Ecco qua
il sedicesimo capitolo!
Ulteriori note si trovavano a fine
pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti:
linguaggio scurrile, scene piuttosto truculente,
totale assenza delle Convenzioni di Ginevra e altre
peculiarità.
Un
ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix e Mrosaria. Grazie a chi ha messo questa storia tra le
seguite,
preferite e ricordate.
Se vi chiedete come mai non rispondo
alle recensioni di Sagitta72 (che sempre ringrazio), si tratta di un
semplice
accordo preso da entrambe: è più divertente
risponderci e commentarle dal vivo!
Vi auguro una buona lettura,
H.
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Capitolo
Sedicesimo
14-15
settembre 1511
Un timido
vento disperdeva i miasmi di legno bruciato misto a
polvere da sparo, animando l’altrettanto timida aquila nera
imperiale a due
teste sovrastante la città dalla torre civile, la quale
pareva voler spiccare
il volo onde evitare la sorte delle sue sorelle cadute preda dei suoi
mortali
nemici e da loro strappate, dileggiate e bruciate senza
pietà alcuna.
Un
giovane soldato le comparve alle spalle, recidendo con
trionfante gusto i legacci che la reggevano all’asta e tosto
l’aquila tedesca
sì volteggiò cullata dal vento settembrino,
però per cader in ipnotici e
vorticosi cerchi giù dalla torre, ai cui piedi altri soldati
l’attendevano in
avida attesa di ghermirla e sfoggiarla prigioniera, essendo lei la
più
importante.
“Crepa!
Crepa maladeta!”, urlavano questi, sputandoci sopra mentre
un loro compare la piegava, deponendola sul carro dei vincitori,
là dove
avevano ammassato viveri e prigionieri.
Dall’alto
della torre il ragazzo rideva sguaiatamente, contagiato
dall’euforia dei suoi compagni, intanto che si scioglieva
dalla vita il secondo
vessillo ed ecco che il leone dorato ritornò a sventolare
nell’aria, ruggendo
al cielo in un fruscio di stoffa.
“Marco!
Marco! Vitoria! Vitoria!”
Dal
palazzo pretorio della liberata Castelfranco, sier Ferigo
Contarini assisteva all’intera operazione assai compiaciuto,
provando anch’egli
un piacere quasi fisico alla vista del vessillo tedesco rimpiazzato da
quello
veneziano, non dissimile dall’orgasmo raggiunto dopo un
amplesso assai focoso e
diamine se di fuoco ce n’era stato in
quell’assedio, lo dimostravano i resti
carbonizzati della porta cittadina e dei forni costruiti dai
Franco-Imperiali
per cuocere il pane.
Il morale
altissimo per quella schiacciante vittoria e il pingue
bottino gli avevano cancellato ogni fatica del combattimento,
nonché di una
notte intera trascorsa in sella. Sicché, approfittando
quindi dei
festeggiamenti dei suoi uomini e della spartizione tra essi della preda
di
guerra, il giovane provveditore degli stradioti si portò
allo scrittoio per
scrivere una lettera a suo fratello minore Marco Antonio,
così da informarlo
dei recenti avvenimenti prima ancora dei provveditori di Padova sier
Christophal Moro e sier Polo Capello, cui il Contarini doveva far
rapporto.
Magnifice
ac generose frater carissime
Come già scrittovi,
cavalcai tutto ieri fino a portami a Campo San Piero con 500 cavalli
tra
balestrieri e stradioti, appartenenti questi alla compagnia del signor
Jannes
da Campo Fregoso. Giunto che fui al campo, intesi come una scorta di
nemici
dovesse venire a prelevare otto cassoni di pane da Castel Francho,
laddove
veniva appunto preparato. A tal proposito levai il campo a mezzanotte e
cavalcai fino all’alba.
Stamattina
mi imboscai a due miglia o più sopra Castel Francho ed ebbi
la fortunata
intuizione di far sorvegliare ogni strada conducente alla
città acciocché
venendo il drappello nemico, questi si scontrasse con noialtri.
Lì stetti
nascosto per circa sei ore, senza che tuttavia alcun nemico si facesse
vivo.
Esplorai allora un tratto più avanti, circa sei miglia oltre
Asolo, allo scopo
d’apprendere maggiori informazioni sul campo nemico,
operazione finora
impossibile giacché dopo l’occupazione il paese
era rimasto disabitato. Inviai
dunque 50 stradioti con l’ordine di assaltare il campo, ossia
di catturare
qualche prigioniero, onde scoprire l’ubicazione esatta del
nuovo campo e
affinché il nemico non facesse ritorno a quello vecchio,
sapendolo vulnerabile.
Ritornati
indietro, galoppammo di corsa alle porte di Castel Francho e
lì diedi il
segnale d’ingaggiar battaglia e appiccare il fuoco alla porta
d’ingresso tanto
che nell’arco di due ore entravamo in città, dove
catturammo il luogotenente –
un gentiluomo di Pavia –
20 fanti, 12
cavalli e 8 fornai che rifornivano di pane il campo nemico.
Feci
saccheggiare tutto il pane che si trovava nei magazzini così
come i sacchi di
farina e di biada, in modo che ogni stradiota e balestriere potesse
caricare in
abbondanza i propri cavalli, chi di pane, chi di farina, chi di biada.
In
aggiunta ordinai di distruggere 8 nuovi forni fatti costruire dai
nemici (…)
“Come
posso aiutarvi, signor Conte?”, non staccò sier
Ferigo gli
occhi dal tavolo sotto di sé, pur ripiegando in fretta e
furia la lettera per
infilarla in una piccola borsa appesa alla cintura sotto la scarsella
dell’armatura.
Guido
Rangoni avanzò con delicata discrezione verso il
provveditore,
avendo infatti notato la maniera quasi protettiva con la quale questi
aveva
riposto via la missiva: si fosse trattato di un rapporto o a Padova o a
Venezia, di certo non gli avrebbe riservato, seppur di sfuggita,
quell’aria
lievemente offesa tipica di chi viene disturbato in un attimo di
privatezza.
“Il
signor comandante Giano di Campofregoso mi manda a chiedervi
istruzioni.”
“Sono
stati caricati i carri di pane, farina e biada?”
“Sì.”
“I
prigionieri?”
“Anche
loro sui carri.”
Il
Contarini s’accarezzò il mento, contemplando
pensoso il cielo
dalla finestra, le dita dell’altra mano tamburellanti sul
cosciale. Perduta la
tranquillità di scrivere senza interruzioni, già
stava rimandando ad altra
occasione il completamento della sua lettera.
“Sarà
meglio ritornare a Camposampiero finché
c’è luce”, gli
suggerì il capitano modenese, “onde evitare
stavolta d’imbatterci sul serio in
un drappello nemico, col rischio che si riappropri dei
viveri.”
Una
pessima eventualità. “Concordo appieno”,
sentenziò il
patrizio, alzandosi e raccogliendo i guanti e l’elmo.
“Non credo resti molto da
fare qui al momento”, aggiunse un poco deluso, nel suo intimo
desideroso di
sottrarre al nemico ulteriori fortezze e città occupate, se
non d’assaltare
direttamente il loro campo e degolarli tutti, dai comandanti fino
all’ultima
delle loro puttane.
Magari
una volta rientrati a Padova ne avrebbe discusso coi
provveditori, se fosse il caso di concentrare i loro sforzi nella Marca
in modo
da provocare i Collegati e costì distoglierli dal loro
proposito d’attaccare la
Patria del Friuli. La situazione si presentava troppo spinosa,
costellata di
scelte difficili: Treviso o i confini a nord-est, nella speranza che
nessuno
dei capi lì cedesse al nemico se per sconfitta militare o
viltà, giungendo a collaborare
nello specifico cogli imperiali, conoscendo infatti il Contarini gli
animi
ghibellini di alcuni nobili friulani e degli Ampezzani, il cui
atteggiamento
ambiguo sempre aveva lasciato grandi incognite nel corso dei vari
conflitti
affrontati dalla Signoria. Sui Cadorini, al contrario, il giovane
provveditore
degli stradioti poteva metterci la mano sul fuoco, la loro
lealtà solida e
immota come le montagne e anzi, nulla dava più piacere a
quella gente
d’aggiungere i tedeschi alla loro lista di selvaggina da
cacciare.
Il che
gli riportò alla mente …
“Com’è
parso a vostro fratello Francesco il suo primo assedio?”
Guido
Rangoni avvertì la gola d’un tratto secca per
quell’inaspettata e specifica menzione del suo cadetto.
“E’ rimasto tutto il
tempo accanto a me, sono sicuro che avrà avuto modo di
imparare bene.”
Ferigo
Contarini assottigliò gli occhi e il giovane conte si
domandò freneticamente tra sé e sé
quale ragionamento quella mente
imprevedibile stesse rincorrendo. “Ne sono anch’io
sicuro. Il signor Francesco
si può ben dire fortunato d’aver avuto come
esempio un uomo di somma integrità e
valoroso, quale il vostro illustrissimo signor padre. Nonché
voi, signor
Conte”, asserì sibillino il patrizio, deambulando
distrattamente, con quella
sua solita placida camminata felina.
Il
condottiero modenese reclinò attento il capo, in silenziosa
attesa e nelle orecchio l’eco tambureggiante dei propri
battiti cardiaci. Dove
voleva arrivare il provveditore con quel suo bislacco discorso? Che
c’entrava
ora Francesco che letteralmente fino a ieri non aveva mai contato nulla
come
militare?
“Eppure,
i fratelli minori si rivelano sempre problematici, vero?”,
fu la domanda retorica del veneziano, sulle labbra uno strano sorriso.
Guido
percepì una goccia di sudore scivolargli lentamente lungo la
schiena. “Essendo
appunto i più piccoli, i genitori non posseggono
più né le forze né la pazienza
riserbata ai maggiori e a quest’ultimi spetta
l’ingrato compito di supplire per
meglio educarli …”, ridacchiò
senza
gusto. “Sarà per questo che i primogeniti
tendenzialmente sono tra i più restii
a sposarsi?”
Il
Rangoni deglutì malamente la saliva, sforzandosi di ridere
alla
battuta e di modulare la voce onde mascherare il suo nervosismo.
“Può darsi. Prima
di far da padre ad eventuali figli miei effettivamente devo badare ai
miei
fratelli minori, i quali, lo ammetto, talvolta si dimostrano piuttosto
giovani
per questo mestiere …”
“Non
esistono giovani
nell’esercito, bensì soldati
vincolati da chiari obblighi”, lo interruppe gelido il
Contarini, il viso più
duro della pietra, usando ora il medesimo tono che riserbava agli
stradioti ai
suoi ordini ribelli, prima di frustarli al primo palo disponibile.
“Detto
questo”, si portò egli talmente vicino a Guido che
i loro fiati parvero
mescolarsi, “fingerò di non aver ascoltato quanto
udito a Camposampiero tra voi
e vostro fratello. Citandovi, mi si spezzerebbe il cuore doverlo veder
penzolare come Soncino Benzone”, gli confessò
perentorio, allontanandosi dal
condottiero cui mancò per poco di cadere in ginocchio, tale
fu lo spavento che
lo colse nell’udire quella rivelazione.
Come
aveva fatto il provveditore a venir a conoscenza di quella
loro assai privata conversazione?
Al
punto di citargli verbatim le sue stesse parole?
Guido
avvertì il viso avvampare e poi freddarsi da un improvviso
reflusso di sangue, portandolo ad ansimare pesantemente, di colpo
terrorizzato
per la sorte del fratello e desideroso di scagionarlo a qualsiasi
costo, con
qualsiasi argomentazione.
Di nuovo,
Ferigo lo anticipò, impedendogli di parlare tramite un
deciso cenno della mano. “Non mi guardate con quella faccia
né tantomeno
perdete tempo in inutili giustificazioni. Non vi sto accusando
d’alcunché,
anzi, capisco benissimo i vostri crucci e per questo vi sto avvertendo.
Anch’io
ho un fratello più piccolo e m’è noto
quanto i nostri minori possano agire e
parlare sconsideratamente, neanche provassero gusto a tormentarci con
le loro
insensatezze”, disse sfoggiando un’espressione
contraddittoriamente malinconica
rispetto alle sue dure parole. Il patrizio spostò gli occhi
dal volto del conte
ai graffiti sulle pareti del palazzo pretorio.
“L’amaro prezzo del nostro
privilegio di primogeniti …”, mormorò
più a sé che all’altro, estraendo un
pugnale dalla fodera e con la punta andando a scalpellare dal muro una
scritta
al veneziano molesta.
“Che
cosa fareste se un giorno il vostro cadetto dovesse
tradirvi?”, ruppe Guido l’incomodo silenzio
interpostosi tra loro due.
Domandava sì per curiosità, ma soprattutto per
cercar una consolante conferma
che a questo mondo non sarebbe stato né il solo
né il più reprobo dei fratelli
ad agire così contro il suo stesso sangue. Chiedeva
perché in cuor suo il
giovane sapeva che nel Contarini aveva trovato uno spirito affine, che
l’avrebbe compreso senza giudicarlo. “Come vi
comportereste con lui?”
La lama
del pugnale si bloccò improvvisamente
sull’intonaco da
esso grattugiato.
“Che
cosa farei se Marco Antonio dovesse tradire la Signoria?”,
ripeté Ferigo talmente incolore, che Guido temette la sua
voce provenire
dall’oltretomba. “Lo ucciderei con le mie stesse
mani, onde punire sia lui che
me stesso”, gli confidò e grugnì mentre
imprimeva un’eccessiva forza contro il
muro, staccando un grosso strato di malta che cadde rovinosamente per
terra.
“Ho risposto in maniera esaustiva alla vostra
domanda?”, si voltò infine il
provveditore verso il modenese, il quale osservando la mortale
serietà sul viso
di questi non poté non costatare la veridicità
delle sue parole.
Nessuna
punizione, giudicava infatti Ferigo, poteva per lui
superare in crudeltà a quella di dover sopprimere di persona
il suo amatissimo
fratello, così da portare per sempre sulle spalle sia il
peso del fratricidio sia
dell’amaro rimpianto di non aver potuto impedire
l’infamia del tradimento. Contrariamente
a quanto affermato da Caino, il Contarini sì che si
considerava il custode del
suo diletto Marco Antonio.
“Se
non v’incomoda, dopo aver fatto relazione ai provveditori
sier
Capello e sier Moro, vorrei dopodomani che m’accompagnaste a
Venezia”, cambiò
repentinamente discorso il patrizio. “O meglio, mi dovete accompagnare, poiché la
vostra presenza è richiesta a
Palazzo Ducale dal Serenissimo e dalla Signoria.”
In altre
circostanze, Guido Rangoni sarebbe stato molto lusingato
da quella convocazione; ora come ora, a seguito di tutti quei pesanti
discorsi,
era indeciso se gioirne o incominciare a preoccuparsi. “Per
quale motivo, se
posso chiedere?”
Il
giovane provveditore degli stradioti sorrise a fior di labbra,
giocherellando con la punta dei piedi coi pezzi di intonaco scalpellati
via dal
muro. “Per discutere della compagnia del fu governatore di
Padova, domino Lucio
Malvezzi”, fu la sua vaga spiegazione.
“Chissà che voi e vostro fratello
Francesco non possiate trarne qualche vantaggio, visto che il ragazzo
s’è
comportato davvero valorosamente in questo suo primo assedio
… Uhm, che
cos’abbiamo scritto qua? Hoch lebe
der
Kaiser Maximilian von Habsburg, Sieger des Löwen Venedigs
…”, ripeté a voce
alta Ferigo in un comico ed incerto tedesco lo scarabocchio che, a
furia di
grattare, aveva staccato via dalla parete e che ora giaceva scomposto a
pezzi
per terra. “Puoah, che sgradevole lingua barbara!”,
commentò in sardonico
disgusto e pestò malevolo la scritta, premendovi bene sopra
il piede e triturando
la malta in sottile polvere. “Dopo di voi, signor
Conte”, fece cenno al nobile
ad operazione completata, indicandogli la porta.
“Grazie
mille.”
Fosse
stato Guido Rangoni un’altra persona, dopo un tale confronto
minimo avrebbe nutrito o risentimento o paura nei confronti del
patrizio.
Invece, da quel poco ch’era riuscito a determinare del suo
carattere, appunto
perché il Contarini l’aveva preso in disparte e
ammonito laddove nessuno poteva
fungere da scomodo testimone, appellandosi per di più al
comune amore che
portavano verso i loro fratelli minori, che il giovane condottiero
sapeva di
poter contare su di lui quasi come su di un amico.
(…)
dopodiché mi riportai a Campo San Piero non avendo altro da
concludere, anche
perché ogni soldato, carico di bottino, voleva ben portaselo
casa.
Altro
non vi dico per ora: Iddio sia con voi!
Campo San
Piero, 14 settembre 1511, ore 21.
Frater Contarenus,
Stratiotarum
Provisor
***
Fai il
bravo, Thomà, comportati in
maniera
degna della chiamata che hai ricevuto, con ogni umiltà,
dolcezza e magnanimità, s’era
raccomandata la nonna il giorno della sua Prima Comunione. Prega tanto Domine Iddio, la Madonna, i Santi
Vittore e Corona e vedrai
che non andrai mai all’inferno!
Com’è
l’inferno, siora Nonna?
Un luogo
dove brucia un eterno incendio, le fiamme talmente alte che ti
squagliano il
viso; dove i diavoli arpionano e infilzano le anime inermi dei dannati;
dove né
pietà né speranza esistono. Solo terrore, pianto
e stridore di denti. Un luogo
senza la luce di Dio.
E
l’inferno Thomà l’aveva vissuto sulla
sua pelle, altroché.
Forse
perché senza saperlo egli era già morto e la sua
breve vita talmente
costellata di peccati, da precludergli il Padreterno il Paradiso,
spedendolo appunto
all’inferno. Altrimenti, il bambino non riusciva a spiegarsi
come mai quella
spirale di morte, distruzione e odio non giungesse mai al termine,
laddove non
sussisteva altra logica se non quella di versare quanto più
sangue a seconda
dell’offesa ricevuta. All’inizio aveva tentato di
dissociarsi, considerando la
guerra affare tra soldati ma poi …
Poi
divenne questione personale, il sangue e la vendetta le uniche
fonti di sollievo in un dolore inumano, un palliativo
all’odio che gli
consumava le giovanissime viscere, ammorbando ogni pensiero e
divorandogli
pezzo per pezzo la sua innocenza di bambino.
Thomà
non vedeva alcun futuro, non si figurava adulto. Un tempo,
felice e pieno d’amore, sognava d’apprendere il
mestiere del nonno e del padre,
di aprire la sua bottega, di sposare la figlioletta della vicina di
casa e
avere con lei tanti bei bimbi, grassi e morbidi come i suoi fratellini.
Egli
stesso avrebbe costruito la loro culla, si riprometteva.
Negli
ultimi due anni, il fantolino aveva al contrario appreso a
vivere alla giornata, a procurarsi il cibo e possibilmente la morte del
nemico.
Se da piccino era rimasto turbato durante la veglia funebre del nonno,
adesso
la vista di un cadavere lo lasciava totalmente indifferente; anzi, se
si
trattava di un tedesco pure lo rallegrava. Non distoglieva lo sguardo
dai pezzi
di carne umana schizzare a seguito dell’impatto della balota
del cannone,
semmai miscelava con maggior ardore le polveri come insegnatogli da
Andrea
Trepin il bombardiere. I rantoli, le bestemmie, l’odore acre
del sangue e del
fumo delle bocche di fuoco gli erano divenuti compagni di viaggio,
assuefandosi
ad essi. Soltanto il distante eco delle preghiere della nonna gli
impedivano di
sacramentare e anche perché, nelle cupe ore in cui gli
mancava la mamma, lo
consolava sapere che gliene fosse rimasta sempre Una che lo vegliava,
anche se
da distante.
Vivere,
morire, uccidere; giusto o sbagliato che importanza
avevano per lui? Tanto Dio aveva distolto lo sguardo dalla sua terra e
la sua
assenza aveva scatenato i diavoli, scesi dalle montagne apposta per
tormentarli, a loro volta però dilaniati dalle stesse
vittime trasformate in
carnefici.
Thomà
era uno di loro.
La prima
volta fu il 3 agosto del 1509.
I
Feltrini s’erano ribellati alla volontà dei loro
nobili di
sottomettersi ai Tedeschi e malgrado la città avesse accolto
lo stesso
Imperatore, già di soppiatto apriva le porte alle milizie
veneziane per
ritornare a San Marco. La
risposta degli
Imperiali non tardò a farsi sentire e miracolosamente la
famiglia di Thomà si
salvò dal fiume di sangue che scorse nella sua Feltre, la
loro modesta
casa-bottega scampata all’occhio famelico e vendicativo dei
tedeschi, non
giudicandola essi degna di saccheggio. Tuttavia il bambino
fagocitò per sempre
nel suo cervello le urla dei 400 feltrini massacrati nel più
brutale e
infamante dei modi, il vagito dei bambini prima di venir strappati
dalle loro
isteriche madri, costrette ad assistere alla loro morte mentre venivano
ripetutamente violentate. Gridavano a squarciagola al cielo, nella
speranza di
un miracolo che mai sarebbe avvenuto, invocando Dio come ultima suprema
difesa.
All’epoca
Thomà non vide niente, udì soltanto tra le
braccia di
sua nonna, la quale gli tappava la bocca acciocché non
emettesse alcun suono e
dunque credessero quelle bestie teutoniche vuota la casa. Quando
poté uscire,
gli parve di camminare in un cimitero a cielo aperto: le strade pregne
d’un
silenzio mefitico e di cadaveri mutilati, irriconoscibili, insidiati
dagli
magri cani randagi.
Tra
questi visi di gesso Thomà scoprì la bimbetta che
aveva in
progetto di sposare un giorno. Quante volte glielo aveva promesso,
arrossendo
imbronciato dinanzi ai bonari risolini della vicina e di sua madre?
Thomà le
accarezzò le trecce insanguinate, quante volte gliele aveva
viste pettinate?
Quante volte gliele aveva tirate per farle dispetto, ma in
realtà perché voleva
la sua attenzione?
Il Re dei Diavoli aveva
fatto questo, quello schifoso austriaco dalla faccia da badile, che se
n’era
cavalcato tutto trionfo a Feltre, credendosi chissà chi. L’Ultimo Cavaliere lo
soprannominavano, quel porco farcito di pura
arroganza, entrato in città solamente perché i
soliti ghibellini avevano
cospirato in segreto ai danni della Signoria. Te
Deum, aveva ordinato di cantare in Cattedrale, cosa voleva
ringraziare Dio se manco aveva messo in gioco la sua vita per un
istante? Ovvio
che chi vince facile, poi al primo schiaffo si vuol vendicare
più ferocemente.
Perché la sua sconfitta è la prova della sua
inettitudine.
A
novembre dello stesso anno, con ancora il viso esangue della sua
fantolina marchiato a fuoco nell’animo suo, Thomà
aveva gioito del congiunto
assalto dei Feltrini e Veneziani all’antico Castello di
Alboino, nonché al
massacro della seconda guarnigione lasciata da Maximilian, ivi
asserragliatasi.
Di essa sopravvissero soltanto il capitano e due soldati, trascinati
dalla
popolazione inferocita in piazza, Thomà in prima fila contro
il parere materno.
Dove vai? Cosa fai?, gli urlava
dietro la sua mamma, ignorando di come il malvagio seme
dell’odio già gli stesse
germogliando nel cuore. Rise il bambino quando al capitano tedesco
vennero
cavati gli occhi coi ferri ardenti. Ai due soldati che ebbero in
consegna il
loro capitano, affinché lo consegnassero
all’Imperatore, invece si limitarono
ad amputare le mani. E Thomà rise ancora più
forte.
Evidentemente,
Dio lo punì per quello.
Erano i
primi di luglio quando l’odiosa aquila a due teste si
ripresentò alle porte di Feltre. Di nuovo Thomà
s’era nascosto al solito posto,
sotto una panca, ma stavolta i diavoli teutonici seppero dove scovare
la sua
famiglia. Questa volta vide il
padre
e i fratelli torturati prima di venir uccisi, vide
lo stupro di madre e sorelle. Vide
la povera sua nonna divenire cibo per cani. Vide
gli stivali unti di fango e sangue
avvicinarsi al suo nascondiglio, distruggerlo, si vide
ghermito dal lanzichenecco e seppe che la sua vita finiva quel
giorno.
A meno
che …
Tempo
addietro, durante una visita a dei parenti a Pedavena, Thomà
aveva assistito alle pubbliche lamentazioni di un pastore, cui il lupo
aveva sbranato
alcune pecore. Maledette bestie! ,
aveva imprecato, mostrando loro le penzolanti gole aperte.
Bestia
… bestia … Gli animali non possedevano spade,
balestre,
archibugi o cannoni, eppure uccidevano ugualmente.
Se non
posso difendermi da essere umano, allora sarà da animale.
Thomà
spalancò la bocca e azzannò il pomo
d’Adamo del
lanzichenecco. Era il 3 luglio 1510.
Il primo
affondo si rivelò difficile, riempiendogli il sangue la
gola, le nari e macchiandogli gli occhi, accecandolo e provocandogli un
conato
di vomito. Ma resistette, in nome della vendetta e della sopravvivenza.
Il
tedesco dimenandosi convulsamente tentava di scrollarselo di dosso, al
che il
bambino affondava con maggior vigore i denti nella carne, masticandola,
trincerandola finché il muscolo non si staccò e
Thomà lo sputò, mentre fiotti
rossi e caldi gli inondavano la faccia. I due caddero in un tonfo
assieme e il
fantolino rubò al lanzichenecco il suo pugnale, per poi
scappare via dalla
finestra, gettandosi e cadendo su di uno cumulo di cadaveri. Tra essi
Thomà si
camuffò, avanzando difficoltosamente passo per passo, corpo
per corpo, mentre
una voluta di fumo saliva al cielo.
Poi
furono le fiamme. Alte e grandi, peggio di una muraglia.
Ovunque, inarrestabili, ingoiandosi case, chiese, conventi, persone.
Thomà si
gettò dentro le vasche d’’acqua gelida
delle belle fontane lombardesche, riemergendo
intirizzito, tossendo e annaspando avido d’ossigeno.
Rabbrividendo attraversò
la fornace ardente che s’era trasformata Feltre, i tetti
sfrigolanti, i vetri
che scoppiavano dalla pressione per poi vomitare fuoco, ogni segno
dell’umano
passaggio divorato, spazzato via, come se i Feltrini non fossero mai
esistiti.
Le ustionanti vampate di calore gli ribollivano il sangue nelle vene,
però
Thomà stringendo i denti correva verso Porta Oria, in
direzione forse di
Cividale di Belluno, che ne sapeva lui? Uscire, uscire
dall’inferno doveva,
ovunque, senza guardare i diavoli che con le loro lance arpionavano
gente
indifesa, ridendo e sghignazzando in quella loro ruvida lingua.
L’inferno,
l’inferno in terra. E Thomà un’anima
dannata, rincorso
dai diavoli, seminudo, lordo di sangue e bagnato fradicio, la pelle
nera di
fuliggine da scambiarlo per un moretto, il pugnale ben stretto in pugno
che
mulinava per farsi largo tra la vegetazione, incurante dei rovi, delle
ortiche,
delle lacrime mischiate al sangue, della flemma che gli colava in bocca
dal
naso, del piscio che gli appiccicava le cosce.
Correva,
piangeva – Mamma!
Mamma! invocava la povera donna ridotta ormai a polvere al
vento.
Mio Dio,
mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Per tre
giorni e tre notti la città bruciò. A Cividale di
Belluno,
distante venticinque miglia, videro il cielo sopra Feltre tinto
d’arancione, poi
una possente e densa colonna di fumo e un silenzio di morte calare
sulla
vallata.
Bisognò
attendere la primavera prima che Venezia si riprendesse
Feltre, che coincise con l’arrivo di Thomà a
Castelnuovo di Quero in qualità di
assistente del bombardiere Andrea Trepin da Belluno e questo poco dopo
l’insediamento
a marzo del 1511 del nuovo castellano e reggente della fortezza sul
Piave, sier
Hironimo Miani q. sier Anzolo. Il fantolino aveva riconosciuto
immediatamente
il patronimico e il cognome, avendoli infatti
“letti” ogniqualvolta la sua
mamma attingeva l’acqua dalle fontane in Piazza Maggiore: era
quello del
podestà e capitano sier Anzolo Miani, colui che aveva difeso
la città dal duca
austriaco Sigmund von Habsburg nel lontano 1487, respingendo in pieno
inverno
la sua invasione e costì salvando la sua gente. Lo sai che tuo nonno e tuo papà
costruirono la culla ai figli del
Miani? , gli narrava orgogliosa la sua nonna, indicandogli
lo stemma.
Forse era
un segno del destino che il figlio di un tal valente
podestà e capitano fosse giunto da queste bande. Forse era
il miracolo che
serviva loro per sconfiggere i diavoli tedeschi, aveva giudicato
Thomà il
giorno delle presentazioni ufficiali col giovane Miani a Castelnuovo.
Ne rimase
deluso.
Chi gli
si era parato innanzi (impressione da tutti condivisa del
resto) non era nient’altro se non un ragazzo. Per
carità pieno di iniziative, di
grinta, di sopportazione, indefesso lavoratore però sempre
un ragazzo che aveva
assistito a troppe carneficine in troppo poco tempo, un ragazzo
spaventato che si
nascondeva dietro alla rabbia per non sembrare da meno rispetto agli
altri. E
chi non lo era in quell’inferno?
Se il
nuovo castellano non gli avesse ripetutamente urlato dietro
manco un indemoniato, forse Thomà avrebbe potuto anche
volergli bene e a rassicurarlo
che non c’era vergogna nella paura, bastava solo vincerla con
la crudeltà,
pensava egli accarezzando il pugnale della sua prima vittima.
Perché
sapete, Thomà aveva un segreto, tenuto nascosto anche ad
Andrea Trepin che pur amava alla stregua d’un fratello. A
questi aveva infatti
raccontato soltanto di come avesse vissuto fino al loro incontro
d’espedienti,
tra furti e accattonaggio ora da solo ora in compagnia di qualche
compaesano.
Non gli aveva raccontato di Primiero, di ciò che
lì combinò, anche se fu poca
cosa a confronto degli altri Feltrini sfollati e impestati
d’odio verso
qualsiasi cosa fosse stata tedesca.
La
valle di Primiero era governata dai
Welsberg, nota famiglia legata alla casa d’Austria.
A
Primiero si parlava tedesco, si
scriveva in tedesco, si pregava in tedesco con preti tedeschi, i suoi
minatori
erano tedeschi e chissenefregava se condividevano il medesimo
vescovado,
chissenfregava se Primiero non aveva supportato l’eccidio di
Feltre in alcun
modo, anzi, aveva ribadito la sua amicizia. Agli occhi dei Feltrini gli
abitanti della valle di Primiero erano tedeschi ergo odiosi sudditi del
più
odioso dei nemici, il Re dei Diavoli, Faccia da Badile, Maximilian von
Habsburg.
Terre
grasse, terre vergini dalla
guerra, dalla fame, dalla distruzione. Felici e fertili terre tedesche.
Terre
dell’Imperatore. Terre vicine.
Dopo
mesi di vagabondaggi
sopravvivendo alla stregua d’un animale, Thomà
conosceva a menadito le strade
per la Valsugana e incurante dei suoi dieci anni, più che
volentieri assieme ad
altri locali guidò i 2.500 fanti e 50 cavalieri feltrini che
si misero in
marcia, un esercito raccogliticcio ma assai motivato dal solo scopo
della
vendetta. Soldati improvvisati, gente che non aveva più
nulla da perdere perché
tutto aveva perduto, anima compresa.
I diavoli
avevano distrutto il loro Paradiso, adesso avrebbero sfondato
i cancelli del loro.
Penetrarono
rapidamente nella Valsugana, poi nelle valli del
Tesino, lasciandosi alle spalle incendi e brutali saccheggi, senza star
tanto a
guardar in faccia a chicchessia, sordi all’invocazioni di
pietà, di pensar a
Dio e al suo castigo. A chi toccava, toccava, assolutamente imparziali
nell’elargire la morte.
Poi fu il
turno di Primiero e che Dio avesse pietà delle anime
loro, ché i Feltrini non ne ebbero. Settanta volte sette
s’abbatté su di loro
la vendetta di quella torma infuriata e incattivita dalle disgrazie
subite per
mano dei lanzichenecchi di Maximilian.
Come un
branco di lupi rabbiosi i Feltrini si sfogarono sulle
genti di Primiero, seminando il terrore nell’intera valle,
battendo
accuratamente villaggio dopo villaggio, spadroneggiandovi indisturbati
finché,
razziato il razziabile, lo incendiavano e passavano al successivo,
inarrestabile masnada di senzadio che in ferocia poteva eguagliare
quella dei
Turchi. Nessuno si poteva dire al sicuro, non permisero a nessuno di
scappar
via.
Ovunque
andassero, i Feltrini bruciavano, saccheggiavano,
ammazzavano e Thomà sempre con loro. Era lì
quando incendiarono la Bastia
tirolese ad inizio della vallata. Era lì quando piombarono
inaspettati sul
primo villaggio, gettandosi voracemente sugli abitanti, estraendoli uno
ad uno
fuori dalle proprie case e trascinatoli nelle strade li scaraventavano
contro i
muri e li trasformarono in porcospini con frecce al posto degli aculei,
come
Diocleziano aveva ordinato agli arcieri di San Sebastiano. O similmente
al
drago di San Giorgio finivano infilzati dalle picche feltrine tra
grugniti e
grida agonizzanti. Qualcheduno si beccò persino il medesimo
trattamento di
Sant’Erasmo e San Floriano, neanche si volesse metter in
scena qualche iperrealistico
mistero o leggenda aurea. Se mancavano gli istrumenti, si suppliva con
le mani,
dipingendo le pareti con le cervella dei paesani. Oppure li
defenestravano
direttamente e torcendo col piede il collo ai disgraziati, completavano
l’opera. L’impiccavano, li bruciavano vivi
– oh, l’immaginazione non mancava ai
Feltrini grazie all’arte appresa dai lanzichenecchi! [1]
Thomà
diede una mano ai suoi concittadini a riutilizzare le federe
dei cuscini come gran sacchi da riempire di cibo, vasellame, ori,
argenti, di
qualsiasi cosa o utile nell’immediato o come futura merce di
scambio. Si riempì
la scarsella di pane, fette di formaggio, di bottoni, di anelli, di
collane; si
arrotolò al collo giri di salsicce e un rosario
d’ambra. Entrato in una chiesa,
s’avvolse alla vita la tovaglia di seta bordata
d’oro dell’altare e si riempì
la fiaschetta di vino; quando il prete tentò
d’indurlo alla ragione, il bambino
gli puntò contro il pugnale, ferendogli di striscio la mano
e berciando (anche
se molto probabilmente l’uomo non capì niente): Taci, prete: vi siete bevuti il nostro vino,
sbafati il nostro cibo,
saccheggiato le nostre chiese! Adesso tocca a noi! Thomà si tolse
persino lo sfizio di lanciar
merda sull’aquila asburgica dipinta nella Rathaus e di
pisciare sullo stendardo
e lo scudo scaraventati giù per il pubblico ludibrio.
S’ingozzò
del ferocemente agognato cibo, seduto su di un
materasso finito chissà come in strada, mentre assisteva a
quella folle danza
macabra, che gli ricordava vagamente la mattanza dei porci a San
Giovanni.
Nessuno ebbe il pudore d’allontanarlo quando, liquidati gli
uomini, si decise
di passare alle donne, ricambiando il favore che i tedeschi avevano
riserbato a
quelle dei Feltrini, costringendole a vergognose rusticità.
Tanto, la
violenza in ogni sua manifestazione non turbava più
l’anima del fantolino. Non si scompose neanche alla vista di
un suo compaesano,
da tutto il borgo suo conosciuto come un uomo mite e di gran cuore,
avventarsi
contro una madre che stava difendendo il suo figlioletto. Mein Kind!, gridava disperata la donna, Gnade! Gnade! Mein Kind! Es ist nur ein Kind! Nur
ein Kind ,
piangeva, le braccia sanguinanti e piene di lividi levate in alto sia
supplici
sia in segno di resa.
Non ho più
pietà! Non ho più figli! Non ho più
moglie! Non ho più vita!, le ruggì
dietro il feltrino tra amare lacrime, ghermendola per i capelli e
sbattendole
la testa su di una panca ad ogni esclamazione, finché il
corpo della donna,
dopo un violento spasmo, s’afflosciò privo di vita
e la sua faccia divenne una
poltiglia irriconoscibile; ciononostante, l’uomo
seguitò imperterrito,
ritrovandosi macchiato di sangue e cervella fino al gomito. Ansimando,
si
ritrasse singhiozzando dal cadavere, gli occhi spenti e vacui.
Dietro di
te!, lo
avvertì d’un tratto gridando Thomà e
voltandosi di scatto il
feltrino menò di riflesso un rapidissimo taglio di striscio,
recidendo la
carotide dell’assalitore alle sue spalle talmente a fondo,
che si vedeva
l’osso.
E
così via per parecchi giorni. Stesso scenario, ma con facce
nuove. Saccheggiare, ammazzare, bruciare. Saccheggiare, ammazzare,
bruciare.
Infine,
quando ebbero raggiunto un sufficiente numero di villaggi
ridotti a macerie fumanti, i Feltrini si considerarono abbastanza
satolli di
vendetta e, con le mani e le vesti incrostate di sangue, se ne
tornarono alla
loro città di cenere, percorrendo trionfanti e carichi di
bottino la via di
Schenèr, con Thomà in mezzo al festoso corteo.
A quanto
pareva, neppure quelle sue azioni piacquero a Dio, ed
ecco che Castelnuovo di Quero malgrado la strenue difesa cadeva, il suo
fratello d’anima Andrea Trepin moriva in combattimento e lui,
finito
prigioniero, s’era ammalato magari di peste o di polmonite o
di tutt’e due e
stavolta nulla l’avrebbe salvato dall’inferno
dell’Aldilà, dopo l’assaggio
dell’Aldiqua.
“…
perzò, sior pare confessor colendissimo, gh’aveu
capio horra
perché mi no gh’ho timor ni de crepar ni de finir
a l’inferno? Mi sun zà
cativo, gh’ho fato cosse assa’ brutte et Domine
Iesu nol me va a perdonar.”
Fra’
Anselmo strinse convulsamente il crocifisso appoggiato alle
ginocchia, sopraffatto dal peso della stola da confessione, gli occhi
gonfi e
umidi di lacrime. Guardò smarrito il bambino che al
contrario ricambiava
tranquillissimo, le dita incrociate al petto sulle coperte tirate fino
al
mento. Il frate s’umettò le labbra, incapace per
la prima volta in vita sua di
fornire consiglio al penitente: né il rigoroso esercizio
della Regola benedettina,
né i pingui volumi pregni della saggezza dei Dottori della
Chiesa avrebbero
potuto ispirargli una parola anche solo per commentare su quanto visto,
udito e
fatto da una creatura, il cui massimo peccato doveva limitarsi a far i
capricci
per non voler coricarsi all’ora stabilita.
Chi invece
scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe
meglio
per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e
fosse
gettato negli abissi del mare.
E di
scandali ne avevano creati in sì gran copia, che il frate si
chiese come facesse Dio a non nausearsi di loro, scaraventandoli ancora
vivi
nella Geenna o annegandoli tutti in un secondo Diluvio Universale,
amici e
nemici. Per via di questo suo disgusto l’uomo s’era
ritirato dal mondo, anche
nel tentativo di capire tramite le Scritture e la vita ascetica il
perché di
tanta misericordia verso coloro che non la praticavano, come la
parabola del
servo malvagio che, pur condonatogli dal padrone il grosso debito, non
aveva
esitato a gettar in prigione un suo pari per una piccola somma di
denaro. Ma
era anche vero che Dio non seguiva la logica umana, la quale per quanto
si
sforzasse non sarebbe mai riuscita a decifrarne i pensieri,
né a trovare un
nesso in coloro che lei considerava palesi contraddizioni. Ad esempio,
in
quanto veneto il monaco teoricamente non doveva curare i soldati
francesi
ammalati e ricoverati nell’infermeria dell’Abbazia;
tuttavia lasciarli morire
significava divenire agli occhi di Dio un assassino. Talvolta il dare a
Cesare
e il dare a Dio non risultava di così facile esecuzione come
si predicava.
Schiarendosi
a disagio la gola, Fra’ Anselmo si sporse sul fantolino
disteso sul lettuccio.
“Ti
te xé veramente pentio de li toi pecadi?”, gli
chiese infine,
celando il groppo in gola.
Thomà
abbassò il mento sul petto, piegando
all’ingiù la bocca e il
frate capì quanto sforzo quella risposta gli costasse e
avrebbe d’altronde
potuto biasimarlo? I tedeschi gli avevano portato via quei pochi punti
di
riferimento della sua giovanissima vita – la famiglia, la
casa, a momenti la
stessa fede – privandolo di un futuro, un’orfana
foglia al vento in balia degli
eventi. Dio sapeva essere davvero esigente talvolta …
Nondimeno,
il bambino annuì sincero e per la prima volta
dall’inizio della confessione l’uomo vi lesse un
flebile barlume di speranza.
“Così, vi dico, ci sarà
più
gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti
che non
hanno bisogno di conversione. Domine Iesu Christo, el bon
Pastor che nol
gh’ha volesto perdar manco na piegora al pecado,
ch’el te daga, mediante el
minister di la Giesa, ea perdonança per le toe
colpe”, gli impose Fra’ Anselmo
la mano sul capo, pur con qualche difficoltà non fidandosi
Thomà di lasciarsi
toccare da chicchessia. “Ego te absolvo a peccatis tuis in
nomine Patris et
Filii et Spiritus Sancti. Amen.”
“Amen.”
“Ancuò
xé zorno di la Madona Dolorà. Te cognossi el Stabat Mater?”
“Siorno.”
“El
Salve Regina?”
“Siorno.”
“Almanco
l’Ave Maria?”
“Un
puoco”, s’afflosciò Thomà
imbarazzato nel cuscino, tirando su
la coperta, intimidito dallo sguardo ora severo ora sconfortato del
benedettino,
il quale si domandava in che razza di mondo di pagani e ignoranti fosse
nato e
cresciuto.
Ironicamente,
più la cultura si diffondeva grazie alla stampa e alle
raffinate corti italiane, più il popolo sprofondava
nell’ignoranza, soprattutto
religiosa. Ah, non che lor signori fossero meglio, con le loro
arroganti teorie
d’antropocentrismo! Se davvero l’uomo è
padrone del proprio destino, perché
allora egli col suo intelletto superiore non aveva
impedito
che un bambino
s’insozzasse l’anima assistendo e divenendo
complice di turpitudini
innominabili? L’uomo piuttosto è folle, non
ragiona se non d’istinto e l’unico
freno è Dio Padre e appunto come ogni figlio discolo Lo ama
e Lo odia, perché
vuol sì la Sua protezione senza però seguirne i
precetti.
E ora
questa loro follia gli uomini l’avevano imposta pure nella
casa del Padre, invadendo l’Abbazia e la basilica con la
scusa della guerra.
“Ti
no te cognossi l’Ave Maria,
perhò te gh’ha pur fato ea Comunion! Qual prete
turcho te gavei a Feltre, caro
ti?”
“No
xé colpa mia et manc’elo cognosse l’Ave Maria!”, si
discolpò Thomà indicando prontamente Hironimo, il
quale se ne stava a debita distanza, acciocché il decenne si
potesse confessare
in tutta tranquillità.
Il
giovane Miani si voltò verso i due, arcuando
inquisitivamente
il sopracciglio, seguitando tuttavia a suggere la sua calda tisana.
“Spion!”,
commentò in una piccata cantilena. Thomà
replicò tramite una rumorosa
linguaccia e Fra’ Anselmo si grattò la fronte
assai imbarazzato. “Gh’aveu
terminà, sior frate?”, li raggiunse il patrizio e
si sedette accanto al malato,
togliendogli la pezza d’acqua dalla fronte e, imbevutala di
nuovo nella
bacinella accanto, gliela riposizionò, controllandogli la
temperatura sotto le
orecchie col dorso della mano bendata.
“Cum
lu sì. Voleu anca vu confesarve?”
Hironimo
s’irrigidì e lo fulminò con lo sguardo.
“Mi no gh’ho
gnente da dirve!”, gli ringhiò contro bellicoso,
torvissimo, per poi tornarsene
ad accudire il marmocchio, il quale già ciondolava dal
sonno, le poche energie
spese per confessarsi col frate.
Che strano
giovine!, meditava
Fra’ Anselmo, spiando i due di sottecchi con la scusa di
riempire il boccale di terracotta con dell’altra tisana
d’ontano nero. Raramente
aveva scorto in un uomo tanto amore nel prendersi cura di un bambino,
figurarsi
in uno poi così giovane!
Il frate
ben si sovveniva dell’irruzione di Hironimo in infermeria
tra i Vespri e la Compieta, recante questi tra le braccia sanguinanti e
ricoperte di lividi e schegge il suo piccino privo di sensi, talmente
pallido
in volto da temerlo il monaco un qualche fantasma dei tempi antichi. Il
patrizio gli aveva ceduto esagitato il suo fardello, supplicandolo
piangente di
salvarlo ad ogni costo.
Come
poteva egli rifiutarsi dinanzi a tanto tormento?
Fra’
Anselmo conosceva bene le sue erbe ed esse di nuovo non lo
tradirono, disputandosi tutta notte Thomà con la morte e
solo alle prime luci
dell’alba il fantolino aveva ripreso conoscenza, quel tanto
per chiedere subito
di confessarsi giacché sicuro d’aver visitato per
qualche ora l’inferno. Molto
probabilmente, ragionava il benedettino, il delirio della febbre doveva
avergli
rievocato quei tremendi ricordi custoditi nel cuore.
Fino a
quel momento, Hironimo gli era rimasto seduto accanto,
incurante di sé e rifiutando ogni assistenza, specie quando
Fra’ Anselmo gli
aveva offerto una camicia nuova e di bendargli i graffi e sbucciature
alle
mani, spalle e perfino sulla fronte. Soltanto al risveglio di
Thomà cedette, ma
neanche in quel frangente volle riposarsi, preferendo rifugiarsi in un
angolo
lontano dell’infermeria.
All’inizio,
mea culpa, il frate non aveva compreso chi i due
fossero in realtà, lasciandogli l’emergenza poco
spazio per congetture e
spronandolo invece all’azione. Furono i segni rossi e
spellati delle manette e
delle cavigliere, nonché la faccia preoccupatissima di un
suo confratello e la
sua celere spiegazione a svelargli il mistero. Fra’ Anselmo
rimase vivamente
impressionato che il giovane fosse riuscito a sfondare una porta
così robusta,
a nulla invidiabile a quelle di un vero e proprio carcere. Quella porta è costruita apposta
affinché i monaci in punizione non
scappino! Com’avrà fatto?, gli aveva
sussurrato confuso all’orecchio il
confratello.
“No
me maravejo che vuj gh’avé sfondà ea
porta cum ea testa: quea
sì, che vu l’avé ben dura! Testa da
copo!”, commentò Fra’ Anselmo, mulinando
il
dito all’impenitente patrizio, che gli rifilò
un’espressione da gnorri totale.
E alzandosi proseguì: “Mi vago. Ve fazzo portar ea
Comunion, almanco pel céo
(bambino, ndr). Po’ se gh’avé besogno de
mi, vu savé ndove trovarme.”
“Pì
ch’ea Comunion, félo portar on fià de
pan et de sopa!” (zuppa,
ndr.), lo esortò ad alta voce Hironimo, ridacchiando
impunito dal modo in cui
le spalle del frate s’irrigidirono per il nervoso.
“Turcho!”,
borbottò questi, scuotendo il capo, prima di dedicarsi
al prossimo paziente ricoverato in infermeria.
Miani lo
seguì sornione con lo sguardo, intanto che si sistemava
più comodo sulla sedia. Quand’ecco che si
sentì tirare timidamente per la
manica.
“Patron?”,
lo chiamò sottovoce Thomà, accertandosi della
lontananza del monaco.
“Dime.”
“Xélo
vero, che vu gh’avé sfondà ea porta a
testate?”
Sfiorandosi
il crescente bernoccolo costellato da escoriazioni più
o meno profonde, Hironimo scherzò: “Solum un puoco
a la fin …” ed
effettivamente corrispondeva alla verità, arrivato ad un
certo punto dove gli
dolevano troppo sia i pugni che le spalle per proseguire
all’abbattimento di
quell’ostinato ostacolo. Oh beh, in testardaggine aveva
trovato il suo fiero
avversario.
Il volto
di Thomà s’illuminò estasiato e pieno
d’ammirazione.
“Ostrega, che força zò!
M’insegnaré un zorno?”
“Co’
ti te stà mejo, zerto.”
Il
bambino annuì vivacemente, felicissimo all’idea.
Quand’ecco che
la sua espressione s’incupì, ingobbendosi su se
stesso e storcendo vergognoso
la bocca. “Patron? Jo ve fazzo schifio horra?”
“Cossa
te blateri?”, sbottò immediatamente Hironimo,
scrutandolo
severo, le braccia incrociate al petto.
“Sun
stà malguajo (malvagio, ndr.) mi”,
bofonchiò dispiaciuto il
fantolino, dimenando nervoso la punta dei piedi sotto le coperte.
Temeva,
infatti, che una volta appreso il suo vero passato il patrizio non
volesse più
rapportarsi con lui, nauseato da cotanta sua cattiveria e al decenne
deludere
l’opinione che aveva di sé l’angustiava,
non tanto perché avrebbe potuto
perdere un protettore bensì un amico. Strano ma vero, se
all’inizio non poteva
soffrire quell’arrogante nobile, adesso gli voleva bene e gli
sarebbe
dispiaciuto ritornare alla freddezza di prima. Il suo cuoricino aveva
battuto
impazzito di pura felicità, quando Hironimo
l’aveva protetto dal Bua
presentandolo come un figlio illegittimo; non aveva mai creduto che un
privilegiato come lui si abbassasse a tali stratagemmi pur di salvare
la vita
ad una nullità. Gli era venuta una gran voglia di
abbracciarlo, però s’era
trattenuto, i veri uomini non s’abbracciano, gli aveva detto
Andrea Trepin il
bombardiere, l’è roba da femmine.
All’oscuro
di questi suoi ragionamenti, Hironimo sospirò invece
alle sue parole, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Ti te
gh’ha solum copià
le porcade di staltri. I puti xéi ea spièra
(riflesso, ndr.) de l’omeni, i nol
gh’ha juditio ni cossiensa di l’ati
lhor”, dichiarò mestamente, riflettendo sui
propri gesti di bambino, quando si sforzava di imitare Padre in ogni
suo
aspetto, dal modo di parlare, di camminare e pure di comportarsi senza
però
capire il significato profondo di ciò che scimmiottava. Egli
era il suo modello
e Hironimo, simile ad una pagina bianca, assorbiva ogni cosa e non la
filtrava,
non possedendo gli strumenti necessari di discernimento. Di conseguenza
l’allora
Momolo li aveva reputati normali e naturali e mai li aveva contestati,
semmai
arrabbiandosi se qualcuno lo rimproverava a causa d’essi.
“Donca
Domine Iesu me pardonarà?”, insistette
Thomà, d’un tratto
ansioso. Aveva sempre creduto d’esser ormai al di
là di ogni redenzione,
tuttavia Fra’ Anselmo l’aveva assolto e se inoltre
era vero che le sue colpe
derivavano dalla sua scempiaggine per aver imitato degli sconsiderati
adulti,
forse-forse in Paradiso dalla sua mamma e papà ci poteva
ancora andare.
“Se
Lu no pardona a ti, che te xé on gnorante petusso (pulcino,
ndr.), chi altro pole pardonar?”, gli propose il giovane
Miani quella grama
prospettiva. Un sardonico sbuffo gli sfuggì dalle labbra: se
un bambino si
fustigava così tanto per aver soltanto ceduto
all’istinto di sopravvivenza,
come si doveva sentire lui?
Sì,
quella confessione l’aveva sconvolto, non lo negava, incapace
di scorgere tanto odio nel cuore di chi era un innocente per
antonomasia.
Tuttavia, avesse egli vissuto le medesime esperienze di
Thomà, avrebbe agito in
maniera differente?
Risposta:
no di certo, anzi si sarebbe comportato peggio di lui.
Thomà
non era altro che il prodotto vivente delle follie degli
adulti. Un loro mostro. Non era nato malvagio, lo avevano fatto
divenire tale.
Qualcheduno poteva anche ribattere: non è una
giustificazione, poteva scegliere
di tenersene fuori.
Quale
giustificazione razionale può dare un bambino, che senza la
guida genitoriale è tutto istinto, inconsapevole delle
proprie azioni e del
significato di responsabilità?
Si
può biasimare la foglia sbandata al vento, se viene staccata
dal ramo robusto?
“Mi
credea che Lu gera pardonador. Perhò horra i me disen
ch’en
verità Lu xé zudese, che Lu no scolta i pecadori,
ma li buta zò a l’inferno.”
Hironimo
percepì un doloroso e subitaneo crampo allo stomaco
nell’udire
quelle parole, sinistramente a lui famigliari e infatti si rivide
d’un tratto
bambino a ripeterle e discuterne con suo fratello Marco, in quel
lontano
pomeriggio al Lido di quattordici anni addietro.
Eppure,
di altri discorsi si sovvenne contemporaneamente, discorsi
snobbati all’epoca ma mai del tutto obliati per quanto si
fosse sforzato. In
automatica e inarrestabili, le parole di Madre incominciarono
inaspettatamente
a fluire perfette e sicure dalla sua bocca: “Donca parla
à la Madona, la qual senpre
te scolta et senpre la intersede vizin Deo: Eia ergo,
advocata nostra …”e
Hironimo s’interruppe, non riuscendo più a
ricordarsi come proseguisse. Eppure
Madre e Crestina gliel’avevano insegnata e dalle lettere a
Padre egli sapeva
che da piccino recitava alla perfezione e con sentimento ogni
preghiera, specie
quelle mariane. Adesso la sua memoria a riguardo s’era
tramutata in un arido
deserto, vuoto e silente. “Et horra molighe coi putelezi: i
malà gh’han da
dromir, sennò nol guariscon pì”, si
ricompose in fretta il giovane, scacciando
quell’attimo di malinconia che l’aveva
proditoriamente colto. Che importanza
aveva ormai conoscere o meno il Salve
Regina? Non era quello ciò che l’avrebbe
salvato dalla sua attuale
situazione.
“Pulito,
perhò podeu star qui meco?”, gli offrì
Thomà la manina
sudaticcia, arrendendosi alla sua poco virile smania di coccole e
affetto,
incolpando al contempo la malattia che lo rendeva capriccioso, come gli
ripeteva solerte la siora sua nonna.
Hironimo
gliela strinse delicatamente. “Sì, mi stago
qui”,
sorrise, scrutandolo attento finché il fantolino, tirato un
sospiro
soddisfatto, chiuse le palpebre e si rilassò,
addormentandosi.
Allora,
avvertendo anch’egli una certa stanchezza, il giovane
Miani appoggiò i gomiti sul materasso e la testa su di essi,
pronto ad
appisolarsi. Tuttavia, il suo sguardo si posò casualmente
sulla scultura lignea
di una Crocifissione e nello specifico sulla figura curva e piangente
della
Madonna, gli occhi immobili e scuri fissi sul Figlio agonizzante.
L’anonimo scultore
aveva disposto le statue, ch’Egli pareva ricambiare lo
sguardo materno e la
bocca dischiusa mormorante quasi: “Donna, ecco tuo
figlio!” e “Ecco tua madre!”
Per una
madre non doveva esserci nulla di più tremendo
d’assistere
al supplizio e alla morte della propria creatura e ad appendere Cristo
alla
croce era stata la medesima umanità che non solo era stata
perdonata, ma per la
quale Lei continuava indefessa ad intercedere, consolare, fornire
esempio e
consiglio. Il Figlio dell’Uomo spogliato di tutto, anche
l’ultima cosa
rimastaGli generosamente donava – sua madre. Quale magnifica
contraddizione!
Quanto amore ripagato con ingratitudine!
…
Ecco tua madre …
Se Le
avesse parlato, l’avrebbe ascoltato? Per quindici anni
s’era
categoricamente rifiutato … Perché incominciare
ora? E
perché doveva la Madre per eccellenza
ascoltarlo? Proprio lui, che neppure con la sua madre terrena
s’era mai
comportato bene, facendola costantemente preoccupare e deludendola col
suo
comportamento indisciplinato e il suo pessimo carattere?
Anch’ella l’aveva
sempre perdonato e l’aveva coperto da capo a piedi
d’amore incondizionato, senza
mai perdere fiducia in lui. Anch’egli l’aveva
ringraziata atteggiandosi da
ingrato, d’egoista, da selvaggio.
… Ecco
tua madre …
Come si
può amare e difendere uno che ti fa soffrire? La spada che
ti trafigge l’anima?
Come ha potuto mia madre sopportarmi, quand’io non ero altro
se non un peso
morto? Un figlio ribelle e scapestrato? Un insulto
all’educazione datami da lei
e da Padre?
Sopraffatto
da codesta sensazione di solitudine mortale, Hironimo
s’addormentò, la manina di Thomà ben
custodita dalla sua.
Anche se
Lei m’ascoltasse, cosa potrebbe dire al Padreterno per
discolparmi di tutte le
mie colpe? Del rancore e indifferenza che per anni ho nutrito nei Suoi
confronti?
…
Eia ergo, advocata nostra …
Ci sono
tante persone più innocenti e meritevoli di me del sostegno
divino. Che
speranze avrei io? Che diritto di chiedere ciò che ho sempre
disprezzato?
… Donna,
ecco tuo figlio.
***
Il ponte
sul Piave era stato finalmente completato e sarebbe stato
motivo di gran festa nell’esercito dei franco-imperiali, se
non fosse stato per
un piccolo ma non trascurabile dettaglio presentatosi agli occhi del
maresciallo Jacques de Chabannes de la Palice nella veste di malmenati
soldati
francesi.
“Cosa
vorreste dire”, fumò il condottiero, strascicando
feroce le
parole, “che hanno attraversato il ponte?”
I
poveracci farfugliarono qualcosa, tremanti sia dalla paura che
dal freddo, rivelandosi infatti bagnati fino all’osso.
“Avevamo appena
completato il ponte, quando le capitain Jacob cogli altri suoi compari
ha dato
l’ordine di passarlo. Noi l’abbiamo contestato,
sostenendo che non ci risultava
tale ordine provenire da voi e loro ci hanno riempito di botte e
gettati giù …”
La Palice
gettò un’occhiata furibonda al de Boissy, du
Molard, al
Sanseverino e al Pallavicino. In particolare si soffermò su
Mercurio Bua, che
già quella mattina gli aveva portato la fastidiosa
ambasciata della caduta di
Castelfranco in mano veneziana e della distruzione dei forni.
“E la Certosa? La
maggior parte dell’esercito imperiale
s’è accampato lì, impossibile
che tutti i suoi soldati abbiano
attraversato il ponte in sì breve tempo!”
Il
soldato scosse il capo. “Je l’ignore, monseigneur.
I nostri
compagni andati a controllare alla Certosa non sono ancora tornati, les
Allemands non ci permettono di avvicinarsi senza giungere a discussioni
e
talvolta alle mani!”
“Come
sarebbe a dire che non
vi permettono? Siamo alleati o che? Pour
les plaies de Christe! È le Roi che paga
quest’impresa e loro osano
comandarci cosa possiamo e cosa
non possiamo fare?!”, ringhiò il maresciallo, i
pugni che si serravano e
aprivano collerici.
A tal
proposito, arrivò la stoccata finale. “Les
Allemands si sono
presi parte delle nostre munizioni e dei nostri viveri
…”, pigolò infine un
altro soldato, augurandosi di sprofondare negli abissi della terra.
“FOUTUS
CHIENS!”, esplose la Palice, la misura oramai colma.
“Basta! C’est trop de
félonie! È
dunque questa la tanto osannata disciplina militare teutonica? Un
branco di
masnadieri, avidi briganti il cui unico vanto è quello di
saccheggiare villaggi
e di correre via al primo abbaiare del nemico?! È evidente
che quest’impresa di
Trévise non lo vogliono fare e non vedo perché
dobbiamo rimetterci noi! Tutto
abbiamo messo a disposizione di questi valorosi
“alleati”: soldi, armi, uomini,
il nostro stesso onore! E così che ci ripagano? Scappando
all’alba alla stregua
di ladri? Beh, che Trévise se la conquisti da solo
l’Empereur! Io ho chiuso con
questi vigliacchi!”
“Datemi
l’ordine, monseigneur”,
s’offrì un altrettanto furente du
Molard, “datemi soltanto l’ordine e i miei guasconi
vi riporteranno indietro le
teste di quei fottuti disertori!”
“Non
si saranno spinti troppo lontano: al massimo fino a
Conegliano, se partiamo ora possiamo raggiungerli assai in
fretta”, insistette
du Boissy.
Sordo a
quell’allettante promessa, la Palice si concentrò
invece
su Mercurio. “Voi lo sapevate! Voi sapevate che sarebbe
finita così!”,
l’accusò, puntandogli contro l’indice.
“Che
c’entro io?”, si difese adirato
l’albanese, la proverbiale
mosca saltatagli al naso.
“Non
siete conte e consigliere dell’Empereur?”
“E
allora? Mica implica che debba anche far da balia a quei
coglioni dei suoi capitani!”, allontanò il
condottiero il dito del maresciallo
dal suo petto. “Sono forse il custode delle loro
anime?!”
Pigliando
coraggio, Giulio Sanseverino s’intromise nella concitata
discussione prima che degenerasse: “Monseigneur, maresciallo,
sia a Milano che
in esilio coi miei fratelli ho avuto modo di conoscere gli alemanni e
vi
assicuro che non diserterebbero tanto facilmente. Se hanno attraversato
il
ponte, l’hanno fatto in quanto spinti dalla fame.
Sì”, s’affrettò ad
aggiungere, anticipando l’obiezione del la Palice,
“hanno contravvenuto ad un
vostro ordine. Nondimeno, sono persuaso che una volta terminate le loro
scorrerie al di là del Piave e in Friuli ritorneranno pronti
per l’impresa!”
“Effettivamente
il capitano Jacob non ha mai parlato di
diserzione, soltanto di svernare in un posto più sicuro e
meglio fornito”,
reiterò Galeazzo Pallavicino, placando momentaneamente il
giusto sdegno del
maresciallo francese.
“Che
ne pensate voi, capitain Bua?”, volle l’uomo
conoscere
l’opinione del condottiero, non ancora persuaso
dall’appassionata difesa dei
due nobili lombardi.
Mercurio
trasalì, perso nei suoi poco rassicuranti pensieri,
l’intera situazione d’un tratto un doloroso
déjà vu. “Chi sparisce dal campo
difficilmente ritorna, ecco la mia opinione. Vi debbo ricordare, messer
Sanseverino, le vicende di Ver -…” e
s’interruppe, il cuore cascatogli nello
stomaco.
Una
rapidissima sequenza di ricordi gli scorse davanti agli occhi.
Il suo ritorno a Verona dal colloquio con l’Imperatore. La
compagnia dimezzata.
Suo fratello Teodoro e i suoi cognati spariti. Il letto vuoto di
Caterina e
Maria …
“Dov’è
il conte di Gambara?”, inquisì
all’improvviso il Bua,
pallidissimo in volto e tremante manco avesse contratto la terzana.
Guardandosi
meglio attorno, constatò ansioso come non avesse scorto il
bresciano in nessun
luogo per tutto il giorno e dai conti di Collalto decisamente il de la
Palice
non l’aveva inviato.
E ora i
tedeschi se l’erano data.
“E’
rimasto all’Abbazia, sin da ieri esibiva una tal brutta cera
…
Capitano Bua, in nome di Dio che state facendo?!”,
esclamò sconcertato Giulio
Sanseverino, allibito dinanzi alla folle corsa dell’albanese
verso il suo
cavallo, balzandovi sopra più agile d’una scimmia.
“Capitan Bua!”, gli urlò
dietro, girandosi impotente in cerca di sostegno verso gli altri
sconvolti
comandanti.
“Maurikos!”,
lo richiamò gridando Lecha Busicchio, montando
anch’egli in sella e lanciandosi all’inseguimento
di quel pazzo del suo
collega, il quale spronava il suo cavallo alla stregua d’un
ciuco. “Fermati!
Dove vai?”
Lo sapeva
Mercurio dove stava andando, digrignando i denti e gli
occhi iniettati di sangue, mentre irrompeva indiavolato
nell’Abbazia tra grandi
esclamazioni intimorite dei suoi abitanti, terrorizzati da quel suo
incedere
violento ed esagitato. Disceso dalla sua cavalcatura, a grandi falcate
e
facendo letteralmente volare via ogni benedettino che gli si parava
innanzi, il
condottiero raggiunse le celle dei monaci in punizione, ululando
rabbioso alla
vista della porta sfondata e, dopo aver aperto con un calcio quella
della cella
del Gambara, anche alla vista del letto vuoto del conte. Ecco! Ecco!
Esattamente come aveva sospettato! Quel porco d’un nobilastro
gli aveva
sottratto il suo prigioniero e per di più da sotto il naso!
“Parla
disgraziato! Dov’è diavolo è finito il
conte di Gambara?”,
pigliò Mercurio un frate per il saio, scrollandolo talmente
forte manco volesse
staccargli la testa.
“In
… infermeria …”, tartagliò
quegli atterrito. “Non … non stava
molto bene e … Fra’ Anselmo gli sta dando qualche
rimedio …”
“Per
la salute del tuo corpo mortale, prega Dio che sia
così!”,
s’augurò il Bua, mollando sgarbatamente la presa e
gettando il monaco tra le
braccia dei suoi spaventati confratelli, per poi virare alla stregua
d’un
ossesso alla meta designata.
Oh beh,
dall’infermeria al camposanto il passo era breve e
Mercurio si sarebbe d’esso assicurato …
L’odore
di minestra solleticò le nari di Hironimo, invitandolo a
sbirciarsi attorno: lo stanzone era rimasto sempre uguale, coi suoi
ammalati
tossicolosi o dormienti, i benedettini che giravano tra i letti onde
assisterli
e Fra’ Anselmo impegnato a sorvegliare la distribuzione
adesso del pranzo.
Si
sorprese di trovare lì anche il conte Gianfrancesco di
Gambara,
dalla cui espressione meravigliata egli dedusse condividere il suo
stupore.
Memore della loro ultima conversazione, il giovane finse di non
accorgersi di
lui, chiudendo lesto gli occhi. Peccato che il nobile avesse altre
intenzioni.
“Prendete,
avete perso troppo peso, dovete nutrivi se volete
arrivare vivo a Treviso”, gli porse una scodella fumante,
provocandogli
l’allettante profumino un’ondata di saliva
nonché un rumoroso gorgoglio
d’approvazione nel suo stomaco. “E’ dei
monaci”, lo rassicurò scherzosamente il
Gambara, alludendo a come l’orgoglioso patrizio rifiutasse
ogni aiuto da parte
di un traditore, fatto confermato dalla sua palese riluttanza
nell’accettare la
minestra.
Si
trattò di un brevissimo scrupolo di coscienza: il bresciano
aveva appena terminato di parlare e già Hironimo gli
sottraeva cupido la
scodella, gettandovisi a pesce in barba al liquido bollente che gli
ustionava
la lingua. “Anche al piccino!”,
l’ammonì ferino, indicando Thomà, pure
lui
svegliato dall’odore di zuppa.
E mentre
il conte serviva il villano (oh, l’ironia!), Hironimo ne
approfittò per studiarsi segretamente il Gambara,
cercandogli in faccia il
motivo per quella bizzarra compassione nei suoi confronti e scovandovi
al
momento soltanto una tinta ancor più gialla, quasi verde,
rispetto a quella del
giorno precedente. Piccole gocciole di sudore gli ammorbidivano i
capelli
ingrigiti, divenutegli le occhiaie più profonde e scure
così come gli occhi
vitrei s’erano ulteriormente arrossati.
“Ecco”,
cedette il nobile il piatto a Thomà, ma prima che
quest’ultimo potesse soddisfare la sua fame, Miani lo
bloccò, domandandogli:
“Cossa
te disi al sior conte?”
“A
la bon’horra che te me davi da magnar!”
Gianfrancesco
di Gambara corrugò accigliato la fronte, affatto
compiaciuto di tanta cafonaggine, Miani invece sogghignò
divertito sulla sua
zuppa.
“Vi
vedo male, signor Conte: l’aria della Marca non vi
giova?”,
gli domandò beffardo. “E meno male che dovevo
esser io, quello bisognoso del
vostro aiuto!”
“Io
sarò ammalato, ma voi rimanete prigioniero”,
scrollò incurante
le spalle il conte Gianfrancesco.
“Della
mia sorte che v’en cale?”, ribatté
aggressivo Hironimo, non
sopportando il paternalismo da parte del nobile.
“Di
voi non m’importa un granché”,
replicò impietoso quegli,
“piuttosto dell’intero quadro generale.”
Bruciandogli
le gote dall’ira, il giovane patrizio ingoiò una
rispostaccia assai ingiuriosa, la parte calcolatrice di lui che gli
suggeriva
di portar pazienza e ascoltare quanto il bresciano avesse da dire.
Nella sua
mente quelle frasi ambigue incominciavano ad incastrarsi e a prender
forma, la
quale avrebbe ben potuto giovargli a lungo termine. Ciononostante, onde
non
fallare né cadere in un tranello, bisognava giocar fino e
seguitare a
comportarsi ostilmente. Il Gambara doveva sbilanciarsi per primo, non
lui.
“Ah
sì?”, sbuffò Hironimo, inchiodando il
suo sguardo con quello
del conte Gianfrancesco. “E quale sarebbe il quadro
generale?”
“Niente
assicura l’esito di una guerra, tranne la Fortuna”,
gli
spiegò sibillino l’uomo.
“Sicché
voi state cercando d’accaparravi la vostra, di
Fortuna?”
“Ho
buone ragioni di temere il futuro senza di essa”,
nicchiò il
bresciano, sedendosi accanto al Miani. “Noi tutti abbiamo
qualcuno da cui ritornare,
no?”
A che
cosa il di Gambara alludesse, se ad uno schieramento politico
o semplicemente alla famiglia, Hironimo non ebbe il tempo di domandare
delucidazioni, giacché un maremoto umano investì
in pieno entrambi.
Avvenne
tutto troppo in fretta anche solo per rendersene conto,
figurarsi per reagire: un attimo prima il veneziano stava discutendo
col nobile,
l’attimo dopo quest’ultimo giaceva per terra,
reggendosi la spalla dolorante e
inveendo contro il nuovo arrivato, mentre il patrizio si trovava
subitaneamente
avvinghiato da una stretta ferrea e, sollevato da terra, trascinato via
di peso
dall’infermeria, malgrado si dimenasse e scalciasse
forsennatamente, inseguito
dal tonante rimbombo delle urla di protesta del conte Gianfrancesco, di
Fra’
Anselmo e di Thomà.
“Cori
a ciamar l’Abbas! Cori a ciamar l’Abbas! Eo copa!
Eo copa!”
La sua
visione ritornò stabile solamente quando sbatté
la faccia
contro il pavimento. Tentò di riconoscere
l’ambiente che lo circondava, notando
soltanto mura bianche, un letto e un tavolo piuttosto dozzinale. Di
riflesso,
si pose a gattoni per balzare in piedi e correre via,
sennonché si ritrovò
ghermito per una spalla e rigirato brutalmente supino, un avambraccio
premuto
sulla gola e la faccia di Mercurio Bua a qualche pollice dalla sua,
quest’ultimo con una tale espressione raccapricciante, manco
l’avesse rubata al
diavolo in persona.
“Che
brigavi tu col Gambara?”, l’assordò per
poco l’albanese, i
denti ben in mostra.
“Cosa?
Cosa?”, fu l’unica intelligente replica che
poté fornirgli
Hironimo, la cui visione si stava oscurando di macchie gialle e nere,
sia per
la pressione al collo sia per il peso del corpo del condottiero
sistematosi a
cavalcioni sopra di lui: non avrà forse questi indossato
l’intera armatura,
avendo infatti indosso solo il corsaletto, però di certo non
era neppure una
piuma per il fisico provato del giovane.
Accorgendosi
dello sguardo sempre più vacuo del suo prigioniero,
Mercurio sostituì il suo avambraccio col pugnale, premendone
la punta sulla
pelle già arrossata. “Come accidenti sei uscito
dalla cella? Chi ti ha sfondato
la porta? Chi ti ha aiutato? I monaci? Quel bresciano?”
“Sono
stato io! Sono stato io!”, gracchiò Miani tra un
colpo e
l’altro di tosse, giungendogli il fiato poco e male nei
polmoni. “Non mi ha
aiutato nessuno!”, s’affrettò a chiarire
cosicché lo stradiota terminasse lì la
questione e si schiodasse da lui, magnanimamente concedendogli di
ritornare dal
suo fantolino ammalato.
Una
pingue goccia di sangue gli scivolò dal collo, imbrattando
la
camicia e parte del pavimento.
“Dunque,
come mai ti trovavi in infermeria col Gambara?”,
sibilò
minaccioso Mercurio, strisciando la punta del pugnale dalla gola su
fino al
mento, soffermandosi dolorosamente sul labbro inferiore del giovane.
“Vi siete
dati convegno?”
“Ci
siamo imbattuti lì per caso; quello là mi ha solo
dato un
piatto di minestra e m’ha raccontato due o tre bagatelle che
t’assicuro manco
m’han divertito!”, confessò celere
Hironimo un riassunto di quanto avvenuto,
ovviamente omettendo quei piccoli particolari compromettenti, che
però non
toglievano alcuna veridicità al suo racconto: sul serio non
aveva pianificato
nulla col bresciano, ogni cosa era frutto di una sfortunata
coincidenza.
Purtroppo
per lui, Mercurio Bua apparteneva a quella categorie di
persone perennemente convinte delle proprie ragioni, che non concedono
mai il
beneficio del dubbio. Sicché, afferrato il patrizio per il
bordo della camicia,
gli sbraitò contro feroce: “E quando
t’ho permesso di parlargli? Di stare in
sua compagnia? Di guardarlo?”
Un
famigliare schiocco al cervello azzerò la parte
conciliatrice
del Miani, il cui viso si tinse di scarlatto e non solo
perché, a furia di
sbatacchiarlo, il sangue gli rifluiva malamente per le vene:
“Hé! Oh! Queste tue
patetiche gelosie risparmiale a quella poveraccia di tua
moglie!”
Il
condottiero si staccò da lui come scottato, ansimando
lievemente, quasi Hironimo l’avesse colto in fallo su
qualcosa allo stradiota
soltanto noto. Quand’ecco che una maschera di animalesca
furia cacciò via
quella confusa ed in un battibaleno, per l’ennesima volta, il
giovane si
ritrovò martoriato da quelle tenaglie di mani.
Mercurio
l’aveva infatti strattonato per il braccio destro,
d’istinto levato in alto dal Miani per difendersi da un
eventuale cazzotto, e rimesso
forzatamente in piedi l’aveva condotto fino al tavolo dove lo
costrinse a
piegarsi in avanti su di esso, tenendogli sempre il braccio premuto
dietro la
schiena.
“Tu
credi di continuare a fare lo spiritoso, eh? Tu credi di fare
all’infinito lo spiritoso con me?”, gli
sussurrò dolcemente perfido il
capitano, torcendogli dolorosamente l’arto.
“M’hai forse scambiato per un
Giobbe?”, e flesse di nuovo. Il veneziano strinse caparbio le
labbra dal
dolore. “Va bene, d’accordo, abbiamo scherzato, ce
la siamo un poco spassata,
ci siamo fatti qualche risata ma adesso basta! Mi stai decisamente
stufando! Tu
sei un prigioniero, la cui vita dipende da un mio sì e un
mio no! Non mi costa
nulla tagliarti la gola né ordinare di spedire a tua madre
un tuo pezzo alla
volta, cosicché lei si diverta a ricomporti!”,
ringhiò. “Chi ti credi di
essere? Uh? Superiore? A me? E in quale modo? Non hai più un
castello, né una
spada, né una famiglia, né amici, non hai nulla, non sei nulla! Se sei vivo non
è per merito tuo, bensì per un mio
capriccio!”
Hironimo
deglutì un singulto di rabbia e umiliazione, ferito
più
da quelle crudeli parole che dalle sevizie dell’albanese.
“Suvvia,
parla: come sei uscito da quella cella?”
“Ho
sfondato la porta, te l’ho già detto!”
“Con
questo tuo ammasso di pelle ed ossa?”
“E’
la verità, perché ti dovrei mentire?”
“Che
negozi hai con Gianfrancesco di Gambara?”
“Cosa?”
“Che
accordi!”
“Nessuno!”
“Neghi
di avergli parlato?!”
“Solo
per insultarlo!”
“Neghi
di essere combutta con lui?”
“Nego!
Le tue prove?”
Mercurio
s’appoggiò di peso col gomito in mezzo alle
scapole del
giovane, tirandogli all’indietro il braccio destro che
costrinse ad un arco
innaturale e Hironimo spalancò la bocca in un grido nato
morto, le vene del
collo ingrossate dal suo sforzo di non urlare.
“Troia
bugiarda, vi ho pizzicati a confabulare assieme
l’altroieri, quand’eravamo in marcia! Cosa gli hai
promesso in cambio della
libertà?”, insistette nel suo interrogatorio
l’inflessibile albanese. “Soldi?”,
strattonò egli il braccio. “Il perdono della
Serenissima Signoria?” un’altra strappata.
“Il tuo culo?”, glielo palpò volgarmente
esplicito e se non fosse stato
impegnato a contorcersi da atrocissimi spasimi di dolore, Miani si
sarebbe
anche offeso per quelle indecenti illazioni.
“Figurati
…”, boccheggiò, la bocca che gli
tremava e la visione
vacillava a causa dei nervi impazziti, “figurati se
… se voglio qualcosa da …
da un traditore! Figurati …”, sibilò,
collera e paura che gli annebbiavano il
cervello, imbevendolo di suicida temerarietà,
“figurati se ricorro ai tuoi
stessi metodi per … per
… per mio
profitto! Conferma … su conferma
quant’è piaciuto farti … farti fottere
da
Massimiliano!”, e rise isterico, cangiando in un singulto al
logico strappo al
braccio che ne conseguì.
“Un
altro insulto e ingoierai il tuo medesimo cazzo!”
“Le
tue minacce … non cambieranno mai il fatto che tu sei
… e
resti … una
lurida baldracca, ognora … pronta
a … a vendersi al miglior offerente!”,
gridò Hironimo, talmente intontito dal
dolore da parlare a ruota libera. “Non … non mi
predicare l’onore … quando tu …
per denaro … hai
volentieri abbassato
testa e braghe!”
Il Bua
allentò un poco la presa, concedendo un attimo di respiro
al prigioniero, difficile affermare se per stanchezza del suo di
braccio o se
trafitto da quella cinica osservazione.
“Bah,
insulti noi condottieri proprio come i Francesi ingiuriarono
i Tredici ai tempi della disfida di Barletta …”
“Sai
… quanto me ne frega dei … Francesi
… dei
Tredici e … e di Barletta? Per quel che mi
concerne … si possono anche gettare …
allegramente da uno scoglio! Io … mi
sto riferendo a te, Mercurio Bua Spata … a
te … e a te soltanto!”
“Ho
le mie ragioni e non sono tenuto a giustificartele!”
“Dunque
… sii altrettanto grazioso … da
non tediarmi … coi
tuoi moralismi della malora!”
Un
tesissimo silenzio s’impose tra i due uomini, rotto dai
rispettivi respiri irregolari e pesanti: quello di Hironimo a causa
della
sevizia subita, quello di Mercurio per la rabbia che quel disgraziato
s’ostinava a pungolargli in petto. Se non avesse purtroppo
avuto bisogno di lui
per lo scambio, a quest’ora l’avrebbe
già tagliato in piccole strisce di carne,
distribuite poi ai porci.
Schiacciandogli
ulteriormente il busto contro il tavolo grazie al
peso del suo corsaletto sulla schiena, l’albanese non demorse
nel suo intento
di scoprire il nesso tra la quasi-fuga del prigioniero e il fitto
cicalare col
conte bresciano. “Cosa stavi tramando col
Gambara?”, gli sussurrò all’orecchio,
torcendogli il polso del quale da tempo ormai Miani aveva perduto ogni
sensibilità, pizzicandogli la punta delle dite informicolate.
“Niente
…! Se mi stessi … seriamente ad …
ascoltare, ti … accorgeresti
che non … sto mentendo!”
“Perché
ti trovavi allora in infermeria con lui? Chi ti ci ha
portato?”
“Nessuno,
te lo … giuro! È … venuto dopo
… non so quando … forse
mentre dormivo! È malato … non te ne sei reso
conto? Non hai visto la sua
faccia da … cadavere?”
In
effetti, il tarlo del dubbio incominciava ad insinuarsi in
Mercurio, rivalutando la sua mente ogni singola noticina stonata in
quella
grottesca gagliarda. Purgatosi della frustrazione degli ultimi
fallimenti,
dello spavento per aver perduto una merce così preziosa di
scambio, nonché dei
brutti ricordi legati ad una diserzione di massa, adesso il condottiero
poteva
analizzare la situazione con maggior freddezza e si
rimproverò della sua ottusità
per non aver considerato l’elemento più palese,
che avrebbe scagionato i due
italiani.
“Ammettiamo
che tu abbia sfondato quella porta. Perché non sei
scappato?”
Ovvio no?
Un prigioniero quello fa, alla prima occasione propizia
fugge. Invece, il Bua aveva ritrovato il patrizio in infermeria, mossa
non
proprio intelligente, specie se il Gambara era suo complice. Non se ne
sarebbero rimasti lì a chiacchierare. Sarebbero balzati sui
primi due cavalli
disponibili per galoppare in un sol sorso fino a Treviso.
“Con
tutti … i tuoi uomini attaccati al mio culo …
come … come sarei
riuscito … secondo te … a scappare?”
Un altro
valido punto a favore del veneziano. Al suo ingresso in
Abbazia il Bua aveva lasciato Zilio Madalo ed altri suoi fedelissimi e
nessuno
di loro aveva accennato ad una fuga. Al contrario, pure
l’avevano guardato
straniti manco stesse scherzando.
Hironimo
ansimò e deglutì a fatica, flettendo le gambe
onde
scivolare giù dal tavolo e dalla presa del condottiero che,
accorgendosene,
aumentò la sua presa su di lui, bloccandolo e premendogli
con maggior vigore il
bacino contro il bordo del tavolo. “Il … piccino
stava male”, gli rivelò, il
fiato mozzo. “Siccome nessuno rispondeva … ai miei
richiami, ho … dovuto
prendere in mano la situazione e …
portarlo dal frate … Questo è quanto …
Non ho mai … concepito di fuggire …” Non con Thomà ammalato.
“Così
tu avresti combinato questo gioioso bordello per salvare la
vita a quel moccioso?”, riassunse sardonico Mercurio,
scuotendo ilare il capo.
“Ti rendi conto di quante stronzate stai
vaneggiando?”
“E
perché no?”, lo sfidò indefesso Miani.
“Gli voglio bene … è mio
figlio!”
“Tu
non hai alcun figlio!”
“E’
come se lo fosse!”
Mercurio
rise gutturalmente, il viso deturpato improvvisamente da
una smorfia cattiva, maliziosa. “La sai una cosa? Secondo me
il motivo è un
altro. Secondo me”, e gli pigiò con maggior forza
il gomito sulla schiena,
strappandogli l’ennesimo mugolo di dolore, “questo
tuo ardore nel difendere il
marmocchio non deriva dall’amore, che tu nutri nei suoi
confronti, bensì dal
senso di colpa. Meglio ancora: lo fai per addolcire il peso del tuo fallimento. Non hai saputo difendere
Castelnuovo di Quero, non hai saputo difendere i tuoi soldati dalla
sconfitta e
dalla morte. L’unico appiglio di redenzione che ti resta
è questo bambino, cui
tu ti sei aggrappato ferocemente per mitigare il fatto che non sei
altro che un
inetto, bravo soltanto a parlare, ma poi ai fatti vali ben poca cosa.
Che mi
vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la
sorte
della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi
disgusti!”
Hironimo
sperò ardentemente che la lacrima colatagli sulla guancia
fosse stata provocata dalla torsione al braccio. Lo sperava con ogni
fibra del
suo essere, malgrado sapesse corrispondere ad una bugia. Il giovane
batté la
fronte sul tavolo: la terra gli era testimone, non avrebbe dato a quel
maledetto alcuna soddisfazione della sua pena interiore. “Sei
odioso!”, sputò
aspro onde mascherare l’instabilità della sua voce.
“E’
questo il meglio che sai fare?”, lo sfotté il
condottiero
stradiota.
Il
patrizio veneziano ridacchiò crudele. “Le stesse
parole
ripetute … da tua moglie … il
dì in cui
lei scappò via … da te?”, lo
provocò, giacché per lui era più
facile gestire
Mercurio Bua nell’ira cieca del tormento fisico che in quello
razionale e
gelido del tormento mentale.
Così
fu.
Hironimo
perse sia ogni cognizione del tempo sia dei pugni ricevuti
da Mercurio Bua; seppe soltanto che non riusciva nemmeno a stare in
piedi
quando, stancatosi dei suoi vani tentativi, l’albanese
dovette issarselo sulla
spalla per trasportarlo al suo nuovo carcere. Ogni parte del suo corpo
bruciava
di dolore e dappertutto odorava il ferro del sangue.
“Possibile
che con te sia impossibile conversare civilmente?”,
sbuffò il condottiero, uscendo in cortile e dirigendosi
verso un modesto
edificio. “Ché? Non hai più nulla da
dire, adesso?”
In
realtà Miani ne aveva anche fin troppe da cantargliene, se
non
si fosse ritrovato una faccia talmente gonfia, da fargli male anche
solo aprire
la bocca. Fortunatamente, la sua lingua aveva contato tutti i denti al
loro
posto. Aveva invece fallito a controllarsi il naso, anche
perché le sue braccia
non gli rispondevano più, dondolando penzoloni sulla schiena
del Bua.
“Via
quella faccia da monachella oltraggiata! Una buona dormita e
domani t’è passato tutto!”
Il
patrizio gorgogliò qualcosa d’inintelligibile,
sputando sangue,
saliva e catarro.
“Eccoci
arrivati. Ora potrai soggiornare coi tuoi simili, così non
soffrirai più di solitudine!”
Una
disgustosa pozzanghera di fieno, melma e feci avvolse Hironimo
nel suo nauseabondo e bagnato tanfo, laddove Mercurio l’aveva
gettato senza
tante cerimonie, creando poi un certo scompiglio tra le ignare mucche
le quali
muggirono il loro dissenso, battendogli ansiose gli zoccoli per terra.
“Non
sei contento? Potevo gettarti in un porcile, sai?
Fortunatamente per te, non voglio correre il rischio che tu finisca
sbranato
dai maiali”, s’informò melenso
l’albanese, mentre costringeva il giovane seduto
contro il muro della stalla, fissando le catene su di un cerchio in
modo che il
prigioniero si ritrovasse le braccia bene in alto. “Cosa si
dice?”
Fottiti! ,
gli
comunicarono i suoi occhi neri nella più velenosa delle sue
occhiatacce,
dolendogli troppo i muscoli facciali per farlo ad alta voce.
“Una
o due notti di riflessione ti gioveranno. E se proprio vuoi
annoiare qualcuno con le tue corbellerie, guarda, sei circondato da un
pubblico
molto accondiscendente”, gli spiegò Mercurio con
falsa cortesia, allargando le
braccia e indicando le ineffabili vacche. Chinandosi su di lui, gli
afferrò il
mento e gli confessò con sinistro entusiasmo:
“Riuscirò a piegarti, carino,
vedrai se non ti leverò questa dannata tua spocchia dagli
occhi!” Non voleva
leggervi lo sguardo di Caterina, non quando continuava a perseguitarlo,
rinfacciandogli ogni suo errore. “Azzarda un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il
marmocchio, lavandoti la faccia col
suo sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio
avvertimento!”, gli promise mortalmente
serio, mollando bruscamente la presa. Rimessosi in piedi e sogghignando
malevolo,
il condottiero uscì dalla stalla, sbattendo rumorosamente la
porta per sommo
chagrin delle mucche, che muggirono nuovamente il loro disagio.
Questo lo
vedremo! Ti ammazzerò, giuro che piscerò sulla
tua testa mozzata!, scoppiò
Hironimo ringhiando in uno sconquassante pianto di frustrazione,
strattonando
impotente le catene, furente, solo, umiliato, il viso ridotto ad una
maschera di
lividi, lacrime e sangue.
Avrebbe
trovato il modo di fuggire, così da dargliela
definitivamente sui corni a quel dannato! Fosse stata
l’ultima cosa ch’avesse
fatto in vita sua!
Ma prima,
doveva darsi una bella calmata e far buon viso a cattivo
gioco.
L’albanese
poteva vantarsi d’esser un uomo di mondo, ma Hironimo
proveniva dalla città del Carnevale laddove, per tre mesi,
ognuno assumeva
un’identità fasulla, a piacimento.
Si
recitasse dunque quella del prigioniero mite e rassegnato.
Tranquillizzatosi
e regolando il respiro, Miani si nettò con la
lingua il naso colante di sangue, sorridendo sghembo: costasse quel che
costasse, l’ultima risata l’avrebbe avuta lui.
***
Da
Sacile, riassunto delle lettere di sier Marco da cha’ da
Pexaro, podestà e
capitano, e di domino Antonio Savorgnan.
I nimici
hanno passà la Piave e auto Conejan, qual era stà
abandonato. Sier Hironimo Marzelo, podestà, era venuto
lì, a Sazil, et domino
Baldisera di Scipioni; scriveno, si mandi fanti de lì e si
provedi. Et per
colegio fo terminato, che Damian di Tarsia, era qui, facesse
… fanti qui et
andasse a Zazil, e cussì la matina sequente a San Zacharia
sier Lucha Trum,
executor, andò a expedirlo et dar danari a li fanti.
Da
Treviso, riassunto delle lettere di sier Zuam Paulo Gradenigo,
provveditore
generale, e di sier Lunardo Zustignan.
[…]
in consonantia, todeschi haveano passà la Piave et francesi
no, imo haveano fato comandamento e cride, niun de’ francesi
non passasse e
tutti li venturieri si partisseno de lì di campo. Item, che
sacomani andavano per
le ville dimandando lemosina di pan, et vivevano de vua, e che al
presente
saria il tempo di darli adosso dividendossi cussì, e il
campo, è in Padoa,
venisse a Noal.
Continua
…
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E
rieccoci qua ad un anno esatto dal primo capitolo (prologo):
27.09. 2019 – 27.09.2020!
Anniversari
a parte, adesso ci inoltreremo nella parte meno
piacevole della storia: come detto giustamente da Mercurio Bua, abbiamo
riso e
scherzato, ma sarà sempre di meno.
Ringraziamo
Semperinfelix per le dritte che sempre ci dà e che di
recente è divenuta madrina, avendo infatti nomato
Fra’ Anselmo visto che il
Sanudo ha un po’ il vizietto di lasciare alcuni personaggi
anonimi.
Di nuovo,
mi dispiace per i germanofili ma in questa guerra i
tedeschi proprio hanno fatto una figura barbina, così come
il La Palisse era
veramente maltrattato da tutti, non sono io che mi accanisco. Quanto alle vicende di Feltre, ogni lettore trarrà le sue conclusioni.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Breve
ripasso del martirologio dei santi citati: a San
Sebastiano vennero prima scagliate
tante frecce da parte dei suoi stessi arcieri, da crederlo morto;
guarito dalla
vedova Irene, ritornò ad accusare Diocleziano che lo fece
bastonare a morte. San Giorgio sconfisse
il drago
infilzandolo con la sua lancia e subì il martirio tramite
decapitazione; a Sant’Erasmo vennero
cavate le budella e San Floriano
venne gettato in fiume con
una macina al collo.