo distogliendolo dai due nani che si lanciarono delle brevi occhiate rammaricati, nel frattempo Òin dentro la sua testa si maledì maledisse da solo per la sua lingua lunga; Ghìda d’altro canto sfiorò per tutta la lunghezza la cicatrice e il suo spessore socchiudendo gli occhi mentre i suoi pensieri a differenza di quelli di Thorin si andarono a posare su quando si era risvegliata e cosa aveva provato nel vederlo lì al sapere che lui era sempre rimasto lì.
 
Bofur dall’altra parte del tavolo aveva seguito il breve scambio di battute e captò quel piccolo segno, quel suo ennesimo adombrarsi su se stessa e di una cosa era sicuro in quel momento, quella sera non voleva vederla così, non quella notte;  senza indugiare oltre posò la pipa sul tavolo ed esasperatamente si indicò scuotendo le alette del colbacco intromettendosi nella discussione.
 
 «Sappiamo tutti di chi è il merito qui in mezzo, chi le portava le vere medicine tra voi, erbe e unguenti non sono nulla in confronto alle vere medicine!» Esclamò tirando su il boccale di birra che teneva tra le mani, facendola sorridere di fronte a quel piccolo ricordo, ma a Bofur non bastò affatto.
Con un gesto ancora piu’ teatrale si alzò in piedi facendo strusciare la sedia sul marmo verde e si tolse il cappello facendo un regale e ironico inchino. «E poi mia signora concedetemelo ma non vi ho ancora fatto i complimenti per il vostro aspetto questa sera, di tutte le gemme della montagna voi dovete essere in assoluto la piu’ lucente e la piu’ rara, bella come una collana in mithril e rubini e mi ritrovo a dire e ben piu’ preziosa!»
 
Partì un giro di risate e di alcuni sospiri, compreso quello di Bifur che scosse la testa lanciandogli un’occhiataccia. «Ora ti arriva a te un pugno se non la pianti cugino.»
 
Ghìda invece stette al gioco, mentre un largo e sincero sorriso si fece spazio, riuscendo a malapena trattenere una risata. «Oh quale onore mi fate mastro Bofur e cosa devo tutti questi poetici complimenti da parte vostra?» Rispose teatralmente posandosi una mano all’altezza del petto portando a ridacchiare l’intera tavolata, ma a rivolgere verso il nano un’occhiata grata.
 
Si Bofur, non sai quanto rendi l’aria piu’ leggera.
 
Bofur notando la sua reazione lasciò il boccale e si portò il cappello con entrambe le mani sul petto e puntò perfino un piede sul lato del tavolo in posa trionfante con un braccio verso il soffitto ma non ebbe il tempo di dire nulla che una piccola voce incerta lo anticipò.
 
«Al fatto che lo siete davvero.» Ghìda sulle prime ammutolì facendo schizzare lo sguardo verso il giovane nano raggomitolato sul tavolo con la bocca stretta e i goti arrossate dall’imbarazzo,  ma poi pian piano si ritrovò ad arrossire di fronte a un complimento talmente sincero che fece sorridere tutto il tavolo, compreso il Re Sotto la Montagna, che lo coprì velocemente con un pugno sulla bocca.
 
«Ti ringrazio, Ori.»
 
Mormorò sorridendogli gentilmente facendogli abbassare ancora piu’ la testa verso il libro, quando  Nori gli posò una mano sulla testa  del fratello affettuosamente seguito dal piu’ grande dei tre che lo guardò fiero  e dandogli una piccola palla sulla spalla.
 
D’un tratto una botta sul tavolo fece ridestare tutto la tavolata facendo saettare tutti gli sguardi verso il Bofur che sorridente e con la schiuma della birra tra i baffi aveva sbattuto il bicchiere sul tavolo drizzando la schiena ancora con un piede sul tavolo. «Bene ragazzi, ho bevuto abbastanza birra e ho sentito abbastanza delle vostre sciocchezze da sapere che è il momento!» Urlò alzandosi in una botta sola con entrambe le mani salendo sul tavolo, facendo ben capire a tutti i nani seduti le sue intenzioni facendone sbuffare o lamentare la maggior parte.
 
«Nel nome di Durin non di nuovo, per tutti i padri ve ne prego…» Si lamentò Dwalin tirandosi ancora piu’ indietro sulla sedia con il collo chiudendo gli occhi già pronto a quella tortura,  non si preoccupò neanche di spostare il suo piatto che Bofur gli tolse da sotto il naso. Prese una boccata di pipa ma di tutta risposta ricevette una gomitata sulle costole da Dìs che invece sembrava davvero pronta a sentire quel supplizio, facendogli sputare tutto il fumo bianco dalla pipa.  Gli lanciò un’occhiataccia mimandogli con la bocca uno “Fai silenzio” prima di spostare di nuovo lo sguardo verso Bofur che insistentemente spostava i boccali di lato o e puliva il tavolo con le maniche dai residui di cibo gettandoli per terra.
 
Aprì un occhio osservando la nana che invece spostò  le stoviglie ancora piu’ lontano dal posto di Bofur creando una piccola torre di piatti di fronte a lei. «Non hai idea di cosa accadrà vero principessa?» Le sussurrò attraverso la pipa ma di tutta risposta ricevette un’altra occhiataccia e un'altra botta sul costato che gli strappò questa volta un leggero lamento sommesso.
 
Bofur d’altra parte non demorse, anzi forse continuò con ancora piu’ entusiasmo di prima, cominciando a spostare i piatti di fronte a se con grandi movimenti delle braccia, a muovere le piccole candele o a spegnerle con un soffio lanciando un’occhiata di incoraggimanto verso il tavolo che rimaneva attonito.
 
«Ragazzi sposte le stoviglie, datemi una mano, questa notte perfino i Valar vorranno sentire le nostre canzoni e Durin ce ne scampi che non ne arrivi uno veramente!» Disse a voce ancora piu’ alta che si andò a piegare in un leggero lamento allungando un piede fece cadere apposta un boccale vuoto a terra liberando quasi del tutto il tavolo se non fosse stato per qualche rimasuglio di cenere.
 
«Bene fratello, credo che si arrivato il momento di andare a dormire.» Annunciò Bombur accanto a Bofur alzandosi quasi barcollando con una mano sulla pancia a una intorno a un boccale di birra cominciando a camminare via ma venne repentinamente trattenuto dalla mano del fratello che da sopra il tavolo gli agguantò il colletto della cotta tirandolo di nuovo indietro.
 
«Stai fermo tu! Non sarò io a deliziarvi questa notte, o non del tutto almeno…» Continuò facendo accigliare il povero Bombur che si massaggiò il collo confuso dopo quella stretta passando lo sguardo su ogni membro della tavola che aveva la sua stessa espressione accigliata, compreso Thorin che infondo ad essa che osservò il nano in piedi sul tavolo ancora piu’ confuso quando si pulì le mani sulla giacca e si schiarì la voce teatralmente.
 
Per un attimo il pensiero che Bofur fosse troppo ubriaco perfino per rendersi conto di ciò che stesse dicendo fu l’unico pensiero che passò nella mente di tutti, fino a che non fece un leggero inchino verso una figura precisa della tavolata, che invece si portò una mano sulla fronte quasi a celarsi da tutti gli sguardi, ma durò poco, il suo desiderio che ciò non accadesse durò troppo poco, per quanto potesse continuare a coprirsi con la mano o a guardare verso il basso la mano del nano si andò presto a distendersi di fronte al suo viso in un gentile invito.
 
«Mia signora è arrivata l’ora di rendere reale il vostro desiderio.» Esordì Bofur facendo calare il silenzio  per la tavola, tagliando di netto i lamenti e attirare ancora di piu’ lo sguardo sorpreso di Thorin verso la mano tesa, bloccando il sorso che stava per ingurgitare inchiodando di netto il volto verso Ghìda, accanto a se ora senza possibilità di scampo alcuno.
 
«Abbiamo fatto un accordo e visto che la vostra parte è stata rispettata e siete qui questasera questa sera è il momento di onorare la mia.» Ripeté ancora cercando di chiarire il pensiero a tutti e di incoraggiare Ghìda che osservava titubante l sua mano ancora tesa.
 
«Non era questo quello che intendevo Bofur.» Tentò di svincolarsi ma il nano non le diede possibilità di continuare a ribattere sbuffando con il lato della bocca e allungando ancora piu’ la mano verso il suo viso nell’incredulità collettiva.
 
«E come intendevate? Cantare in una stanza buia senza nessuno che possa sentirvi a parte me o quando tutti ormai sono così ubriachi da non sentire una parola? Se bisogna intrattenere uno spettacolo bisogna farlo nella maniera corretta e c’è solo una maniera per farlo durante i banchetti in questa Montagna.»
 
«Avete accettato una cosa del genere? O siete folle o Bofur è piu’ incantevole di quanto pensavamo.» Chiese incredulo Dori osservandola con gli occhi sbarrati e puntandoli poi verso Bofur ancora disteso in un profondo inchino
 
«Una vera bellezza piu’ unica che rara» Rispose alla piccola provocazione ondeggiando il cappello e le falde scostandosi con una mano un delle trecce spettinate.
 
«Togligli la birra!» Sussurrò Bifur verso Nori avvicinandosi scostando di poco il piatto che aveva di fronte, incenerendo il nano che incredulo stava lasciando l’erba nella pipa consumarsi.
 
«L’ho già fatto, tre volte.» Sussurrò di risposta Nori accigliato chinandosi in avanti  indicando il fondo del tavolo con Ori che seppur non avendo bevuto quasi niente era circondato da pinte piene e intonse che Nori durante la serata era riuscito a far sparire sotto gli occhi di Bofur sostituendole con alcune già vuote.
 
«Non è abbastanza, sai cosa fa quando beve troppo!» Sussurrò di nuovo il nano con il ciuffo bianco non conoscendo in realtà le buone intenzioni del cugino che non era affatto ubriaco, anzi, forse era una delle poche volte che era totalmente lucido.
 
Bofur infatti si schiarì la voce ancora una volta prima di ripete gli stessi gesti che aveva compiuto poco prima con molta piu’ enfasi: si tirò su, allargò le braccia in una linea diritta e poi fece un profondo inchino portandosi una mano al capello per non farlo cadere.
 
«Mia signora, mi fareste l’onore di salire su questo sontuoso tavolo ed essere al mio fianco in questa gloriosa notte?» Le chiese nuovamente e di nuovo le porse la mano libera alzando di poco lo sguardo verso di lei.
 
Ghìda osservò dapprima la mano incerta, tutti gli sguardi erano puntati su  di lei, entusiasti e altri stupiti di quello che Bofur le stava proponendo sorridente, avvicinando la mano ancor piu’ verso di lei: dovette ammettere la sconfitta non appena le fece un breve occhiolino che le chiarì subito le sue intenzioni.
Infine sospirando annuì verso Bofur allungando la sua mano da sotto il tavolo verso quella del nano afferrandogli il palmo coperto dal piccolo guanto di lana.
 
«Molto bene» Proclamò infine alzandosi dalla sedia tenendosi con l’altra mano il vestito pronta a seguire il nano in questa folle e assurda scelta.
 
«Siete ancora in tempo per tirarvene indietro.» Borbottò con la mano di lato alla bocca Glòin tirandosi indietro con la sedia per osservarla mentre tirandosi su il vestito saliva sopra la sedia  e poi sul tavolo facendola ridere sommessamente anche se infondo quel piccolo momento, seppur la terrorizzasse, le scaldò lo stomaco rendendole impossibile smettere di sorridere.
 
E questo fu notato, eccome se fu notato, da ogni singolo nano.
 
«Bene ora che è tutto pronto… » Bofur non dovette neanche finire la frase perché si portò talmente vicino alla testa di Ghìda, con una mano vicino al suo orecchio, che anche se avesse detto altro non sarebbe stato comprensibile da nessuno tranne che alla diretta interessata
 
Ghìda annuì con la testa mentre le varie scelte le venivano proposte nell’orecchio: Ori curioso si tirò in avanti per ascoltarle sovrastando con il petto il libro sotto di se, Òin d’altro canto si portò piu’ vicino all’orecchio la tromba ma nessuno riuscì a captare nulla che non fosse una risata allegra di Bofur non appena Ghìda si girò per parlargli a sua volta all’orecchio.
 
«Molto bene…»
 
Tutti capirono che la scelta era stata compiuta quando Bofur con un gesto ampio le passo un braccio intorno alle spalle stringendola al suo fianco e cominciò a tenere il tempo con il piede osservandola di sottecchi aspettando che lei facesse lo stesso. Sorridendo Ghìda cominciò a battere le mani in alto verso la sua testa lasciando le maniche del vestito aprirsi del tutto mostrando entrambe le braccia nude.
 
«Al mio tre: uno, due… »




Oh! Oh! Oh! Ho bisogno del liquore dal bel colore
Per guarire il mio cuore e ed annegare il mio dolore.
La pioggia può cadere ed il vento soffiare,
E' lunghissima la strada che mi resta da fare,


 
 
Bofur cominciò a cantare urlando squarciagola  la melodia ben conosciuta a tutta la tavola se non piu’ conosciuta dall’intera Erebor, se non piu’ conosciuta da tutti i nani della Terra di Mezzo, seguito ben presto dalla voce soprana di Ghìda affianco a lui che continuava guardarlo con un’espressione che da incerta si distese sempre di piu’ trasformandosi ben presto in un coinvolgente sorriso che venne ampliato ancora di piu’ quando alzò la voce tanto quanto quella Bofur, e ben presto la tavolata dapprima stupita e senza parole, le ritrovò tutte, se non piu’ di prima. Cominciarono dapprima a muovere le teste, poi a battere le mani e ben presto ogni singolo nano o nana sul tavolo cominciò a cantare a squarciagola unendosi ai due cantanti in piedi sul tavolo.
 
 

Dolce è della pioggia che cade intorno il suono,
E del ruscel che scorre dal colle al pianoro;



 
 
In meno di due strofe, si scatenò una baraonda che riuscì a coinvolgere tutti i tavoli intorno a quello reale che a loro volta cominciarono a battere le mani sui tavoli a lanciare avanti di cibo a stringersi l’uno all’altro cadendo spesso anche l’uno sull’altro, a gettarsi sopra le sedie cantando a loro volta o salendo sui tavoli improvvisando danze o piccole scenette che rappresentavano la storia raccontata tra le strofe.
Bofur preso dalla canzone afferrò il braccio di Ghìda e cominciò a danzare tenendole le braccia e facendola piroettare piu’ di una volta su se stessa e facendola strillare fragorosamente quando la portò giù con un movimento rapido e poi di nuovo su  facendola ridere e cantare allo stesso tempo così intensamente e senza pensieri che Ghìda si ritrovò con le lacrime agli occhi incapace spesso di finire una strofa.
 
Dwalin che fino a quel momento stava solo tendo il ritmo con i piedi sotto il tavolo sentì due braccia afferrarlo da dietro e stupito si voltò di scatto ritrovandosi il viso di Dìs a un centimetro dalla sua faccia raggiante come non pensava di averla mai vista da quando era tornata ad Erebor.
 
«Avanti musone figlio di Fundin! Balla con me, come ai vecchi tempi!» Gli urlò nell’ orecchio per sovrastare tutte le voci e con un movimento repentino gli tolse il boccale dalla mano e senza che ebbe modo neanche di rendersi conto di ciò che stava succedendo, lo tirò via dalla sedia prendendogli entrambe le mani.
 
Si ritrovò trascinato in mezzo alla sala, con le mani nelle sue che ben preso si postarono una sulla sua spalla e una si andò a intrecciare prepotentemente con la sua, trascinandolo in una danza esuberante che lo lasciò senza fiato.
Dwalin non ebbe neanche piu’ la forza di controbattere, e in quel momento non lo avrebbe fatto neanche se Durin, se Mahal, se Yavanna, se chiunque altro Valar glielo avesse ordinato e per la prima volta in vita sua si ritrovò a danzare con lei tra le braccia in mezzo tutta la sala di Erebor, sotto gli occhi di tutti, sotto anche gli occhi sgranati di Balin che cominciò a cantare ancora piu’ forte rispetto a prima e a battere le mani sorridendo verso il fratello che impacciato seguiva i movimenti di Dìs, voltandosi poi verso tutti i tavoli ridendo verso tutta l’atmosfera che per un piccolo capriccio di Bofur si era venuta creare intorno a loro.
 
Solo un nano, solo un viso non era disteso, solo un animo era incatenato in un incantesimo che lo stava facendo bruciare.
 
 

 
Ma meglio della pioggia e dell'impetuoso torrente
D'acqua fredda il bisogno noi risentiamo a volte
Per cavare la sete e procurar sollievo;
Ma in questi casi è meglio di Birra una botte
E giù per la tua schiena Acqua Calda a dirotto.

 
 

 
Thorin la guardò danzare, il vestito rosso che si mosse in ogni folle movimento nel quale Bofur la spingeva, mentre ruotava in mezzo al tavolo tra piroette o piccoli saltelli a ogni suono acuto che doveva emettere, il lasciava andare con il collo indietro cantando; strinse con forza i poggia braccia della sedia facendola cigolare non appena nel muovere i capelli per fare una piccola piroetta, le vide un segno rossastro e violaceo alla base del collo ben esposto verso di lui, ricordandogli come un monito a cosa si era lasciato andare per quei pochi secondi che aveva spento ogni sua inibizione, come l’aveva voluta rendere sua.
Un fremito gli partì dal basso salendogli su fino al petto, fino alla gola: lei era immune a tutto ciò, e lui invece sentiva la ragione venirgli meno, e i desideri che erano solo rilegati nei suoi sogni ora stavano diventando estremamente reali, troppo reali, avrebbe dato qualsiasi cosa per reclamarla lì adesso anche sul tavolo, ma il tutto stava diventando troppo e la birra che stava ingurgitando da ore non lo aiutava affatto.
Si ritrovò a stringere la mascella furiosamente non appena Bofur le mise una mano sul fianco per farla inclinare all’indietro cantando: la stava desiderando a tal punto che per Durin stava perdendo perfino il senso della ragione e del controllo.
 
Espirò profondamente fece scivolare lo sguardo azzurro sul suo corpo, e sul vestito che indossava, ai piccoli ma preziosi lembi di pelle che mostrava a ogni movimento, al sorriso, che le marcava il viso : non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era bellissima, troppo bella.
 
Ori aveva ragione.
 
Bofur aveva ragione.
 
Era la cosa piu’ preziosa che ci fosse in quella montagna.
 
Lanciò un’occhiata verso il boccale di birra che aveva davanti: invece di una doccia fredda avrebbe funzionato, o almeno avrebbe funzionato per metterlo al tappeto quel poco che bastava per far passare quella serata.
Si allungò verso di questa sportandosela alla bocca e buttandone giù piu’ della metà in una botta sola, ma neanche mentre beveva riusciva staccarle gli occhi di dosso, neanch quando a canzone finita l’intero tavolo e i tavoli che li circondavano si alzarono in piedi applaudendo rumorosi, sbattendo i piedi e le mani e urlando a squarciagola facendo partire dei fischi alti che tintinnarono per tutta la sala.
 
La osservò da dietro il boccale di birra, il sorriso ampio che rivolse a tutta la sala ansimante mentre Bofur la fece piroettare un’ultima volta e rimanere con le braccia in alto per dei lunghi istanti prima di essere trascinata in un profondo inchino che per poco non le fece perdere ancora l’equilibrio facendola ridere a squarciagola nel frattempo che gli applausi e le urla di incoraggiamento divennero ancora piu’ alti.
 
«E’ strato così disonorevole mia signora?» Le urlò Bofur nell’orecchio sovrastando tutte le urla e i battiti di mani e schivando un pezzo di pane che lanciato gli sfiorò il cappello.
 
Senza riuscire a smettere di ridere Ghìda lo guardò scuotendo la testa, scossa dagli ansimi e dalle risate che dal petto sembrarono non finirle mai, entusiasta come non lo era mai stata in vita sua. «No, no affatto» Gli urlò a sua volta nell’orecchio portandosi una mano vicino alla bocca facendolo sorridere grato, sapendo probabilmente o almeno avendo intuito ciò che sentiva in quel momento e le strinse con ancora piu’ forza la mano ancora nella sua.
 
«Ne sono felice, ne sono davvero felice mia signora.» Le rispose e con un piccolo cipiglio smosse i baffi osservandole la nuca e con la punta delle dita le tolse qualcosa, mostrandole poi una foglia di insalata che le si era incastrata tra i capelli.
 
«Chiamami solo Ghìda, Bofur.» Gli mormorò sorridendogli.
 
«Ne sarò felice, Ghìda.» Le annuì ancora sorridendo prima di rivolgerle un piccolo inchino con la testa cui lei rispose teatralmente con uno ancora piu’ profondo portandosi indietro la gonna, ma appena lo fece sentì di nuovo sotto di se il tavolo muoversi e si drizzò su se stessa scossa. Non seppe se per la birra o il tavolo scivoloso, non lo voleva neanche sapere, ma era piu’ che certa che si sarebbe rotta l’osso del collo prima o poi.
«Ora chiedo perdono, ma pima che perdo di nuovo l’equilibrio è meglio che scenda.» Ammiccò verso Bofur prima di lasciargli cautamente la mano sotto lo scroscio di urla e applausi che non sembrava fermarsi, ma che si andò solo a confondere con altri balli e canzoni che erano ricominciate dal fondo della sala fino a loro.
 
Con cautela si alzò il lato del vestito di nuovo, che strusciava di fronte ai suoi pedi e inondando la gran parte del tavolo di tessuto rosso; fece attenzione a non toccare nessuna stoviglia avanzando a piccoli passi verso la sedia sulla quale era seduta fino a poco prima.
Cercò di allungare la mano verso lo schienale per crearsi una leva per poter scendere dal tavolo ma prima che potesse tentare di poggiarsi sullo schienale di legno, fin troppo lontano, una presa venne in suo aiuto sorreggendola repentinamente e sostituendo il freddo del legno con un calore talmente familiare che le bloccò il respiro e il passo.
 
Alzò lo sguardo scioccata verso l’alto e in quello che fu un istante incontrò gli occhi di Thorin e il mondo si spaccò di nuovo a metà: aveva cercato di evitare quello sguardo tutto la sera, aveva lottato contro se stessa per non guardarlo e ora invece ne era obbligata. Qualcosa però era cambiato, la guardava così intensamente che senti come se l’anima le si fosse spezzata nel petto: era desiderio, no era quello sguardo, quello che l’aveva incatenata sul tavolo quel pomeriggio.
Qualsiasi parola le manco dalla bocca, le stese parole che lui non le aveva rivolto sembrarono come se gliele stesse rivolgendo con quello sguardo, ma lei non voleva vederlo, lei voleva che glielo dicesse, voleva che le dicesse qualcosa, qualunque cosa: avrebbe voluto lasciarlo andare ma il corpo le agì per conto proprio, facendole stringere la mano di Thorin come se potesse cadere da un dirupo, incrociando lievemente le loro dita.
 
Come se potesse sentire i suoi pensieri Thorin le poggiò lentamente una mano sul fianco e senza chiederle il permesso o dirle nulla la sorresse con tutto il peso, accompagnandola nella piccola discesa dal tavolo, posandola poi con cautela a terra con una lentezza tale che stette quasi per pensare che la stesse trattenendo in alto di proposito e mai volle di piu’ che non la lasciasse andare, fino a che disperata sentì di nuovo il pavimento sotto di se a l’altezza di Thorin la sovrastò di nuovo.
 
«Grazie.» Mormorò tra gli ansimi e in un movimento che le costò tutto il suo coraggio sciolse le dita dalle sue ma Thorin non fu della stessa idea, seppure le lasciò la mano le tenne la mano sul fianco. La trattenne lì ferma immobile in quel limbo di niente, in quel limbo odioso in cui si ritrovava sempre eppure quella volta quel limbo le bastò, quella mano sul suo fianco che sentì sempre piu’ salire le bastò, eppure non doveva andarle bene, neanche quando Thorin le osservò il collo e puntò l o sguardo proprio in quel punto.
La mano libera che prima le teneva la mano si allungò verso il suo viso e in quello che fu il gesto piu’ delicato che sentì mai in vita sua, le andò a prendere una ciocca di capelli e passandosela tra le dita gliela, senza però rimuoverne mai lo sguardo da sopra il segno sul collo, se non per guardarla di nuovo dritta negli occhi quando ve la poggiò sopra.
Fremette girando la testa dalla parte opposta alla sua mano fino a che non sentì le sue dita sul collo spostarle i ciuffi di capelli verso il petto e sembrò quasi accarezzarle la  pelle nuda, indugiando sul suo collo: si morse l’interno del  labbro seguendo le sue dita, venendo catapultata di nuovo nelle sue fantasie mente il cuore le comincio a sanguinare. Sapeva che sarebbe finito tutto di nuovo e lei avrebbe sofferto, ma non voleva che smettesse. Alzò gli occhi verso quelli azzurri una silenziosa supplica se non di smettere, di continuare, ma la risposta fu quella che odiò di piu’ in assoluto: Thorin aprì la bocca, per dirle qualcosa ma la richiuse immediatamente

 
Dimmi qualcosa, ti prego, dimmi qualsiasi cosa tu debba dirmi ma dimmela.

 
Se non fosse stato per l’ormai palese tensione e silenzio che l’aveva circondava , sapeva che sarebbe potuta rimanere lì in silenzio, in piedi, lasciando che il tempo scorresse tra di loro per ore, i quei silenzi Thorin era sempre stato capace e di dirle piu’ di quanto ci fosse mai riuscito a parole, ma ora tutto quello che vedeva era incertezza, la sessa che sentiva da quando era uscita dalla sua stanza, dopo che Dìs le aveva rivolto quelle parole definitive, la stessa che la guidava nelle notti in quella grotta, la stessa che le aveva fatto muovere la sua mano sul suo viso lasciandosi andare, la stessa che ora le faceva stringere i pugni in una piccola e finale preghiera.
 
La sala parve essere partecipe in quel momento, un enorme respiro interrotto che si andava a passare da nano a nano, un sommo e quasi religioso silenzio nel quale Dwalin osservò la scena muto passando gli occhi da Thorin verso la mezz’elfa, tornando indietro in silenzio insieme a Dìs che così come lui li guardò esterrefatta, chiusi in quel mutismo che aveva visto solo poche ore prima e che Dwalin non riusciva a tollerare.
 
Thorin abbassò lievemente la testa di nuovo interrompendo i loro sguardi e così come si era creata quell’ennesima bolla, scoppiò nel tempo di un istante, sotto un sospiro che le attraversò il petto, mentre le sue dita si allontanavano da lei, così come lui.
 

Vi amerà il nano dietro il re, e quando questo lo farà non c’è corona o regno che glielo impedirà… mai.

 
Quella era una bugia una sudicia menzogna.
 
Stringendo la mascella abbassò lo sguardo a sua volta seguendolo con la coda dell’occhio fino a che non si sedette alla sua destra prima di lasciarsi andare sulla propria a sua volta, ripiombando nello schienale di legno e come se quel silenzio fosse appartenuto solamente a loro l’intera tavolata cominciò di nuovo il bivacco, tra pinte di birra che vennero passata da mano a mano fino alle parole interrotte a metà che vennero proseguite. La musica se possibile divenne ancora piu’ alta così come il vociare, rendendole piu’ facile ignorare la presenza al suo fianco, ad eliminarla del tutto, a far finta che seduto accanto a lei non ci fosse nessuno che l’aria.
 
Balin d’altro canto passò lo sguardo dalla ragazza seduta accanto a se, con lo sguardo basso e poi verso Thorin a capotavola che, appena si era seduto, si era lasciato andare con la pelliccia a coprirgli le spalle sull’immensa sedia, lo sguardo combattuto, che non riusciva a stare fermo su un punto se non quando lo passava sul tavolo, agguantando come un animale con le mani ai braccioli della sedia.
Si strinse le mani nei guanti l’una nell’ altra, girando leggermente i pollici cercando poi risposte in suo fratello, ma non en trovò alcuna, anzi il suo sguardo era puntato verso Thorin, rigido e fisso che solo dopo lunghi istanti ininterrotti il ragazzo ricambiò: si scambiarono un intero discorso con quello sguardo di cui lui non venne reso partecipe.
 
In realtà Dwalin stava bollendo dalla rabbia, ogni sua cellula del corpo gli stava dicendo di avventarsi su di lui, di chiedergli se fosse impazzito, se quello che aveva appena vissuto non fosse abbastanza un conferma per trascinare la mezz’elfa fuori da quella sala ma gli occhi freddi che gli rivolse gli fecero ben capire che non l’avrebbe fatto così come il suo girarsi di scatto verso la pinta di fronte dissetandosi come un assetato in un deserto.
 
Idiota.
 
Ricolmo d’ira, che ormai non capiva piu’ se scaturisse dalle azioni di Thorin o da quelle che lui invece a differenza sua non poteva compiere, seguì la sua stessa iniziativa, spostò lo sguardo furioso verso la pinta semivuota e ne bevve l’ultimo sorso. La batté rumorosamente sul tavolo non appena la finì sfacendo scrocchiare la lingua del palato ormai asciutto del quale sentiva il bisogno incontrollabile di rendere di nuovo umido: si alzò tentando di non guardare i piccoli fermagli accanto a lui o la nana che li indossava, o i capelli neri che gli coccolavano le notti, cercando di non guardare nulla in realtà che non fosse il profilo rigido di Thorin fisso davanti a se.
 
«Mi vado a prendere una pinta.» Borbottò tra se e se.
 
«Altre due.» Mormorò Thorin di risposa sostando lo sguardo alla sua destra osservando Dwalin già in piedi e pronto a incamminarsi accanto a se che di tutta risposta ruotò gli occhi al cielo, prima di incamminarsi verso il centro della sala, dove litri e litri di birra erano ammassati in botti che venivano di continuo riportate.
 
«No no vai tu per primo, sai che non sono bravo con queste cose.»
 
«Ma c’è il re lì!»
 
«Sei un fifone Trèl!»
 
«Tu non sei meglio fratello!»
 
Al nome familiare Ghìda si riscosse e spostò lo sguardo in alto in mezzo alla sala dal quale lo schiamazzo divenne sempre piu’ alto e poco lontano dal tavolo reale, illuminati dal focolare in mezzo al salone, un gruppo di piccoli nani tanto familiari avanzava a piccoli passi incerti nella sua direzione continuando a battibeccare, scuotendosi l’uno verso l’altro, o triandosi l’uno verso l’altro, indugiando ad ogni passo lanciando breve fugaci occhiate verso di lei e verso il tavolo.
 
«Suppongo che ci sia qualcuno che desideri parlare con voi.» Commentò Balin sorridendole tirato con il lato della bocca dando voce a un pensiero comune, sovrastando con la sua voce il mormorare della tavola spostando lo sguardo dal profilo di Ghìda verso i bambini poco distanti.
 
Glòin si alzò di poco oltre la fine del tavolo per studiare la situazione e appena vide uno dei tanti piccoli nani schiacciare il piede di un altro battibeccando sogghignò. «Mhmm quello mi sembra piu’ un consiglio a cui presiedere più che un semplice chiacchierata.» Commentò sotto la barba rossa e sbuffando il fumo bianco della pipa dalle narici che venne fuori a piccole nuvolette mentre ridacchiava.
 
«E non è meglio se lo facciamo ora, magari dopo va a dormire e non glielo abbiamo dato! Anche a-dad l’ha detto!»  Ribatte Nìm tirando con entrambe le mani la camicia del fratello spingendolo a fare qualche passo in avanti mentre quest’ultimo continuava a tenere ancora i piedi fermi non volendo avanzare di un passo, impuntando i talloni sul marmo verde.
 
«No!» Ribatte tirandosi a sua volta la camicia e lanciando un’occhiata dietro di se, diversi tavoli indietro, dove dietro boccali di birra alzati e  tra torri di piatti poté vedere i capelli rossi di suo padre e immediatamente il suo sguardo severo nel frattempo che con il mento continuava a indicargli il tavolo reale. «Io non ci vado… adesso…così sembra che l’abbiamo fatto apposta! Non…non è onorevole.»
 
«Ma Farìm!» Piagnucolò Nìm con gli occhi verdi che le tremarono e inclinando il piccolo labbro inferiore a inclinare verso il basso mentre la  stretta intorno alla sua camicia si fece sempre piu’ salda.
 
«E’ stata una pessima idea… noi… non dovremmo. Lo faremo domani.» Ribatté sul punto vivo non riuscendo a compiere un passo. Osservò il re seduto, con lo sguardo austero e un improvviso panico gli afferrò lo stomaco rendendolo ancora piu’ sicuro della sua idea, soprattutto dopo quello che era successo la mattina e quello che era successo pochi minuti prima.
 
«L’idea è stata tua!» Ribatté di tutto punto sua sorella, tirandogli ancora la camicia.
 
«Sì ma lì c’è…lì c’è anche Thorin Scudodiquercia noi…»
 
«Appuntò perché c’è lui dobbiamo andare! E quando saremo  guardie reali cosa farai non gli parlerai riccioli rossi! E c’è anche il capitano della guardia, Dwalin, figlio di Fundin, dobbiamo andare, cos-»
 
«Lòni chiudi quella bocca ci stanno guardando tutti!» Lo rimproverò Drèl dandogli uno schiaffo dietro la testa, alla base del collo, per farlo stare zitto o almeno per fargli abbassare la voce, visto che ormai quasi tutta la tavolata era girata verso di loro: ogni singolo volto della tavola reale li osservava, chi ridendo chi dandosi delle gomitate sornione o parlottando.
 
A Fàrim  salì ancora di piu’ il panico quando vide perfino il re osservarli oltre le sopracciglia scure, così regale e severo che trasformò il panico in rabbia verso l’amico dietro di lui che non sapeva mai tenere la bocca chiusa. «Sei tu che hai cominciato e se sei tanto coraggioso vai tu per primo, vai tu a chiamare Ghìda! Io non mi muovo di qui!» Ribatté Fàrim ancora con le mani artigliate nel tessuto che sua sorella continuava a tirare imperterrita anche in quella situazione facendogli salire il sangue al cervello ormai totalmente annebbiato.
 
«Dobbiamo farlo tutti insieme!»
 
«Non era questo l’accordo!»
 
«Non c’è stato alcun accordo!»
 
«Sei un bugiardo»
 
«E tu un piagnucolone!»
 
«E se venissi io da voi?» Una voce interruppe il piccolo battibecco facendo alzare lo sguardo esterrefatti a tutti e sei i nani verso l’alto.
 
 Ghìda teneva le braccia incrociate al petto e un sopracciglio alzato avanzando a lenti e piccoli passi verso di loro che tanto presi dal loro imperterrito e continuo ma alle volte estremante dolce battibeccare non si erano neanche resi conto che aveva sentito gran parte della conversazione e che in tutto quel tempo era riuscita a fare il giro del tavolo e avvicinarsi senza essere notata.
 
Si ammutolirono all’istante vedendola, girandosi tutti dritti nella sua direzione: Nìm lasciò la camicia a l fratello diventando da un gruppo disordinato un gruppo  ordinato e rigido, mettendosi un accanto all’altro in una linea dritta, perfino la piccola Mar che di solito le correva sempre incontro si guardò verso i piedi imbarazzata, muovendole le punte dei piedi e pigiandole sul pavimento nervosa.
 
« M-mia signora, non volevamo, noi…interromperti.» Mormorò Trèl facendo un piccolo inchino con la testa nervosamente e voltando la testa verso tutti i nani intorno a lui che chi piu’ e chi meno compirono lo stesso gesto.
 
Di fronte a quel comportamento Ghìda non poté fare a meno di accigliarsi, osservandoli con ancora piu’ attenzione mentre si faceva piu’ vicina. «Da quando in qua mi chiamate mia signora? E inoltre non avete interrotto nulla.» Tentò di rassicurarli chinandosi di fronte a loro, ma questi rimanevano fermi e immobili, terribilmente seri.
 
Fàrim però non si lasciò scappare l’occasione per fulminare Lòni accanto a se avvicinandosi vicino al suo orecchio. «Vedi potevamo aspettare per darglielo.» Lo rimproverò tra i denti dandogli una gomitata.
 
«Sta zitto Fàrim.» Questa volta sia la sorella più’ piccola che il migliore amico si girarono verso di lui rimproverandolo nello stesso istante.
 
«Cosa mi dovete dare? Qualcosa di importante immagino se siete tutti così seri.» Li prese in giro, ma a quella frase si irrigidirono ancora di piu’ lanciandosi delle fugaci occhiate e voltandosi dietro di loro, o affacciandosi nervosi verso il tavolo reale alle loro spalle, incerti, troppo incerti per i suoi gusti.
 
Nìm si voltò verso di lei addolcendo immediatamente il volto dapprima adombrato dal comportamento del fratello mordendosi il labbro nervosamente facendo saettare lo sguardo verso di lei e verso Lòni al suo fianco cercando un supporto che la fece preoccupare.
 
«Ecco sì cioè è un… una cosa…» Cominciò incerta alzando lo sguardo verso quella del nano biondo che scrollò le spalle non sapendo come aiutarla ma infine gettò un‘ occhiata dietro la sua spalla e tirò su la schiena puntando il dito.
 
«Ce l’ha Trèl.» Concluse Lòni andandole in aiuto ma scaricando indirettamente l’arduo compito sul nano dai capelli corti che si rizzò dritto arrosando.
 
«Si si ce l’ho io» Annuì il piccolo nano sbattendo piu’ volte gli occhi scuri nervosamente, teso come una corda d’arco mosse le spalle e fu solo in quel momento Ghìda che ebbe la possibilità di capire che per tutto il tempo aveva trattenuto dietro la sua schiena, ma non ebbe neanche il tempo di potersi affacciare oltre le piccole spalle per vedere che il viso di Nìm le si parò davanti coprendole la vista.
 
Gonfiò le guance arricciando le piccole lentiggini sul naso seriamente. «Chiudi gli occhi!» Le ordinò aprendo le piccole mani davanti ai suoi occhi rendendole impossibile vedere oltre la punta del proprio naso.
 
Seppur ancora non del tutto tranquilla annuì accomodandosi ancora meglio con le ginocchia sul pavimento freddo.  «Molto bene chiudo gli occhi.» Confermò facendo ciò che le era stato detto sospirando cercando di aprire un occhio ma le fu subito coperto da una piccola mano.
 
«Metti le mani avanti e aprile.» Le ordinò di nuovo la piccola voce candida e ubbidì anche a quell’ordine seppur il tono autorevole ma infantile le fece scappare una risata così le mani premute con ancora piu’ fermezza sui suoi occhi.
 
«Non guardare, aspetta ancora un attimo, Trèl veloce!»
 
«Ecco, ecco ho quasi fatto aspetta, per la barba di Durin, no, aspettate!»
 
Non riuscì a trattenere questa volta una risata quando sentì delle piccole imprecazioni e uno strusciare di tessuto seguito da un leggero tintinnare metallico e tante piccole voci sussurrare l’una all’latra, che però con la musica ancora alta non riuscì a capire affatto, sembrò piu’ un mormorio lontano e impercettibile: cosa potevano essersi inventati?
 
Irrigidì le mani quando sentì qualcosa di liscio e freddo poggiarcisi sopra, talmente grande che riuscì ad occuparle entrambi i palmi delle mani: non riusciva a vederlo ancora, ma sapeva che era qualcosa di metallico. Delle piccole punte le premettero sulla carne, ma altre parti erano invece lisce, traballava appena muoveva le mani ma era abbastanza leggero da non cadere. Neanche quando le mani che lo trattenevano a lei al suo posto si staccarono. Inarcò le sopracciglia e si sforzo sondando la memoria di qualsiasi cosa potesse essere ma non arrivò a nessuna conclusione
 
«Apri!» Le urlò Nìm entusiasta staccando le mani dai suoi occhi e così fece puntando immediatamente lo sguardo verso le sue mani e raggelò spalancando la bocca: le mani le cominciarono a tremare, il cuore sembrò uscirle dal petto mentre osservava la scia dorata che era poggiata sui suoi palmi con gli occhi sgranati.
 
Sette gemme blu incastonate in una fascia dorata, diversi rombi che le trattenevano e che scendevano squadrati verso il basso e salivano verso l’alto alterandosi, finendo in una gemma piu’ grande nel mezzo, accavallata in un intreccio di fascette squadrate nere e dorate che scendevano giù ripide anche nel retro.
 
«Mar ci ha detto che non ne avevi una perciò…»
 
Ghìda sobbalzò stringendo lentamente le dita intorno all’oro delle sue mani quando improvvisamente il comportamento di pochi giorni prima le tornò in mente, il loro essere schivi, il loro non rispondere alle sue domande, il loro coprirsi le spalle a vicenda o riprendersi, lo scomparire nelle forge appena finivano le lezioni.
 
«E-era questo che mi nascondevate l’altro giorno?» Riuscì a chiedere alzando lo sguardo dalla corona nelle sue mani passando lo sguardo scioccato su tutti e sei i bambini di fronte a lei.
 
«Quando dormivi ci abbiamo pensato, ma non sapevamo se potesse andare, è la prima che abbiamo mai forgiato, cioè, da soli…» Appuntò Fàrim grattandosi il dietro della nuca e alzando le spalle imbarazzato con le guance totalmente rosse «L’abbiamo fatta con quello che rimaneva nelle carrucole a fine giornata, non so se avessimo il permesso di prenderle in realtà ma nessuno ci ha detto nulla, o almeno nessuno ci ha visto.»
 
«Non dirlo al re! Per favore, non pensavamo di… le avremmo ripagate, i-in qualche modo!» Si sbrigò a dire Lòni guardando dapprima l’amico e poi la tiara che teneva ancora tra le mani deglutendo rumorosamente «A-avevamo qualche moneta da parte a-avremmo usato quelle.»
 
Nìm spostò lo sguardo verso il nano dai capelli biondi e vi ci avvicinò allungando la mano verso la manica della cotta stringendogliela gentilmente, annuendo poi a sua volta verso di lei  «Drel e Trel l’hanno disegnata, L-Loni e Fàrim hanno fatto a turno alle forge e …»
 
«Io e Nìm abbiamo preso le gemme!» Esultò Mar interrompendo le parole dell’amica e avvicinandosi saltellando verso Nìm prendendole la mano con foga e trascinandola via dalla stretta di Lòni facendolo sorridere tristemente ma lasciandola comunque andare alla foga della piu’ piccola.
 
Il piccolo dito della nana si andò a poggiare sopra la gemma al centro della corona, la più grande, blu come il mare. «Questa… questa qui, l’ho scelta io, e questa, questa l’ha scelta Nìm!» Fece indicando quella accanto piu’ piccola. «Questa invece l’ho scelta di nuovo io e questa Nìm ancora!» Le indicò una per una entusiasta sotto gli occhi dell’amica che annuì a ogni sua parola.
 
Drèl guardò suo fratello sorridendo nervosamente spostando poi lo sguardo verso la piccola nana che con gli occhi che le brillavano ancora puntava ogni gemma saltellando su se stessa. «Siamo dovuti andare nella biblioteca, non è stato facile, il signor Bofur ci ha preso dei vecchi libri, ma potevamo leggerli solo quando tu non c’eri, se no l’avresti vista, è… è anche per questo che non ti siamo venuti a trovare, la stavamo… la stavamo finendo.»
 
Mentre ascoltava quelle parole Ghìda non era riuscita a dire nulla, aveva solo spostato lo sguardo su ognuno di loro ma ogni parola che usciva dalla loro bocca fu per lei una pugnalata in pieno petto che le fece stringere con ancora piu’ forza la corona nelle sue mani e le rese ancora piu’ difficile sostare di nuovo lo sguardo sulla tiara e a buttare giù il groppo in gola.
 
Era bellissima, preziosa oltre ogni dire, così infantile ma aggraziata che avrebbero potuta crearla anche con un ramo di un ginepro e sarebbe stata preziosa allo stesso modo, ma il solo guardarla, le fece pensare che fosse tutto uno scherzo del destino che tirava i fili per sottolineare ancora quello che era, per toglierle tutto ancora una volta, il suo amore e il suo stesso onore e dovere e ricordarle ancora una volta cosa volesse ma che non poteva avere.
 
Nìm notò il suo sguardo, fisso sotto a corona e gli occhi di Ghìda assottigliarsi quasi come se si stesse facendo male. «Non ti piace?»
 
Ghìda sussultò a quelle parole ma le sue ancora forzavano a uscirle: cosa avrebbe dovuto dirgli a tutti loro? Da una parte li voleva stringere tra le braccia, da un'altra parte sapeva di non poterlo fare, di non poter neanche stringere tra le dita l’oggetto che adesso le premeva tra le dita e i palmi.
 
Sospirò osservando tutti e scosse la testa cercando le parole adatte, ma ognuna di esse gli sembrò sbagliata, tutto ciò era sbagliato. «No è stupenda Nìm è….meravigliosa ma io…» Sospirò profondamente e si lasciò ancora piu’ andare con le ginocchia verso terra  e allungò le mani di nuovo verso di loro per porgliela di nuovo. «Io non posso indossarla.» Esalò infine.
 
«Si che puoi, l’abbiamo fatta noi!» Esclamò sorridente Mar lasciando la mano di Nìm e portandola verso il suo polso per incoraggiarla, ma non c’era nulla da incoraggiare e questo le spezzò il cuore, così come il vedere la piccola nana entusiasta.
 
Scosse ancora la testa. «No Mar non posso, te l’ho già spiegato perché non ne ho una e non è solo un fermaglio, io… io non posso metterla.»
 
Cercò ancora di spiegarle tentando di non guardare sotto di lei, verso la corona che nessuno dei sei nani aveva intenzione di riprendere, anche se vi ci lanciarono delle occhiate affrante: avevano capito, avevano capito tutti, tranne la piccola nana che ancora le teneva il polso sorridendole affabile, provando a convincerla a riprenderla.
 
«T-tu mi hai detto che ne avrai una quando sposerai il re vero? Ma mi hai detto che voi vi volete ben come a-mad e a-dad, quindi non lo siete già in realtà sposati?» Le chiese insistentemente ancora piu’ confusa di prima,  inclinando la testa di lato, come anche i nani dietro di lei quando videro Ghìda stringere gli occhi a quell’ ultima frase e tremare leggermente.
 
«Non è così che funziona lui non… noi non…» Le parole le faticavano a uscire fino a che non lasciò andare la testa in avanti arresa con sospiro pesante, talmente pesante che risuonò per tutta la sala.
 
Nel frattempo nessuno dei compresi nella conversazione si era reso conto del silenzio che era sceso nella sala, un silenzio non rotto neanche da un respiro, che parecchi nani stavano trattenendo nelle bocche spalancate; altri si dovettero alzare dalle loro sedia per osservare la scena dietro il focolare in mezzo alla sala e essere sicuri di cosa fosse il piccolo oggetto che veniva fissato così intensamente dalla futura regina in ginocchio sul pavimento e verso i piccoli nani di fronte a lei.
 
Al tavolo reale non c’era mai strato così tanto silenzio da ere, così come un tale sbigottimento che saliva attimo dopo attimo, perfino le candele sul tavolo sembravano aver smesso di tremare, fino a che quella domanda talmente infantile della piccola nana non le spense del tutto: si fermarono tutti, le espressioni tristi e meste; guardarono Ghìda, che teneva ancora gli occhi chiusi e Bofur, quello piu’ vicinò poté anche notare un particolare sfuggito a molti: una singola lacrima oltre le ciglia nere, che brillo alla luce del focolare, evaporando nel momento stesso in cui si era creata.
 
L’unico a non fissare la scena era Dwalin, troppo preso a guardare Thorin, pronto ad assicurarsi che non facesse sciocchezze, ma la sua reazione alle parole della ragazzina lo sbalordì anche se avrebbe dovuto aspettarsela: teneva il viso fermo e rigido, le mani strette sui braccioli della sedia, il volto ricolmo di colpa gettato verso la mezz'elfa, i muri verso i suoi pensieri e il suo cuore alti come non mai.
 
Una verità infantile di una bambina, quanto vera, un futuro possibile che il Re Sotto la Montagna ora voleva solo riprendersi.
 
«I-io diventerò regina solo dopo, fra alcuni mesi, fino ad allora io… le regine diventano tali solo quando… solo quando sposano un re.»
 
Lòni scosse la testa e coraggiosamente face un passo in avanti con la testa alta la mano ben stretta sull’impugnatura della piccola spada al suo fianco: questa volta era lui che non voleva sentire ragioni. «No non è vero tu lo sei già! Tu già sei regina!» Affermò con il petto che si gonfiò, in una frase sicura.
 
«No Lòni non lo sono.» Negò ancora, la voglia di chiudere lì quella conversazione era tanta, troppe cose, troppi sentimenti che andavano in contrasto l’uno con l’altro: possibile non riuscissero a capire?
 
Un battito secco per terra attirò l’attenzioni l’attenzione di tutti, interrompendo Lòni che stava per ribattere.
 
«Si tu lo sei!» Ribatté Nìm sovrastando la voce di tutti, sovrastando i pensieri di tutti i nani nella sala che sbigottiti continuavano a fissare la scena di fronte ai loro occhi.
 
La piccola nana aveva i pugni contratti, un fuoco negli occhi che mai le aveva visto, sembrò piu’ grande di quanto non fosse, aveva sbattuto il piede con tale forza da far quasi tremare il pavimento sotto di lei. Lòni la guardo con gli occhi sbarrati, mentre il piccolo corpo cominciò a tremare dalla frustrazione e gli occhi verdi cominciarono ad arrossarsi e riempiersi di lacrime.
 
«Tu… tu hai salvato a-dad, hai salvato la carovana, hai…hai salvato la principessa e hai salvato il re, tu! Tu sei una regina! Perché dici di no!?» Urlò colma di rabbia, con le prima lacrime che cominciarono a scendere una alla volta, bagnandole il vestito verde. « Quando ci racconti quelle storie, sui re, su tutte le ere, ci racconti sempre di come i sette padri e le loro famiglie si sono susseguite, come ci hanno dato le nostre case, come in un modo o nell’altro anche da morti vegliano su di noi, sia i sette padri che le sei madri, di come vegliano sempre su di noi attraverso il Kheled-zâram, di come ci guardano sempre dalle sacre aule, e non è quello che… tu lo hai fatto! Tu hai vegliato su di noi!»
 
«N-nìm..» Tentò di interromperla, ma le parole vennero inghiottite da altre, spezzate da diversi singhiozzi e una frustrazione repressa, piena di risentimento, piena di un pensiero che tormentava la piccola nana da quando l’aveva vista priva di sensi all’entrata del palazzo.
 
«Come una guardia, o… o una madre, loro… loro proteggono!»
 
«Io ho fatto solo quello che dovevo, non…»
 
«No! Tu non dovevi, Tu lo hai fatto, tu li hai protetti, hai protetto tutti e poi stavi… quando sei tornata…Tu stavi per morire per questo, tu… tu ci… Non è quello che fanno le regine dei nani, le sei madri, proteggere? E-e  tu lo hai fatto, quindi tu sei come loro…» La voce le traballò nuovamente e infine crollò la rabbia si affievolì e i singhiozzi divennero un silenzio talmente colmo di dolore e di resa che Nìm lascio andare la testa in avanti piangendo silenziosamente, i pugni stretti che cercavano di far smettere le lacrime ormai incessabili. «Non…non è giusto!»
 
Ghìda si sentì sprofondare in un baratro gelido e freddo; non percepì il battito del cuore, certa di non possederlo più. Rimase attonita a fissarla, costantemente in silenzio: avrebbe voluto stringerla a se, dirle che aveva ragione, che le regine proteggono, ma come le parole di Dìs ore prima, quelle di Nìm la distrussero dall’interno.
Si morse il labbro per trattenere quelle lacrime che continuavano a supplicarle di uscire, di sopprimere ogni suo sentimento, e tuti i suoi desideri, mettendoli da parte per il suo dovere e il suo dovere, non era quello che voleva, purtroppo se n’era resa conto, e le faceva male, troppo male.
 
«Nìm io non… io non sono una…io sono…» La voce le si spezzò, mentre le parole le andavano a morire in bocca, ma non ebbe neanche il tempo di pensarla che venne interrotta.
 
«L-lo sappiamo già.» La interruppe Fàrim alzando lo sguardo da terra verso di lei sorridendole tristemente con il lato della bocca,  sconvolgendola piu’ già di quanto non fosse. «Lo abbiamo sempre saputo in.. in realtà, ce… a me lo ha detto a-mad, e poi, ne hanno parlato spesso per la Montagna e non fa niente, n-non credo faccia niente.» Mormorò stringendo il braccio con la mano verso il suo fianco osservando la sorella ancora piegata su se stessa che non alzava lo sguardo tremante.
 
Nìm si passò vigorosamente le maniche del vestito sugli occhi, asciugandosi gli ultimi residui delle lacrime che aveva versato e le scappò un ultimo singhiozzo che le smosse tutti i ricci rossi in avanti, quando però puntò lo sguardo verso di lei sembrò quasi come se la piccola nana non avesse mai pianto, come se non avesse appena urlato a squarciagola. Una piccola guerriera che veramente abbassò le mani verso i fianchi guardandola.
 
«T-tu tieni a noi, non è vero, anche se non siamo come te?» Le chiese guardandola dritta negli occhi, ponendole una domanda che la lasciò senza fiato.
 
Così tante volte avrebbe voluto che qualcuno le ponesse quella domanda, o quante altre volte avrebbe voluto porla lei, quante volte se la poneva da sola, il potersi amare anche se non era come loro, o che loro la potessero amare a loro volta. Li avrebbe dovuti odiare, tutti loro, tutta la loro razza, sarebbe stato meglio, non le avevano mai dato nulla, fino a pochi mesi fa lei non aveva avuto nulla da loro, dalla sua gente, lei per loro era una nana quanto un esce potesse appartenere al cielo.
 
Ma ora, ora era diverso, ora sapeva cosa volesse dire amare un popolo, non solo appartenergli.
 
Con le lacrime agli occhi poggiò la corona tremante sulle sue gambe e le prese il viso tra le mani, continuando a ricambiare il suo sguardo senza mai staccarlo, neanch per un istante: con delicatezza poggiò la fronte su quella della piccola nana, le sue piccole mani che si andarono a poggiare  sulle proprie stringendole con fermezza.
 
«Certo, certo che tengo a voi, piu’ di quanto puoi immaginare. Non ne avete nemmeno idea di quanto.» Mormorò con voce spezzata continuano a ricambiare il suo sguardo fisso. «Tengo a tutti voi in un maniera che neanche Mahal sa.»
 
«Tutti noi?»
 
Annuì accarezzandole con i pollici sotto gli occhi per trasportarle via gli ultimi residui delle lacrime che aveva versato. «Ogni singolo nano in questa montagna, ogni singolo nano nella Terra di Mezzo.»
 
I suoi occhi si illuminarono a quella semplice frase e sorrise tristemente. «Allora accettala, ti prego…P-per piacere.» La supplicò ancora con gli occhi verdi che le si riempirono ancora di lacrime e le piccole mani che si strinsero con ancora piu’ forza intorno alle due, allungandosi verso i propri polsi toccandole la prima runa sul polso scoperto.
 
Ma in qualsiasi caso non poteva accettare, anche se era solo un piccolo oggetto, anche se era meramente un simbolo, un dono, sarebbe significato molto di piu’ e lei non era in grado, non era in grado di poterlo neanch vedere, di osservarlo, perfino averlo sulle gambe in quel momento le bruciava, le lacerò l’anima attimo dopo attimo: lo sarebbe stata, regina, ma non poteva, non così.
 
Aprì la bocca nuovamente per ribattere ma poi un gracchiare si innalzò per tutta la sala, un gracchiare alto e ridondante che le fece alzare gli occhi in alto verso il soffitto da dove proveniva quel rumore intenso, ripetuto da piu’ becchi. Nessuno si era reso conto di ciò che era successo in pochi attimi, lei per ultima. Tra le fiaccole accese in cima alla montagna, tra i fasci di luce verde che si scontravano nei fregi dorati, decine di corvi, passando tra le piccole celle o i colonnati della sala, erano accorsi dai piani piu’ alti della montagna, alcuni svolazzavano vicino al tetto, altri si poggiavano tra i capitelli delle colonne squadrate, sulle asce dei giganteschi guerrieri ai lati della stanza, altri che giunsero si posarono sulle stecche dorate degli stendardi o le picche delle guardie incredule.
 
Il becco e la testa di ogni singolo corvo  erano puntati verso il basso, verso un unico punto, verso la figura inginocchiata in mezzo alla sala, verso la dama che di fronte al gruppo di piccoli nani teneva lo sguardo scuro in alto verso il soffitto esterrefatta e confusa, passando in rassegna ogni corvo di Erebor che volava nella sala e infine si appollaiava come degli spettatori pronti a uno spettacolo che da quella notte in poi sarebbe stata raccontata da regno a regno.
 
Al gracchiare sommesso si aggiunse ben presto un altro rumore, basso e graffiante, uno strusciare del legno sul pavimento marmoreo che si propagò in un altro e poi un altro e un altro ancora, un rumore sordo che fece rizzare la schiena di Ghìda e spostare gli occhi di fronte a lei. Uno ad uno i nani della sala avevano cominciato ad alzarsi dalle loro sedie, in un totale e completo silenzio. Centinaia di teste che una alla volta si drizzarono insieme alle loro le schiene osservando lo stesso punto, verso di lei, non staccando mai lo sguardo e rimanendo in silenzio mentre il rumore dei corvi e del loro battito d’ali divenne quasi insopportabile.
 
Ma poi accadde.
 
Un rumore, basso e ripetitivo si fece largo da infondo alla sala: un battito, due battiti, tre battiti, che si alternarono rigidi e sordi, un singolo suono ripetuto che le fece aguzzare la vista per cercarne la fonte, ma poi se ne aggiunge un altro, e un altro ancora e fu questione di pochi attimi ma ben presto fu in grado di capire:  tutti i nani nella sala si portarono le mani sul petto lentamente e nel piu’ completo e totale silenzio, cominciarono a battere i pugni chiusi all’altezza del cuore, continuando ad osservarla, scandendo dei suoni netti che riuscirono a sovrastare il gracchiare sempre piu’ alto sopra di lei.
 
Le mancò il respiro il cuore le cominciò a battere al ritmo dei pugni sulle cotte, sui petti: i tatuaggi sulle braccia cominciarono a bruciarle come la prima volta che se li era fatti addosso, senti il petto tremarle in un fremito che ben presto le arrivò fino agli occhi, bloccando qualsia lacrima.
 
Non poteva accadere, tutto ciò non poteva essere vero.
 
Lasciò andare il volto della piccola Nìm e con una insopportabile lentezza si voltò in cerca di certezza verso il tavolo reale dietro di lei e con gli occhi spalancati li osservò uno ad uno: erano tutti in piedi, tutti con la mano sul petto che batteva, osservandola sorridendole o con il capo in riverenza. Dìs le fece un cenno con la testa verso il basso in un breve inchino e Bofur invece si tolse perfino il capello aumentando il ritmo continuando con foga.
 
I suoi occhi però si puntarono verso l’ultima figura a capotavola che piu’ di tutti gli altri lei cercò disperatamente e quando la trovò il cuore che dapprima le palpitava nel petto le si fermò all’istante: Thorin era in piedi come tutti gli altri, dritto e fermo, le mani chiuse in due pugni poggiate sul tavolo un’espressione indecifrabile, gli occhi azzurri fissi su di lei in attesa, una lunga ed estenuante attesa accompagnata dai battiti infinti e dal gracchiare sempre piu’ alto sopra di lei.
 
Lui non aveva intenzione di fermarli, lui non l’avrebbe fermati, nessuno li avrebbe fermati
 
«Cosa vuol dire?» Chiese la piccola voce di Mar osservando interno con le mani ferme sul tessuto della gonna, i piccoli occhi vispi che si spostarono scioccati da una parte all’altra fissando poi un corvo che si appollaiò quasi accanto a loro vicino al focolare.
 
Senza fiato alcuno Ghìda si voltò di nuovo verso i sei nani in piedi di fronte a lei che così come la piu’ piccola passarono irrequieti lo sguardo intorno a loro e lasciò scendere la prima lacrima, rendendosi pienamente conto della risposta che avrebbe dato.
 
«Che posso indossarla.» Le rispose sorridendo mentre le lacrime che per troppo aveva trattenuto le cominciarono a scendere copiose oltre le guance, finendo tra le labbra, e sul collo, una dopo l’altra che aumentarono solo quando posò di nuovo lo sguardo sotto di se dove tutti e sei le piccole paia di occhi la guardarono scioccati.
 
«D-davvero?» Le chiese esterrefatta Nìm di fronte a se.
 
Lei si ritrovò ad annuire mentre il peto le si abbassava velocemente sopraffatta dalle emozioni incapace di parlare
 
Lòni stette per gioire, facendo un piccolo saltello ma poi sembrò come bloccarsi, come se una consapevolezza lo avesse attraversato e di fronte a fece un respiro profondo portandosi lunga treccia bionda sul lato della testa con un movimento secco dietro la spalla. In una minuziosa cerimonia in silenzio si tolse la spada sul suo fianco e la posò a terra di fronte a lei, dritto e rigida e con cautela si chinò con il capo prendendo la corona dalle sue gambe con le mani tremanti che tradirono la sua serietà.
 
La osservò nervoso aprendo la bocca alzando di poco la tiara dorata, chiudendola però immediatamente, e poi riaprirla un'altra volta prima di richiuderla incerto.
 
«N-non so cosa dire, c-cosa si dice?» Le chiese incerto osservando dapprima la tiara tra le sue mani e poi la sua testa tendo la corona sempre piu’ in alto.
 
Le scappò una piccola risata e scosse la testa senza riuscire a smettere di sorridere. «Non dire nulla, va bene così.» Lo rassicurò strappandogli un sorriso nervoso prima che alzasse le braccia del tutto, ben presto sorretto da tutte le altre dieci mani del piccolo gruppo di nani.
 
Ghìda osservò il pavimento e vi poggiò un ginocchio e poi l’altro abbassando il capo in una sorda riverenza che non fece altro che far aumentare il ritmo dei pugni sul petto per tutta la sala, o il rumore il gracchiare dei corvi sopra di essa, un inchino che non era rivolto verso solo un gruppo di nani ma verso un intero popolo, un’intera razza.
 
Non era capace di guardare cosa stesse succedendo, non aveva piu’ le forza di fare nulla, la pura che si instillò in lei non svanì, la paura profonda che fosse solo uno stupido scherzo, un illusione che un Valar aveva appositamente creato per lei: chiuse le mani in due pugni stretti, fissi che non si rilassarono, mai abbassando il capo sempre di piu’ fino a che i ciuffi non le toccarono terra o i piccoli cerchi nei tintinnarono sul marmo.
Esalò pesantemente non appena la pressione dell’oro si andò a poggiarle sulla testa,: le ,mani dapprima chiuse si aprirono dando il via alle lacrime direttamente dal centro del suo cuore cominciarono a rigarle il volto, e a cadere per terra bagnando con piccoli cerchi il pavimento o la gonna del vestito. Alzò il capo lentamente mente il petto le si alzava e le si abbassava in respiri sempre piu’ veloci; i piccoli nani di fronte a lei la guardarono preoccupati, notando ormai le numerose lacrime che rigandole il viso non smisero neanche quando  ma che aumentarono solo quando la bocca le si distese in un sorriso travolgente, un mero riflesso di ciò che sentiva in quel momento, un mero riflesso di ciò che le infiammava il petto.
 
E sotto gli occhi esterrefatti di tutti e sei, come se fosse sorretta da una forza invasile Ghìda si alzò come se si stesse alzando per la prima volta in vita sua: un passo lento, e poi un altro, il petto che si alzava e si abbassava al suono dei battiti, le lacrime che ormai le solcavano il viso alto osservando tutta la sala di fronte a lei, ascoltando i pugni la ritmo nel suo petto.
 
Nel mezzo di uno scroscio di pugni, accadde una cosa che non accadeva da ere si presentò sotto la montagna, un gesto che segnò quella notte indelebilmente, una regina, diventata tale già prima di esserlo, un’incoronazione che fu piu’ di questo, fu la nascita in un popolo dell’essere piu’ disgustoso che avesse mai messo piede nelle aule di Durin. I nani della montagna non accettarono semplicemente una regina, accettarono lei come regina, accettarono una mezz’elfo, una sangue sporco, una maledizione non vista piu’ come tale.
 
Ghìda si era sbagliata si era sempre sbagliata, le regine non vengono amate perché sono regine, no, le regine diventano tali perché sono amate, perché il loro popolo le amava, e lei già prima di esserlo, era diventata degna di essere regina di quel popolo: la ritennero degna, degna di essere nana, degna di essere nata, degna di essere viva.
 
E il re, che da lontano osservava quello spettacolo che mai si sarebbe aspettato di vedere in quella vita, non amava la regina perché era nata tale, non perché lo era diventata nei cuori del proprio popolo, no, perché dal primo momento che l’aveva vista, lo era sempre stata.
 
La sua regina.
 
 
 
 
 
 
 


 
Si sentì un animale in gabbia.
 
Camminava avanti e indietro da lunghi minuti, la bocca che ancora era intrinseca di quel nettare dorato di cui aveva goduto fino a poco prima e che ora era terribilmente secca, secca di parole non dette, di pensieri che consumavano ogni briciolo di lucidità che gli era rimasta; la testa annebbiata da qualsiasi tipo di pensiero, da quello che aveva visto quella notte, da quello che aveva sentito quella notte, fino alla presenza che dalla parte opposta della balconata chiamava silenziosamente il suo nome in un canto che era in grado di udire solo nella sua testa.
 
Non aveva piu’ niente da perdere, non aveva più niente da vincere, era una decisone semplice, eppure la paura di compire un gesto errato bloccava ogni movimento verso la porta chiusa o anche solo afferrare il pomello dorato e girarlo. Una parola errata dell’altro era l’unica cosa che gli dilaniava il cuore, l’unica opzione che le dilaniava il cuore, il non sapere, il non conoscere.
 
L’umiliazione, il disonore, non erano piu’ concetti che circondavano l’aria che ispirava o gesti che poteva osservare o che poteva sentire propri, un’ammenda per i propri errori e una silenziosa richiesta di poter sentire ancora, sentire tutto, ancora di nuovo, sulle sue labbra, nei suoi occhi, nel suo petto.
 
Lo voleva.
 
La voleva.
 
Aveva preso una decisione, doveva, doveva andare, anche se questo avrebbe decretato la parola fine a tutto.
 
A passi veloci si mosse verso la porta, i piedi che ormai agivano per conto proprio, ogni sua decisione lucida era scomparsa, non voleva piu’ agire in maniera lucida, doveva sapere , in quel momento, quella notte.
 
Abbassò il pomello.
 
Portò il pugno alto verso la porta.
 
Il gelo negli occhi da entrambe le parti del legno, un respiro mancato tra le labbra socchiuse di entrambi fino a che la porta non si aprì e non ebbero entrambi la visione della persona dall’altro lato.
 
Ghìda fissò con gli occhi sbarrati la figura che le si parava davanti, la mano poggiata sullo stipite della porta, la ragione dei suoi pensieri, ora lì di fronte a lei, gli occhi azzurri che esterrefatti quanto i suoi la guardavano fissa, attraverso i capelli neri e grigi disordinati di fronte al viso illuminati dalla luce dorata del corridoio vuoto alle sue spalle.
 
Tutta la sua decisione, tutta la scurezza che si era sentita addosso fino a pochi istanti prima era svanita in una nuvola di fumo: l’ultima volta che si era ritrovata in una situazione del genere, l’ultima volta che lui era rimasto fermo di fronte alla sua porta, gliela avrebbe voluta solo sbattere in faccia; quella notte d’altro canto, l’unica cosa che desiderava era farlo entrare , ma la mano artigliava ancora con fermezza la maniglia della porta rendendola incapace perfino di muoverla oltre quel piccolo spiraglio.
 
Thorin batté un paio di volte le palpebre distolse subito lo sguardo puntandolo dapprima sul braccio sulla porta e poi verso il pavimento contraendo la mascella, cercando la calma perduta che in quel momento gli scivolò tra le dita, come tutta la fermezza che lo aveva condotto lì, arrancando tra il suono della festa sotto di loro ancora viva da quando se n’erano andati entrambi e la birra che gli annebbiava lo sguardo. Eppure, non si era sentito piu’ lucido in vita sua.
 
Alzò lo sguardo oltre le sopracciglia nere scrutandola oltre di esse. «Posso entrare?» Le chiese lo sguardo che da sotto di se si impuntò di nuovo sul suo viso.
 
Ghìda non riuscì a rispondere neanche a emettere un singolo suono, abbassò solo lo sguardo a sua volta e annuì in silenzio scostandosi dall’uscio della porta lasciando cadere lo sguardo verso la fine della camicia da notte di raso che strusciò sul pavimento freddo sotto i suoi pedi nudi.
 
Anche se incapace di guardarlo, con la coda dell’occhio lo vide oltrepassare la soglia e appena, l’ultimo pelo della pelliccia del mantello scuro passò l’uscio, trovò la forza di alzare lo sguardo inspirando profondamente e a chiudere la porta dietro di se.
 
Sussultò  appena sentì la cerniera scattare e come un comando secco alzò lo sguardo verso di Thorin stringendo i denti: avanzava a lunghi ma lenti passi nella sua stanza, dirigendosi verso il mite del letto, le mani rigide sui fianchi, una libera e l’altra occupata da un oggetto che prima non era stata in gradi di vedere, un oggetto che lei aveva già visto. Stretto in un pugno teneva un fagotto blu e portato, lo stesso che quella mattina aveva  tra le mani, lo stringeva sempre di piu’ ogni passo che faceva in avanti, fino a che non si fermò di fronte al suo letto e con una lentezza disarmante alzò di poco lo sguardo di lato puntandolo sguardo sul tavolo accanto al suo letto, verso il piccolo oggetto incastonato di gemme.
 
Il mantello regale lo rendeva piu’ grosso di quello che sembrava, un lupo enorme e infatti anche la sensazione che le attanagliò lo stomaco fu la stessa: le sembrò come se avesse appena fatto entrare un lupo in un gregge di agnelli dove lei era l’unico anello di cui poteva cibarsi. Ma cosa succede quando l’agnello vuole farsi mangiare. E quando voleva lo stesso agnello gettarsi tra le fauci del lupo?
 
Niente le stava dando forza, Assolutamente nulla, né le rune marchiate sulle sue braccia ne’ l’oggetto che Thorin di spalle osservava l’oggetto illuminato dalla piccola candela traballante sul tavolino ricolmo anche dei gioielli e che si era sfilata poco prima: quella corona blu e dorata in quel momento non serviva a nulla, non sarebbe servita a nulla. Era un potere che ancora non aveva ma che sapeva che in quel caso non le sarebbe servito a molto.
 
«Perché sei qui?» Gli chiese diretta, cercando di non far trasparire tutto quello che sentiva in quel momento e piu’ importante di tutti cosa l’aveva quasi spinta ad essere lei al posto suo, ad essere lei ora a vagare in quel modo nella su stanza.
 
«Perché tu stavi per uscire da qui?» Le rispose diretto quanto lei gli si era rivolta, non voltando neanche di poco le spalle
 
E a quella domanda il fiato le si bloccò: era una risposta alla sua oppure una stoccata ben assestata?
 
Di tutto il discorso che aveva preparato, di tutte le cose che avrebbe voluto urlargli fino a poco prima non era rimasto altro che cenere: aprì e chiuse la bocca piu’ volte ma non uscì nulla, neanche quando si strinse le braccia nude addosso l’una sull’altro, diventando la donna determinata che era, che voleva essere, ma la sola presenza del nano riusciva sempre a ridurla a quello.
 
Piccola, vulnerabile.
 
Uno sbuffò simile a una risata sommessa gli smosse le spalle larghe probabilmente sapendo perfettamente che quel silenzio era solo frutto di una sua indecisione o ancor peggio aveva capito la sua risposta, la sua vera risposta, non quella che gli avrebbe rifilato se avesse avuto un minimo di coraggio in piu’.
 
Passarono dei lunghi momenti di silenzio nel quale l’unica cosa che faceva rumore era il camino acceso, gli unici estranei nella sua stanza i fiocchi di neve che entravano dalla finestra socchiusa, accarezzando il fascio di luce chiara che si infrangeva al centro del letto ; nessuno dei due osò dire una parola, troppe le cose da dire, troppe le cose che non volevano dire, troppe le parole che Thorin cominciò a moderare nella testa.
 
Di tutte le parole che si era preparato , di tutte le cose che si era ripetuto per tutto il corridoio fino al balcone fino ad arrivare alal alla sua porta non era rimasto altro che polvere: strinse la mascella, cercando e cercando, poi abbassò lo sguardo verso il tessuto blu che stringeva nella mano, tastando la compattezza di quello che vi era nascosto sotto e le parole che tanto cercava si andarono a racchiudere in una singola frase.
 
Piccola, vulnerabile.
 
«Ho un cosa che ti appartiene.» Le rispose alla fine alla domanda, con voce roca non riuscendo a staccare gli occhi dal ritmo geometrico dorato sul tessuto.
 
Ghìda Inarcò un sopracciglio studiandolo, studiandogli il profilo a malapena illuminato dalla luce dietro di loro del camino e un altro sbuffo gli uscì dalle labbra.
 
«Cosa?»
 
Non le rispose ancora, lo sentì inspirare profondamente facendo passare un altro lungo silenzio e poi infine si voltò su se stesso oltrepassandola con lo sguardo serio.
 
«Questo.» Disse solamente, monocorde, allungandogli con un braccio l’oggetto che prima aveva tra le mani tendono in obliqui verso di lei.
 
Ghìda lo guardò confusa dapprima rimanendo davanti alal alla porta, allungando quel baratro che li divideva e fu solo quando, allungò il braccio un'altra volta invitandola ad avvicinarsi che mosse i primi passi verso di lui: si sentì terribilmente irrequieta, passo lo sguardo dal fagotto verso di lui, ma lo sguardo non cambiava, non dare segni di cedimento di alcun tipo.
 
Si fermò di fronte a lui e ora che poteva vedere l’insolito fagotto da vicino era grande almeno quanto il suo braccio, forse anche poco di piu’, si allargava e si stringeva, ma il panno era troppo largo per poterle anche solo dare una vaga idea di quello che ci fosse al suo interno.
 
Non seppe  neanche perché ma appena Thorin gliela porse allungando la mano verso di se, tenne l’insolita cosa tra entrambi i palmi delle mani con una delicatezza che neanche si sarebbe aspettata di utilizzare verso quell’oggetto del quale non sapeva neanche l’esistenza, eppure lui aveva detto che era suo, che le apparteneva.
 
«Cos’è?» Gli chiese senza staccare gli occhi dal panno, studiandolo attentamente, con gli occhi scuri che si mossero da una parte all’altra confusi, tastando il tessuto grezzo ma estremante raffinato sotto i suoi polpastrelli, cercando di intuire attraverso solo il suo tocco cosa potesse celare, stringendolo di più o spostando solo di poco le dita.
 
Thorin inghiotti il grippo che improvvisamente gli si era formato a quella domanda: incapace di risponderle le indicò con un movimento del mento il tavolo di legno rotondo di fronte al caminetto dietro di lei totalmente sgombro se non fosse stato per le decine di libri accatasti l’ uno sull’altro e un piccolo specchio dorato vicino al bordo della curvatura del legno.
 
«Sciogli il laccio.» Le ordinò diretto quel sfuggiremo che a lui parve palese ma le ine rimase piu’ scioccata di quanto si sarebbe aspettato: chiuse e aprì più volte le labbra rosate. Sapeva che voleva ribattere o chiedergli ancora di essere piu’ chiaro, o peggio, la conosceva abbastanza da sapere che gli avrebbe chiesto di farlo lui stesso ma non fece nulla di tutto ciò.
 
Incerta osservò dietro di lei verso il punto che le aveva indicato e cominciò a camminare verso il tavolo di fronte al caminetto lanciandogli un’occhiata incerta, le sopracciglia sempre piu’ aggrottate l’una sull’altra, che si spostavano dall’oggetto che aveva tra le mani e verso di lui, in cerca di una risposta. La seguì attentamente muovendo un paio di passi, tanto da poterla affiancare mantenendo quella devastante distanza tra loro, ma abbastanza vicino da poter vedere, ogni suo singolo gesto e abbastanza, da poter inclinare anche solo di poco la testa per vedere le sue espressioni.
 
La posò con una delicatezza, distendendolo sotto la luce tremante del camino e poi avvicinò la mano verso il laccetto di pelle e le piccole cominciarono a tirare entrambi i lembi, scegliendo il piccolo nodo, e piu’ questo si faceva  sempre meno saldo piu’ la sicurezza che lo aveva spinto fino a quel momento cominciò a svanire, come il panno blu che dopo lunghi istanti finalmente Ghìda scostò con la punta delle dita rivelando il suo lavoro, il fantasma che lo aveva trattenuto per quelle notti.
 
Appena Ghìda scostò l’ultimo lembo di  tessuto uno scintillio improvviso la investi, un riflesso del fuoco che le fece socchiudere occhi prima che a sua volta potesse cominciare a vedere il proprio riflesso nel ferro specchiato sotto di se, e questo prese forma e riuscì a caprie cosa aveva sotto le mani, il cuore le si strinse in una morsa facendole spalancare la bocca incredula.
 
Una spada, a non era una spada nanica, non era…non… non poteva essere.
 
Decine di riflessi si alternavano sulla la lama curva che sinuosa si incurvava leggermente ad un lato, il manico finiva in un’impugnatura di legno laccato nero, flebili venature dorate che si ramificavano tutto intorno ad essa, piccoli ghirigori che finivano verso la guardia e la oltrepassavano facendo il giro di un’insenatura che trapassava un terzo della lama.
 
Le sembrò di vedere tramonto o il fantasma di quella che era stata tramonto, una gemella di una spada che Thorin portava sempre al fianco, una spada che era leggenda ormai che era solo un mero riflesso di quello che si ricordava della sua unica e sola spada, e l’unica cosa che gliela ricordava, oltre a quella che adesso aveva sotto di lei.
 
«E ’-è… Thorin…» Riuscì a malapena a sussurrare mentre le parole le morirono poco a poco.
 
Lo  sentì sospirare leggermente accanto a se, l’ombra sul tavolo che si fece piu’ grande e piu’ vicina a se, così come il suo corpo, di cui riuscì a sentire il calore e l’odore.
 
«La tua non l’hai mai finita, ho cercato di mantenere la stessa leggerezza nella lama, e la stessa lunghezza per adattarsi al tuo braccio, anche se quello su cui basarmi era davvero poco.» La fermò osservando a sua volta la lama sotto i suoi occhi, prima che potesse dire qualcos’altro, prima che potesse aggiungere qualsia altra parola che potesse farlo cedere.
 
Ghìda in verità sapeva cosa dire, una miriade di domande e incertezze le affollarono la mente: quindi era questo che si stava trasportando dietro quella mattina quando lo aveva incontrato? Quando ci aveva lavorato, da quanto ci lavorava? Cosa voleva dire?
 
Ancora scioccata portò la mano che cominciò a tremarle verso la lama: aveva quasi paura a sfiorarla, paura che si potesse spezzare sotto il suo tocco o volatilizzare; con cautela vi ci poggiò sopra i polpastrelli, sfiorandola con la punta delle dita.
 
«E’ affilata, stai attenta.» La avvertì mormorando quelle parole tra le labbra.
 
Gli annuì con la testa continuando a fissare la lama sotto di lei: passò il dito cauto sul piatto risalendo dall’ impugnatura verso la guardia, seguendo i piccoli ghirigori simili a venature nel marmo, andando poi ad addolcirsi sula guardia e a concludersi in tre ramificazioni che dritte finivano in un unico ghirigoro inciso che arrivava fino alla punta della lama.
 
Lo seguì tutto tornando poi indietro verso l‘impugnatura e lì, al limitare del filo della lama, vicino alla guardia ricurva una sottile incisione: poche rune ma marchiate con tale forza da renderle leggibili anche allontanandosi di qualche passo, ma talmente piccole che sembravano solo la fine della venatura incisa.
La bocca le si spalancò di colpo quando le lesse e fu come se qualcuno le avesse appena strappato il cuore e glielo avesse rimesso nel petto a forza facendolo battere a una velocità innaturale: le orecchie le si ovattarono, le dita tra le insenature delle rune le fremettero e perfino respirare le divenne difficile, così come tradurre quei pochi e semplici simboli.

 
Thatru undu 'urdel.
 
Stella sotto la Montagna.

 
Si sentì devastata, triste, disperata, in conflitto con se stessa, erano solo delle stupide e semplici parole, non potevano cancellare nulla, il nome di quella spada non voleva dire nulla, ma sapeva che volevano dire piu’ di quello che c’era scritto, eppure faceva male, la possibilità che non fosse così le faceva male, l’incertezza le faceva male.
 
«Perché?» Le chiese diretta, alzando lo sguardo serio verso di lui, osservandolo dritto in volto, che però era puntato come il suo fino a poco prima verso la lama sul tavolo
 
Thorin socchiuse gli occhi, e deformò la bocca in una smorfia facendo scattare la lingua, ma il suo viso rimaneva una maschera indecifrabile.
 
«Il mio giuramento verso di te l’ho fatto a tuo padre, ma non li ho mai rivolti guardandoti dritto in volto, come avrei dovuto fare sin dall’inizio. » Cominciò dritto definito no guardandola neanche in faccia, corrugando la fronte sempre di piu’ fino a quando anche le sue dita non si affiancarono alle sue sopra la lama accarezzando con delicatezza le rune libere. «Uno di questi, come ben sai è il mio giuramento di proteggerti, di prendermi cura di te, e non ci sono riuscito, ne dall’esterno ne… » Si fermò per un attimo nel quale come se si fosse bruciato stacco le dita  da me stesso.»
 
E fu in quel momento che alzò gli occhi verso di lei e la maschera di nulla era diventata una tempesta in un mare blu, che imperversava violenta tra le piccole pagliuzze verdi.
 
«Tu però non hai mai avuto bisogno di me che ti proteggessi, lo hai sempre fatto benissimo da sola e di conseguenza il mio giuramento verso di te è cambiato il mio giuramento solo verso di te, unicamente verso di te, non verso tuo padre, non verso Elcar o Erebor verso di te.»
 
Mentre pronunciava quelle parole lo vide avvicinarsi, in realtà non seppe chi dei due si stesse accostando sempre di piu’, sapeva solo che ogni parola che gli usciva dalla bocca le risuonava sorda dentro la testa, le orecchie le fischiavano e il cuore cominciò batterle nel petto sempre piu’ velocemente, rendendola incapace compiere un gesto.
Le guardò dapprima il braccio poggiandoci sopra le dita, lo sentì fremere, o forse era stata lei, ma in qualsiasi dei due casi il dito cominciò a salire accarezzandole la pelle, oltrepassandole ogni singola runa, la cicatrice sul suo braccio, la spalla e infine ad arrivare fino al suo collo.
 
«Il mio nuovo giuramento verso di te è che se questa spada dovesse mai fallire nel proteggerti prenderei il suo posto, cento e cento volte.» Sussurrò senza mai staccare gli occhi dai suoi.
 
Le scostò dolcemente capelli dal viso e le accarezzò una guancia, mentre nella sua anima imperversava una tempesta di commozione e malinconia: era talmente sopraffatta da sentire la testa ronzarle, e gli occhi inumidirsi al suo tocco delicato.  Lentamente Thorin poggiò la fronte sulla propria premendola con delicatezza senza mai staccare lo sguardo dal suo: la guardava in una maniera che conosceva benissimo, lo aveva visto con così tanta chiarezza quello sguardo che lo seppe riconoscere all’istante, profonda e triste, estremamente triste, tanto da spezzarle il cuore nel petto.
 
No ti prego non ancora no ti prego non ancora.
 
Si cominciò a ripete nella testa mentre poteva sempre di piu’ lo vide avvicinare il volto al suo, lento e inesorabile: percepì il cuore fare un balzo e, d'istinto, iniziò a socchiudere gli occhi, in un'attesa lacerante. Sentì la gola secca, ed un desiderio tale da bruciarla viva. Si morse il labbro quando la mano di Thorin le si andò a poggiare sul viso facendole perdere sempre di piu’ il lume della ragione. Le dita scesero dalla sua guancia accarezzandogliela, andando sempre piu’ giù verso la mandibola ridisegnandone la forma, la pelle ruvida che la sfiorò delicatamente fino a che non sentì le sue dita sfioragli l’angolo  delle labbra soffermandocisi. Passò il pollice sul suo labbro superiore e inferiore con una delicatezza tale da farle venire centinaia di brividi dietro la schiena e un terribile groppo in gola.
 
«Come ti ho già detto è un cosa che ti appartiene, che ti è sempre appartenuta.» Mormorò stancamente talmente vicino alle sue labbra che riuscì per un attimo a sfiorarle, bramandole piu’ di ogni latra cosa, agognando un bacio che gli era stato negato da troppo, ma con un gesto inaspettato, queste salirono e si andarono a poggiare sulla sua fronte, dolcemente, facendole serrare immediatamente gli occhi.
 
Avrebbe voluto allontanarsi, avrebbe dovuto spingerlo via sapendo che si sarebbe ritrovata ferita un'altra volta, ma rimase lì immobile la mano sul tavolo che si andò a stringere in una morsa, gli occhi chiusi che si riempirono di lacrime sempre di piu’ ogni istante che le sue labbra erano ferme all’attaccatura dei suoi capelli  o che la barba scura e ispida  si fondeva con i capelli smossi dal suo respiro bollente.
 
«Zabd-ê.» Le sussurrò sulla sua pelle facendole spalancare la bocca solo socchiusa e le lacrime si fecero piu’ vere che mai.
 
Lo sentì ispirare profondamente le labbra farsi sempre più leggere mentre con lentezza cominciavano a scendere facendole mancare il fiato, ma appena ebbe il coraggio di aprire gli occhi per guardarlo le sue labbra si staccarono dalla sua pelle, così come la mano avida sul tavolo a ricerca della sua si strinse nel nulla. Le forze l'avevano abbandonata, lasciandola stremata e distrutta mentre il suo calore, il suo odore, il suo stesso cuore cominciarono ad allontanarsi.
 
Thorin la vide ferita dal suo distacco, un'immensa tristezza che le  fece ciondolare la testa in avanti: i lunghi capelli scuri arricchiti dai piccoli cerchi runici dorati e indomabile, com'era lei, le coprirono qualsiasi espressione, ma il nano poté immaginarla. Decise perciò di andarsene, la superò sfiorandogli la spalla con la propria, avanzando verso la porta che aveva varcato fino a poco prima. Era incapace di fare altro, il rimanere lì gli sarebbe costato caro, il solo sentirla così vicina lo stava riportando sull’ombra del precipizio e ciò non doveva accadere, il suo dannatissimo senso di colpa lo mangiava vivo: no, non ci riusciva.
 
Ghìda lo vide muoversi verso la porta, aumentando la distanza tra loro, facendola diventare un immenso e profondo precipizio; le scuse e le parole dette continuavano a riempirle, la mente e il cuore, devastandola.; nella nube di incertezza di lacrime che le stavano già annebbiando gli occhi di una cosa era certa, profondamente sicura: non voleva varcasse quella soglia, non voleva piu’ vedere quelle spalle. Grattò con la mano sul tavolo la superfice del legno portandola giù dritta come la sua gemella.
 
Un moto incontrollabile le prese pieno possesso del suo corpo e la sua voce portandola quasi a distruggersi: strinse i pugni per controllarsi ma ogni passo lontano da lei fu una tortura che non fu piu’ in grado di reggere.
 
«Non era vero!» Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, come  che se glielo avesse detto con a bassa voce non sarebbe stato in grado di sentirla: le mani strette giù verso i suoi fianchi, gli occhi che combattivi tentavano di rimanere fissi su di lui seppur annebbiati dalle lacrime sempre piu’ acide negli occhi.
 
Thorin fermò il passo improvvisamente, incollandosi al pavimento, le mani dieto la schiena che si andarono a stringere in una morsa ferrea, la testa che si volto solo di poco, ma quel tanto da farle capire che la stava ascoltando.
 
«Quello che ti ho detto, quello che ti ho detto nella sala del consiglio, non era vero!» Gridò ancora.
 
Si infilò le unghie nella carne, preda di una crisi di panico; chiuse gli occhi per alcuni brevi secondi ricacciando indietro le gocce salate e poi li puntò di nuovo verso il nano, in attesa. Prese un profondo respiro prima di riuscire a parlare ancora.
 
«Non… non avrei dovuto.» Esalò infine fissandogli la schiena, fissandogli le spalle impostate e i piccoli anelli argentati dietro i capelli, spigolosi come il suo carattere, spigolosi come lo sguardo che le donò da dietro la spalla.
 
«No infatti, non avresti dovuto, eppure avevi ragione.» Replicò duramente; talmente glaciale che Ghìda alzò lo sguardo, scioccata che le stesse parlando in quel modo.
 
Ma infondo cose le doveva dire? Era stata lei a mentirgli, presa dal dolore, presa dalla consapevolezza che non l’avrebbe mai resa sua, dalla consapevolezza che amarla non era abbasta per un re, che un re, non poteva amare, l’erede di Durin, non poteva amare una come lei. Ma allora perché l’aveva chiamata in quel modo, perché?
 
Con lentezza Thorin si voltò di nuovo verso di lei, le mani ancora fisse dietro la schiena, lo sguardo dapprima dolce e mesto che le aveva rivolto era di nuovo trasmutato in una maschera di ghiaccio, i lineamenti dritti sembravano ancora piu’ oscuri, alla luce arancione del camino. Non c’era niente in quello sguardo che le fece sperare nel perdono, che le fece sperare che potesse accettare il suo perdono, che potesse accettare il suo rassegnarsi a rimanere senza di lui per tutta la vita.
 
Thorin strinse le spalle abbassandole di nuovo in un sospiro contraendo le braccia che si trasformò in una stretta ferrea dei propri polsi dietro la schiena. «Avevo dato l’ordine di rimandarti a casa dopo l’inverno, appena sei uscita da quella sala, vorrei poter dire solo per un mero desiderio personale, ma non è stato così, non è tutt’ora così.»
 
Il cuore le sprofondò nel petto: fu come se un immenso abisso nero l’avesse inghiottita tuto d’un tratto, la sua piu’ grande paura prese possesso di se e deformò nella sua testa le parole che Thorin le aveva appena rivolto, dandogli un senso piu’ profondo di quello che avrebbe dovuto.
 
Le mani dapprima chiuse decise si snodarono in un doloroso movimento, abbandonata di fronte a quella consapevolezza, di fronte a quella realtà che le era stata appena sbattuta in faccia: tutto finito era, tutto quanto, tutto quanto solo perché lei stessa non era stata capace di rispondere a una stupidissima domanda, tutto perché non era stata capace di fare di dirgli tutta la verità. Non era stata capace a fargli capire, a fargli capire nulla e alla fine lui aveva scelto per lei, perché lei non era stata capace di scegliere.
 
Sarebbe tornata a sud, e non l’avrebbe piu’ rivisto, mai piu’.
 
Thorin strinse i denti e abbassò lo sguardo, un fremito gli attraverso le spalle, un fremito di una rabbia che gì cominciò a salire dallo stomaco, un disgusto che gli fece salire la nausea. «Alla fine il corvo non è mai partito, non ne ho avuto la forza, e credo che sia stato il gesto piu’ egoistico che abbia mai compiuto in vita mia.» Sputò per terra , gli occhi azzurri che si deformarono in due pozzi neri, un gracchiare di metallo si espanse per tutta la stanza, di piu’ anelli che si chiudevano l’uno sull’altro.
 
«Tu avevi ragione, se tu non fossi mai venuta qui, tutto questo non sarebbe successo, io sono stato l’artefice del tuo destino. Io ho scelto cosa fare della tua vita, io ti ho usata, tu saresti stata libera, libera di scegliere e non ti avrei dato tutto questo, non ti avrei costretta in tutto questo.» Mormorò infine affranto, così affranto che per la prima volta non alzò lo sguardo di sfida verso di lei, neanche una volta: non ne ebbe il coraggio, non meritava neanche di guardarla in volto o che lei lo guardasse in volto. «Volevo darti la libertà.»
 
Al suono di quell’ultima parola, un brivido le percosse la schiena e un moto di rabbia le montò dal petto, una rabbia sorda e incontrollabile: libertà, come poteva dire di volerle dare la libertà lui non aveva capito niente, niente assolutamente nulla!
 
Come una furia si avvinò a lui a passi veloci, violenti, si portò di fronte al suo petto osservandolo dal basso verso l’alto, le mani che le tremavano dalla rabbia dalla frustrazione che si andarono a poggiare sulla sua pelle calda forzandolo a guardarla dritta in viso.
 
«Ponimela, la domanda che mi hai fatto in quella sala, fammela di nuovo!» Gli ordinò decisa, non avrebbe sentito ragione, non sarebbe andato via da lei ancora: non ancora non di nuovo, non piu’.
 
Thorin sgranò gli occhi di fronte a quel tono e di fronte a quel gesto improvviso, agli occhi che dapprima pieni di tristezza avevano lascito posto a una profonda sicurezza che lo fece sobbalzare: aveva la bocca semiaperta, respirava a fatica, ma mai lo aveva guardato così combattiva.
 
«Fammela ancora.» Ripeté ancora piu’ decisa, ma lo assurdo freddo si andò a deformare così come il suo tono di voce in una supplica. «Ti prego.»
 
Alzò ed abbassò il petto con foga, in febbrile attesa: Thorin se ne stava immobile come una statua guardandola solamente, la bocca di poco dischiusa; lo vide distendere i muscoli guizzanti, ma non si staccò dalla posizione neanche quando contrasse la mascella.
 
«Vuoi che l’accordo venga rotto?»
 
«No.» Affermò piu’ decisa che mai.
 
Se potesse essere possibile gli tenne il viso con ancora più’ decisione, si fece ancora piu’ vicina, la stessa scena della Sala del Consiglio solo che ora non stava piangendo, non doveva obbligarla di smettere, no, Thorin voleva solo che continuasse a parlare. Gli occhi le bruciavano, il petto le si alzava e le si abbassava dalla foga dall’adrenalina che riuscì a captare dalla voce che le uscì come quello di un ululato di una lupa.
 
«Vuoi sapere tu cosa mi hai dato? Dolore, un mare incontrollabile di dolore, lacrime e sangue, ma tu… tu mi hai dato la vita. Tu mi hai donato la vita. Tu mi hai donato una casa. Tu mi hai fatto motivo per vivere, non per sopravvivere, tu mi hai dato un motivo per vivere, vivere ogni stante, ogni momento… tu…» Si fermò per un istante che la parve infinto, il tono che si andò a modificare in un lamento gracchiato.«… solo tu.» Il volto non piu’ serio ma ricolmo di tristezza, di una malinconia che lo raggelò cosi come le sue parole.
 
Thorin non riusciva a creder alle sue parole, non riusciva neanche a continuare guardarla in volto senza sentire quel terribile senza di colpa mangiarlo vivo, come riusciva lei invece a rimanere così, a guardarlo in quel modo a stringergli il viso tra le mani.
 
Le osservò il viso, attentamente ma non c’era un segno in quel viso, in quei due pozzi neri che stesse mentendo, lei quelle parole le pensava veramente; incredulo alzò lentamente una mano e gliela poggiò sul viso, accarezzandole la pelle calda della guancia con il dorso della mano,  la vide socchiudere gli occhi al suo tocco quasi in adorazione: nessun amore terreno poteva arrivare a quel punto, a negare la realtà, perché questo le aveva appena rivelato, la realtà.
 
«Come puoi dire tutto questo?» Mormorò osservandole le labbra che esalarono un ultimo e tremante respiro, mentre una singola lacrima le scese dagli occhi andandosi a infrangere sulle dita, prima che lo guardasse di nuovo, pronunciando quelle fatidiche che Thorin non avrebbe mai dimenticato.
 
«Preferirei patire ogni istante di umiliazione, patire ogni dolore, ogni sputo, ogni maledizione sulla Terra di Mezzo in ogni lingua conosciuta, se questo…» Mormorò Ghìda con voce spezzata guardandolo direttamente negli occhi, sentendo la gola incredibilmente chiusa e gli occhi diventare sempre più’ umidi impedendole di parlare.
 
Compì infine di nuovo quel gesto, ormai diventato una silenziosa ammissione di ciò che provava, che Thorin sentiva sul petto ogni dannato momento: gli guardò il petto per solo un attimo prima di spostare di nuovo lo sguardo nei suoi occhi facendo lentamente scivolare la mano sulla sua barba, sulla mandibola, sul collo, posandogliela infine dove poteva sentire il suo cuore pulsare sotto le sue dita. «Se questo volesse dire incontrarti di nuovo anche solo per un istante.»
 
Non ebbe nemmeno il tempo di finire l’ultima lettera che le labbra di Thorin si avventarono sulle sue in un bacio che si era resa conto che aveva agognato da quando lo aveva visto sulla soglia della porta. Non le servirono risposte, non le servì che lui le dicesse niente solo che la stringesse ancora a se fino a che non le mancasse l’aria e così fu: Thorin le passò la mano dapprima sulla sua guancia dietro la nuca intrecciandola dietro i suoi capelli, premendo le labbra e i loro corpi l’uno sull’altro.
 
 
Thorin sentì la piccola mano sul petto chiudersi stretta intorno alla sua cotta attirandolo ancora piu’ verso di lei mentre le sue labbra lo reclamavano, disperate, desiderose quanto le sue in un bacio che era stato rimandato troppo a lungo: tutto divenne futile perfino respirare o prendere aria, gli ansimi tra le loro labbra erano l’unica cosa che li rendeva capaci ancora di sopravvivere.
 
L’aria divenne calda, elettrica, sembrava di essere dentro una fornace bollente  Le loro lingue si cercavano e si scontravano e tra gli ansimi e lo scoccare delle loro labbra, tra i quali Thorin fu capace di cogliere il suo nome richiamato sussurrato da quella bocca su cui continuava ad avventarsi con foga fino a che non lo sentì pronunciato un'altra volta e  in un gesto che Durin solo sa quanto gli costò si staccò dalle sue labbra.  Vi ci allontanò quel poco da poterle sentire fremere ancora leggere sulle sue, le loro fronti che ancora si sfioravano così come i loro nasi, gli occhi incatenati l’uno nell’latro, mentre i loro petti si alzavo a ei abbassavano con foga riprendendo il fiato che si erano negati.
 
«Thorin…» Ripeté una terza volta guardandolo dritto negli occhi, i due pozzi scuri che erano sciolti dal desiderio, arrossati cosi come le sue labbra: dovette combattere con tutto se stesso per non avventarsi di nuovo su di lei, ma si mossero ancora.
 
 «Resta con me.» Sussurrò a filo con le sue labbra, facendole scontrare l’una sull’altra in una lieve carezza per ogni lettera che pronunciava nel frattempo che  gli occhi scuri che gli chiedevano ben altro. Le studiò gli occhi in cerca di un suo consenso a quello che vide fu il suo stesso desiderio la stessa bramosia che lo mangiava vivo. «Thorin resta qui con me» Ripeté ancora e a Thorin non servì altro non volle sentire altro che quello.
 
In meno di un attimo la strinse di nuovo a se  e in quello che fu un battito di ciglia le sue labbra si avventarono di nuovo sulle sue, avide, desiderose, appagate dalle uniche parole che il re dei Nani avrebbe mai accettato in quel momento; la baciò con una tal passione che con un semplice movimento la bocca di Ghìda si schiuse per accoglierlo un'altra volta e quel semplice gesto decretò il punto di non ritorno, facendogli perdere ogni contatto con la realtà.
 
Il desiderio che aveva celato, rilegato, odiato, quella brama di volerla ad ogni costo i qualsiasi maniera, non doveva piu’ controllarlo, non voleva piu’ controllarlo, lei era sua e solo sua e sarebbe stata solo sua, ma Ghìda lo era già, Ghìda lo era sempre stata e ora voleva che anche lui fosse suo, sempre e per sempre, lo bramava come mai aveva agognato nulla nella sua vita.
 
Ghìda si sentì spostata all’indietro, fino a che la schiena non le andò a sbattere contro la colonna di legno del letto facendola gemere involontariamente nella bocca del nano che a quel semplice suono perse ogni briciolo di autocontrollo che aveva avuto fino a quel momento: il mondo poteva bruciare, l’intera montagna poteva bruciare quella notte. Thorin fece scivolare le mani giù, verso la camicia da notte che gli avrebbe creato solo problemi e che presto sarebbe stata ridotta a uno straccio buttato in un angolo di quella stanza,  e continuando a baciarla premette il corpo control il suo impedendole di muoversi , impedendole di andare via da lui.
 
Ghìda mosse le mani desiderosa dal suo petto fino al collo della sua camicia e poi aprendo solo di poco gli occhi salì fino alle sue spalle infilandole sotto i ricami del mantello abbassandoglielo oltre le scapole in un invito che Thorin accolse facendo cadere il pesante indumento per terra con uno scossone delle braccia. Appena ne fu libero con un ruggito che gli crebbe dal petto le alzò i lembi della caccia da notte con foga rendigli molto piu’ facile l’alzarla da terra artigliandole le cosce calde con tale forza che la sentì irrigidirsi non appena accompagnò le sue cosce a stringersi intorno alla sua vita.
 
Sottomettendo un gemito allargò le gambe per lasciare che Thorin si insinuasse meglio tra di esse annodando le braccia intorno al collo del re spingendoli ancora piu’ vicini in quella estenuante tortura a cui li stavano sottoponendo ancora i loro indumenti,  ormai talmente stretti che Ghìda voleva solo che glieli strappasse di dosso lasciando incontrare la propria pelle con quella del re.
 
Si lasciò scappare un mugugno di delusione non appena le labbra di Thorin si staccarono dalle sue ma ne dovette sopprimere uno di piacere quando queste si avventarono fameliche sul suo collo baciando e leccando il punto sul quale aveva già passato lunghi minuti, marchiandola ancor di piu’ rispetto a quanto era già, torturandole il punto ancora sensibile.
Inclinò la testa di lato per farlo continuare: un desiderio che non sarebbe mai riuscita a esprimere a parole ma a Thorin non servì:  morse con vigore il punto già segnato assaporando ogni centimetro della sua pelle godendo dei fremiti che riusciva a procurarle e beandosi dei gemiti sempre piu’ alti che le uscivano dalla bocca, ogni volta che saliva ancora di piu’ verso il suo mento o giù’ verso i suoi seni, lasciandole piccoli aloni e segni sempre piu’ evidenti e grugnendo ogni volta che le piccole dita gli tiravano le ciocche dei capelli stingendo sempre piu’ vicino.
 
Ghìda si sentì bruciare viva un lento fuoco che dal basso ventre la stava infiammando in ogni parte del corpo rendendola incapace perfino di pesare lucidamente: mente le mani di Thorin le artigliarono le cosce con forza le sue si sciolsero dai suoi capelli abbassandosi verso il suo ventre andando a lottare con la fibbia della cintura premuta sulla parte bussa del ventre facendola cadere con un rumore sordo ai loro piedi. Ma le sue mani scesero ancora più in basso inebriata e colma di una audacia inaspettata andando alla ricerca dei lacci delle braghe, tirandone uno e con le mani che fremettero fu finalmente in grado di slacciarglieli ricevano un ruggito di piacere dalla bocca il suo mento.
 
Preso dalla foga di quel gesto Thorin si staccò dalla sua pelle e si avvento famelico di nuovo sulle sue labbra  rosse e stringendole le natiche le fece scivolare la schiena sulla colonna del letto spingendola poi giù sul letto dietro di lei che da fin troppo  lo stava richiamando come una terra promessa nel quale voleva perdersi intriso di sudore e con i gemiti di Ghìda che sovrastavano qualsiasi altro rumore nel mondo.
 
Appena sentì il materasso dietro la sua schiena Ghìda divaricò istintivamente le gambe e scivolò all'indietro, facendosi leva con le braccia per permettergli di salire a sua volta e di sistemarsi meglio; le sembrò quasi che le labbra di Thorin si staccassero dalle sue ma le morsero il labbro inferiore della bocca per aprirgliele ancora di piu’ famelico e voluttuoso.
 
Il letto scricchiolò rumorosamente tra i loro ansimi quando con le punta delle ginocchia Thorin si fece forza sovrastandola seguito da un mugugno infastidito all’interno della bocca carnosa quando si rese conto di da doversi scostare da lei; tirando su la schiena lasciò cadere rumorosamente la cotta dietro di se, seguita dai sui stivali che calciò giù’ prima di farsi forza con le mani sovrastandola con il suo peso ancora una volta.  Percepì le piccole mani andarsi ad amalgamare nel tessuto della camicia slacciandone bottone per bottone, coì frementi da farlo sorridere malizioso contro le sue labbra. I polpastrelli freddi indugiarono fino a risalire verso le spalle indurite e tese, tirando giù il tessuto scuro. Alzando prima un braccio e poi l’altro la aiutò a sfilare l’indumento, ma Ghìda non riusciva a trattenersi, non voleva piu’ farlo, lo voleva, lo voleva sentire attaccato alla sua pelle, ogni singolo angolo di lui, su di lei, dentro di lei.
 
Lasciò vagare le sue mani sulle sue braccia, sui muscoli tesi, sul petto grande e rigido, sfiorandogli ogni cicatrice che poteva sentire, ogni lembo di pelle, beandosi del suo inspirare rumoroso, di come seppur ancora con le bocche attaccate, a quel gesto, Thorin non avesse neanche la forza di farle incontrare di nuovo, di come socchiudesse gli occhi azzurri non appena attraversò con la mano il tatuaggio del corvo al centro del suo petto. I suoi fremiti non fecero altro che aumentare il fuoco che le divorava il petto e con estrema lentezza scese ancora ancora di piu’ verso gli addominali tesi, oltrepassandoli uno ad uno fino ad arrivare al tessuto delle brache che sfiorò imprudentemente, ma appena ci provò, vede gli occhi di Thorin farsi neri e un ringhio montargli nel petto.
 
Riprese il controllo e le afferrò il polso bloccandoglielo prima che potesse scendere ancora di piu’, portandogliela al lato della sua testa prima che fosse il suo turno a farla impazzire del tutto: con un ringhio basso e uno strattone le tirò su ancora di piu’ la veste obbligandola ad alzare le braccia per togliergliela del tutto mostrandola infine nuda sotto i suoi occhi. Ghìda si morse il labbro lasciando sfuggire un sospiro di piacere ogni istante, ogni brivido che Thorin le stava infliggendo semplicemente accarezzandole con le mani ogni centimetro del corpo che riusciva a percorre, indugiando sui fianchi, sui seni facendole inarcare la schiena all’indietro, non appena sentì il petto aderire contro il proprio, aumentando il calore in mezzo a loro e aumentando il desiderio insopportabile immerso tra i loro bacini.
 
Quando l’indumento fu finalmente in un angolo lontano del letto fu il turno di  Thorin di togliersi il fastidioso tessuto delle braghe , con cui prima lei aveva giocato, ma ora non ce la faceva piu’: li scalciò giù dal letto prima di aggredire di nuovo quei due petali che lo reclamavano ancora una volta.
 
Sapevano di doversi fermare, di smettere, almeno di tentare, ma nessuno dei due osò o trovò la forza per farlo: troppo il tempo a cercarsi, troppe le emozioni, troppo il dolore sofferto da entrambi che se i Valar li avessero voluti punire in qualche modo era meglio che lo facessero subito, perché dopo quella notte, dopo essersi donati l’uno all’altra fuori da ogni ragione, ogni onore, ogni patto stretto, il loro non aversi più sarebbe stata al la loro punizione.
 
Se avessero dovuto essere dannati, allora sarebbero stati dannati insieme.
 
Ghìda lo attirò di nuovo a se lasciandosi andare totalmente con la schiena contro il materasso allargò le gambe per accoglierlo: rabbrividì appena i due fermagli runici alla fine delle due trecce nere le sfiorarono il seno prima di;  prendergli il viso tra le mani e baciarlo disperatamente dandogli un’ultima e definitiva conferma. Thorin si posizionò in mezzo alle sue gambe facendosi da perno sulla spalliera del letto, che divenne anche l’unico appiglio che lo teneva aggrappato al fatto che tutto ciò fosse reale, che quella sotto di lui era davvero lei, era davvero finalmente lei. La voleva, lei lo voleva, lui l’avrebbe reclamata, da qui fino alla fine dei tempi, ogni notte se avesse dovuto e avrebbe trucidato chiunque, chiunque gliel’avrebbe voluta portare via, perfino se stesso.
 
La condusse verso di se con una mano appigliata alla carne della sua gamba e lei lo attirò ancora piu’ verso di e in quello che fu un attimo i loro bacini si scontrarono facendoli gemere in sintonia uno nella bocca dell’altro, inebriandosi di un piacere che non sarebbe mai stato seguitabile da nessun altro piacere terreno, in quella vita o nell’altra, abbandonandosi a un bisogno che questa volta non fece tremare solo una montagna ma l’intera Terra di Mezzo.
 
Tra gli ansimi, le spinte divennero sempre piu’ impetuose  e sempre di piu’ i loro corpi si riempivano di goccioline di sudore; le loro bocche si scontravano in baci, in morsi o in parole rotte dai gemiti e dai respiri pesanti che circondavano la loro passione. Le mani di Ghìda che dapprima erano solo poggiate sul petto disorni sfiorandone le nitratrici evidenti si andarono ben presto a cingere dietro la sua schiena aggrappandosi al piacere che provava in quel momento; gemendo piegò ancora di piu' la gmaba che Thorin teneva ferma intorno al suo fianco e ad alzare perfino l'altra incrocidole poi entrambe intorno al suo vnentre, seguendone i movimenti.
 
Con la mano libera Thorin strinse con talmente tanta violenza la spalliera del letto che se avesse impiegato ancora un po' piu’ di forza l’avrebbe potuta sbriciolare nelle sue mani; le dita di Ghìda gli graffiarono la schiena incontrollate, imprimendo le sue unghie nella carne con tanta forza che si lasciò andare in un gemito sommesso tra le spinte sempre piu’ passionali che stavano prendendo pieno possesso dei loro corpi.
 
E in quello che fu un gesto rapido le passo il braccio dapprima fermo accanto alla sua testa  dietro la schiena e repentinamente  si inginocchiò sul materasso portandola a sedere su di se e con una spinta incontenibile la portò a sovrastarlo, guidandola con le mani ben fisse sui fianchi lisci e candidi.
 
Ghìda strinse le dita intorno alle su spalle non riuscendo piu’ a sottomettere dei lamenti acuti, che le invasero la bocca e appena provava o tentava di socchiudere gli occhi, in balia di quel piacere che la stava consumando, un ennesimo movimento netto le faceva sgranare gli occhi e la bocca fissa a un pelo da quella di Thorin, bloccandole il fiato e venendo punita con un agogniate piacere ogni volta osava distogliere lo sguardo dagli occhi colmi di desiderio del re.
 
Thorin si inebriò di quel potere, del potere che in altri casi gli avrebbe negato, dell’obbedienza senza mezze misure che in altre situazioni glia avrebbe contestato:  in quel momento lei era docile sopra di lui, scossa dai gemiti, obbediente in una maniera che neanche nelle sue notti piu’ oscure gli era stato concesso, e Ghìda gli concesse quel potere che in quel momento la eccitava piu’ di qualsiasi cosa, il lasciarsi andare a lui totalmente. La voleva guardare in viso, voleva guardarla arrossire, aprire e chiudere la bocca per lui, solo per lui, lottare con tutta se stessa per sottostare ai suoi ordini sapendo perfettamente quanto le era difficile, lo sentiva da come gli stringeva le spalle con le unghie da come seppur così vicino alle sue labbra non riuscisse a baciarlo tra i gemiti, o di come i suoi occhi luccicavano a ogni suo movimento. Piu’ il piacere aumentava piu’ le era difficile mantenere il contatto visivo così come lo era per Thorin l’imporglielo. 
 
«Th-thorin…» Cigolò in un supplizio talmente piacevole che inarcò la schiena all’indietro ma appena ci provò i movimenti verso l’alto diventarono sempre piu’ irruenti, così come la presa sui suoi fianchi: gli anelli sulle dita del nano immense nella sua carne che le graffiarono i fianchi.
 
Infine in uno spasmo violento Thorin si lasciò andare non riuscendo a trattenere un lamento rogo, così come non riuscì a non stringerle i fianchi portandola ancora piu su di lui e imprimerla nel suo corpo, come una lastra bollente; Ghìda sottomise un gemito che riuscì però a trattenere afferrando con la bocca la carne della spalla del nano fino però a che anche lei non si sentì talmente tesa da doversi lasciare andare poco dopo in un lamento acuto. Lo strinse forte a se e mordendogli la spalla con tale forza per sottomettere un secondo strillo che sentì da subito il sangue confluirle lieve all'interno della bocca.  Affogò il naso nella sua pelle, nel suo profumo, le spinte dapprima violente diventarono languide, fino al fermarsi del tutto, lasciandoli nell’immobilità di quel momento, i loro respiri affannati e l’odore inteso di sudore e passione a cui si erano lasciati andare senza ripensamento alcuno.
 
Gli ansimi di Thorin le smuovevano i capelli al lato della testa e il suo sudore l’attaccò ancora di piu’ contro il suo petto: con lentezza slegò le mani da intorno al suo collo e alle sue spalle sentendosi totalmente svuotata lasciandole cadere contro il suo petto.
Anche se con gli occhi socchiusi vide i rivi di sangue cadergli dal morso che incontrollabile gli aveva lasciato poco prima, marchiandolo come lui aveva fatto con lei: vi ci avvicinò la bocca e cominciò a raccogliere con le labbra ogni rivolo, lasciando dei flebili e piccoli baci su ogni segno, mentre il sapere metallico e quello dolciastro della pelle di Thorin le si imprimevano sulle labbra.
Lo sentì fremere inarcando ancora di piu’ il collo di lato, lasciandola continuare a porre riparo ai suoi danni, con le mani ancora ben fisse sul suo petto dove sentiva il suo cuore battere a un ritmo frenetico, che per ogni suo gesto si calmava sempre di piu’, come lei che a ogni sua piccola carezza sui fianchi si sentiva sempre di più di nuovo languida come l’acqua.
 
Quando ebbe finito nascose il viso nell’incavo della sua spalla, sentendosi tutto d’un tratto incredibilmente stanca, ma così felice che non si rese neanche conto del tenue bagliore che la pelle stava cominciando a emanare, a malapena percettibile anche per dal piu’ abile degli occhi; tra rivoli di sudore che le appicciavano i capelli alla fronte e gli occhi socchiusi poteva vedere la mandibola del nano, che la teneva ancora tra le braccia, e il suo collo muoversi a respiri pesanti. Lasciò cadere lo sguardo verso il tatuaggio sul suo petto, poggiando la mano sull’ala sinistra del volatile. Thorin lasciò andare la fronte sulla sua scossò dai fremiti e la cinse con le braccia a se socchiudendo gli occhi, perdendosi ancora di piu’ in lei, piu’ di quanto avesse fatto prima.
 
Nel nome di Durin, cosa mi hai fatto.
 
Si ritrovò a pensare spostando lo sguardo verso il viso accoccolato sulla sua spalla, le labbra dolcemente premute sul suo collo, il leggero respiro che affannato gli sbatteva sulla barba, le mani dapprima taglienti e avide su di lui ormai ridotte a due piccole piume sul suo petto e sul suo collo: piccole dita che percorrevano ogni angolo della sua pelle. Le posò un bacio tra i capelli socchiudendo gli occhi e lasciandosi andare in quella massa di  piccole trecce ormai ridotte solo a dei ciuffi disordinati, lasciandosi andare in quel suo piccolo angolo di pace
 
«Ti amo.» Un piccolo soffio a malapena percepibile gli accarezzò il collo, facendogli chiudere gli occhi.  
 
Ghìda bloccò la mano tra la sua leggera peluria sul petto appena sentì Thorin stringerla ancora di piu’ a se, premendola contro il suo petto ancora di più rispetto a quanto era prima;  sospirò profondamente appena sentì una delle sue mani dapprima fissa dietro la sua schiena, scivolarle sulla colonna vertebrale, oltrepassando la lunga cicatrice che era solo la regina di tante altre piu’ piccole e bianche sulla sua pelle. Le sfiorò il fianco seguendone tutta la linea con le punta delle dita prima di saliere ancora piu’ su a sfiorarle il seno e poi il braccio fin dove cominciavano le sue rune sulla spalla, un infinito e dolce percorso che terminò sotto il suo mento con una leggera pressione delle dita. 
Thorin la costrinse a guardarlo in volto: gli occhi languidi, azzurri come il cielo la guardarono con un estremo bisogno. «Dimmelo ancora.» Mormorò simile a un ordine, ma che nascose malamente un’esigenza impellente che le fece stringere lo stomaco in una morsa; Thorin voleva sentirlo ancora aveva bisogno di sentirlo ancora un'altra volta.
 
Si avvicinò di poco seguendo la spinta sotto il mento che la portò ancora piu’ vicina al suo viso: adagiò con lentezza la fronte sulla sua e tenendo la mano ferma sul suo petto.
 
«Ti amo.» Mormorò ancora guardandolo dritto negli occhi e quelle parole vennero suggellate da un bacio, un bacio talmente dolce e delicato rispetto a quelli che si erano scambiati fino a poco prima che la fece rimanere con gli occhi socchiusi per rendersi conto se fosse davvero reale.
 
Thorin tentò di dirle quella parole che a fatica gli uscivano dal petto in quel bacio, ma che avrebbe urlato fin in capo alle montagne piu’ alte se glielo avessero chiesto ma che in quel momento non aveva bisogno di dire, perché lui lo sapeva e soprattutto lei lo sapeva.
 
La sua regina lo sapeva.
 
E quella notte in centinaia di anni, Thorin non sognò nulla, né lei, né le fucine, né il sangue, né le battaglie, ne cadaveri, spettri che lo avevano tormentato per tutta la vita, non aveva bisogno di sognare nulla, perché tutto ciò che temeva di perdere e tutto ciò che voleva si trovava nelle sue braccia. Non c’era nessun sogno o nessun incubo che avrebbe potuto fargli provare le medesime sensazioni che sentiva in quel momento, nel frattempo che quella creature gli dormiva con la testa poggiata sul petto, raggomitolata sopra di se, addormentata in un mondo in cui finalmente le stelle li osservano e la roccia della montagna proteggeva vegliando sul figlio di Durin aveva trovato l’amore che per tanto gli era stato negato.

 
 
 
 
 
 
Zabd-ê: Mia regina
 
 












Zabd-ê: Mia regina













Angolo autrice:
FINALMENTE PORCA LA MISERIA! NON SAPETE CHE LIBERAZIONE HAHAHAHAHHAA
Oh oh oh oh, c'è ancora qualcunooo ;)??? Ve l'avevo detto che sarebbe servito un secchio per la bava o per le lacrime, io direi per entrambe. Spero che non abbai deluso le vostre aspettative XD Ci ho messo tanto perchè volevo ch questo capitolo uscisse bene e spero che sia uscito abbastanza decentemente da piacervi quanto piaccia a me in questo momento. So che succede un botto di roba ma volevo che fosse tutto collegato, come se effettivamente fosse una specie di matrimonio o cerimonia matrimoniale a tutti gli effetti.
Io li amo, basta cioè dopo sto capitolo voglio solo augurargli un modo di bene hahahahah
Per tutti i dwalinxdìs shipper poi ho messo un paio di scenette che spero vi abbiano incuriosito. Muahahaha
E la canzone è la canzone che Marry e Pipino cantono all'inzio del signore degli anelli nel libro, mi era piaciuta quidnbi l'ho adattata.
ORA PEROì MI ASPETTO UNA RECENSIONE ANCHE DA QUELLI CHE NON RECENSISCONO EH! AO! ME RACCOMANDO EH! DEVO SAPERE COSA NE PENSATE, soprattutto in vista delel rivelazioni celate (chissa se avete capito).
Per qualsiasi cosa scrivetemi o recensite, insomma.
Ringrazio Perla16 per la recensioni e i messaggi <3 <3 e ringrazio tutti quelli che seguono: Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, , marisole, NekoBlonde, e GiadaHP, Perla_16, Ribes Roger e Nekoblonde, Alcalime91 e Fib23!
E un grazie a tutti quelli che leggeranno in seguito o che recensiranno in seguito.














Spoiler:



Chi te l’ha insegnata questa canzone?
Credo mia madre.



 
   
 
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