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Autore: Giulia1098    21/09/2020    1 recensioni
Dodici giardini per dodici ragazzi, dodici mesi, ingranaggi di un sistema perfetto, ma limitante. Questa è la storia di Maggio, di come decise di voler assaggiare di più del mondo e delle sue storie e così scoprì grandi misteri nascosti, così scoprì l'amore
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli occhi fecero fatica ad abituarsi a quell’oscurità polverosa nella quale si era ritrovata, ma i graffi provenienti dall’esterno, che poteva però sentire sulle pareti della casa, le mettevano addosso una paura tale da impedirle di uscire e preferire comunque quel luogo buio, al terrore di ciò che l’aspettava fuori.
Rimase così, raggomitolata su sé stessa a piangere sommessamente per qualche ora o forse solo qualche minuto, senza luce infatti non si rendeva conto del passare del tempo, ma non sapeva nemmeno cosa fare, disperata come era, per cui se ne rimaneva lì in preda all’ansia cercando di percepire ogni minimo rumore che le si avvicinasse.
Dopo un po’ non riuscì nemmeno più a capire se quei graffi che sentiva da fuori ci fossero davvero o no, non ricordava bene se quelle creature terribili esistessero veramente o fossero solo frutto della sua fantasia, forse era talmente concentrata a sentirne i rumori, che la sua mente la accontentava facendole credere di aver visto e di aver sentito qualcosa, fatto sta che trascorse molto tempo prima che potesse calmarsi e riprendere lucidità mentale.
Mentre se ne stava lì per terra iniziò a cercare di dare un senso a quello che aveva appena vissuto, o credeva di aver appena vissuto, e tutto ciò a cui riuscì a pensare fu una vecchia storia che aveva udito qualche tempo prima nella piazzetta di un paesino di montagna lì vicino.
Un vecchio dal naso bitorzoluto infatti, seduto sulla panca a ridosso della parete della sua casa, stava intrattenendo una discreta folla di bambini attenti che, chi seduto per terra, chi sdraiato, rimanevano assorti ad ascoltare i racconti di paura di Vecchio Nonno Gleb. Maggio era rimasta incuriosita da quella piccola folla, per cui si era avvicinata e seduta tra i bambini.
-Conoscete bambini ciò che si dice del Bosco qui vicino vero? - domandò Nonno Gleb ed un mormorio di assenso salì dalle piccole bocche radunate -Bene bambini, i più grandicelli di voi penseranno che si tratti di frottole, storie di paura per tenere lontani i più piccoli, ma io vi dico che è tutto vero e che l’ho visto con i miei occhi- strabuzzò dei grossi occhioni chiarissimi, cerulei, prima impossibili da vedere, coperti com’erano da quella ragnatela di rughe che li sovrastava  -Sapete, quando avevo la vostra età, ero molto curioso troppo curioso forse, e, nonostante sapessi che nel Bosco qui vicino nessuno deve mai addentrarsi, ho pensato che fosse sciocco non andare a vedere di persona che cosa vi si nascondesse e poi, se avessi incontrato qualche grosso lupo, l’avrei sicuramente ucciso a mani nude, pensavo, l’avrei ucciso sì, sì, e poi tutti in paese avrebbero detto che ero il giovane coraggioso più coraggioso del regno- qualche bambino più grande dava una gomitata ammiccante all’amichetto di fianco, forse, pensò Maggio, anche loro avevano pensato di compiere la stessa eroica impresa -Bene, allora un giorno mi ero addentrato per il Bosco qui vicino e non riuscivo a capire che cosa ci fosse poi di tanto pauroso da temere, fino a che non mi infilai nelle sue profondità. Lì la luce non arrivava e sembrava che tutto tacesse, come se fosse lo stesso Bosco a braccare me e non io ad esplorare lui. Fatto sta che la notte doveva essere calata, ma lì era così buio che a stento riuscivo a vedere ad un palmo dal mio naso- al che una ragazzetta ridacchiò pensando al grosso naso bitorzoluto del vecchio, che non sembrò però darci troppo peso e proseguì nel racconto -Sì sì, mi ero proprio perso e temevo per la mia vita, sapete, non si è più poi tanto coraggiosi quando la luce non la si vede e si inizia ad avere freddo e fame, in più sentivo qualche lupo ululare e non ero più sicuro che sarei stato in grado di sconfiggerlo se mi si fosse parato davanti. In ogni caso, ormai perduto, mi sono seduto per terra pensando a casa mia, alla mia camera ed al mio letto caldo, quando eccoli, lì nel buio due grandi occhi azzurri brillare nella notte- un fremito scosse la folla di bambini -Sì bambini, quello era il re della morte, il signore della fine, un fantasma fatto di ragnatele ed ossa delle creature che si era divorato ed ora voleva mangiare proprio me! Ma sapete cosa piace ai mostri ancora di più che mangiare poveri ragazzini sperduti?- una decina di testoline scosse il capo in segno di diniego -Oh, ma è presto fatto, ai mostri piacciono gli indovinelli, quelli strani ed arzigogolati, che ti fanno perdere il filo del discorso quando li racconti, vedete, per loro la carne diventa più succulenta, se prima si è fatto anche un poco andare il cervello-
-E cosa ti chiese Nonno Gleb?- domandò un bambino grassottello -Vedi, Ismael, i mostri del ghiaccio hanno una mente un po’ strana, stanno sempre al freddo ed al buio, per cui i loro indovinelli non sono sempre chiari, ma anzi oscuri e misteriosi come il ghiaccio della loro anima. Il Dio della morte mi disse Da morte ho vita: e son di vita priva. Tosto ch'io nasco: e morte ho pria che vita, né sia che d'altro padre io nasca o viva! Ragazzi miei che paura che ho avuto, sapevo bene che mi avrebbe divorato comunque, ma speravo di poter guadagnar tempo per poter pensare a dove fuggire, così iniziai a ragionare su cosa potesse essere quella stranezza che mi aveva chiesto, ma proprio non mi veniva in mente un bel nulla! La Legna, provai a rispondere, Gli alberi vengono abbattuti per far legna e lei nasce allora dalla morte, ma è della vita privata, ma la testa spaventosa fece cenno di no e con le sue lunghe dita artigliate mi fece capire che avevo ancora una sola possibilità. Mentre mi guardavo attorno ormai terrorizzato mi resi conto del muschio, sapete ragazzi, il muschio cresce sugli alberi in direzione del nord, e seguendolo avrei avuto modo di far ritorno a casa! Eppure, rimaneva sempre il problema dell’indovinello, avrei dovuto almeno risolverlo prima altrimenti non avrei avuto neanche il tempo di fare un passo. Ora, io non sono un vecchio edotto, non ho studiato sui grandi libri ed ogni volta che qualcuno provava ad insegnarmi qualche cosa io scappavo sempre via annoiato, ma in quel momento un ricordo mi salì improvviso alla memoria. Quando ero più piccolo un mercante, che veniva da lontano, ci aveva fatto vedere a noi ragazzi del paese uno strano uccello rosso fiammeggiante e giurava che dalle fiamme fosse proprio nato nel momento in cui bruciando era morto, Araba Fenice l’aveva chiamato. Ora, il mercante non ci aveva dato la prova certa incendiando quel bell’animale davanti ai nostri occhi, ma, anche se scettico, mi era proprio sembrato che quella fosse la risposta giusta. Araba Fenice! urlai in faccia al mostro, il cui ghigno si spense deluso, e mentre la delusione e la rabbia ne avevano bloccato per il momento il corpo io mi misi a correre come un pazzo, sempre più veloce, verso nord- un bambinetto un poco strafottente si alzò in piedi e domandò -Tu ci vorresti dire che sei sfuggito al Dio della morte, grazie a del muschio? –
-Certo!- ribatté senza esitazione Vecchio Nonno Gleb -Ma poco prima che gli sfuggissi, il Dio della morte mi ha toccato il volto con le sue unghie avvelenate, è per questo che ora ho questo orribile naso che mi ritrovo- ma in quel momento passò per la piazza una donna anziana con un cesto pieno di mele sulla testa e, avendo ascoltato le ultime parole dell’uomo, lo canzonò dicendo -Ma cosa racconti a questi bambini! Da che sono a questo mondo, mi ricordo il tuo naso bitorzoluto da sempre! Altro che Dio della morte! –
-Sta zitta Olga! - le gridò dietro il vecchio e così tutto il piccolo uditorio scoppiò a ridere, Maggio compresa.
Ora invece, in quella sala buia e silenziosa, a Maggio non veniva più così tanto da ridere e ripensava ossessivamente alle parole di Vecchio Nonno Gleb: un fantasma fatto di ragnatele ed ossa delle creature che si era divorato e rabbrividì ancora di più stringendosi le ginocchia al petto.
Che sciocca che sei! Così ingorda di racconti che hai finito per crederci anche tu. Sicuramente tutto ciò che hai visto, hai solo creduto di vederlo e questo Dio della morte sicuramente non esiste. Smettila di comportarti come una bambina spaventata.
Si rimise in piedi sistemando la gonna del vestito tutta stropicciata e, dopo aver fatto un lungo respiro, decise di avvicinarsi allo squarcio sulla porta: fuori non si vedeva nulla tanto era buio il cielo di quella notte, forse le nuvole coprivano le stelle, fatto sta che non riusciva a vedere bene nemmeno le sagome degli alberi, ma di sicuro non c’erano quelle terribili figure magre e lunghe, che poco prima aveva pensato la stessero inseguendo e addirittura avessero graffiato con le unghie la porta e le pareti per poter entrare. Visto? Sei proprio una stupida pensò, eppure non poté far a meno di intravedere strane pozze d’acqua sull’erba e sul porticato, visibili solo dall’incresparsi della superficie per la leggera brezza primaverile.
Ormai era notte, e notte inoltrata per di più, non avrebbe potuto fare chissà cosa, sicuramente non avrebbe potuto ritrovare la strada per uscirsene dal bosco, dato che anche durante il giorno non era passato un solo raggio di sole attraverso quelle fitte chiome, per cui decise che sarebbe rimasta in quella casa ad aspettare l’alba. Ovviamente la cosa saggia da farsi sarebbe stata rimanere ferma e non allontanarsi troppo, quel posto, benché senza alcuna ombra di dubbio vuoto ed abbandonato, doveva comunque essere pericolante ed instabile, se si fosse messa a girovagare senza nemmeno poter vedere dove mettere i piedi sicuramente sarebbe piombata in qualche buco sul pavimento o le si sarebbero sgretolate le travi di legno sotto i piedi incerti.
Ma eccola, nuovamente nella sua testa, quella vocina che qualche ora prima l’aveva messa in pericolo e l’aveva fatta morire di paura, ripresentarsi al suo orecchio e suggerirle di esplorare quella dimora abbandonata: alla fine aveva solo immaginato tutto, non c’erano certo fantasmi nascosti sotto i tavoli o dietro le tende pronti ad aspettarla, ma solo oggetti impolverati ed abbandonati a loro stessi, forse qualche strano cimelio che avrebbe potuto collezionare e portare con sé nel suo giardino.
E poi che male avrebbe fatto se si fosse messa un poco ad esplorare, alcuno ovviamente, la casa non era abitata da anima viva e quindi chi si sarebbe lamentato per un pomello staccato o una gamba rotta di qualche sedia? Nessuno certo, non doveva temere nulla, si sarebbe aggirata indisturbata per la casa, avrebbe fatto attenzione a non rompere alcunché, e, se avesse trovato qualche cosa di interessante, se la sarebbe portata via con sé senza far certo del torto a qualcuno.
Quella voglia di scoprire fu troppo forte e vinse, senza nemmeno eccessive moine, l’altra voce che le suggeriva di rimanersene dov’era, lì ferma immobile ad aspettare l’aurora, cosa comunque molto noiosa da farsi, considerò tra sé e sé.
Che male vuoi che sia? pensò, e voltatasi le parve di scorgere una grande scalinata che portava ad uno o forse più piani superiori. Salì. 

Man mano che gli occhi si abituavano al buio e che le lacrime si asciugavano riusciva a scorgere sempre più particolari interessanti attorno a lei: qualche quadro di famiglia impolverato e dai colori impercettibili al buio, tavoli ancora coperti con tovaglie, forse bianche, ma mangiucchiate dalle tarme qua e là, sui comodini e sui mobili c’erano ampolle di vetro, tutte vuote, e qualche cofanetto di legno intarsiato. Molti di questi particolari ovviamente riusciva a scoprirli solo toccando con le dita le superfici e così si accorgeva della loro morbidezza, durezza o freschezza, ma soprattutto di quanto tutto lì fosse terribilmente impolverato.
Entrò in una nuova stanza, forse una vecchia camera da letto ma che era appartenuta a qualche bambino, anzi no, una bambina, poiché riconobbe una casa per le bambole e qualche pupazzo rotto sparso in giro. Doveva essere stata una camera grande e spaziosa, dove poter giocare e divertirsi, ma un crollo del piano superiore aveva a sua volta creato una voragine nel pavimento proprio al centro della stanza, riducendo irrimediabilmente lo spazio: solo una trave del soffitto, fermatasi tra una sponda e l’altra del buco, permetteva di attraversarlo.
Maggio si avvicinò ad una cassettiera a fianco del letto, che per un poco penzolava giù nel vuoto di macerie, e tentò di aprire una scatola posta su di essa. Benché fosse chiusa da una serratura non dovette fare più di tanto forza, dato che il legno, marcio, cedette subito sotto il tocco della ragazza ed ecco aprirsi sullo scenario nero del cofanetto dispiegato una ballerina aggraziata che girava su se stessa accompagnata dalla melodia metallica, proveniente dall’interno della scatola.
Alle volte la musica andava e veniva, si interrompeva e poi accelerava bruscamente come se, colta da improvvisi attacchi di sonno, si svegliasse di colpo e si ricordasse di dover andare a tempo con la propria danzatrice, che invece continuava la sua pirouette, infaticabile ed elegante.
Che tristezza, pensò, essere quella ballerina, costretta a girare su sé stessa tutto il tempo che il cofanetto fosse rimasto aperto, al servizio di chi ci sta a guardare, senza fermarsi mai o mai appoggiare quella gamba piegata sotto il tulle. Un po’ come per lei, per i suoi fratelli, per la vita di tutti loro, erano ballerine che danzavano per tutto l’arco del loro mese, bellissimi a vedersi, per il divertimento e la sorpresa di chi li stava a guardare, ma poi, quando il coperchio si riabbassava, quando il trentunesimo giorno scadeva, proprio come la ballerina, tutti loro ricadevano nell’oblio del dimenticatoio, aspettando al buio di giardini splendenti che qualcuno riaprisse di nuovo il carillon e si sedesse ad osservarli ballare, fingendo che tutto ciò fosse molto bello, molto giusto e molto necessario.
-Quanto non vorrei essere una ballerina- sospirò la sconsolata Maggio a voce alta, ma uno scricchiolio dietro la sua testa la fece voltare di scatto, all’improvviso spaventata come quando era entrata in quella vecchia casa.
Dietro di lei, all’ingresso della camera stava un giovane dall’aria nota e dall’aspetto bizzarro: i capelli erano bianchissimi e le loro punte si ghiacciavano ed anche il colore della pelle era talmente chiaro da sembrare trasparente, ma ciò che colpì davvero Maggio furono gli occhi indagatori e timorosi che la guardavano.
In quegli occhi scorse la tristezza di Aprile, quella di Marzo e soprattutto la propria, scorse la prigione di un giardino bellissimo in cui dover far ritorno ogni volta volontariamente o meno. -Chi sei tu? - le domandò una voce roca e fredda, ma quello che le stavano dicendo quegli occhi di ghiaccio era in realtà Va via! Sono arrivati, mi hanno scoperto!
Le sembrava di aver perso la voce, si trovava di fronte ad un fatto che non era mai accaduto prima e che non doveva categoricamente accadere, tutti loro infatti odiavano far ritorno nei loro cancelli, tutti loro odiavano non poter vivere liberamente, eppure vivevano quella vita, così come era stata loro fatalmente imposta, senza fare domande, così come doveva essere.

 -Tu non dovresti essere qui- continuò il ragazzo avanzando lentamente, e per ogni passo che lui faceva, lei ne portava uno indietro dirigendosi inconsapevolmente sempre più in là sulla trave traballante.
-Tu non dovresti essere qui. Ho fatto in modo che nessuno potesse trovarmi qui, devi andartene via-
-Io so chi sei tu - Maggio sembrò aver improvvisamente ritrovato la voce -Io non conosco il tuo nome, ma conosco il nome di tuo padre. Tu sei uno dei figli di Inverno, non è vero? – il ragazzo fu preso da un tremito di paura e dai suoi piedi il legno iniziò a ghiacciarsi paurosamente ed avanzare verso di lei, mangiandosi trave dopo trave, come se fosse stato un animale braccato pronto a difendersi, mentre la ragazza retrocedeva sempre più.
-Allora anche io so chi sei, ma non conosco il tuo nome. Sei una figlia di Primavera, ma questo non importa, sei come tutti loro, come i nostri genitori, schiava del tuo giardino e non hai il coraggio di fare quello che invece io ho fatto, sì che io ho fatto e voi altri no- il ghiaccio avanzava pericolosamente e Maggio ebbe un’illuminazione su chi fosse il suo terrorizzato interlocutore.
I nomi hanno sempre avuto un potere particolare, racchiudono l’essenza delle cose, la loro scintilla vitale, sono un bene prezioso da custodirsi con premura e conoscere il nome di qualcosa crea un legame indissolubile con questa -Io conosco il tuo nome- disse la ragazza calma e le mani di lui presero a tremare: -Dicembre-, ma non appena lo ebbe pronunciato il ghiaccio impazzito divorò l’ultimo centimetro di trave, che, resa ancora più fragile, non resse il peso di Maggio e si frantumò in mille pezzi. Cadde nel vuoto.
   
 
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