Mi
tolgo le scarpe prima di
entrare e sospiro oltrepassando la porta.
“Ciao,
mamma.”
La
mia voce è lontana. Lontana
con il pensiero, lontana con le emozioni. Guardo la donna seduta in
poltrona e
non riesco a fare a meno di sospirare. Sarà un giorno buono?
Oppure uno degli
altri?
“Una rana cade in
un pozzo profondo…” È un
giorno buono. Quando mi saluta con l’indovinello della rana
è un giorno buono. Le
piace tantissimo quell’indovinello. Lo faceva a tutti i miei
amici quando
venivano a casa per la prima volta. Solo che lo diceva ridacchiando
perché
all’epoca lo sbagliavano in molti e lei si divertiva a
correggerli.
Mi
siedo sulla sedia accanto alla
sua e sospiro guardando la porta aperta: forse potrei rimettermi le
scarpe.
Crescere
con mia madre non è
stato facile. Indovinelli a parte, lei aveva quello che successivamente
è stato
chiamato ‘disturbo ossessivo compulsivo’:
all’inizio era solo togliersi le
scarpe, lavarsi le mani e cambiarsi i vestiti quando si tornava a casa.
Poi
sono state le quattro lavatrici al giorno per togliere eventuali germi
di
scuola, campetto da calcio e quelli della notte sul pigiama. Poi, prima
che
arrivassero gli assistenti sociali, ci fu il turno del
‘spogliati sul
pianerottolo e vai direttamente in doccia con il detergente
battericida’.
È
quasi triste dirlo, ma quando
non mi riconosce e non dà di matto pretendendo che mi
spogli, io sono più
contento. A volte si irrita e si innervosisce, tanto da dover chiamare
gli
infermieri a calmarla. E mentre lo fanno mi guardano con la
pietà negli occhi.
È
che mi sento in colpa così
vengo qui tutti i giorni. Il più delle volte non mi
riconosce e quando succede
mi sento colpevole di esserne così contento.
Purtroppo
Alzheimer e DOC insieme
sono un cocktail micidiale e gestire la situazione è
praticamente impossibile,
così ho dovuto sistemare mia madre in una struttura come
questa. Che è una
delle migliori, eh.
“Allora,
lo sai?” mi chiede.
“Come?”
Cado dal pero e non ho
seguito il suo discorso, troppo preso dai miei pensieri. Non che di
solito ci
sia bisogno di un mio intervento. Anzi, il più delle volte
si scorda anche che
io sia qui.
“Una
rana cade in un pozzo
profondo trenta metri. Ogni giorno riesce a salire per tre metri, ma
ogni notte
scivola giù di due. Quanti giorni ci mette per risalire il
pozzo?” La sua voce
è quasi eccitata e ridacchia mentre me lo chiede.
È una delle poche cose che
ricorda spesso.
Da
ragazzino mi seccava e la
trovavo pesante quando mi faceva l’indovinello. La immaginavo
come la rana del
pozzo, con il grembiule e lo scopettone che tutte le notti cadeva
apposta giù
di due metri per poter ripulire tutto.
Ero
un ragazzino, figlio di una
donna malata. Ma mi sento in colpa lo stesso. Così, rispondo.
“Trenta”
dico, sorridendo.
Lei
ridacchia, perché è la
risposta sbagliata. Ma io sono contento, perché finalmente
so come renderla
contenta.