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Autore: Giulia1098    21/09/2020    1 recensioni
Dodici giardini per dodici ragazzi, dodici mesi, ingranaggi di un sistema perfetto, ma limitante. Questa è la storia di Maggio, di come decise di voler assaggiare di più del mondo e delle sue storie e così scoprì grandi misteri nascosti, così scoprì l'amore
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Intorno a lei c’era molto buio ed uno spazio stretto, non riusciva a muoversi e sentiva il proprio corpo freddo, le pareva quasi di esser fatta di porcellana, tanto lo sentiva gelido e contratto. Non riusciva a muovere le braccia, bloccate in una strana posizione, come se disegnassero un cerchio sopra alla sua testa, ed anche le gambe erano immobilizzate, con una postura scomoda e rigida. In quel momento le avrebbe volentieri sgranchite un poco, ma, più si sforzava, più si rendeva conto di non aver controllo sul suo corpo.
Improvvisamente uno scricchiolio ed il buio che le sovrastava la testa si dischiuse, come un cofanetto scoperchiato, obbligandola in un gesto rigido, quasi meccanico, ad alzarsi stando in equilibrio su di un solo piccolo piede, fasciato in una scarpetta.
Nelle orecchie poteva sentire la musica suonare placida, mentre lei girava su sé stessa senza sosta e senza volerlo.
Anche il viso non era più in suo possesso: la bocca era costretta in un sorriso appena accennato, elegante e sobrio, che non le apparteneva ed il mento era leggermente alzato in su con raffinatezza, solo gli occhi sembravano ancora essere suoi e li girava freneticamente cercando di capire dove si trovasse e cosa stesse succedendo.
Tra una piroetta e l’altra era riuscita a scorgere solo molta luce bianca, che la accecava forse anche di più di quanto non avesse fatto il buio ottenebrante della sua scatola, ma, nonostante questo, riusciva ancora a scorgere altre undici sagome che le ricordavano sé stessa.
Undici carillon aperti su cui ballerine e ballerini vorticavano costretti a sorridere, ma i cui occhi rivelavano la stessa malinconia e lo stesso sconforto che sentiva nel suo cuore. E lì, in mezzo a quel cerchio di finzione, stava una figura alta ed imponente.
Non riusciva a capire se fosse uomo o donna, se fosse vecchia o giovane, era solo una grande figura che se ne stava lì in piedi ad osservare il tutto, eppure, anche se non riusciva a scorgerne il volto, Maggio percepì il suo sogghigno, come se provasse piacere nel guardarli vorticare così, come se adorasse essere adorata, anche se, tutte quelle belle statuine che, ballando, la guardavano sorridenti, erano obbligate a farlo. Poco importava, l’essenziale era solo che fossero lì.
Ma ecco nel punto del cerchio perfettamente opposto al suo, una figura imprigionata nel carillon spezzare il legno del suo giogo e balzare in avanti frantumandosi in mille pezzi e provocando l’ira della grande Sagoma: aveva perduto un suo gioco e questo l’ aveva resa terribilmente arrabbiata, talmente fuori controllo che con un solo gesto della mano non aveva solo chiuso all’improvviso tutti i coperchi dei dodici cofanetti, ma li aveva distrutti, sbriciolati sotto la sua furia. E fu di nuovo buio.
Riaprì ancora una volta gli occhi e nuovamente intorno a sé non poté vedere altro che buio pesto, ma questa volta le mani potevano muoversi ed anche le gambe, oltretutto un forte mal di testa le stava confermando che, ciò che aveva visto prima, fosse stato solo un sogno allucinato.
-Solo un sogno- bisbigliò, quasi per assicurarsi che la sua voce ci fosse ancora e che il suo corpo fosse davvero suo, e nel farlo si portò la mano alla testa, là dove le doleva: scoprì di aver però entrambi i polsi legati, così come anche le caviglie e sentì una strana sostanza calda scorrerle viscosa sulla tempia sinistra. Sangue pensò spaventata.
Cominciò a respirare affannosamente cercando di capire in che luogo della casa si trovasse. Non era più nella camera della bambina ovviamente, ma nemmeno nella stanza dove era precipitata o avrebbe potuto notare il buco sul soffitto, era un posto buio e più angusto ed una lunga scalinata stretta sembrava essere l’unica via d’uscita a quello che doveva essere un sottoscala, uno scantinato o una cantina.
-Smettila di muoverti così o allenterai le bende-…Bende, sì effettivamente sentiva qualcosa che le stringeva la testa, ma che, con le mani impedite, non aveva potuto toccare.
Sulle scale, appollaiato a dire il vero sul loro corrimano c’era quel ragazzo bizzarro di prima: la pelle talmente tanto diafana e fredda che emanava un bagliore azzurro, l’unica fonte di luce a cui appigliarsi -Dove mi trovo? Cosa mi è successo? - gridò Maggio spaventata -Sei caduta ed hai battuto la testa, non ti devi preoccupare e solo una botta con qualche graffio, niente di grave, te l’ho fasciata solo per precauzione con qualche lenzuolo stracciato-
-Tu non dovresti essere qui- la paura della ragazza adesso iniziava a salire così come riemergevano alla memoria tutti i ricordi del giorno precedente -Tu non dovresti essere qui. Dovresti essere nel tuo giardino, non qui. Tutto questo non ha senso- addolcito dall’evidente stato di panico di lei, Dicembre balzò giù dal corrimano con un rapido gesto e le si avvicinò, ma, ancora troppo spaventata e diffidente, Maggio cercò di strisciare il più lontano possibile da lui, ricordando cosa fosse successo al pavimento sotto i suoi piedi e non volendo precipitare chissà dove una seconda volta -Non ti devi preoccupare, ieri mi hai colto alla sprovvista e ho agito di impulso, senza controllarmi, non riaccadrà te lo prometto- lei lo guardò rimanendosene zitta -Beh, non hai intenzione di dirmi quale dei figli di Primavera tu sia?-
-Maggio- bisbigliò lei senza smettere di guardare la figura del suo aguzzino, con particolare interesse per il legno al di sotto dei suoi piedi -E sentiamo, Maggio, come avresti fatto a trovarmi? Ti ha mandata tua madre? Ha parlato con mio padre? – il suo tono aveva iniziato ad irrigidirsi e di fatti piccoli cristalli ghiacciati iniziavano a zampettare qua e là a fianco dei suoi talloni -No, nessuno mi ha mandata. Io… mi sono persa, credevo di aver visto, beh, qualcosa nel bosco. Mi sono persa e basta. Ho solo cercato rifugio- alla parola rifugio il ghiaccio tornò ubbidiente dal suo padrone, come se si fosse impietosito da quella ricerca di salvezza, mossa dalla paura, ma subito riacquistò quel suo tono spavaldo -Non credi di aver visto qualcosa nel bosco, tu hai visto qualcosa nel bosco-
-Ma non è possibile-
-Oh, sì che è possibile, ho fatto in modo che nessun essere umano si avvicinasse a questo luogo, ho creato io quegli spettri che hai visto, dovevano però solo spaventarti, te come per tutti gli altri del resto, non avevo certo previsto che una ragazzetta nello scappare arrivasse proprio qui, in casa mia- la ragazza notò un certo fastidio nell’espressione di lui -Questa non è casa tua, Dicembre. Tu non appartieni a questo posto, non gli appartieni come non gli appartengo io-
-Tu menti, Maggio, menti come mentono i tuoi fratelli e tutti gli altri. Noi apparteniamo a luogo che decidiamo di abitare ed io non ho mai deciso di abitare in un giardino freddo e desolato, non ho mai deciso di poter essere libero una sola volta l’anno o chiesto io di essere il primogenito di Inverno- l’aria spavalda e forte che aveva indossato come maschera qualche attimo prima, lasciò il posto un ragazzo fragile che aveva solo provato a fare quello che tutti loro non avevano mai nemmeno pensato fosse possibile sognare.
 -Come hai fatto? - questa era la domanda che le ronzava in testa dall’inizio di quella strana conversazione, come era possibile che uno di loro fosse sfuggito ai meccanismi che regolano l’universo -L’ho fatto e basta. Tu non eri forse stanca di stare lì dietro quei cancelli? Lo so che è così, perché tutti noi alla fine soffriamo per ciò che siamo, lo so bene, ho solo deciso che non poteva più essere così, ho solo deciso che me ne sarei andato-
-Ma come hai fatto? Come hai aperto il cancello se il tempo non era ancora arrivato? Come hai fatto a venire qui senza una porta? –  lui si allontanò in fretta, forse pentito di aver già parlato così tanto -Troppo, troppo- continuava a ripetere -Le ho detto troppo-
-Cosa ne vuoi fare di me? – lo rimbeccò lei avendo colto quello stesso momento di fragilità che aveva notato il giorno precedente -Cosa pensi di fare, eh? Di tenermi qui per sempre? –
-Forse! - le urlò dietro lui -Fino a che sarà necessario, non posso permettere che per colpa tua tutto quello che ho fatto venga mandato in fumo. Non lo voglio permettere-. Quella frase le fece ancora più paura del buio, dei fantasmi e della caduta, perché in quella frase, in quel voglio così marcato aveva percepito lo stesso pensiero agghiacciante che le si era palesato nella mente poco prima di addentrarsi nel bosco: forse se mi succedesse qualcosa, sarei finalmente libera.
Rimase sconvolta dal rendersi conto di quanto la paura potesse far perdere la lucidità, di quanto il vivere in cattività come se fossero loro tutti semplici cani ammaestrati potesse condurre a bramare la libertà con una forza cieca e portasse anche, una volta che quella libertà la si era in un qualche modo ottenuta, a viverla nel timore di perderla di nuovo, nel terrore di essere scoperti, nell’ansia e nella fatica di essere costantemente braccati e messi all’angolo, in dovere di difendersi senza riuscire più a distinguere tra chi ci è nemico e chi no. In quel momento temette davvero per la sua vita.
-Credi forse di essere libero qui? – sapeva che stava rischiando molto, che una mente impaurita è più imprevedibile di una lucida -Come puoi chiamare libertà questo luogo buio e sporco-
-Sta zitta! – le urlò di contro lui ed il ghiaccio riprese a zampillare da sotto i suoi piedi, sembravano quasi piccole scariche di elettricità, come se fossero fulmini bianchi che esplodevano in scintille.
Nuovamente si rese conto che la lucidità mentale di Dicembre stava venendo meno, che la paura stava di nuovo montando in lui, ma pensò che quello fosse il momento più utile per metterlo alle strette, per prendere tempo: -Come puoi chiamare questa libertà? Come puoi chiamare la solitudine libertà? -
-Zitta, zitta! - intanto continuava lui, ma Maggio non demorse -Sei fuggito da un giardino per chiuderti in un altro. Sei scappato dal freddo e dalla solitudine, ma qui non vedo altro che questo. Tutto questo non è essere liberi Dicembre, tutto questo è essere soli ed essere ancora più soli di quanto non fossi nel tuo giardino. Scappare non è la strada giusta da percorrere, stai solo vivendo nella paura! –
-No! - urlò lui e una parete della piccola stanzetta si gelò. Maggio la guardò strabiliata mentre il ragazzo, sordo di fronte alla verità, corse su per le scale sbattendosi la porta alle spalle.
Forse aveva sbagliato a parlargli così, forse avrebbe dovuto essere più accondiscendente, fingere di condividere quello che Dicembre le aveva detto. Fingere. Pensò che in fin dei conti non si sarebbe nemmeno dovuta sforzare più di tanto, perché quella libertà la bramava anche lei, anche lei sognava di poter uscire dai cancelli senza costrizioni, senza scadere del tempo, godendosi questa meravigliosa immortalità che fino a quel momento aveva passato ad ubbidire a qualcuno che non aveva mai nemmeno visto. Fingere. 
No, non avrebbe finto, avrebbe semplicemente detto la verità.
Si raggomitolò in un angolo della stanza sperando di raccogliere un poco di calore e tentò di riposare, mentre la testa le pulsava terribilmente.
Si assopì.


Il sonno che dormì quella seconda volta non fu tormentato da incubi come il primo, ma non per questo meno faticoso e teso, si svegliava di soprassalto ripiombando nel buio della sua cella, per poi riaddormentarsi inconsapevolmente. Alle volte sentiva accanto a lei Dicembre che le cambiava le bende, che le dava da bere dell’acqua o che semplicemente la guardava e si domandava, tra uno stato di incoscienza e l’altro, perché stesse facendo tutto questo, perché, se lei per lui rappresentava un pericolo, non l’avesse uccisa subito o semplicemente abbandonata lì a marcire.
Il giorno dopo, o almeno così pensò Maggio, Dicembre tornò da lei con l’intenzione di parlare.
-Scusami se ho urlato e mi sono comportato così- lei non capiva dove volesse andare a parare, ma era una buona occasione per dialogare senza alzare la voce e mantenendo la calma e la lucidità -Non volevo farti male, te lo giuro. Le bende oramai le si può anche togliere, dopo una settimana non dovrebbero servire più-. Una settimana! pensò, Era davvero passato così tanto tempo, a lei sembrava solo un giorno. E perché in una settimana lui non l’aveva uccisa, anzi curata e nutrita? -Io non sono cattivo sai? So che gli uomini non amano il momento in cui io vengo sulla terra, ma io non sono cattivo, anzi li amo con tutto me stesso, adoro portar loro la neve, adoro vedere i bambini giocare e le famiglie riunirsi al caldo davanti ai camini- Maggio provò pietà per lui, riscoprendo in quelle parole lo stesso amore che lei stessa provava per la terra ed i suoi abitanti -Una volta- rise nel raccontare – ho decorato un intero boschetto di cristalli di ghiaccio, bellissimi, e tutti guardandoli erano rimasti incantati, me compreso. Io non sono cattivo, veramente, ma non potevo più sopportare la cattività in cui siamo rinchiusi-
-Come hai fatto a venire qui? – questa volta la domanda era stata posta con gentilezza e pietà – L’ho semplicemente desiderato con tutto me stesso. Sai, da che ho memoria, ho sempre saputo quando dovevo recarmi qui, quando dovevo risalire, come fare ad arrivare da mio padre, come passare attraverso lo specchio, ma, da che ho memoria ho sempre odiato tutto questo, ho sempre bramato di vivere libero, di muovermi quando e se volessi, di scegliere io- le si sedette al fianco, ma lei questa volta non indietreggiò, se non l’aveva uccisa in quella settimana che le era parsa un giorno, non l’avrebbe di certo fatto ora -Vedi, quest’anno, dopo aver terminato il mio compito mi sono recato come sempre da mia sorella Gennaio, un po’ me la ricordi sai, è piccola proprio come te. L’ho salutata come ogni anno, abbiamo passeggiato e ci siamo abbracciati prima che me ne andassi di nuovo nel mio giardino ed è stato lì che ho deciso che in quel vecchio e freddo cancello io non ci sarei tornato. Ho deciso che avrei preso in mano la mia vita, che avrei fatto quello che volevo, che sarei stato libero-
-Ma senza porta, come sei arrivato fin qui? –
-Oh, non è stato complicato. Tu certo saprai, come sapevo io e sanno tutti gli altri, che serve una porta per passare, è logico, per andare in un luogo devi passare dalla sua porta, ma non abbiamo mai pensato che le porte possano essere costruite. Quello che si riflette nella superficie dello specchio quando ci immergiamo in lui è la nostra immagine sui campi della terra, ma qual è la differenza tra un riflesso ed il ricordo del riflesso stesso? Tanto più che chiudendo gli occhi ero capace di immaginare ogni angolo di questa bella terra, ogni sua montagna e fiume ed io con essi- Maggio ascoltava rapita, ripensando al suo taccuino, ai suoi disegni ed alle annotazioni preziose, ripensò ai tre bambini che giocavano, alle lacrime di Agapio, al sorriso di Helena, anche lei infondo se avesse chiuso gli occhi avrebbe potuto dipingere perfettamente ogni spazio di quella bella terra, ogni suo albero, campo, fiore, ogni suo abitante felice-Così quando sono uscito dal cancello di Gennaio non ho fatto ritorno al mio giardino, ma sono venuto sulla terra deciso a non abbandonarla, mai-
-E i fantasmi? –
-Quando mi sono ritrovato qui, nel mondo intendo, sapevo che avrei avuto bisogno di un rifugio sicuro, sapevo che gli altri, una volta che fossero scesi avrebbero potuto percepire che qualcosa non andasse, avrebbero colto negli sguardi degli uomini che il freddo non aveva mai abbandonato la natura e così mi sono nascosto-
Aveva sentito infatti che gli abitanti della zona credevano che in quel bosco vivesse il Dio della morte e lui gli aveva solo dato vita, creando spettri ghiacciati che spaventassero i curiosi e li tenessero alla larga -Ma era tutto finto, nel momento in cui volti le spalle tornano ad essere semplice neve e si sciolgono al suolo- e Maggio ricordò quelle pozze d’acqua sull’ingresso della casa -E questo posto? Che posto è? –
-Non lo so, una casa abbandonata da molto tempo. Deve essere appartenuta a qualche signore del luogo, un tempo, ho sentito il bosco era la sua tenuta, curata e rigogliosa, ma poi la famiglia è decaduta, il giardino abbandonato all’incolto e la casa lasciata a sé stessa. Sai, gli abitanti dei villaggi qui attorno credono che sia proprio stato il Dio della morte a divorare i signori di questa dimora, invidioso delle loro ricchezze e del loro fasto- sorrise di fronte all’ingenuità degli uomini, proprio come ne aveva sorriso Maggio ogni volta che ne ascoltava le storie.
-Mi lascerai andare? - gli chiese timorosa -Non so ancora, ma per il momento ti libererò dalle corde- e come lo ebbe detto quelle si ghiacciarono e frantumarono in sabbia freddissima, talmente fredda che bruciò un poco la pelle delicata della ragazza a cui scappò un gemito -Scusami, non conosco la gentilezza. Nessuno l’ha mai usata con me- e così lei si rese conto di quanto fosse fortunata ad avere una madre assente come la Dama Primavera, contro invece il padre di Dicembre, che, come un perfetto re dell’Inverno, non solo non mostrava affetto ai figli, ma forse nemmeno cortesia e gentilezza.
Allo stesso tempo, pensò alle cure premurose, all’acqua quando aveva avuto sete, alle bende strette sul capo, e comprese che lui non doveva proprio essere cattivo, ma solo spaventato. In fondo era stato in grado, a suo modo, di usar gentilezza per lei.
-Grazie- sussurrò, ma lui era già salito su per le scale e si era chiuso la porta alle spalle.
 
   
 
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