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Autore: Enchalott    14/09/2020    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una luce soltanto
 
Le frecce degli Aethalas si levarono sibilando nel cielo del vespro, cogliendo il nemico come uno sciame guidato da un’identica volontà. Gli Anskelisia che non avevano fatto in tempo a ripararsi iniziarono a crollare nella sabbia, contorcendosi in preda all’effetto micidiale del veleno che imbeveva le punte. Quelli che rimasero in piedi ricominciarono l’attacco, altri si rialzarono inspiegabilmente: i loro occhi avevano la tinta spenta della cenere oppure erano accesi di funesto, affilato scarlatto.
«Tirate!» gridò Varsya, facendo partire la seconda bordata di dardi per concedere ai compagni il tempo di disporsi alla migliore difesa.
Eisen, in sella a un vigoroso roano, gli fece un cenno d’intesa al chiarore incerto delle fiaccole, che gli si riflettevano sulla pelle abbronzata in ondulazioni contrastanti: fremeva per gettarsi nel vivo della battaglia, ma il reggente aveva ordinato che tutti i bailye restassero indietro. Se una delle tribù avesse perso la sua guida in quel frangente, sarebbe stato uno svantaggio troppo pesante.
Gli Iohro avanzarono decisi al comando del loro portavoce, agganciando i reietti che correvano nella loro direzione brandendo le fruste e le armi bianche, bloccandone l’offensiva. I balato sfoderati dai letali guerrieri del deserto scintillarono nel chiarore morente, colorandosi del sangue corrotto dei sulluhat. I servi dell’oscurità non provavano dolore e continuavano a rialzarsi barcollando, finché un colpo decisivo non stroncava loro il respiro.
«Piegate sulla destra!» gridò Niyla, spronando il destriero al galoppo e indirizzando i Thaisa, percorrendo avanti e indietro come un forsennato lo spazio dove la sua gente, armata di picche ricurve, intralciava il passo agli Angeli dilaganti.
Le iridi rossastre dei daimar, silenziosi e infidi, si posarono in un punto preciso dello scontro, in cerca di qualcosa che aveva calamitato la loro attenzione. Fluttuarono nell’ombra delle dune, aggirando gli alabardieri senza essere scorti, i cappucci neri abbassati sui lineamenti orrendi. Il loro incedere impalpabile non spostava i granelli chiari della rena. Erano oscurità invisibile e male insorgente nell’apocalisse.
La gabbia circondata di catene che racchiudeva il demone Rona era conficcata su un carro distante dal luogo dello scontro, ma l’aroma ributtante della sua essenza riusciva a raggiungere i compagni, che schiumavano di furia al desiderio di riammettere alla libertà un frammento condiviso di deamhan.
Sempre più vicini al compagno, due di essi sgusciarono sulla sabbia ingrigita dal buio fraterno della notte, attratti come falene da una fiamma. Il terreno friabile cedette sotto i loro passi sfuggenti, fagocitandoli in un buco irto di punte. I demoni ringhiarono la loro furia, incuranti delle ferite di cui non sentivano gli effetti, ma colmi d’ira per essere precipitati in quel cunicolo dal quale non riuscivano a riemergere. Possedere una corporeità non era loro familiare, li rendeva meno rapidi seppur non meno temibili. Le loro unghie adunche non riuscivano a fare presa sull’argilla e le lunghe cappe brune continuavano a impigliarsi nelle cuspidi uncinate sulle quali si erano conficcati.
«Ora!!»
Ayonira levò in aria il lungo bastone di legno e gli anelli agganciati all’estremità tintinnarono in mezzo al clamore della battaglia. I Melayr emersero dai nascondigli che li avevano mimetizzati e si scagliarono verso la fenditura che stava contenendo le creature delle tenebre. Le inondarono con una sostanza oleosa dall’odore dolciastro, che ne impregnò le vesti scure. I daimar soffiarono some serpi, mostrando le zanne e cercando di catturare con gli sguardi sanguigni i combattenti che li avevano colti di sorpresa. Troppo tardi. Gli yafandi calarono le torce nell’apertura e gli abiti dei servi dell’ombra presero fuoco, avvolgendosi in fiamme letali. Gli uomini dovettero tirarsi indietro per il lezzo insopportabile e per sottrarsi al fumo bruno che saliva dalla fossa insieme con i versi agghiaccianti dei due demoni coinvolti.
«Funzionerà?» domandò Stelio, in sella accanto alla bailye, facendo retrocedere il cavallo con evidente apprensione.
La donna scosse incerta la lunga treccia. Il fuoco era luce e calore, ma non era sicura che fosse sufficiente per distruggere mostri come quelli.
Il demone Rona ruggì come una belva, scuotendo le solide sbarre ed emanando un’aura negativa e buia. Le veggenti che stavano di guardia furono costrette a scostarsi davanti all’energia impari, che le metteva in difficoltà nonostante la schiacciante maggioranza.
Il miasma scuro che si sollevò dalla fossa aleggiò sullo scontro in atto, come se si stesse nutrendo della morte stessa. Poi smise di fluttuare come spinto dal capriccio del vento e acquisì una volontà propria, addensandosi in una nube senziente e famelica.
«Ilyon!!» esclamò Niyla, avvisando il fratello del pericolo imprevisto.
Il giovane Thaisa fece appena in tempo a spostare la sua gente dalla traiettoria dell’ammasso di energia negativa: essa sfrecciò in direzione del daimar, che ribolliva di furia all’interno dello spazio limitato del suo carcere.
Rona iniziò a ridere sguaiatamente, facendo dardeggiare le iridi scarlatte su coloro che lo circondavano, in atto di sfida. Aprì le braccia in uno sventolio di stoffa nera spettrale e inalò l’aria del colore dell’inchiostro. L’esalazione venefica penetrò nelle sue narici in un profondo e deliziato respiro e lo riempì come cibo a lungo agognato.
«Poveri stolti!» ringhiò in un sorriso fatto di ghiaccio.
Le sbarre metalliche che lo rinchiudevano esplosero, tranciando le catene di rinforzo alla stregua di inutili fuscelli.
«I miei fratelli ed io siamo una sola entità. Ognuno di noi è deamhan
Il demone si liberò in un baleno, mietendo con gli artigli la vita di chi si trovava troppo prossimo per evitare la sua furia bieca.
«Dei misericordiosi!» invocò Varsya, osservando a occhi sbarrati l’essere oscuro che saltava giù dal carro, armato di rinnovata forza.
Stelio estrasse la spada e fece per dare di sprone, ma Zheule lo trattenne, mettendosi di traverso.
«No, altezza! Non voi! Ci sono gli Iohro per questo!»
«Non ho mai permesso a nessuno di combattere al posto mio!» ribatté il reggente «Lasciami passare! È un ordine!»
Il capotribù Thaisa esitò nel vedere il genero tanto sconvolto, ma non si mosse. Eisen afferrò al volo le redini del principe, sporgendosi dal proprio purosangue.
«Non si tratta di combattere, Stelio” affermò, chiamando per nome l’amico d’infanzia «Si tratta di morire. Tu sei il sovrano, non puoi permettertelo.»
«Che diavolo dici, Eisen!? È dunque meglio mandare al macello i tuoi guerrieri, che darebbero la vita per Elestorya con l’immagine di un reggente tanto vile negli occhi?!»
«Gli Iohro sono preparati sin da quando sono venuti al mondo. Siamo vissuti in tempo di pace grazie a te, Stelio. Lascia che ora la mia gente, la tua gente abbia l’onore di difendere la sua terra e la sua guida!»
«Dannazione! Mi stai chiedendo di guardare! Di assistere alla loro immolazione!»
«No. Di considerare come lottano con onore.»
Il principe gli strinse forte il braccio. Eisen ricambiò il gesto e avanzò senza paura. Il segnale d’attacco risuonò nella notte e ad esso fecero eco le voci indomite dei guerrieri del deserto, che si lanciarono all’unisono verso il nemico. Varsya segnalò ai Guardiani del Mare di proteggere il fianco dei compagni e una nuova ondata di dardi falciò senza pietà gli Anskelisia. Molti si rimisero in piedi. Troppi.
«Non ce la fanno!« esclamò Ayonira, mentre i Thaisa rinforzavano l’attacco, guidati dai due valorosi figli di Zheule.
I daimar dilagarono sulla rena rossa di sangue, sfoderando le spade nere per dare man forte ai loro adepti, colpendo con crudeltà quelli che esitavano.
«È finita…» mormorò Stelio, osservando che anche gli yafandi non riuscivano a sostenere lo scontro impari.
Avevano perso. Era una questione di minuti, poi i daimar li avrebbero affrontati a tu per tu, risucchiando loro l’anima senza mercede alcuna. Si preparò al confronto.
Un richiamo di guerra risuonò nell’aria pesante, più possente del clamore cruento della battaglia in corso.
Kreyossì!!
Il reggente fissò Varsya alla luce delle fiaccole, sbalordito.
«Kreyossì?» ripeté il bailye, altrettanto incredulo.
«È l’urlo di battaglia degli Haltaki!» esalò Stelio speranzoso, spingendo gli occhi nel buio «L’ultima tribù è qui!»
 
 
Anthos scese a passi lenti dall’apice della Torre verso la camera nuziale. Il lungo mantello argenteo scivolava sui gradini scabri con un fruscio lieve.
Non voleva lasciarla lassù. Le avrebbe detto addio nel luogo che più di ogni altro era stato testimone silente del loro legame. Non nel nucleo sovrannaturale, bensì in quello umano della Dimora della Luna, quella che lei aveva reso tale con la propria amorevole presenza, con il proprio calore.
Tra le sue braccia il corpo di Adara era leggero, freddo, inerte.
La stanza che avevano condiviso in quei mesi era illuminata da un chiarore innaturale, tragico. Si accomodò al centro del baldacchino, adagiandosela in grembo con dolcezza. Si era avvolto in fluenti abiti bianchi, che nulla avevano a che vedere con quelli caratteristici di Iomhar e che apparivano come una tenuta cerimoniale. La sottile corona del Nord scintillò sulla sua fonte contratta. L’aveva indossata in qualità di reggente e desiderava che lei lo sapesse: aveva davvero assunto quel ruolo e come tale si sarebbe comportato fino alla fine.
Si sfilò il Medaglione, appoggiandolo sul letto. Niente sigilli, niente ostacoli tra loro.
Gli occhi d’ambra si posarono su di lei, infelici e furibondi, accarezzandone i tratti familiari e immobili. Le sue dita le percorsero il viso in un tocco delicato e sofferente. Il cuore si contrasse in uno spasmo. Anthos si costrinse ad annientare ogni scintilla residua di testardo, futile orgoglio. Realizzò che mai gli era stato tanto naturale esprimere i propri pensieri più remoti, i propri reali sentimenti. Come se Adara, ovunque si trovasse, fosse da sempre l’unica via per varcare il proprio confine. La sola a trascinarlo fuori, consenziente, da se stesso. Prese fiato.
«Non potevo salvarti sin dall’inizio, non è così?» sussurrò in un alito impercettibile «Neanche se l’amore che mi hai donato, che mi scorre dentro, fuso e indissolubile da questo insopportabile dolore, mi ha incendiato l’anima… sei stata tu a strapparmi da una non vita e hai sempre saputo di non dover tentare con me nient’altro che questo azzardo. Lo hai realizzato, te lo confesso, anche se lo hai certo compreso prima di me… sai che la missione impossibile che ti sei scelta è stata compiuta e, se te lo domandassi, mi risponderesti che non avresti alcun pentimento, nemmeno quello di morire così.
Ma io… io non ti ascolterei, come ho sempre fatto. Sebbene, in verità, non mi sia mai perso una sola sillaba di te. Lo so. Sono identico a me stesso, perciò perdonami se provo per un’ultima volta, caparbio come mi hai conosciuto al primo sguardo. Se rifiuto di lasciarti andare. Se non ti permetto di riposare.
La tua assenza mi spezza il respiro. Non riesco a rassegnarmi al fatto che il tuo tempo, in questo tempo, sia terminato. Non lo accetto da egoista quale sono. Da quel folle che non rispetta e non riconosce l’eventualità di una sconfitta. Eppure sono io che ti ho condotto nel mio mondo spietato, gelido, solitario… e poi, dopo averti attesa tanto a lungo, dopo averti legata a me, ho cercato invano di preservarti da esso, di difenderti da ciò che rappresento. Sono un povero stolto, non è vero? Ero consapevole che tu non potessi affrontare tutto questo con le tue sole forze, invece ho consentito che accadesse e adesso guardami! Sono qui, abbandonato a un silenzio che merito, come la peggiore delle creature!
Ora che tu hai lasciato la battaglia, distante dal mio fianco, percepisco con chiarezza quello che mi hai insegnato e mi domando se tutto ciò che ho compiuto è stato perdonato. Era necessario che io sperimentassi nella carne viva lo straziante senso della perdita per restituire luce alla mia anima o per essere degno di te. Ma perché proprio tu, Adara? Perché tu, prima di me? Perché il destino ha stabilito ancora una volta di ingannarmi?
Ho scorto il dolore nello sguardo del mio prossimo e l’ho riconosciuto come mio, l’empatia ha invaso il mio sangue, per la prima volta ho provato compassione e misericordia. Ne sono stato attraversato, ho smesso di escludere l’umanità fragile di questi sentimenti. Dovrei essere grato, poiché ora so riconoscere l’inestimabile valore di una vita e, in essa, di tutte quelle che mi passano accanto.
Guardandoti, nell’immobilità con cui ricevi il mio abbraccio, mi riconosco come fallibile e in base a questo riesco ad assolvere, a condonare, a cancellare il rancore, la rivalsa per cui sono vissuto. A incarnare il futuro che tu hai distinto in me attraverso il tuo cuore puro, attraverso l’amore che mi hai portato.
Ma la verità è che mi sento perso senza di te, che tutto mi appare così… sbagliato! E non mi rassegno, no. Persino quando penso che tu sarai per sempre mia e io tuo, in quanto le promesse sincere vantano valore eterno e immortale, sento di stringere un vuoto che non è in grado di placarmi. Allora, nel profondo irriducibile del mio io, cerco ostinato il tuo sorriso e fantastico che tu possa rispondere un’ultima volta al mio richiamo disperato. Sono smarrito in questo silenzio che non riconosco, che non è più parte di me. Perdonami, Adara, se pretendo da te ancora un istante, io, che sono causa di tanta pena!»
La sua voce si spezzò, soverchiata dall’angoscia che gli si riversava implacabile nelle vene, mai sperimentata, mai vissuta in pienezza, mai accolta. Strinse forte la sua sposa, appoggiando la fronte alla sua, rasentandole le labbra con un bacio.
«Mia luce, mia unica luce… non riesco a dirti addio, non posso, non… voglio!»
La sofferenza lo stroncò senza pietà, senza sconti. Non la respinse. Anthos percepì una scia rovente percorrere con lentezza la sua guancia, seguita da una nuova più intensa e poi da un’altra ancora. Si sfiorò il viso con le dita, confuso. Lacrime.
Non ne aveva mai versate in tutta la sua vita, in tutta la sua memoria non ve n’era traccia. E ora il dolore che usciva da lui si era concretizzato in gocce inarrestabili, che gli cadevano sulle mani e sugli abiti candidi, che piovevano sul volto esangue della donna che stava reggendo tra le braccia, sui suoi capelli bruni, sulla sua bocca socchiusa.
«Ti amo, Adara. Puoi sentirmi? Ti amo più di ogni esistenza, più di ogni desiderio…»
Si curvò su di lei, la baciò attraverso il velo salato delle sue incessanti lacrime d’amore, tremando nel suo intero essere. Rimase piegato sul suo corpo, allacciato a lei in attesa del suo ultimo istante, offrendole un pianto che nessuno, mortale o Superiore, aveva mai scorto dall’alba del cosmo. Tutto si annullò in quell’atto che non aveva precedenti. In una luce abbagliante che scaturiva dal suo io profondo e possedeva l’energia più potente mai liberata sin dall’eternità incommensurabile del tempo.
Qualcosa di leggero e incerto gli sfiorò i capelli biondi, sparsi in disordine sugli omeri. Trasalì. Non osò aprire gli occhi. Un sussurro si librò nell’aria.
«Ti ho sentito, amore mio… ti ho sentito, dillo ancora…»
Anthos serrò l’abbraccio, perdendosi nello sbocciare di un sorriso fatto di speranza, e continuò a cingerla, a baciarla, a donarle il respiro. A offrire tutto se stesso.
«Ti amo» ripeté vibrando di gioia e terrore «Non lasciarmi… non lasciarmi!»
Il tocco di lei si fece più sicuro, più caldo, si colorò di vita.
«Sono con te… resto con te…»
Il giovane schiuse le palpebre a bere con lo sguardo quello dolcissimo della donna che amava e che, avvinta a lui, era tornata dalle tenebre arcane di Yfrenn-ammri.
«Anthos…» mormorò lei trasognata, fissando il luccicare sfolgorante delle sue iridi d’oro attraverso il velo bagnato che le rendeva infinitamente più intense.
Lui abbassò lo sguardo.
«Vorrei smettere, ma non so come…»
«Oh… non lo puoi fare a comando, quando è sincero.»
Il principe la sostenne, tenendola contro di sé come se potesse svanire da un momento all’altro. Attese che il corpo della ragazza recuperasse il tepore attraverso il loro contatto, aspettò che le lacrime cessassero, permise all’amore di essere l’unico vincitore senza ritenersi sminuito da qualcosa che era piena, nobile parte del suo essere.
 
«Non è stato un sogno, vero?» domandò Adara, compresa nel suo abbraccio «Il buio, il vuoto, il… male
«No. Il pozzo delle ombre è reale.»
«Io non… non so come descriverlo.»
«Non hai bisogno di farlo.»
«Tu lo conosci?»
«Sì. Non perché ti ho seguita nel suo nucleo per riportarti indietro. Ma perché una parte di me è oscurità, Adara.»
La principessa si staccò con gentilezza dalla stretta, mettendosi a sedere. Gli prese le mani nude fra le sue e le trattenne.
«Lo è anche una parte di me, Anthos.»
Lui sgranò gli occhi sconcertato.
«Tutti conserviamo un frammento di buio nel nostro animo» riprese lei, prevenendo l’obiezione «Sta a noi non permettergli di prevalere. Me l’hai insegnato tu.»
«Io?»
«Mi hai parlato di libero arbitrio, rammenti? Sono le nostre scelte che ci identificano. Se così non fosse, non esisterebbe né merito né biasimo.»
«Certo, ma…» ricominciò il reggente, ricordando alla perfezione il senso denigratorio del discorso che aveva messo in campo in quell’occasione.
«Se così non fosse, io non sarei qui. In te prevale la luce e non devi dubitarne. Una luce meravigliosa e ineffabile. Non ne avrei mai diffidato, nemmeno se non l’avessi toccata da vicino, se non mi avesse raggiunta e avvolta in quel luogo infestato da deamhan, se non mi avesse ricondotta a te. Il tuo amore, Anthos. È stato lui a sciogliere i vincoli delle tenebre. Quando ti ho incontrato e abbiamo dialogato senza nasconderci dietro alle mezze parole, ti ho detto che ero certa che non esistesse nulla di più potente, che fosse una forza invincibile. Ma sei stato tu, che non vi hai mai confidato e che l’hai definito ignobile debolezza, a dimostrarne il valore. Lo chiamerei prodigio, se non fosse così meravigliosamente… umano.»
Il principe sorrise, portandosi il polso di sua moglie alle labbra. Quella parola aveva smesso di pesare su di lui come un’ingiuria infamante.
«Invero lo è. Ma il merito non è mio.»
Adara fece per contestare, ma lui le appoggiò le dita sulla bocca.
«È stata Iomhar, che tu hai chiamato casa. La gente del Nord, che tu hai protetto, qui riunita per pregare gli dei. I tuoi amici, che sono tornati alla fortezza sfidando la mia collera… e Narsas, che ti è rimasto accanto e ha convinto me a non darmi per vinto. Essi erano la luce che hai visto, loro l’amore che hai percepito, questo il miracolo che ti ha salvata.»
Lei ascoltò commossa il racconto in tutti i suoi dettagli. La voce del principe era ferma e priva di spregio, i suoi occhi esprimevano sincero rispetto. In misura particolare per l’arciere Aethalas. Sorrise si strinse a lui. Il suo battito era veloce, indomito. Il suo corpo tiepido e rassicurante. La sua stretta era fisica, accesa.
«Dobbiamo comunicare loro che sono viva. Che la mia anima è grata, che non devono più preoccuparsi per me.»
«Lo sanno” mormorò il principe, indicando la fiaccola che ardeva nella notte, abbrancata al terrazzino della stanza, la fiamma arancio nitido che si agitava invitta, indifferente alle folate di vento e alla pioggia scrosciante.
La ragazza notò il segnale solo in quell’istante. Il suo cuore pulsò più rapido al pensiero che il marito con quel gesto semplice avesse smorzato la pena altrui. Annullandola e non impartendola. La sensazione singolare, forte nello stordimento, che aveva distinto quando aveva schiuso le palpebre tra le sue braccia le si riaffacciò alla mente. Era qualcosa di familiare come l’inconfondibile profumo che lo caratterizzava, che andava oltre quel bagliore dirompente che aveva dissolto la tenebra e che l’aveva strappata al morso del buio.
«In quel luogo corrotto io ho visto te… ho udito te.»
Anthos si sfilò la corona d’oro bianco e la chioma bionda gli ricadde sulla fronte. Un’azione che pareva un’autodifesa.
«Ciò che conta è la missiva, non il messaggero che la conduce» asserì sottovoce.
Adara vibrò di emozione, toccata nel profondo da quella riflessione dimessa.
«Questo messaggero di luce e ombra io lo amo. Lo amo con tutta l’anima.»
Lui si illuminò di gioia intensa, nel cuore della sua congenita malinconia.
«Così in eterno» restituì, sfiorandole l’anello che le circondava l’indice «In ogni forma, qualunque cosa accada.»
Lei trasalì, poiché quel giuramento appassionato conteneva il sapore terribile di un commiato.
«Anthos, perché parli così? Perché sei tanto accigliato? Mi stai spaventando.»
Lui abbassò uno sguardo deciso sul viso angosciato della moglie.
«Non consentirò che Ishkur miri a te per colpire me. Il mio indugio, la mia vanagloria ti hanno quasi uccisa. Mi risulta arduo perdonare me stesso, impossibile risparmiare il Traditore dalla mia collera! Andrò a cercarlo appena ti saprò al sicuro e combatterò contro di lui all’ultimo sangue. Non ci saranno ulteriori duelli tra noi.»
«Voglio venire con te!»
«Te lo proibisco.»
«Ma io non…»
«Rispetta la mia volontà, Adara. Come se fosse un ultimo desiderio.»
La principessa tremò a quell’ordine e si mise a sedere, trattenendo il fiato.
«Hai affermato di essere più potente degli stessi dei, di non conoscere resa! Tu vincerai, vero? E tornerai da me, come hai promesso… Anthos!?»
«Se ti rispondessi di sì con arrogante certezza, rischierei di mentirti e non ne ho la minima intenzione.»
«Non lascerò che tu lo affronti da solo! Ishkur è un immortale! Consenti che io mi appelli al sommo Irkalla! Ti prego!»
«Adara…» sospirò lui, ostativo.
«Lo so! Lo so che la cosa ti offende! Lo so che non hai paura di niente! Ma se è vero che il Distruttore mi ascolta, forse deciderà altrimenti!»
Il reggente scosse la testa, ma senza irritazione, come se quei termini onorevoli lo stessero svagando.
«Paura? Ne provo infinita, in verità. Oggi ti ho quasi persa! Sento quel gelo mai sperimentato scorrermi nelle vene, come se si rifiutasse di abbandonare il mio cuore! L’ho sempre ritenuta un’ignobile manifestazione di viltà, finché non ho compreso sulla mia pelle quanto fosse difficile sconfiggerla. Quanto ardimento fosse necessario per affrontarla, quanto valore per trasformarla in una risorsa. Ho paura, Adara… di non poterti preservare dalla fine ingloriosa del creato, dalla follia millenaria di un essere spregevole che si fa chiamare dio! Ma tutto ciò, nell’ultima battaglia, servirà soltanto a rendermi più determinato, più consapevole. E per ottenere questo non mi serve l’aiuto di nessuno.»
La principessa continuò a scrutarlo turbata.
«Se conosci il terrore dell’essere privato della persona che ami, allora comprendi che cosa io stia sentendo per te.»
Anthos infisse gli occhi nei suoi e lesse quanto lei aveva appena espresso. Ne avvertì la punta gelida e l’ardimento ad essa opposto senza risparmio.
«Lo pregheresti comunque» rispose con rassegnata indulgenza «Tanto vale che tu lo faccia ora. Invocalo, supplicalo, tenta ciò che credi. Ma qui e adesso, tra le mie braccia e non altrove. Perché non mi allontanerò da te, non stanotte.»
Si lasciò cadere all’indietro sui cuscini con lei stretta al petto e la baciò con passionale tenerezza. Adara rispose al tocco impaziente sue labbra, conscia che quella sarebbe potuta essere l’ultima volta che trascorrevano del tempo insieme. Chiuse gli occhi, appoggiando il capo sul suo cuore concitato e si disse con ferma determinazione che non avrebbe desiderato altro che ascoltare quel suono pulsante e rassicurante per sempre. Che con Anthos avrebbe voluto trascorrere l’intera vita e ciò che sarebbe venuto dopo.
Innalzò la propria voce interiore, inframmezzata alle riflessioni, elevando a Irkalla un’orazione colma di riguardo: accorata, sincera, straripante di emozione.
Il principe appoggiava il viso accanto al suo e teneva le palpebre abbassate come se stesse dormendo o assaporando la loro vicinanza, concentrato sull’allacciarsi dei loro corpi tra le pieghe del suo mantello candido. Sulla sua bocca aleggiava un sorriso lieve, privo di incertezze, come a scrutare nelle tortuosità ignote del tempo. Come se avesse già sconfitto i demoni, compresi quelli che albergavano in lui.
«La mia potrebbe sembrarti una domanda stupida» ricominciò lei con timidezza.
Lui aprì gli occhi e le sue iridi dorate tornarono su di lei.
«Anthos, tu sei felice?»
Il giovane apparve spiazzato. Inspirò e poi fece rifluire il fiato, come se stesse riflettendo su un concetto che non aveva mai preso in considerazione.
«Rare volte me lo sono chiesto. Giungendo alla drastica conclusione che non fosse rilevante. Ma avevo torto. Quando mi hai confessato di essere felice al mio fianco, mi è parso tanto assurdo che sono tornato a interrogarmi sul suo significato. Quale differenza c’era tra me e te, Adara? Noi stavamo vivendo insieme la medesima vicenda. Ho osservato che tu stavi tendendo le mani verso una gioia che ti penetrava l’anima, mentre io le stavo dando indefessamente e deliberatamente le spalle. Eppure l’ho riconosciuta riflessa nel tuo sguardo e l’ho sperimentata tramite la tua vicinanza, comprendendo di non poter fare a meno di lei… di te. Ma anche questo è stato un ragionamento freddo e distante, che ho abbandonato. Ho creduto di essere sufficiente a me stesso.»
La ragazza continuò a guardarlo, in attesa di una risposta che non aveva fornito.
«Poi ho smesso di essermi d’intralcio» continuò lui, accarezzandole la guancia con dolcezza «Di essere tanto sconsiderato.»
Adara spalancò gli occhi, folgorata dall’affermazione. Non poteva essere…
«Ero felice senza averlo considerato, ora lo sono con piena coscienza. Nessuno me lo porterà via, neppure la morte.»
La principessa lo strinse forte, emozioni contrastanti la stravolsero nel profondo.
«Oh, tu… tu sei…»
«L’uomo che hai scelto un giorno lontano tra le onde viola dell’oceano. Quello che hai sposato tra i ghiacci azzurri del Nord. Lo stesso che hai baciato sotto la pioggia battente di un mattino bianco e nebbioso. Io sono colui che hai avuto in anima e corpo nel buio solitario di questa Torre. Colui che ti amerà in eterno.»
   
 
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