Anime & Manga > Boku no Hero Academia
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Autore: SignorinaEffe87    18/09/2020    0 recensioni
C’era una volta un coltivatore di mele che, per salvare il proprio raccolto, si inoltrò nella foresta con del tofu fritto da offrire all’antico tempio di Inari.
C’era una volta una kitsune che, tutta sola in quell’antico tempio in mezzo alla foresta, desiderava tanto avere un apprendista.
[Alternate Universe - Japanese Folklore; Kitsune!Takami Keigo/Hawks | Farmer!Tokoyami Fumikage]
[Partecipante alla Thirty Days Hath September Challenge del gruppo Facebook Non Solo Sherlock - Gruppo Eventi Multifandom]
Genere: Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fumikage Tokoyami, Hawks
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Kitsunetsuki
Titolo: Kitsunetsuki
Autore: SignorinaEffe87
Prompt: #18. C’era una volta (Thirty Days Hath September Challenge; Non Solo Sherlock - Gruppo Eventi Multifandom)
Fandom: Anime & Manga > Boku no Hero Academia/My Hero Academia
Tipologia: Alternate Universe - Japanese Folklore, One Shot, Slice of Life
Personaggi Principali: Kitsune!Keigo Takami/Hawks | Farmer!Fumikage Tokoyami
Note: Ispirata alle fanart di Kadeart (Kitsune AU)


Credeva che sarebbe stato più difficile raggiungere il vecchio tempio di Inari.
Si era messo in cammino al sorgere del sole, quando la luce pallida dell’alba aveva appena iniziato a sfiorare i tetti delle case del villaggio. Per quanto gli piacesse cercare riparo sotto l’intrico dei rami della foresta, nei giorni d’estate in cui il calore e le schegge di legno nelle dita si facevano insopportabili, non aveva alcuna intenzione di restare a vagare in quel labirinto di alberi tutti uguali dopo che era calata la notte. Alla sua ombra sarebbe piaciuto molto perdersi lì in mezzo, l’aveva sentita risvegliarsi non appena si era addentrato nel bosco, come un uccellino che sbatte le ali per fuggire dalla gabbia, ma aveva già imparato da tempo che non doveva fidarsi di quello che lei pensava al suo posto.
Era sicuro di non aver camminato per più di un paio d’ore, perché il sole faceva ancora fatica a insinuarsi tra le foglie mosse dal vento, nel momento in cui vide la sagoma del torii dinanzi a sé, il legno rosso che spiccava accanto alle cortecce scure delle piante. Avvicinandosi, notò che la vernice si era scrostata in più punti, come se degli animali selvatici avessero usato le colonne per affilare gli artigli; non aveva neppure preso in considerazione di incontrare qualcosa che non fosse lo spirito guardiano della foresta, durante quel viaggio, e, per la prima volta da quando aveva deciso di recarsi al tempio, si pentì di averlo fatto senza rifletterci troppo.
Avrebbe dovuto prendere con sé l’ascia che Shoji gli aveva offerto, quando si erano salutati al limitare della foresta, ma adesso era troppo tardi per rimproverarsi di essere stato incauto, ma soprattutto era troppo tardi per tornare indietro senza lasciare l’offerta. Non poteva dare ragione a Shoji, che fino a quel saluto aveva cercato di convincerlo a non partire, e non poteva lasciare che l’ombra gioisse dei suoi timori.
Doveva riuscire a persuadere lo spirito guardiano, affinché proteggesse i loro alberi di mele dalla misteriosa calamità che li aveva colpiti. Infatti, presto sarebbe arrivato l’autunno, e con lui il corteo del daimyo Toshinori per riscuotere il tributo. E il villaggio sarebbe stato costretto a scegliere se pagare il tributo usando le scorte di mele accumulate per l’inverno, condannando tutti gli abitanti a morire di fame sotto la neve, oppure a ribellarsi a una tassa impossibile da saldare e morire lo stesso, ma più in fretta, sotto le lame del generale Aizawa.
Sentiva la paura strisciargli lungo la schiena come un insetto fastidioso, e non riusciva a capire se si trattava invece della carezza inquieta dell’ombra. Comunque, deglutì l’esitazione insieme a un sospiro e oltrepassò il torii, alla ricerca dell’edificio principale.
Doveva essere il primo umano che percorreva la strada in direzione del tempio dopo anni, poiché il sentiero era stato invaso da un fitto tappeto d’erba e piante infestanti, che si arricciavano attorno alle lanterne. Si fermò a osservare la più vicina: era rimasta qualche traccia della cera delle candele spente, ormai sciolta e dura quanto la pietra su cui era incrostata. Eppure, qualcuno era riuscito a conficcare dei bastoncini appuntiti in quell’ammasso biancastro, che adesso spuntavano ritti come incenso su un altare domestico. Erano gli stessi bastoncini con cui qualcuno aveva crivellato le loro mele ancora appese agli alberi, ogni notte nel corso dell’ultima luna, anche se avevano iniziato a vegliare all’incrocio dei rami con le asce tra le braccia.
Quando era accaduto persino durante il turno suo e di Shoji, ed era sicuro che nessuno di loro due si fosse addormentato, aveva capito che non poteva essere opera di un umano particolarmente livoroso, ma, soprattutto, che l’unica scelta era andare al tempio con un’offerta e sperare che lo spirito guardiano ascoltasse le loro preghiere.
“Credi davvero che smetterà di distruggere il nostro raccolto solo perché gli hai portato del tofu fritto?” gli aveva chiesto Shoji, mentre lo accompagnava lungo la strada principale del villaggio, con un tono che non gli piacque affatto, perché gli sbatteva in faccia le perplessità che lui stesso ancora nutriva su quella soluzione, sia perché sembrava malinconico, come un addio. E lui non aveva intenzione di morire nella foresta senza fare ritorno a casa.
“Sono spiriti, Shoji, non ragionano come noi” aveva risposto in modo sbrigativo, e adesso rifletteva che quelle potevano essere state le ultime parole che si erano scambiati. Che potevano diventare l’epitaffio sulla sua lapide, insieme a sciocco coltivatore di mele che si fidava troppo delle vecchie leggende da comari.
Nulla di quella sciagura aveva senso, ma niente poteva averlo, quando si risvegliava il rancore di esseri millenari, capricciosi e annoiati come bambini di nobile lignaggio, capaci di prendersela con gli umani solo per avere un espediente con cui far passare il loro tempo illimitato.
Di nuovo, però, sapeva che con i dubbi e i rimorsi non avrebbe ottenuto nulla, se non di far fremere l’ombra nel petto, come se potesse vincere lei, e questo non poteva permetterselo, in mezzo a una foresta oscura.
Finalmente, vide spuntare il tetto del tempio poco lontano, accarezzato dalla luce tiepida delle mattine che si avvicinano all’autunno: in un tempo ormai dimenticato, almeno dagli uomini che vivevano accanto al bosco, doveva essere stato un edificio fastoso, a giudicare dai brandelli di vernici preziose che, seppur sbiadite e corrose dalla pioggia, ancora si potevano scorgere sulle rifiniture di legno. Si chiese da quanto tempo nessuno lavava e rammendava le stoffe rosse, ormai strappate e penzolanti come vessilli di un esercito sconfitto, che avrebbero dovuto essere appese al collo delle statue a forma di volpe, ai lati dell’edificio principale.
“Non sei venuto qui per ammirare il paesaggio, Fumikage”: scrollò la testa, per riportare la propria attenzione su quello che era venuto a fare, in quel posto sperduto e cadente. Salì in fretta i gradini scricchiolanti e tolse di tasca il pacchetto con il tofu fritto per appoggiarlo sull’altare; sotto le sue dita, la polvere volteggiò nell’aria e ricadde, come pioggia sulle foglie.
“Ti supplico, spirito guardiano che vegli su questa antica foresta, accetta l’umile offerta del nostro villaggio e ascolta le nostre preghiere”: inginocchiato su quelle assi pronte a cedere da un momento all’altro, a sentire la propria voce che cantilenava solenne quelle parole, si convinse che aveva fatto bene a venire da solo, perché Shoji non avrebbe riso di lui apertamente, ma glielo avrebbe ricordato in maniera sottile durante qualche battibecco, solo per fargli perdere la pazienza.
“Ti supplico, spirito guardiano, accetta questa offerta e proteggi il nostro raccolto dalla calamità che lo ha colpito” aggiunse, non del tutto sicuro di quanto dovesse essere specifico, in quel tipo di rituali. Il fatto di essere ritenuto l’esperto di spiriti del villaggio, solo perché ricordava a memoria tutte le storie che venivano raccontate attorno al fuoco nelle lunghe notti d’inverno, non faceva di lui un sacerdote o un onmyoji vero. Se lo fosse stato, avrebbe avuto di che sfamare l’intero villaggio, anche se le mele fossero state ridotte tutte a puntaspilli. Ma, ancora una volta, doveva essere l’ombra a dubitare per lui.
“Dannato spirito guardiano di queste inutili rovine, rispondimi” pensò, in maniera molto poco rispettosa del luogo sacro in cui si trovava, mentre sentiva quel silenzio opprimerlo e la calma sfuggirgli tra le dita. Forse si era sbagliato, avrebbe dovuto dar retta a Shoji, non c’era nessuno spirito in quel tempio abbandonato, e lui era uno sciocco coltivatore credulone che si era fatto un’inutile scampagnata nella foresta con del tofu fritto in tasca.
E, questa volta, non erano i pensieri dell’ombra a farglielo credere.
Stava per alzarsi e andarsene, quando una folata di vento gelido, di quello che s’insinua nelle radici delle piante fino a ucciderle, lo travolse, costringendolo a restare in ginocchio, a testa bassa, per non essere accecato dalla polvere. Una voce profonda, riecheggiante dalle pareti stesse del tempio, risuonò nella foresta, spegnendo ogni altro rumore: “Misero mortale che disturbi il mio sonno, vattene! La tua offerta non può essere accettata!”
“Perché?” gli uscì, in un sussurro incredulo. Forse, non era esattamente la prima domanda che avrebbe dovuto rivolgere a uno spirito guardiano che si era almeno degnato di rispondergli, e di sicuro avrebbe potuto farlo in una maniera un po’ più appropriata alle loro differenze di rango.
Di nuovo, la voce scosse le pareti di legno e gli alberi del bosco: “Misero mortale, se vuoi che ascolti la tua supplica, devi offrirmi un intero vassoio di yakitori!”
Se non fosse stato così spaventato, avrebbe creduto che si trattasse di uno scherzo- Kaminari aveva una pessima reputazione al villaggio per questo genere di giochetti, infatti era stato accusato di aver danneggiato le mele, la prima notte in cui era accaduto-. Le leggende parlavano chiaro, pur nel loro linguaggio fumoso da racconti antichi: le kitsune amavano il tofu fritto, questa era l’offerta adatta per blandirle ed essere ascoltati da loro.
Inoltre, era stato già abbastanza gravoso per il villaggio privarsi del cibo sufficiente per mettere insieme un’offerta sostanziosa; con il raccolto inservibile e le scorte che già scarseggiavano, non sarebbero stati in grado di permettersi neppure un singolo yakitori, a meno che non fossero riusciti a mettere le mani sulla borsa di Tawara Tōda(*). E avevano già avuto la prova che le leggende non sono poi così affidabili.
“Noi… non possiamo offrirti quello che chiedi, spirito guardiano” ammise, la voce appesantita dalla consapevolezza che, alla fine, era stato davvero tutto inutile.
Stava cercando di dominare l’ombra, gonfia in gola insieme alla paura che gli spezzava la voce, quando percepì un fruscio alle proprie spalle, il passo rapido e leggero di un animale peloso, lo stesso rumore che ricordava di aver sentito, insieme a poco altro, la notte in cui lui e Shoji avevano fatto inutilmente la guardia alle mele.
Forse sarebbe stato fulminato a morte da uno spirito guardiano offeso, ma, per una volta, lasciò che fosse la curiosità a prendere possesso del suo corpo: allungò la mano verso la parete e si ritrovò a stringere tra le dita una coda soffice.
Speriamo che ne abbia una soltanto, o da questo tempio non porteranno via neppure una manciata delle mie ceneri.
Il proprietario della coda emise un urletto stupefatto, che rimbombò nell’edificio e nel bosco come la voce inquietante di poco prima, inciampò in una trave spezzata e lasciò cadere la sfera che teneva tra le mani. Entrambi la guardarono urtare il pavimento, rimbalzare con un limpido tintinnio cristallino e incrinarsi come un uovo da cui sta per uscire un pulcino. Si accorse di essersi dimenticato di respirare quando la kitsune esclamò, in una voce ormai del tutto umana: “Ops.”
Era così incredulo da non riuscire quasi a sbattere le palpebre, anche se era sicuro che sarebbe stato più opportuno distogliere lo sguardo: la kitsune aveva riacquistato una forma umana, ad eccezione dell’unica coda che lui teneva ancora stretta in mano e delle orecchie a punta in mezzo a una chioma di capelli color paglia, abbassate in una posizione che tradiva tutto il fastidio per quella situazione imbarazzante.
I suoi occhi erano gialli e guizzanti, la resina che s’incendia durante le tempeste di fulmini, e gli si appuntarono addosso come spilli: “Come pensi di risolvere questo disastro, corvetto?”
“Non mi chiamo corvetto, io sono Fumikage Tokoyami” lo corresse, con quell’aria compunta che Shoji trovava divertente ed esasperante allo stesso modo. Si pentì immediatamente delle poche parole che aveva detto, quando vide le labbra sottili della kitsune incurvarsi in un sorrisetto divertito: “Oh, se fossi stato davvero il temibile spirito guardiano di cui parlano le vostre stupide storielle, quali orribili cose avrei potuto far fare a un corvetto così stupido da rivelarmi il suo nome.”
Nonostante quella giocosa minaccia, la kitsune si limitò a raccogliere da terra la sfera e piagnucolare come un bimbetto offeso: “Invece, sono solo una povera bestiolina solitaria e ora senza magia, grazie a un corvetto pasticcione! Allora, dimmi, come pensi di sistemare quello che hai combinato?”
Guardò la sfera incrinata fra le sue dita, in cui aleggiava a malapena un bagliore misterioso, sufficiente perché l’ombra si dimenasse nel suo petto per cercare di ghermirlo: “Quella era… è la tua Hoshi no Tama? Non si può riparare?”
La kitsune nascose la sfera nell’ampia manica dell’haori, prima di chiarire, nel tono scocciato di chi sta cercando di insegnare l’alfabeto a un allievo particolarmente ottuso: “Si aggiusterà da sola, ma ci vuole tempo, e io senza magia non so nemmeno allacciarmi l’hakama! È colpa tua se si è rotta, quindi devi rimediare! Subito!”
Tentò di passare in rassegna le leggende che conosceva, nel caso in cui qualcuno, prima di lui, si fosse trovato in quella assurda situazione, ma non gli venne in mente nulla di risolutivo. Di solito, chi danneggiava le proprietà divine finiva in polvere o trasformato in qualche mostro orripilante, che veniva poi ucciso senza pietà e senza troppe domande da qualche coraggioso samurai in cerca di gloria. Nessuna delle due alternative lo allettava in maniera particolare, quindi rimase in silenzio.
“Allora, sto aspettando e non ho molta pazienza, corvetto” insistette la kitsune, agitando la coda come un gatto infastidito. La guardò sedersi sull’altare impolverato e tirar fuori uno yakitori dalla manica dell’haori: “Hai tempo fino a quando finisco di mangiare.”
In quell’istante, la consapevolezza lo trafisse come l’occhiata attenta dello spirito. Le mele crivellate, i graffi sulla vernice del torii, i bastoncini piantati nella cera solida, l’offerta in yakitori: aveva avuto tutti gli indizi sotto gli occhi, ma era stato troppo impegnato a guardare il paesaggio e preoccuparsi dell’ombra per vedere davvero: “Sei stato tu. Tu hai distrutto il nostro raccolto.”
“Io detesto le mele” ribatté la kitsune, mentre inghiottiva in un solo boccone gli ultimi pezzetti di carne e piantava il bastoncino nel legno dell’altare, come l’aveva conficcato nei loro frutti nel corso dell’intera luna, “Ti faccio notare che il tempo è scaduto, corvetto. Allora, la tua risposta?”
Ignorò i ruggiti silenziosi dell’ombra contro le tempie, che avrebbero voluto convincerlo a scagliarsi addosso alla kitsune per lottare e fuggire. Invece, si inginocchiò di nuovo, come aveva fatto quando ancora sperava che il tofu fritto potesse salvare le sue mele e il suo villaggio: “Non c’è nulla che io possa fare per ripagarti della sfera infranta, spirito guardiano. Divorami pure, se ciò può servire a placare la tua rabbia, ma, ti supplico, smetti di tormentare i nostri alberi, o la mia gente morirà.”
Una risata argentina, che subito dopo divenne sguaiata come il verso di un cane folle, questa fu la prima risposta che ricevette dalla kitsune. Adesso sarebbe morto, senza aver mai imparato a ridurre al silenzio l’ombra, e aveva detto addio a Shoji soltanto con qualche parola vuota e piena di fastidio.
Era però ancora inequivocabilmente vivo, quando la kitsune gli rifilò uno schiaffetto a palmo aperto sulla testa, come se stesse cercando di educare un cucciolo bizzoso: “Figuriamoci se posso mangiarmi un corvetto tutto piume e ossa come te! Non basti neanche a sporcarsi le zanne!”
D’accordo, non sarebbe morto adesso, ma di sicuro il ghigno allegro della kitsune non poteva significare nulla di buono: “Te lo dico io, cosa puoi fare per rimediare, corvetto. Resta con me, qui al tempio, come servitore e apprendista, fino a quando la mia sfera sarà di nuovo intatta. In cambio, ti prometto che smetterò di danneggiare il vostro raccolto. Lo giuro sulla mia coda vaporosa, che possa restare incastrata in una tagliola se mento.”
Poteva fidarsi delle promesse di un bizzarro spirito guardiano che preferiva gli yakitori al tofu fritto? Se fosse rimasto nella foresta, al suo servizio, avrebbe davvero salvato l’intero villaggio dalla morte per fame?
La vera domanda, però, gli affiorò alle labbra prima che potesse cercare di reprimerla: “In che senso, apprendista?”
In quelle iridi gialle, aveva letto la derisione, la minaccia, l’imprevedibilità, ma, soltanto in quel momento, vi vide balenare una saggezza quasi malinconica, come se, all’improvviso, l’essere millenario avesse preso il sopravvento sullo spirito dispettoso: “Ascoltami bene, corvetto, e rifletti. Perché nessuno ti ha fermato, quando hai detto che saresti venuto qui a fare un'offerta per convincermi a proteggere il vostro raccolto?”
Shoji ci aveva provato, con quella sua quieta preoccupazione, ma non era bastato per convincerlo a rinunciare, sicuro com’era che le leggende raccontassero la verità: “Speravano che ci riuscissi?”
Non ne era convinto neppure lui, ancora prima che la kitsune scuotesse la testa ad orecchie abbassate, perché ogni parola che stava per dire gli pesava come un macigno sulla lingua: “Mi piacerebbe lasciartelo credere. La verità è che stavano cercando di liberarsi di te, corvetto.”
Sentì l’ombra contorcersi, affamata del suo dolore: nessuno, al villaggio, poteva pensare questo di lui. Di sicuro non Shoji, la sua coscienza e la sua ombra, quella che non era crudele e indomabile. Neppure Kaminari, che pure era il primo a prendersi i suoi rimproveri, quando si nascondeva a dormire al fresco nei magazzini invece di partecipare alla potatura, o quando faceva morire ogni innesto che aveva la sciagura di finire tra le sue mani: “Non è vero.”
La kitsune incrociò le braccia nelle maniche dell’haori: “Mi spiego meglio, in maniera più… umana, diciamo così. Non è che ti detestino o altro, corvetto, sia chiaro. Però, di sicuro, anche loro hanno iniziato a percepirla e, forse, proprio perché ti vogliono bene così come sei, hanno deciso che mandarti da me nella foresta ti avrebbe aiutato a imparare a controllarla. A dominarla prima che si impadronisca del tutto del loro corvetto. Dopotutto, credono davvero in te e nelle leggende che tu hai raccontato.”
“Di… di cosa parli?” balbettò, e non sapeva più se faceva fatica a respirare per ricacciare in gola le lacrime, o se perché l’ombra nel suo petto non era mai stata così selvaggia e priva di freni.
“Mi sta dando il tormento da quando hai oltrepassato il torii, quella maledetta ombra”: la kitsune digrignò i denti, il pelo della coda ritto come se fosse stato percorso da un fulmine, “Il fatto che tu sia riuscito a sopportarla fino a oggi, senza un addestramento spirituale e senza che la tua umanità ne venisse del tutto divorata, mi dice che sarai un ottimo apprendista, Fumikage Tokoyami.”
Cercò di ritrarsi- l’ombra cercò di ritrarsi, per la prima volta era lei a provare paura-, nel momento in cui la kitsune appoggiò il palmo aperto sul suo petto, all’altezza del cuore. Fu come essere travolto dalle onde di risacca in riva all’oceano: l’ombra si contorse, dilaniando la pelle che la conteneva, tentò di esplodere nella carne per spezzare l’incantesimo, poi si quietò di colpo, intorpidita nel retro della sua mente. Nel silenzio desolato del tempio, faticava a ricordare l’ultima volta in cui si era sentito davvero solo, senza l’ombra a manovrare i suoi pensieri, a provare i sentimenti al suo posto.
Si ritrovò steso a terra, e il dolore alla schiena servì almeno a riportarlo alla realtà: “Avresti potuto avvisarmi che sarei svenuto.”
La kitsune gli spazzolò via la polvere dalla testa con il lembo candido della manica: “Vedila così, ho dovuto usare gli ultimi sprazzi di magia rimasta nella sfera per metterla a nanna e far ricrescere tutto il vostro raccolto distrutto. La caduta è stato il danno collaterale, corvetto.”
Quello spirito bizzarro aveva ragione, non poteva fare ritorno al villaggio prima di aver imparato a controllare l’oscurità che celava dentro, troppo a lungo ignorata. E poi, adesso aveva un vero debito con il guardiano della foresta, e non sarebbe bastato né un cartoccio di tofu fritto, né un vassoio di yakitori a ripagarlo. Shoji avrebbe dovuto aspettarlo al limitare del bosco ancora per un po’.
Si rimise in piedi, appoggiandosi al suo braccio: “Quando cominciamo?”
“Subito, c’è da mettere in ordine questa schifezza di posto da cima a fondo, non possiamo mica vivere in una tana per i topi!” strillò la kitsune, allargando le braccia a indicare il tempio mezzo crollato attorno a loro. Quindi, sorrise, di quel sorriso astuto che lo faceva sembrare infantile e antico allo stesso tempo: “Un nome per un nome, corvetto. Se lo desideri, puoi chiamarmi Sommo Spirito Guardiano e Perfettissimo Maestro Keigo Takami.”
“Maestro Takami andrà benissimo” concluse, asciutto, rimediando una linguaccia e un soffio irritato: “Sai essere un allievo davvero noioso, corvetto.”

§§§

C’era una volta, nel folto del bosco, un tempio abbandonato, dedicato al dio Inari…
“Allora, corvetto, cosa ti sembra più adatto all’occasione? Fantasia di camelie o fantasia di nuvole?”
Sollevò il pennello dalla carta insieme allo sguardo: il maestro si stava pavoneggiando in mezzo alla stanza, agitando i due haori dai colori vivaci come vessilli di un esercito in marcia: “L’occasione sarebbe..?”
La bocca del maestro formò un cerchio perfetto, come se fosse stato tracciato da un abile calligrafo: “La festa del dio del fuoco sotto il vulcano, corvetto, non dirmi che te ne sei dimenticato?”
Posò il pennello e passò rapidamente in rassegna le carte sparpagliate sul tavolino da scrittura: “Non siamo stati invitati a quel ricevimento, Maestro Takami.”
Il maestro gli fece l’occhiolino, e lui seppe che, almeno per quel giorno, non sarebbe riuscito a finire di scrivere la propria storia in pace: “È proprio per questo che ci andiamo, corvetto!”


(*) Tawara Tōda è il protagonista di una leggenda giapponese, secondo la quale ebbe in dono una borsa di riso che non si svuotava mai da una principessa (in altre versioni, un’ancella o una dama) del Palazzo del Drago sottomarino, come ricompensa per aver ucciso una scolopendra gigante (mukade).

   
 
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