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Autore: BabaYagaIsBack    17/09/2020    0 recensioni
● Book II ●
In una notte Aralyn ha compiuto nuovamente l'impossibile, mettendo in ginocchio l'intero clan Menalcan. Ha visto ogni cosa intorno a sé macchiarsi del colore del sangue e andare distrutto - forse per sempre. Così, in fuga dai sensi di colpa e dal dolore che le schiaccia il petto, si ritrova a essere ancora una volta l'eroina del suo branco e il mastino al servizio del Duca, ma anche il nemico più odiato dai lupi del vecchio Douglas e l'oggetto di maggior interesse per il Concilio che, conscio di quale pericolo possano ora rappresentare i seguaci di Arwen, è intenzionato a fargliela pagare.
Ma qualcuno, tra i Purosangue, è disposto a tutto pur d'impedire che la giovane Aralyn Calhum venga punita; anche mettere a punto un "Colpo di Stato".
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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14. First Letter from the Council

Quella mattina, come molte altre, Joseph si trovò sveglio persino prima dell'alba. Con lo sguardo perso oltre la finestra, sulla distesa dorata dei giardini della Villa, si stava preparando a uscire per l'ennesima corsa. 
Il suo corpo richiedeva movimento, soprattutto da quando Douglas era stato seppellito e la tregua tra lui, Gabriel e qualsiasi altro Clan al di là delle loro terre era cessata, legittimando così ogni possibile attacco tra i branchi. Ora che l'addio al vecchio Alpha era stato sancito, nulla avrebbe impedito ai suoi incubi ti tornare a farsi reali, dopotutto, se il Concilio avesse deciso di riunirsi e condannare Aralyn lo avrebbe fatto di lì a poco e, perciò, aveva urgenza di svuotare la mente da simili scenari. 
Quando non c'era Leah, o qualcuno dei confratelli a lui fedeli a fargli compagnia, si ritrovava a pensare costantemente a quale fosse il piano perfetto per evitare alla sua amata la gogna, ma più idee gli riempivano la testa, meno ne trovava di plausibili - solo una, tra tutte, gli era parsa abbastanza logica da essere seriamente presa in considerazione, peccato che per metterla in pratica avrebbe dovuto compiere una follia: incontrare Arwen.
E dubitava fortemente che quell'uomo avrebbe acconsentito.

Come biasimarlo del resto? Nessuno sarebbe mai sceso a compromessi con colui che gli aveva portato via tutto: la gloria, l'orgoglio, la prestanza fisica, gli amici e soprattutto il sangue del suo sangue. Un Alpha, inoltre, non avrebbe mai ceduto alla richiesta di un nemico, anzi, forse avrebbe persino agito nel senso completamente contrario solo per dimostrare la propria forza - Joseph però sarebbe stato disposto a farlo, sarebbe stato capace di sopprimere il proprio ego; pur di salvarla avrebbe promesso a quel licantropo qualsiasi cosa, persino la sua vita.

Con uno sbuffo si passò una mano sul viso, esasperato. 
Lui non aveva alcun risentimento reale a frenarlo, quell'albino, invece, sì. E nonostante il giovane desiderasse ardentemente provare a persuadere Arwen non aveva idea né di dove fosse, come contattarlo, né di cosa dirgli per farsi concedere un colloquio o stringere quella sorta di accordo - aveva visto con i suoi stessi occhi quanto potesse essere testardo; inoltre, l'ombra di Gabriel pareva non abbandonare mai le sue spalle, seguendolo ovunque. Se suo fratello avesse scoperto anche uno solo dei pensieri che in quei giorni gli riempivano la testa, probabilmente l'avrebbe ucciso nel sonno appellandosi al fatto che stesse complottando contro il Clan - e a quel punto nulla gli avrebbe impedito di radere al suolo il branco dei Calhum.

Stringendo i denti sulla lingua, Joseph volse il capo verso la porta della propria stanza.
Doveva uscire da lì.
Doveva allontanarsi quanto più possibile da quell'aria viziata e provare a respirare un po' di pace, anche se non era certo vi fosse un luogo, in tutta la Scozia, capace di acquietare il suo spirito. Avrebbe dovuto abbandonare quei luoghi, spingersi oltre i confini del Paese e, forse, a quel punto sarebbe riuscito a trovare un po' della serenità perduta, quella che aveva lasciato nel suo appartamento di Glasgow fin troppi mesi prima, quando tutta quella storia non aveva ancora avuto inizio.

E lei, lei stava soffocando quanto lui, ora? Joseph se lo domandò avanzando a piedi scalzi lungo il granito gelido della Villa, oltrepassando lo stipite e facendosi strada per i corridoi. 
Per caso anche Aralyn avvertiva quel nauseante senso d'impotenza, o sentiva la necessità quasi asfissiante di fuggire lontano da qualsiasi cosa il loro mondo includesse? E le sue notti, avevano lo stesso sapore amaro di quelle di lui? Oppure il suo corpo veniva schiacciato dal medesimo, implacabile vuoto che lo infastidiva ogni volta che, girandosi, non la vedeva?
Chissà se erano legati sino a quel punto...
E più tempo passava, più il Nobile si sentiva impazzire, gonfio di domande a cui non sapeva dar risposta. Forse su quelli come lui, sui Puri, l'imprinting aveva un effetto più devastante che su qualsiasi altro licantropo, si disse, ma sapeva di non aver alcun modo per scoprirlo. Nessun Menalcan, per quel che ricordava, aveva mai provato una simile sensazione - o meglio, uno di certo c'era stato, ma era scomparso prima ancora che lui venisse al mondo.

Velocizzando il passo, Joseph si spinse sempre più in là, arrivando all'uscita della Villa senza nemmeno ricordare il tragitto fatto. Quando i primi raggi del sole gli baciarono tiepidamente il viso sembrò riscuotersi da una trance in cui non si era reso conto essere entrato. 
Sbattendo le ciglia scure guardò confuso l'orizzonte, lo stesso che aveva ammirato per lunghissimi minuti dalla propria stanza. Guardò l'immensità di fronte a sé, i campi che si stendevano per miglia e miglia senza incontrare nemmeno un piccolo agglomerato di casupole e si chiese se tutta quella storia, esattamente come il panorama di fronte a lui, avrebbe mai avuto fine - e se, una volta arrivato a quel punto, sarebbe riuscito ancora a distinguere la realtà da ciò che gli riempiva la mente giorno e notte. Era estenuante perdere continuamente coscienza del presente, eppure non aveva idea di come resistere a quei pensieri: ogni momento era buono per pensare a tutto ciò che stava per perdere e ciò che già aveva perduto. Gli pareva ci fosse mai una pausa abbastanza rigenerante, un lasso di tempo sufficientemente lungo da distendergli i nervi: la paranoia e le ansie stavano diventando perenni e fastidiose compagne per la sua psiche sempre più provata.

Lento, si concesse di chiudere le palpebre e respirare a pieni polmoni il profumo dell'alba.
Solo qualche ora, si supplicò poi, sperando che anche quella mattina, come altre, la mente potesse momentaneamente trovare una vaga serenità. Alle narici sopraggiunsero l'odore della terra bagnata, dell'erba appena tagliata e della rugiada, sentori che parvero pizzicare la pelle e chiamarlo a loro, pregandolo di correre senza freni tra le fronde del sottobosco intorno alla dimora del Clan - e lui a quel punto non si fece attendere.

Un piede dopo l'altro, il giovane si sfilò i pantaloni, poi i boxer e, in meno di qualche istante, si ritrovò a godere del suono delle proprie ossa che andavano spezzandosi per poi riassemblarsi l'istante successivo, muovendosi continuamente sotto alla pelle nuda. Seppur trovasse difficile cogliere un qualche piacere tra i terreni della sua famiglia, non poté negare che tutti quegli ettari di verde messi a sua completa disposizione fossero una manna dal cielo. Nessuno avrebbe potuto minacciare la sua quiete, né licantropo né umano. Era solo con la natura e qualche sporadico quanto fuggitivo incontro.

Così corse, sempre più svelto, fin quando tutto il suo corpo ferino non prese a sfrecciare tra i tronchi e il vento libero da qualsiasi fastidioso pensiero.

Di tanto in tanto incrociava tra i rami qualche confratello intento a pattugliare la zona più prossima al loro quartier generale, oppure a spiare qualcun altro intento a dar sfogo ai propri bisogni repressi visto il periodo di lutto appena passato, ma lui provò a non soffermarsi su alcun viso - non era per il Clan che si stava addentrando nella flora lì attorno, anzi: ciò che voleva era proprio scrollarsi di dosso ognuno dei loro sguardi. Ovunque posasse i propri occhi, quando si aggirava per i corridoi di quel postaccio, scorgeva la sete di vendetta del branco, il desiderio di vedere gli Impuri schiacciati dalla forza dei Menalcan - e quella vista lo nauseava, ora come mai prima. Da quando aveva preso parte all'iniziazione tra i Lupi del Nord, Joseph non riusciva più a disprezzarli, solo comprenderli. Se non avesse messo a rischio la propria incolumità avrebbe osato dire di preferire la loro compagnia a quella di chiunque condividesse il suo sangue, ovviamente escludendo Leah che, in un angolo recondito di sé, sapeva avrebbe potuto apprezzare quella vita quasi quanto lui. Niente più pugnalate alle spalle, lotte per il potere; nessuna occhiata torva a seguirli per la casa o giudizio fastidioso ad appiccicarsi addosso, ma piuttosto banchetti, giochi, spensieratezza e lotta per degli ideali più concreti, non lo stupido mantenimento di una gerarchia fatta per dividere e odiare.
Solo pensando a quei dettagli le viscere gli si riempirono di malinconica dolcezza e, senza rendersene conto, il lupo aumentò l'andatura tanto d'arrivare quasi allo spasmo.
In quel susseguirsi di lunghe falcate le zampe si alzavano da terra lasciando impronte lievi, poi vi si riappoggiavano emettendo suoni ottusi. Il pelo folto, scuro, danzava a ogni movimento che lui compiva, accarezzato da decine di mani invisibili, amorevoli.

Avrebbe voluto tornare a tutto ciò, a quei momenti, ma sapeva bene di non poterlo fare.

***
 

Il ritorno avvenne con estrema calma, mostrando la totale riluttanza del giovane a rimettere piede in quell'immenso edificio.
Con i pantaloni stretti tra le mani sporche e lo sguardo rivolto verso le finestre, Joseph si domandò se chiudendo gli occhi avrebbe potuto poi riaprirli e ritrovarsi altrove, ma più volte ci aveva provato e nessuna aveva portato risultati. Così sbuffò, spostando lo sguardo altrove. Era prigioniero, si disse - sia del proprio sangue sia delle azioni che aveva compiuto sino a quel momento e, purtroppo per lui, lo sarebbe stato in eterno. I doveri che lo attendevano erano boia minacciosi della sua condanna, frecce che gli sarebbero state scagliate addosso fino al giorno in cui sarebbe morto - forse come Douglas, oppure sua madre.
Inesorabilmente, con quel pensiero amaro a infastidirgli la lingua, il ragazzo spostò gli occhi verso una diramazione del selciato che conduceva dietro alla Villa, lì dove il mausoleo dedicato agli Alpha e i loro eredi si ergeva con discutibile bellezza.

Joseph osservò quella pallida striscia di terra con ribrezzo, ma prima che una qualsiasi considerazione potesse prendere vita tra i suoi neuroni una voce iniziò a chiamarlo da qualche centinaio di metri di distanza, avvicinandosi sempre più alle sue orecchie e irrigidendogli i muscoli.

Aguzzando un poco la vista, il giovane si mise a cercare l'origine di quel richiamo finché, tra le fronde verdeggianti intorno alla Villa, la figura di Leah si fece abbastanza distinguibile da rilassare i nervi. Con i lunghi capelli legati in una crocchia sfatta e la tuta lisa a nasconderle le forme, sua sorella si mise a correre trafelata verso di lui - e se ad una prima occhiata non era riuscito a nascondere un sorriso, rasserenato dall'idea che a cercarlo fosse lei e non qualche noioso confratello, si trovò presto a corrugare la fronte, confuso. Ad ogni metro in meno che li separava però, l'espressione di sua sorella si faceva più chiara e meno rassicurante e, quando a dividerli rimasero solo una ventina di falcate, gli fu ovvio che qualcosa di terribile lo stava attendendo.

«Che è successo?» Chiese prima ancora che lei potesse fermarsi, soggiogato improvvisamente da un'ansia che avrebbe preferito non sentire.
Leah avanzò ancora, ora rallentando la corsa. Sembrava priva di fiato, eppure il fratello sapeva che a metterla in difficoltà doveva essere ben altro. «Joseph...» Provò a iniziare prima guardandolo in viso, poi allontanando lo sguardo e prendendo a torturarsi le mani con insistenza. Era chiaro che fosse agitata anche lei, che le parole faticavano a trovare un modo per mettersi insieme, ma ad ogni secondo di attesa la situazione pareva peggiorare sempre più e la labile pazienza di lui si fece sentire.
«Che è successo?!» Ringhiò inconsciamente, troppo occupato a tenere a freno il lupo in sé.

Lei si bagnò le labbra, le morse, ma alla fine riuscì a dire ciò per cui gli era corsa incontro: «È arrivata» confessò svelta, più turbata di quanto il fratello avrebbe mai pensato potesse essere.

«Di che parli?» piegando la testa da un lato, sempre più confuso, provò a capire. Non aspettavano ospiti né nulla di particolare, ma con il senno poi si pentì di quella domanda tanto ingenua; forse con qualche secondo in più avrebbe potuto capire da solo e risparmiarsi tutta quella perdita di tempo.

«Joseph...» Leah titubò un attimo ancora, incerta sul modo in cui dare la notizia che recava con sé, poi gli prese i polsi per dargli conforto - o, più probabilmente, nel tentativo di scongiurare il peggio: «è arrivata, la la lettera del Concilio è arrivata poco fa» disse d'un fiato, rischiando persino di mangiarsi qualche sillaba per la foga - e a quelle parole, che sembrarono tanto uno schiaffo, il ragazzo avvertì il sangue defluirgli dal viso. D'un tratto il mondo intorno a lui parve sbiadire e la consapevolezza di essere arrivato al capolinea lo schiacciò a terra.

Non voleva crederci.
Aveva scongiurato l'arrivo di quel momento fino all'ultimo e, pur sapendo che la minaccia era concreta, ora che stava accadendo volle fingere che si trattasse solo di una spietata bugia.

Ma non lo era.

«Tu e Gabe siete stati convocati».

Merda!, pensò mordendosi la lingua tanto da farla sanguinare, in modo da impedirsi di perdere il controllo, mutare o compiere qualsiasi altra sciocchezza. Sapeva da sé che, nonostante la rabbia che si stava agitando in lui, correre ad ammazzare Gabriel non avrebbe portato a nulla se non un momentaneo piacere - poi, volente o nolente, Aralyn sarebbe comunque stata processata e lui avrebbe dovuto sperare ancora una volta di mentire così bene da convincere otto purosangue a non ucciderla, mettendosi però alla mercé della furia del Clan.

Il suo tutto, si disse, in quel momento aveva il sapore ferroso della morte, esattamente come la notte dell'attacco alla Villa.

Con la gola secca Joseph fissò sua sorella: «Quando?»
«I-io non lo so... Ho solo visto l'emissario del Concilio consegnare la lettera a Gabe, poi... poi si sono salutati con un "alla riunione", quindi... »
«Quindi non c'è nulla di certo» tagliò corto Joseph divincolandosi dalla sua presa, provando a illudersi di poter ancora sperare in un miracolo o del tempo per trovare una soluzione - avrebbe potuto trovare Arwen, raccontargli di ciò che aveva in mente. Forse nella missiva non si parlava del processo, forse il Concilio voleva solo discutere di chi avrebbe succeduto Douglas, oppure del Pugnale o... 

, aveva tempo, si convinse valutando tutte le opzioni possibili, eppure qualcosa parve trattenerlo.

«Non farlo» la fermezza di Leah spezzò il flusso dei suoi pensieri.

«Cosa?»
«Questo! Credere che non sia per lei, che la minaccia sia solo una chimera» la giovane si guardò attorno con circospezione, preoccupata di poter essere udita da qualcuno, poi, stringendogli nuovamente le braccia, appoggiò la propria fronte sulla sua: «Questo mondo fa schifo, Joseph, ma dobbiamo resistergli» sibilò. 

Oh, e lui lo avrebbe fatto. Avrebbe cercato in tutti i modi di impedire alle loro leggi di portagli via l'unica cosa positiva in quella perenne insoddisfazione. Avrebbe lottato fino all'ultimo per riuscire finalmente a sentirsi completo, per riuscire a trovare il proprio posto in una vita che ancora faticava a sentir propria - ma prima doveva leggere quella lettera.
 


 
   
 
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