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Autore: Sognatrice_2000    26/09/2020    1 recensioni
"Mi chiamavo Piton, come il serpente. Nome di battesimo: Harry.
Avevo dodici anni quando fui ucciso, il 5 dicembre 1992."
All’inizio del suo secondo anno a Hogwarts, Harry scompare misteriosamente.
Pochi giorni dopo, alcuni dei suoi vestiti e pezzi del suo corpo vengono ritrovati nella foresta proibita.
Il racconto è affidato alla voce di Harry, che dopo la morte narra dal cielo la vicenda.
Le vite degli amici di Harry, spezzate dalla sua tragica scomparsa, verranno raccontate con la dolcezza e l'ingenuità dell'infanzia.
(Ispirata al libro “Amabili resti” di Alice Sebold)
Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Il trio protagonista | Coppie: Harry/Severus
Note: Movieverse, OOC, What if? | Avvertimenti: Incest, Non-con | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Nell’estate del 1993, non c’era stato nessuno sviluppo sul mio caso. Niente cadavere. Niente assassino.

Nessun indizio.

La Squadra Speciale Magica aveva seguito ogni pista possibile, interrogando ogni studente, ogni professore, il custode, il giardiniere, persino Silente, setacciando ogni locale della scuola, ma inutilmente.

Il mio corpo era seppellito nella foresta proibita, poco distante dalle altre vittime, protetto da un potente incantesimo di occultamento che avrebbe potuto essere spezzato solo dal possessore della bacchetta che l’aveva lanciato.

Poco prima dell’inizio del nuovo anno scolastico a Hogwarts, la Squadra Speciale Magica interruppe le ricerche. Non c’era altro che potevano fare.

Piton era fuori di sé della rabbia. Silente lo aveva invitato nel suo studio e gli aveva parlato a lungo, cercando di placarlo. “Harry avrebbe voluto che tu andassi avanti, e che riuscissi a trovare la pace e la felicità.” Gli disse, ma quelle parole servirono solo a farlo infuriare ancora di più.

Mio padre non poteva accettare di vivere in una realtà in cui il mio assassino non era stato punito per l’atroce crimine di cui si era macchiato le mani.

Io continuavo a guardare la sua vita da mero spettatore, senza più cercare di guidarlo con le mie emozioni.

L’ultima volta che era successo Piton aveva rischiato di morire; non mi sarei mai perdonato se gli fosse accaduto qualcosa. 

Non avevo più sete di vendetta, dopo aver visto mio padre in un letto d’ospedale, in bilico tra la vita e la morte.

La verità è che non ero più arrabbiato.

Avevo accettato la mia sorte, e non c’era più odio in me.

Per tanto tempo mi sono chiesto come aveva fatto Holly ad affrontare così serenamente il destino crudele che le era toccato. Adesso lo so.

Diceva di non rimpiangere i giorni perduti, perché ne aveva già vissuti di straordinari.

E mi resi conto che era vero anche per me. 

Adesso non rimpiangevo più i giorni che avevo perso; no, adesso ero solo felice di quelli che avevo vissuto.

Ripensai alla prima volta che avevo tenuto in mano una bacchetta. Mi sentivo curioso e spaventato, impacciato e invincibile.

Ripensai a quando volavo libero e selvaggio con la mia scopa. Alla mia prima vittoria a Quidditch.

Ripensai a Ron e Hermione. Ron, la sua gentilezza e la sua timidezza; Hermione, il suo atteggiamento da saputella e la sua dolcezza; i pomeriggi passati insieme a ridere, scherzare e studiare. Le confidenze scambiate sottovoce. 

I litigi. I sorrisi. Il nostro esserci sempre l’uno per l’altro.

Ripensai alla prima volta che avevo visto il professor Piton in modo diverso.  

Il momento in cui vidi Piton per la prima volta con occhi diversi fu in una nuvolosa giornata di ottobre.

Partecipavo agli allenamenti di Quidditch quel pomeriggio, allenandomi per la prossima partita con il massimo delle energie.

Forse fu per quello, perché ci avevo messo fin troppa energia, e in un eccessivo di entusiasmo mi esibii in una complicata capriola in aria, che caddi dalla scopa, finendo sbalzato a terra con un tonfo sonoro.

Piton, che avevo intravisto sugli spalti durante l’allenamento, in meno di un minuto si era precipitato sul campo e si era inginocchiato vicino a me. 

“Stai bene, Potter?” Allungò una mano per aiutarmi a rialzarmi e io feci cenno di afferrarla, ma non appena tentai di muovermi avvertii un dolore acuto alla gamba che mi fece ricadere pesantemente a terra.

“La gamba… fa male…”  

Mi aspettavo che Piton avrebbe fatto uno dei suoi commenti caustici, del tipo “come fa un Cercatore ad essere così goffo?”, schernendomi con il solito ghigno sarcastico, come se ci provasse gusto ad imbarazzarmi e umiliarmi.

Invece allungò una mano, e con movimenti delicati di cui non l’avrei mai creduto capace, mi arrotolò il pantalone fino al ginocchio, tastando piano la caviglia gonfia e arrossata e strappandomi un sussulto di dolore. 

“E’ una semplice slogatura.” Constatò in tono neutro dopo aver esaminato la ferita. “Ce la fai a camminare?”

Provai di nuovo ad alzarmi, ma mi sbilanciai in avanti e chiusi gli occhi, preparandomi all’inevitabile impatto con il terreno. Impatto che però non arrivò mai, perché mi ritrovai premuto contro un torace morbido e caldo: Piton mi aveva afferrato appena in tempo, avvolgendomi le braccia attorno alla schiena per impedirmi di cadere.

“Il solito cocciuto.” Mi rimproverò, ma stavolta la sua voce era più morbida, priva dell’abituale sprezzo con cui si rivolgeva sempre a me. “Ti porto io.”

Completamente spiazzato, lo vidi passarmi un braccio sotto le ginocchia e sollevare il mio corpo con estrema facilità, come se non pesassi nulla, stringendomi contro il suo petto. 

Provai una sensazione strana in quel momento; rannicchiato contro il suo petto, inspirai il profumo di cui erano impregnate le sue vesti, sostanze chimiche e inchiostro, trovandolo inspiegabilmente confortante.

Non sapevo spiegare questa sensazione che era sbocciata nel mio petto, ma mi sentivo al sicuro tra le sue braccia, per la prima volta in vita mia mi sentivo a casa.

Inconsciamente, mi feci ancora più vicino e premetti la guancia contro il suo petto. 

Chiusi gli occhi, rilassandomi in quel confortante tepore, riaprendoli solo dopo qualche minuto, quando mi ritrovai seduto su qualcosa di incredibilmente morbido.

Sollevai le palpebre, rendendomi conto che mi ritrovavo negli appartamenti privati di Piton.

Non avevo mai visto le stanze di un insegnante prima d’ora, perciò mi sollevai a sedere e mi guardai attorno con curiosità, assorbendo ogni dettaglio dell’ambiente circostante. 

Mi trovavo in un salotto spoglio, fatta eccezione per la  poltrona nera dove ero seduto, posizionata davanti al caminetto, e la scrivania in mogano addossata contro la parete destra.

Mi allungai per sbirciare oltre la porta che si apriva a sinistra, dove c’era una camera da letto altrettanto vuota, con solamente un’enorme letto matrimoniale a baldacchino che campeggiava al centro, e di fronte una grande finestra chiusa da spessi tendaggi neri.

La testata nera del letto era intarsiata in complessi ricami dorati; lenzuola scure ricadevano ai lati delle sponde del baldacchino, creando una specie di tenda intorno al letto. 

Ogni cosa era nera, persino i cuscini e le coperte, e l’unica luce che illuminava la stanza era quella dei candelabri appesi alle pareti.

Le stanze di Piton trasudavano oscurità ma tra quelle pareti sentii aleggiare anche una profonda solitudine.

Immaginai quanto dovesse essere triste per lui passare le sue serate seduto da solo davanti al fuoco, o alla sua scrivania con la sola compagnia di pile di compiti da correggere; alla sua immagine si sovrappose quella di un bambino tutto solo nell’armadio del sottoscala e mi resi conto che io e Piton avevamo più cose in comune di quanto credevo. 

“Se hai finito di fantasticare, Potter…” La voce severa di Piton mi riscosse dai miei pensieri. “Ho qui un rimedio per la tua caviglia.” Uscì dalla porta a sinistra con in mano una boccetta contenente uno strano liquido rosato.

Si inginocchiò ai piedi della poltrona e aprì la boccetta, versando un po’ di quel liquido sulle dita e spalmandomelo sulla caviglia. “Che cos’è?” Chiesi incuriosito, notando che la caviglia stava già cominciando a sgonfiarsi dove era stata applicata quella misteriosa sostanza. 

“E’ una pozione curativa.” Disse sbrigativamente con il solito tono brusco, acido, in netto contrasto con le dita che mi massaggiavano la caviglia con infinita delicatezza, come se stesse maneggiando qualcosa di incredibilmente fragile e prezioso. “Professore?” Azzardai timidamente mentre lui continuava a massaggiarmi la caviglia.

“Sì?” 

“Grazie. Non solo per oggi, ma anche per quello che ha fatto l’anno scorso. Quando mi ha protetto dal professor Raptor… non avevo ancora avuto occasione di ringraziarla prima. Quindi grazie.” Conclusi un po’ impacciato, regalandogli il sorriso più sincero di cui ero capace.

Lui rimase in silenzio per parecchi secondi, come se non sapesse bene che cosa dire, poi rispose in tono secco: “Non sentirti speciale, Potter. Sono un insegnante di questa scuola e sono responsabile della sicurezza di ogni studente. Avrei fatto lo stesso per chiunque altro.”

Bugiardo. Io l’avevo visto, in quel momento, il tuo sorriso appena accennato, come se non avesse il diritto di essere lì.  

Da quel giorno, avevo cominciato a vedere Piton sotto un’altra luce. 

Cominciavo ad avere reazioni strane intorno a lui; durante le sue lezioni mi riscoprivo incapace di staccare gli occhi dal suo volto.  

Osservavo le linee severe del suo viso, lo sguardo perennemente argino che aleggiava nei suoi occhi, e sentivo un inspiegabile calore bruciarmi le guance.

Ogni volta che mi si avvicinava mentre mescolavo una pozione nel mio calderone sentivo un nodo allo stomaco, la pancia che diventava tutta calda, uno strano mal di pancia che mi rendeva goffo e felice, e se per caso mi sfiorava o poggiava la mano sulla mia per aiutarmi a mescolare in modo corretto il cuore cominciava a battermi forte forte, tanto che lo sentivo risuonare nelle orecchie.

Nel modo più dolce e innocente possibile, mi ero innamorato.

Avevo avuto così tanto. Avevo amato ed ero stato amato.

Non da molte persone forse, ma ero stato amato profondamente, e questo è molto più di quanto spetti alla maggior parte di noi.

Avevo conosciuto il dolore e la felicità, l’amore e l’odio, l’orrore e la bellezza.

Ripensai a tutto questo, e mi resi conto di quanto ero stato fortunato.

Non avevo avuto una vita lunga. C’erano molte cose che volevo fare… ma non ho rimpianti. 

Perché posso dire senza dubbio di averne avuta una piena.

Papà, miei cari amici, siete stati voi a renderla così completa. 

Era sufficiente per me, ma non lo era per mio padre.

Lui non si sarebbe fermato finché il mio assassino non fosse stato dietro le sbarre, o morto.

Così in un pomeriggio di autunno si addentrò nei suoi alloggi, consapevole dei suoi orari di lavoro e di avere almeno un paio d’ore a disposizione per cercare le prove che potessero inchiodarlo.

Quel luogo era già stato perquisito, ma lui non si arrendeva.

Piton era l’unica persona nella casa, ma non era solo, e io non ero la sua unica compagnia. 

La vita del mio assassino, i cadaveri che si era lasciato dietro, cominciarono a rivelarmisi in quel momento.  

E pronunciai i loro nomi: Pansy Parkinson, 10 novembre 1991, undici anni.

Astoria Greengrass, 16 settembre 1992, dieci anni.

Luna Lovegood, 31 ottobre 1992, undici anni.

Luna Lovegood, che per gioco si faceva chiamare Holly.

Era stata uccisa il giorno di Halloween, due mesi prima di me, mentre io festeggiavo allegramente con i miei amici, ignaro della tragedia che si stava consumando lì vicino.

Era lì che era cominciato tutto, che il mio assassino aveva iniziato a comportarsi in modo strano, ma io ero stato troppo cieco e ingenuo per cogliere i segnali.

Chiusi gli occhi, mentre i ricordi di quel giorno mi scorrevano nella testa come la pellicola di un film…    

 

 

 

“Ron, sei veramente ridicolo con quel costume!”

Hermione sistemò meglio il suo cappello da strega, lanciando un’occhiata divertita al vampiro con il mantello nero e i canini appuntiti seduto sul divano della saletta Grifondoro. 

“E tu sembri una befana.” La rimbeccò stizzito Ron, scatenando l’ira di Hermione, che gonfiò le guance indispettita, ribattendo: “Non si tratta così una signora! Diglielo anche tu, Harry!”

“Il tuo costume è molto bello, Hermione.” Risposi conciliante per evitare un potenziale litigio. Lei alzò le sopracciglia in segno di sfida, compiaciuta, e Ron la guardò in cagnesco in risposta. “Anche tu stai bene.” Mi affrettai a dire. Hermione sorrise, trascinandomi in un vigoroso abbraccio. “Oh, Harry, sei così caro! Dovresti prendere esempio da lui, Ron.” 

Lui mi guardò storto, come a dire “grazie di avermi messo in cattiva luce” e mi districai velocemente dall’abbraccio di Hermione.

“Tu da cosa ti travestirai per la festa di Halloween di stasera?” Chiese lei, del tutto ignara della gelosia di Ron, che continuava a lanciarmi occhiate non proprio amichevoli anche adesso che non eravamo più abbracciati.

“Non lo so ancora. Hagrid ha detto che ci avrebbe pensato lui a comprarmi un costume.”

“Che pensiero gentile!” Esclamò Hermione, allungandosi per recuperare una caramella dalla zucca arancione posata sul tavolino di fronte a lei. Ron ne aveva già una manciata in grembo e lei gli lanciò uno sguardo vagamente disgustato. “Hagrid è sempre così gentile con tutti.” 

“Già, è una persona eccezionale.” Sorrisi, ricordando tutti i momenti trascorsi con lui. 

Hagrid era il mio salvatore, mi aveva portato via dai Dursley e mi aveva fatto conoscere il mondo magico. 

Mi aveva preparato una torta di compleanno, spesso mi faceva piccoli regali e passava volentieri il suo tempo con me. Gli volevo bene e lo consideravo un amico come Ron e Hermione. 

Quando si era offerto di comprarmi il costume di Halloween mi aveva fatto l’ennesimo favore, e gli ero molto grato della preoccupazione e dell’affetto che dimostrava per me giorno dopo giorno.

“Tra quanto comincia la festa?” Chiesi, dondolando pigramente le gambe mentre mi godevo il tepore del fuoco che scoppiettava nel caminetto.

Hermione lanciò un’occhiata all’orologio a pendolo appeso sopra il camino. “Tra circa due ore.”

“Allora devo sbrigarmi.” Mi alzai dal divano, recuperando il mantello appoggiato sul bracciolo. “Vado da Hagrid a prendere il costume, ci vediamo alla festa.”

Ron e Hermione mi salutarono distrattamente, molto più concentrati sulle caramelle, e io lasciai la saletta e mi incamminai verso la casetta di Hagrid.

Lui mi accolse con la consueta gentilezza, offrendomi un tè e una fetta di torta. “Sei troppo magro, hai bisogno di nutrirti di più.” Mi disse scherzosamente, picchiettandomi il dito sulla pancia. Ridacchiai timidamente quando cominciò a farmi il solletico, divincolandomi.

“No, smettila, smettila!” Ridendo, inciampai e finii lungo disteso sul pavimento. Hagrid mi bloccò i polsi sopra la testa e sussurrò con finta voce minacciosa: “Ora sei mio prigioniero.”

“Non mi fai paura.” Ribattei stando al gioco, sollevando il mento in segno di sfida.

“Allora non hai paura nemmeno del mostro del solletico?”

Si avventò di nuovo su di me, pizzicandomi i fianchi e causandomi un altro attacco di risate incontrollabili.

“Hagrid, smettila, sono venuto qui per il costume…” Ansimai tra una risata e l’altra.

Finalmente mi lasciò andare. “Giusto, il costume.”

Si alzò e sparì in un’altra stanza per un paio di minuti, per poi tornare con un sacchetto colorato.

“Chiudi gli occhi.” Obbedii e rimasi in attesa, sentendo il fruscio della carta.

“Ora puoi aprirli.” Sollevai le palpebre e mi ritrovai un abito rosso con il cappuccio e due corna nere all’altezza della testa. “Ti piace?”

“E’ perfetto. Ron si è travestito da vampiro, così non penserà che gli ho copiato il costume.” Sorrisi e corsi ad abbracciarlo. “Grazie.” 

Lui mi accarezzò dolcemente i capelli per un po’, finché non mi staccai dall’abbraccio. “Grazie.” Ripetei, infilandomi il costume nella busta e apprestandomi ad andare, ma lui mi fermò posandomi una mano sul braccio.

“Perché non te lo provi?”

Tentennai per qualche secondo, indeciso. “Qui?”

“Perché no? Così vedi se la taglia è giusta.”

Non ero ancora del tutto convinto, ma alla fine cedetti.“… okay. Dov’è il bagno?”

“Oh, non c’è bisogno che usi il bagno, puoi cambiarti qui.”

“Ma…” Tentai di obbiettare, imbarazzato. Hagrid scoppiò a ridere. “Harry, non hai motivo di vergognarti. Ti conosco da quando eri piccolo così.” Mimò con le mani la grandezza di un neonato. Rimasi incerto ancora per un minuto, ma poi finii per obbedirgli. Mi sentii un po’ a disagio quando rimasi in canottiera e mutande, e un brivido che non aveva niente a che fare con il freddo mi increspò la pelle, ma fu una sensazione sgradevole e fugace che svanì altrettanto rapidamente di come era apparsa.

Mi infilai rapidamente il costume, facendo una piccola piroetta.  “Come mi sta?”

“Sei carino. Molto, molto carino.”

Sentendomi lusingato, feci un altro paio di giravolte, pavoneggiandomi un po’, esibendomi in uno strano balletto goffo e scoordinato. 

Poi la testa cominciò a girarmi e mi accasciai tra le braccia di Hagrid. 

Mi aggrappai a lui e lo strinsi forte per ritrovare l’equilibrio.

Gli regalai un altro sorriso di pura gioia e lo ringraziai timidamente prima di dirigersi verso la festa tutto contento, ansioso di sfoggiare il mio costume nuovo davanti ai miei amici. 

Ma quella notte, senza saperlo, avevo provocato ripetutamente il mio assassino, facendolo impazzire con la mia vicinanza, il mio profumo, il mio solo respiro.

La fame era cresciuta in lui, e per sfogarsi aveva soddisfatto la sua lussuria con una streghetta dai capelli biondi che passava di lì.

Ma il pensiero del mio corpo acerbo di ragazzino ancora lo perseguitava. Ogni giorno mi vedeva ed era attratto da me.

Ogni notte nel sonno bramava di toccarmi.

Il pensiero di me lo stava consumando. 

Aveva cercato di trattenersi, ci aveva provato davvero, ma il desiderio era troppo forte e tentare di resistergli era inutile.

La quarta vittima divenne Harry Piton, 5 dicembre 1992, dodici anni.

 

 

Mio padre cercò instancabilmente per oltre un’ora, ringhiando di frustrazione quando si rese conto che tra quelle mura non sembrava esserci niente di vagamente incriminante. 

Cibo, vestiti, libri, oggetti comuni che avrebbe posseduto qualunque persona, nessuna arma, nessun oggetto mio. 

E comunque se ci fosse stato qualcosa la Squadra Speciale Magica l’avrebbe già trovata.

Stava quasi per rinunciare, ma uno scricchiolio sotto i suoi piedi gli fece cambiare idea. Le assi del pavimento.

Piton nascondeva la chiave dei suoi alloggi sotto un’asse del pavimento che a prima vista sembrava perfettamente uguale alle altre, ma in realtà aveva un doppiofondo segreto. E se l’assassino avesse fatto come lui?

Si mise carponi, tastando freneticamente il pavimento alla ricerca del punto esatto. 

Lo trovò dopo svariati tentativi, e lo ruppe con la sua bacchetta. Lentamente, estrasse ciò che vi era all’interno.

La mia macchina fotografica, da cui mi non mi separavo  mai, che avevo portato con me anche il giorno della mia morte e che il mio assassino aveva conservato come souvenir- e le fotografie.

Le fotografie che il mio assassino aveva scattato per avere un ulteriore promemoria di quella notte, le fotografie che mi raffiguravano in un modo in cui nessun padre dovrebbe mai vedere il proprio figlio.

Le mani di Piton avevano cominciato a tremare mentre l’orrore di quelle immagini si dipanava di fronte ai suoi occhi.   

Avrebbe voluto piangere, urlare, fare a pezzi qualcosa.

Invece rimase fermo, con i denti serrati e una calma d’acciaio nello sguardo, improvvisamente risoluto, forte e sicuro. Sapeva cosa doveva fare. 

Niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo ora.

Avrebbe aspettato tranquillamente il mio assassino, seduto sulla sua poltrona, e quando se lo sarebbe ritrovato davanti, lo avrebbe torturato in ogni modo possibile, fino a fargli gridare pietà, fino a fargli implorare di mettere fine alla sua stessa vita. 

Soltanto quando avrebbe visto la luce spegnersi dai suoi occhi avrebbe potuto sorridere.

 

 

 

Luna mi venne incontro nel mio gazebo con un sorriso e mi prese per mano senza dire nulla.

Mi condusse a un campo che, per quanto bello fosse, avevo sempre costeggiato senza mai esplorarlo.   

Davanti a me c’era un vecchio, bellissimo ulivo. 

Il sole era alto e accanto all’ulivo c’era una radura. 

Un attimo dopo la distesa di grano al di là dell’ulivo cominciò a pulsare all’avvicinarsi di qualcuno che non arrivava all’altezza delle spighe. 

Era piccola per la sua età, come lo era stata sulla Terra, e indossava un vestitino di cotone rosa con l’orlo e i polsini sfilacciati. Si fermò e rimanemmo lì a guardarci. 

“Io vengo qui quasi tutti i giorni.” Disse lei. «Mi piace ascoltare i rumori.” Mi resi conto che tutt’intorno a noi il grano frusciava, muovendosi al vento. 

“Io ero Pansy Parkinson.” Mi fece. “Tu come ti chiamavi?” Glielo dissi e poi mi misi a piangere, confortato dal fatto di conoscere un’altra ragazzina uccisa da lui. 

“Astoria arriverà  tra poco.” Mi avvertì.  E nella radura comparve un’altra bambina, più alta e dai lunghi capelli castani, che mi regalò un quieto sorriso. 

La nostra pena si riversò dall’uno all’altro come acqua versata di tazza in tazza, e tutte le volte che raccontavo la mia storia ne perdevo un poco, una minuscola goccia di dolore. 

Quel giorno compresi che volevo raccontare ciò che mi era successo. 

Perché l’orrore sulla Terra è reale e accade tutti i giorni. 

È come un fiore o come il sole, è qualcosa di incontenibile. 

“Andiamo.” Disse Luna sorridendomi. “Sei pronto.”

“Per cosa?” Aggrottai le sopracciglia, confuso.

“Per il Paradiso!” Rise lei, facendo un saltello in avanti.

Ero pronto? No, mi resi conto. “Quasi.” C’era ancora una cosa che volevo fare. “Ma non ancora.”

  
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