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Autore: Hoel    27/09/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Ecco qua il sedicesimo capitolo!

Ulteriori note si trovavano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.

Avvertimenti: linguaggio scurrile, scene piuttosto truculente, totale assenza delle Convenzioni di Ginevra e altre peculiarità.

Un ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94, Semperinfelix e Mrosaria. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.

Se vi chiedete come mai non rispondo alle recensioni di Sagitta72 (che sempre ringrazio), si tratta di un semplice accordo preso da entrambe: è più divertente risponderci e commentarle dal vivo!

Vi auguro una buona lettura,

H.

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Capitolo Sedicesimo

14-15 settembre 1511

 

 

 

 

 

Un timido vento disperdeva i miasmi di legno bruciato misto a polvere da sparo, animando l’altrettanto timida aquila nera imperiale a due teste sovrastante la città dalla torre civile, la quale pareva voler spiccare il volo onde evitare la sorte delle sue sorelle cadute preda dei suoi mortali nemici e da loro strappate, dileggiate e bruciate senza pietà alcuna.

Un giovane soldato le comparve alle spalle, recidendo con trionfante gusto i legacci che la reggevano all’asta e tosto l’aquila tedesca sì volteggiò cullata dal vento settembrino, però per cader in ipnotici e vorticosi cerchi giù dalla torre, ai cui piedi altri soldati l’attendevano in avida attesa di ghermirla e sfoggiarla prigioniera, essendo lei la più importante.

“Crepa! Crepa maladeta!”, urlavano questi, sputandoci sopra mentre un loro compare la piegava, deponendola sul carro dei vincitori, là dove avevano ammassato viveri e prigionieri.

Dall’alto della torre il ragazzo rideva sguaiatamente, contagiato dall’euforia dei suoi compagni, intanto che si scioglieva dalla vita il secondo vessillo ed ecco che il leone dorato ritornò a sventolare nell’aria, ruggendo al cielo in un fruscio di stoffa.

“Marco! Marco! Vitoria! Vitoria!”

Dal palazzo pretorio della liberata Castelfranco, sier Ferigo Contarini assisteva all’intera operazione assai compiaciuto, provando anch’egli un piacere quasi fisico alla vista del vessillo tedesco rimpiazzato da quello veneziano, non dissimile dall’orgasmo raggiunto dopo un amplesso assai focoso e diamine se di fuoco ce n’era stato in quell’assedio, lo dimostravano i resti carbonizzati della porta cittadina e dei forni costruiti dai Franco-Imperiali per cuocere il pane.

Il morale altissimo per quella schiacciante vittoria e il pingue bottino gli avevano cancellato ogni fatica del combattimento, nonché di una notte intera trascorsa in sella. Sicché, approfittando quindi dei festeggiamenti dei suoi uomini e della spartizione tra essi della preda di guerra, il giovane provveditore degli stradioti si portò allo scrittoio per scrivere una lettera a suo fratello minore Marco Antonio, così da informarlo dei recenti avvenimenti prima ancora dei provveditori di Padova sier Christophal Moro e sier Polo Capello, cui il Contarini doveva far rapporto.

 

Magnifice ac generose frater carissime

 

Come già scrittovi, cavalcai tutto ieri fino a portami a Campo San Piero con 500 cavalli tra balestrieri e stradioti, appartenenti questi alla compagnia del signor Jannes da Campo Fregoso. Giunto che fui al campo, intesi come una scorta di nemici dovesse venire a prelevare otto cassoni di pane da Castel Francho, laddove veniva appunto preparato. A tal proposito levai il campo a mezzanotte e cavalcai fino all’alba.

Stamattina mi imboscai a due miglia o più sopra Castel Francho ed ebbi la fortunata intuizione di far sorvegliare ogni strada conducente alla città acciocché venendo il drappello nemico, questi si scontrasse con noialtri. Lì stetti nascosto per circa sei ore, senza che tuttavia alcun nemico si facesse vivo. Esplorai allora un tratto più avanti, circa sei miglia oltre Asolo, allo scopo d’apprendere maggiori informazioni sul campo nemico, operazione finora impossibile giacché dopo l’occupazione il paese era rimasto disabitato. Inviai dunque 50 stradioti con l’ordine di assaltare il campo, ossia di catturare qualche prigioniero, onde scoprire l’ubicazione esatta del nuovo campo e affinché il nemico non facesse ritorno a quello vecchio, sapendolo vulnerabile.

Ritornati indietro, galoppammo di corsa alle porte di Castel Francho e lì diedi il segnale d’ingaggiar battaglia e appiccare il fuoco alla porta d’ingresso tanto che nell’arco di due ore entravamo in città, dove catturammo il luogotenente – un gentiluomo di Pavia –  20 fanti, 12 cavalli e 8 fornai che rifornivano di pane il campo nemico.

Feci saccheggiare tutto il pane che si trovava nei magazzini così come i sacchi di farina e di biada, in modo che ogni stradiota e balestriere potesse caricare in abbondanza i propri cavalli, chi di pane, chi di farina, chi di biada. In aggiunta ordinai di distruggere 8 nuovi forni fatti costruire dai nemici (…)

 

“Come posso aiutarvi, signor Conte?”, non staccò sier Ferigo gli occhi dal tavolo sotto di sé, pur ripiegando in fretta e furia la lettera per infilarla in una piccola borsa appesa alla cintura sotto la scarsella dell’armatura.   

Guido Rangoni avanzò con delicata discrezione verso il provveditore, avendo infatti notato la maniera quasi protettiva con la quale questi aveva riposto via la missiva: si fosse trattato di un rapporto o a Padova o a Venezia, di certo non gli avrebbe riservato, seppur di sfuggita, quell’aria lievemente offesa tipica di chi viene disturbato in un attimo di privatezza.

“Il signor comandante Giano di Campofregoso mi manda a chiedervi istruzioni.”

“Sono stati caricati i carri di pane, farina e biada?”

“Sì.”

“I prigionieri?”

“Anche loro sui carri.”

Il Contarini s’accarezzò il mento, contemplando pensoso il cielo dalla finestra, le dita dell’altra mano tamburellanti sul cosciale. Perduta la tranquillità di scrivere senza interruzioni, già stava rimandando ad altra occasione il completamento della sua lettera.

“Sarà meglio ritornare a Camposampiero finché c’è luce”, gli suggerì il capitano modenese, “onde evitare stavolta d’imbatterci sul serio in un drappello nemico, col rischio che si riappropri dei viveri.”

Una pessima eventualità. “Concordo appieno”, sentenziò il patrizio, alzandosi e raccogliendo i guanti e l’elmo. “Non credo resti molto da fare qui al momento”, aggiunse un poco deluso, nel suo intimo desideroso di sottrarre al nemico ulteriori fortezze e città occupate, se non d’assaltare direttamente il loro campo e degolarli tutti, dai comandanti fino all’ultima delle loro puttane.

Magari una volta rientrati a Padova ne avrebbe discusso coi provveditori, se fosse il caso di concentrare i loro sforzi nella Marca in modo da provocare i Collegati e costì distoglierli dal loro proposito d’attaccare la Patria del Friuli. La situazione si presentava troppo spinosa, costellata di scelte difficili: Treviso o i confini a nord-est, nella speranza che nessuno dei capi lì cedesse al nemico se per sconfitta militare o viltà, giungendo a collaborare nello specifico cogli imperiali, conoscendo infatti il Contarini gli animi ghibellini di alcuni nobili friulani e degli Ampezzani, il cui atteggiamento ambiguo sempre aveva lasciato grandi incognite nel corso dei vari conflitti affrontati dalla Signoria. Sui Cadorini, al contrario, il giovane provveditore degli stradioti poteva metterci la mano sul fuoco, la loro lealtà solida e immota come le montagne e anzi, nulla dava più piacere a quella gente d’aggiungere i tedeschi alla loro lista di selvaggina da cacciare.

Il che gli riportò alla mente …

“Com’è parso a vostro fratello Francesco il suo primo assedio?”

Guido Rangoni avvertì la gola d’un tratto secca per quell’inaspettata e specifica menzione del suo cadetto. “E’ rimasto tutto il tempo accanto a me, sono sicuro che avrà avuto modo di imparare bene.”

Ferigo Contarini assottigliò gli occhi e il giovane conte si domandò freneticamente tra sé e sé quale ragionamento quella mente imprevedibile stesse rincorrendo. “Ne sono anch’io sicuro. Il signor Francesco si può ben dire fortunato d’aver avuto come esempio un uomo di somma integrità e valoroso, quale il vostro illustrissimo signor padre. Nonché voi, signor Conte”, asserì sibillino il patrizio, deambulando distrattamente, con quella sua solita placida camminata felina.

Il condottiero modenese reclinò attento il capo, in silenziosa attesa e nelle orecchio l’eco tambureggiante dei propri battiti cardiaci. Dove voleva arrivare il provveditore con quel suo bislacco discorso? Che c’entrava ora Francesco che letteralmente fino a ieri non aveva mai contato nulla come militare? 

“Eppure, i fratelli minori si rivelano sempre problematici, vero?”, fu la domanda retorica del veneziano, sulle labbra uno strano sorriso. Guido percepì una goccia di sudore scivolargli lentamente lungo la schiena. “Essendo appunto i più piccoli, i genitori non posseggono più né le forze né la pazienza riserbata ai maggiori e a quest’ultimi spetta l’ingrato compito di supplire per meglio educarli …”,  ridacchiò senza gusto. “Sarà per questo che i primogeniti tendenzialmente sono tra i più restii a sposarsi?”

Il Rangoni deglutì malamente la saliva, sforzandosi di ridere alla battuta e di modulare la voce onde mascherare il suo nervosismo. “Può darsi. Prima di far da padre ad eventuali figli miei effettivamente devo badare ai miei fratelli minori, i quali, lo ammetto, talvolta si dimostrano piuttosto giovani per questo mestiere …”

“Non esistono giovani nell’esercito, bensì soldati vincolati da chiari obblighi”, lo interruppe gelido il Contarini, il viso più duro della pietra, usando ora il medesimo tono che riserbava agli stradioti ai suoi ordini ribelli, prima di frustarli al primo palo disponibile. “Detto questo”, si portò egli talmente vicino a Guido che i loro fiati parvero mescolarsi, “fingerò di non aver ascoltato quanto udito a Camposampiero tra voi e vostro fratello. Citandovi, mi si spezzerebbe il cuore doverlo veder penzolare come Soncino Benzone”, gli confessò perentorio, allontanandosi dal condottiero cui mancò per poco di cadere in ginocchio, tale fu lo spavento che lo colse nell’udire quella rivelazione.

Come aveva fatto il provveditore a venir a conoscenza di quella loro assai privata conversazione?  Al punto di citargli verbatim le sue stesse parole?

Guido avvertì il viso avvampare e poi freddarsi da un improvviso reflusso di sangue, portandolo ad ansimare pesantemente, di colpo terrorizzato per la sorte del fratello e desideroso di scagionarlo a qualsiasi costo, con qualsiasi argomentazione.

Di nuovo, Ferigo lo anticipò, impedendogli di parlare tramite un deciso cenno della mano. “Non mi guardate con quella faccia né tantomeno perdete tempo in inutili giustificazioni. Non vi sto accusando d’alcunché, anzi, capisco benissimo i vostri crucci e per questo vi sto avvertendo. Anch’io ho un fratello più piccolo e m’è noto quanto i nostri minori possano agire e parlare sconsideratamente, neanche provassero gusto a tormentarci con le loro insensatezze”, disse sfoggiando un’espressione contraddittoriamente malinconica rispetto alle sue dure parole. Il patrizio spostò gli occhi dal volto del conte ai graffiti sulle pareti del palazzo pretorio. “L’amaro prezzo del nostro privilegio di primogeniti …”, mormorò più a sé che all’altro, estraendo un pugnale dalla fodera e con la punta andando a scalpellare dal muro una scritta al veneziano molesta.

“Che cosa fareste se un giorno il vostro cadetto dovesse tradirvi?”, ruppe Guido l’incomodo silenzio interpostosi tra loro due. Domandava sì per curiosità, ma soprattutto per cercar una consolante conferma che a questo mondo non sarebbe stato né il solo né il più reprobo dei fratelli ad agire così contro il suo stesso sangue. Chiedeva perché in cuor suo il giovane sapeva che nel Contarini aveva trovato uno spirito affine, che l’avrebbe compreso senza giudicarlo. “Come vi comportereste con lui?”

La lama del pugnale si bloccò improvvisamente sull’intonaco da esso grattugiato.

“Che cosa farei se Marco Antonio dovesse tradire la Signoria?”, ripeté Ferigo talmente incolore, che Guido temette la sua voce provenire dall’oltretomba. “Lo ucciderei con le mie stesse mani, onde punire sia lui che me stesso”, gli confidò e grugnì mentre imprimeva un’eccessiva forza contro il muro, staccando un grosso strato di malta che cadde rovinosamente per terra. “Ho risposto in maniera esaustiva alla vostra domanda?”, si voltò infine il provveditore verso il modenese, il quale osservando la mortale serietà sul viso di questi non poté non costatare la veridicità delle sue parole.

Nessuna punizione, giudicava infatti Ferigo, poteva per lui superare in crudeltà a quella di dover sopprimere di persona il suo amatissimo fratello, così da portare per sempre sulle spalle sia il peso del fratricidio sia dell’amaro rimpianto di non aver potuto impedire l’infamia del tradimento. Contrariamente a quanto affermato da Caino, il Contarini sì che si considerava il custode del suo diletto Marco Antonio.

“Se non v’incomoda, dopo aver fatto relazione ai provveditori sier Capello e sier Moro, vorrei dopodomani che m’accompagnaste a Venezia”, cambiò repentinamente discorso il patrizio. “O meglio, mi dovete accompagnare, poiché la vostra presenza è richiesta a Palazzo Ducale dal Serenissimo e dalla Signoria.”

In altre circostanze, Guido Rangoni sarebbe stato molto lusingato da quella convocazione; ora come ora, a seguito di tutti quei pesanti discorsi, era indeciso se gioirne o incominciare a preoccuparsi. “Per quale motivo, se posso chiedere?”

Il giovane provveditore degli stradioti sorrise a fior di labbra, giocherellando con la punta dei piedi coi pezzi di intonaco scalpellati via dal muro. “Per discutere della compagnia del fu governatore di Padova, domino Lucio Malvezzi”, fu la sua vaga spiegazione. “Chissà che voi e vostro fratello Francesco non possiate trarne qualche vantaggio, visto che il ragazzo s’è comportato davvero valorosamente in questo suo primo assedio … Uhm, che cos’abbiamo scritto qua? Hoch lebe der Kaiser Maximilian von Habsburg, Sieger des Löwen Venedigs …”, ripeté a voce alta Ferigo in un comico ed incerto tedesco lo scarabocchio che, a furia di grattare, aveva staccato via dalla parete e che ora giaceva scomposto a pezzi per terra. “Puoah, che sgradevole lingua barbara!”, commentò in sardonico disgusto e pestò malevolo la scritta, premendovi bene sopra il piede e triturando la malta in sottile polvere. “Dopo di voi, signor Conte”, fece cenno al nobile ad operazione completata, indicandogli la porta.

“Grazie mille.”

Fosse stato Guido Rangoni un’altra persona, dopo un tale confronto minimo avrebbe nutrito o risentimento o paura nei confronti del patrizio. Invece, da quel poco ch’era riuscito a determinare del suo carattere, appunto perché il Contarini l’aveva preso in disparte e ammonito laddove nessuno poteva fungere da scomodo testimone, appellandosi per di più al comune amore che portavano verso i loro fratelli minori, che il giovane condottiero sapeva di poter contare su di lui quasi come su di un amico.

 

(…) dopodiché mi riportai a Campo San Piero non avendo altro da concludere, anche perché ogni soldato, carico di bottino, voleva ben portaselo casa.

Altro non vi dico per ora: Iddio sia con voi!

 

Campo San Piero, 14 settembre 1511, ore 21.

Frater  Contarenus,

Stratiotarum Provisor

 

 

 

 

***

 

 

 

Fai il bravo, Thomà, comportati  in maniera degna della chiamata che hai ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, s’era raccomandata la nonna il giorno della sua Prima Comunione. Prega tanto Domine Iddio, la Madonna, i Santi Vittore e Corona e vedrai che non andrai mai all’inferno!

Com’è l’inferno, siora Nonna?

Un luogo dove brucia un eterno incendio, le fiamme talmente alte che ti squagliano il viso; dove i diavoli arpionano e infilzano le anime inermi dei dannati; dove né pietà né speranza esistono. Solo terrore, pianto e stridore di denti. Un luogo senza la luce di Dio.

E l’inferno Thomà l’aveva vissuto sulla sua pelle, altroché.

Forse perché senza saperlo egli era già morto e la sua breve vita talmente costellata di peccati, da precludergli il Padreterno il Paradiso, spedendolo appunto all’inferno. Altrimenti, il bambino non riusciva a spiegarsi come mai quella spirale di morte, distruzione e odio non giungesse mai al termine, laddove non sussisteva altra logica se non quella di versare quanto più sangue a seconda dell’offesa ricevuta. All’inizio aveva tentato di dissociarsi, considerando la guerra affare tra soldati ma poi …

Poi divenne questione personale, il sangue e la vendetta le uniche fonti di sollievo in un dolore inumano, un palliativo all’odio che gli consumava le giovanissime viscere, ammorbando ogni pensiero e divorandogli pezzo per pezzo la sua innocenza di bambino.

Thomà non vedeva alcun futuro, non si figurava adulto. Un tempo, felice e pieno d’amore, sognava d’apprendere il mestiere del nonno e del padre, di aprire la sua bottega, di sposare la figlioletta della vicina di casa e avere con lei tanti bei bimbi, grassi e morbidi come i suoi fratellini. Egli stesso avrebbe costruito la loro culla, si riprometteva.

Negli ultimi due anni, il fantolino aveva al contrario appreso a vivere alla giornata, a procurarsi il cibo e possibilmente la morte del nemico. Se da piccino era rimasto turbato durante la veglia funebre del nonno, adesso la vista di un cadavere lo lasciava totalmente indifferente; anzi, se si trattava di un tedesco pure lo rallegrava. Non distoglieva lo sguardo dai pezzi di carne umana schizzare a seguito dell’impatto della balota del cannone, semmai miscelava con maggior ardore le polveri come insegnatogli da Andrea Trepin il bombardiere. I rantoli, le bestemmie, l’odore acre del sangue e del fumo delle bocche di fuoco gli erano divenuti compagni di viaggio, assuefandosi ad essi. Soltanto il distante eco delle preghiere della nonna gli impedivano di sacramentare e anche perché, nelle cupe ore in cui gli mancava la mamma, lo consolava sapere che gliene fosse rimasta sempre Una che lo vegliava, anche se da distante.

Vivere, morire, uccidere; giusto o sbagliato che importanza avevano per lui? Tanto Dio aveva distolto lo sguardo dalla sua terra e la sua assenza aveva scatenato i diavoli, scesi dalle montagne apposta per tormentarli, a loro volta però dilaniati dalle stesse vittime trasformate in carnefici.

Thomà era uno di loro.

La prima volta fu il 3 agosto del 1509.

I Feltrini s’erano ribellati alla volontà dei loro nobili di sottomettersi ai Tedeschi e malgrado la città avesse accolto lo stesso Imperatore, già di soppiatto apriva le porte alle milizie veneziane per ritornare a San Marco.  La risposta degli Imperiali non tardò a farsi sentire e miracolosamente la famiglia di Thomà si salvò dal fiume di sangue che scorse nella sua Feltre, la loro modesta casa-bottega scampata all’occhio famelico e vendicativo dei tedeschi, non giudicandola essi degna di saccheggio. Tuttavia il bambino fagocitò per sempre nel suo cervello le urla dei 400 feltrini massacrati nel più brutale e infamante dei modi, il vagito dei bambini prima di venir strappati dalle loro isteriche madri, costrette ad assistere alla loro morte mentre venivano ripetutamente violentate. Gridavano a squarciagola al cielo, nella speranza di un miracolo che mai sarebbe avvenuto, invocando Dio come ultima suprema difesa.

All’epoca Thomà non vide niente, udì soltanto tra le braccia di sua nonna, la quale gli tappava la bocca acciocché non emettesse alcun suono e dunque credessero quelle bestie teutoniche vuota la casa. Quando poté uscire, gli parve di camminare in un cimitero a cielo aperto: le strade pregne d’un silenzio mefitico e di cadaveri mutilati, irriconoscibili, insidiati dagli magri cani randagi.  

Tra questi visi di gesso Thomà scoprì la bimbetta che aveva in progetto di sposare un giorno. Quante volte glielo aveva promesso, arrossendo imbronciato dinanzi ai bonari risolini della vicina e di sua madre? Thomà le accarezzò le trecce insanguinate, quante volte gliele aveva viste pettinate? Quante volte gliele aveva tirate per farle dispetto, ma in realtà perché voleva la sua attenzione?

Il Re dei Diavoli aveva fatto questo, quello schifoso austriaco dalla faccia da badile, che se n’era cavalcato tutto trionfo a Feltre, credendosi chissà chi. L’Ultimo Cavaliere lo soprannominavano, quel porco farcito di pura arroganza, entrato in città solamente perché i soliti ghibellini avevano cospirato in segreto ai danni della Signoria. Te Deum, aveva ordinato di cantare in Cattedrale, cosa voleva ringraziare Dio se manco aveva messo in gioco la sua vita per un istante? Ovvio che chi vince facile, poi al primo schiaffo si vuol vendicare più ferocemente. Perché la sua sconfitta è la prova della sua inettitudine.

A novembre dello stesso anno, con ancora il viso esangue della sua fantolina marchiato a fuoco nell’animo suo, Thomà aveva gioito del congiunto assalto dei Feltrini e Veneziani all’antico Castello di Alboino, nonché al massacro della seconda guarnigione lasciata da Maximilian, ivi asserragliatasi. Di essa sopravvissero soltanto il capitano e due soldati, trascinati dalla popolazione inferocita in piazza, Thomà in prima fila contro il parere materno. Dove vai? Cosa fai?, gli urlava dietro la sua mamma, ignorando di come il malvagio seme dell’odio già gli stesse germogliando nel cuore. Rise il bambino quando al capitano tedesco vennero cavati gli occhi coi ferri ardenti. Ai due soldati che ebbero in consegna il loro capitano, affinché lo consegnassero all’Imperatore, invece si limitarono ad amputare le mani. E Thomà rise ancora più forte.

Evidentemente, Dio lo punì per quello.

Erano i primi di luglio quando l’odiosa aquila a due teste si ripresentò alle porte di Feltre. Di nuovo Thomà s’era nascosto al solito posto, sotto una panca, ma stavolta i diavoli teutonici seppero dove scovare la sua famiglia. Questa volta vide il padre e i fratelli torturati prima di venir uccisi, vide lo stupro di madre e sorelle. Vide la povera sua nonna divenire cibo per cani. Vide gli stivali unti di fango e sangue avvicinarsi al suo nascondiglio, distruggerlo, si vide ghermito dal lanzichenecco e seppe che la sua vita finiva quel giorno.

A meno che …

Tempo addietro, durante una visita a dei parenti a Pedavena, Thomà aveva assistito alle pubbliche lamentazioni di un pastore, cui il lupo aveva sbranato alcune pecore. Maledette bestie! , aveva imprecato, mostrando loro le penzolanti gole aperte.

Bestia … bestia … Gli animali non possedevano spade, balestre, archibugi o cannoni, eppure uccidevano ugualmente.

Se non posso difendermi da essere umano, allora sarà da animale.

Thomà spalancò la bocca e azzannò il pomo d’Adamo del lanzichenecco. Era il 3 luglio 1510.

Il primo affondo si rivelò difficile, riempiendogli il sangue la gola, le nari e macchiandogli gli occhi, accecandolo e provocandogli un conato di vomito. Ma resistette, in nome della vendetta e della sopravvivenza. Il tedesco dimenandosi convulsamente tentava di scrollarselo di dosso, al che il bambino affondava con maggior vigore i denti nella carne, masticandola, trincerandola finché il muscolo non si staccò e Thomà lo sputò, mentre fiotti rossi e caldi gli inondavano la faccia. I due caddero in un tonfo assieme e il fantolino rubò al lanzichenecco il suo pugnale, per poi scappare via dalla finestra, gettandosi e cadendo su di uno cumulo di cadaveri. Tra essi Thomà si camuffò, avanzando difficoltosamente passo per passo, corpo per corpo, mentre una voluta di fumo saliva al cielo.

Poi furono le fiamme. Alte e grandi, peggio di una muraglia. Ovunque, inarrestabili, ingoiandosi case, chiese, conventi, persone. Thomà si gettò dentro le vasche d’’acqua gelida delle belle fontane lombardesche, riemergendo intirizzito, tossendo e annaspando avido d’ossigeno. Rabbrividendo attraversò la fornace ardente che s’era trasformata Feltre, i tetti sfrigolanti, i vetri che scoppiavano dalla pressione per poi vomitare fuoco, ogni segno dell’umano passaggio divorato, spazzato via, come se i Feltrini non fossero mai esistiti. Le ustionanti vampate di calore gli ribollivano il sangue nelle vene, però Thomà stringendo i denti correva verso Porta Oria, in direzione forse di Cividale di Belluno, che ne sapeva lui? Uscire, uscire dall’inferno doveva, ovunque, senza guardare i diavoli che con le loro lance arpionavano gente indifesa, ridendo e sghignazzando in quella loro ruvida lingua.

L’inferno, l’inferno in terra. E Thomà un’anima dannata, rincorso dai diavoli, seminudo, lordo di sangue e bagnato fradicio, la pelle nera di fuliggine da scambiarlo per un moretto, il pugnale ben stretto in pugno che mulinava per farsi largo tra la vegetazione, incurante dei rovi, delle ortiche, delle lacrime mischiate al sangue, della flemma che gli colava in bocca dal naso, del piscio che gli appiccicava le cosce.

Correva, piangeva – Mamma! Mamma! invocava la povera donna ridotta ormai a polvere al vento.

Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Per tre giorni e tre notti la città bruciò. A Cividale di Belluno, distante venticinque miglia, videro il cielo sopra Feltre tinto d’arancione, poi una possente e densa colonna di fumo e un silenzio di morte calare sulla vallata.

Bisognò attendere la primavera prima che Venezia si riprendesse Feltre, che coincise con l’arrivo di Thomà a Castelnuovo di Quero in qualità di assistente del bombardiere Andrea Trepin da Belluno e questo poco dopo l’insediamento a marzo del 1511 del nuovo castellano e reggente della fortezza sul Piave, sier Hironimo Miani q. sier Anzolo. Il fantolino aveva riconosciuto immediatamente il patronimico e il cognome, avendoli infatti “letti” ogniqualvolta la sua mamma attingeva l’acqua dalle fontane in Piazza Maggiore: era quello del podestà e capitano sier Anzolo Miani, colui che aveva difeso la città dal duca austriaco Sigmund von Habsburg nel lontano 1487, respingendo in pieno inverno la sua invasione e costì salvando la sua gente. Lo sai che tuo nonno e tuo papà costruirono la culla ai figli del Miani? , gli narrava orgogliosa la sua nonna, indicandogli lo stemma.  

Forse era un segno del destino che il figlio di un tal valente podestà e capitano fosse giunto da queste bande. Forse era il miracolo che serviva loro per sconfiggere i diavoli tedeschi, aveva giudicato Thomà il giorno delle presentazioni ufficiali col giovane Miani a Castelnuovo.

Ne rimase deluso.

Chi gli si era parato innanzi (impressione da tutti condivisa del resto) non era nient’altro se non un ragazzo. Per carità pieno di iniziative, di grinta, di sopportazione, indefesso lavoratore però sempre un ragazzo che aveva assistito a troppe carneficine in troppo poco tempo, un ragazzo spaventato che si nascondeva dietro alla rabbia per non sembrare da meno rispetto agli altri. E chi non lo era in quell’inferno?

Se il nuovo castellano non gli avesse ripetutamente urlato dietro manco un indemoniato, forse Thomà avrebbe potuto anche volergli bene e a rassicurarlo che non c’era vergogna nella paura, bastava solo vincerla con la crudeltà, pensava egli accarezzando il pugnale della sua prima vittima.

Perché sapete, Thomà aveva un segreto, tenuto nascosto anche ad Andrea Trepin che pur amava alla stregua d’un fratello. A questi aveva infatti raccontato soltanto di come avesse vissuto fino al loro incontro d’espedienti, tra furti e accattonaggio ora da solo ora in compagnia di qualche compaesano. Non gli aveva raccontato di Primiero, di ciò che lì combinò, anche se fu poca cosa a confronto degli altri Feltrini sfollati e impestati d’odio verso qualsiasi cosa fosse stata tedesca.

La valle di Primiero era governata dai Welsberg, nota famiglia legata alla casa d’Austria.

A Primiero si parlava tedesco, si scriveva in tedesco, si pregava in tedesco con preti tedeschi, i suoi minatori erano tedeschi e chissenefregava se condividevano il medesimo vescovado, chissenfregava se Primiero non aveva supportato l’eccidio di Feltre in alcun modo, anzi, aveva ribadito la sua amicizia. Agli occhi dei Feltrini gli abitanti della valle di Primiero erano tedeschi ergo odiosi sudditi del più odioso dei nemici, il Re dei Diavoli, Faccia da Badile, Maximilian von Habsburg.

Terre grasse, terre vergini dalla guerra, dalla fame, dalla distruzione. Felici e fertili terre tedesche.

Terre dell’Imperatore. Terre vicine.

Dopo mesi di vagabondaggi sopravvivendo alla stregua d’un animale, Thomà conosceva a menadito le strade per la Valsugana e incurante dei suoi dieci anni, più che volentieri assieme ad altri locali guidò i 2.500 fanti e 50 cavalieri feltrini che si misero in marcia, un esercito raccogliticcio ma assai motivato dal solo scopo della vendetta. Soldati improvvisati, gente che non aveva più nulla da perdere perché tutto aveva perduto, anima compresa.

I diavoli avevano distrutto il loro Paradiso, adesso avrebbero sfondato i cancelli del loro.

Penetrarono rapidamente nella Valsugana, poi nelle valli del Tesino, lasciandosi alle spalle incendi e brutali saccheggi, senza star tanto a guardar in faccia a chicchessia, sordi all’invocazioni di pietà, di pensar a Dio e al suo castigo. A chi toccava, toccava, assolutamente imparziali nell’elargire la morte.

Poi fu il turno di Primiero e che Dio avesse pietà delle anime loro, ché i Feltrini non ne ebbero. Settanta volte sette s’abbatté su di loro la vendetta di quella torma infuriata e incattivita dalle disgrazie subite per mano dei lanzichenecchi di Maximilian.

Come un branco di lupi rabbiosi i Feltrini si sfogarono sulle genti di Primiero, seminando il terrore nell’intera valle, battendo accuratamente villaggio dopo villaggio, spadroneggiandovi indisturbati finché, razziato il razziabile, lo incendiavano e passavano al successivo, inarrestabile masnada di senzadio che in ferocia poteva eguagliare quella dei Turchi. Nessuno si poteva dire al sicuro, non permisero a nessuno di scappar via.

Ovunque andassero, i Feltrini bruciavano, saccheggiavano, ammazzavano e Thomà sempre con loro. Era lì quando incendiarono la Bastia tirolese ad inizio della vallata. Era lì quando piombarono inaspettati sul primo villaggio, gettandosi voracemente sugli abitanti, estraendoli uno ad uno fuori dalle proprie case e trascinatoli nelle strade li scaraventavano contro i muri e li trasformarono in porcospini con frecce al posto degli aculei, come Diocleziano aveva ordinato agli arcieri di San Sebastiano. O similmente al drago di San Giorgio finivano infilzati dalle picche feltrine tra grugniti e grida agonizzanti. Qualcheduno si beccò persino il medesimo trattamento di Sant’Erasmo e San Floriano, neanche si volesse metter in scena qualche iperrealistico mistero o leggenda aurea. Se mancavano gli istrumenti, si suppliva con le mani, dipingendo le pareti con le cervella dei paesani. Oppure li defenestravano direttamente e torcendo col piede il collo ai disgraziati, completavano l’opera. L’impiccavano, li bruciavano vivi – oh, l’immaginazione non mancava ai Feltrini grazie all’arte appresa dai lanzichenecchi! [1]

Thomà diede una mano ai suoi concittadini a riutilizzare le federe dei cuscini come gran sacchi da riempire di cibo, vasellame, ori, argenti, di qualsiasi cosa o utile nell’immediato o come futura merce di scambio. Si riempì la scarsella di pane, fette di formaggio, di bottoni, di anelli, di collane; si arrotolò al collo giri di salsicce e un rosario d’ambra. Entrato in una chiesa, s’avvolse alla vita la tovaglia di seta bordata d’oro dell’altare e si riempì la fiaschetta di vino; quando il prete tentò d’indurlo alla ragione, il bambino gli puntò contro il pugnale, ferendogli di striscio la mano e berciando (anche se molto probabilmente l’uomo non capì niente): Taci, prete: vi siete bevuti il nostro vino, sbafati il nostro cibo, saccheggiato le nostre chiese! Adesso tocca a noi!  Thomà si tolse persino lo sfizio di lanciar merda sull’aquila asburgica dipinta nella Rathaus e di pisciare sullo stendardo e lo scudo scaraventati giù per il pubblico ludibrio.

S’ingozzò del ferocemente agognato cibo, seduto su di un materasso finito chissà come in strada, mentre assisteva a quella folle danza macabra, che gli ricordava vagamente la mattanza dei porci a San Giovanni. Nessuno ebbe il pudore d’allontanarlo quando, liquidati gli uomini, si decise di passare alle donne, ricambiando il favore che i tedeschi avevano riserbato a quelle dei Feltrini, costringendole a vergognose rusticità.

Tanto, la violenza in ogni sua manifestazione non turbava più l’anima del fantolino. Non si scompose neanche alla vista di un suo compaesano, da tutto il borgo suo conosciuto come un uomo mite e di gran cuore, avventarsi contro una madre che stava difendendo il suo figlioletto. Mein Kind!, gridava disperata la donna, Gnade! Gnade! Mein Kind! Es ist nur ein Kind! Nur ein Kind , piangeva, le braccia sanguinanti e piene di lividi levate in alto sia supplici sia in segno di resa.

Non ho più pietà! Non ho più figli! Non ho più moglie! Non ho più vita!, le ruggì dietro il feltrino tra amare lacrime, ghermendola per i capelli e sbattendole la testa su di una panca ad ogni esclamazione, finché il corpo della donna, dopo un violento spasmo, s’afflosciò privo di vita e la sua faccia divenne una poltiglia irriconoscibile; ciononostante, l’uomo seguitò imperterrito, ritrovandosi macchiato di sangue e cervella fino al gomito. Ansimando, si ritrasse singhiozzando dal cadavere, gli occhi spenti e vacui.

Dietro di te!, lo avvertì d’un tratto gridando Thomà e voltandosi di scatto il feltrino menò di riflesso un rapidissimo taglio di striscio, recidendo la carotide dell’assalitore alle sue spalle talmente a fondo, che si vedeva l’osso.

E così via per parecchi giorni. Stesso scenario, ma con facce nuove. Saccheggiare, ammazzare, bruciare. Saccheggiare, ammazzare, bruciare.

Infine, quando ebbero raggiunto un sufficiente numero di villaggi ridotti a macerie fumanti, i Feltrini si considerarono abbastanza satolli di vendetta e, con le mani e le vesti incrostate di sangue, se ne tornarono alla loro città di cenere, percorrendo trionfanti e carichi di bottino la via di Schenèr, con Thomà in mezzo al festoso corteo.

A quanto pareva, neppure quelle sue azioni piacquero a Dio, ed ecco che Castelnuovo di Quero malgrado la strenue difesa cadeva, il suo fratello d’anima Andrea Trepin moriva in combattimento e lui, finito prigioniero, s’era ammalato magari di peste o di polmonite o di tutt’e due e stavolta nulla l’avrebbe salvato dall’inferno dell’Aldilà, dopo l’assaggio dell’Aldiqua.

“… perzò, sior pare confessor colendissimo, gh’aveu capio horra perché mi no gh’ho timor ni de crepar ni de finir a l’inferno? Mi sun zà cativo, gh’ho fato cosse assa’ brutte et Domine Iesu nol me va a perdonar.”

Fra’ Anselmo strinse convulsamente il crocifisso appoggiato alle ginocchia, sopraffatto dal peso della stola da confessione, gli occhi gonfi e umidi di lacrime. Guardò smarrito il bambino che al contrario ricambiava tranquillissimo, le dita incrociate al petto sulle coperte tirate fino al mento. Il frate s’umettò le labbra, incapace per la prima volta in vita sua di fornire consiglio al penitente: né il rigoroso esercizio della Regola benedettina, né i pingui volumi pregni della saggezza dei Dottori della Chiesa avrebbero potuto ispirargli una parola anche solo per commentare su quanto visto, udito e fatto da una creatura, il cui massimo peccato doveva limitarsi a far i capricci per non voler coricarsi all’ora stabilita.

Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare.

E di scandali ne avevano creati in sì gran copia, che il frate si chiese come facesse Dio a non nausearsi di loro, scaraventandoli ancora vivi nella Geenna o annegandoli tutti in un secondo Diluvio Universale, amici e nemici. Per via di questo suo disgusto l’uomo s’era ritirato dal mondo, anche nel tentativo di capire tramite le Scritture e la vita ascetica il perché di tanta misericordia verso coloro che non la praticavano, come la parabola del servo malvagio che, pur condonatogli dal padrone il grosso debito, non aveva esitato a gettar in prigione un suo pari per una piccola somma di denaro. Ma era anche vero che Dio non seguiva la logica umana, la quale per quanto si sforzasse non sarebbe mai riuscita a decifrarne i pensieri, né a trovare un nesso in coloro che lei considerava palesi contraddizioni. Ad esempio, in quanto veneto il monaco teoricamente non doveva curare i soldati francesi ammalati e ricoverati nell’infermeria dell’Abbazia; tuttavia lasciarli morire significava divenire agli occhi di Dio un assassino. Talvolta il dare a Cesare e il dare a Dio non risultava di così facile esecuzione come si predicava.

Schiarendosi a disagio la gola, Fra’ Anselmo si sporse sul fantolino disteso sul lettuccio.

“Ti te xé veramente pentio de li toi pecadi?”, gli chiese infine, celando il groppo in gola.

Thomà abbassò il mento sul petto, piegando all’ingiù la bocca e il frate capì quanto sforzo quella risposta gli costasse e avrebbe d’altronde potuto biasimarlo? I tedeschi gli avevano portato via quei pochi punti di riferimento della sua giovanissima vita – la famiglia, la casa, a momenti la stessa fede – privandolo di un futuro, un’orfana foglia al vento in balia degli eventi. Dio sapeva essere davvero esigente talvolta …

Nondimeno, il bambino annuì sincero e per la prima volta dall’inizio della confessione l’uomo vi lesse un flebile barlume di speranza.

Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. Domine Iesu Christo, el bon Pastor che nol gh’ha volesto perdar manco na piegora al pecado, ch’el te daga, mediante el minister di la Giesa, ea perdonança per le toe colpe”, gli impose Fra’ Anselmo la mano sul capo, pur con qualche difficoltà non fidandosi Thomà di lasciarsi toccare da chicchessia. “Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.”

“Amen.”

“Ancuò xé zorno di la Madona Dolorà. Te cognossi el Stabat Mater?”

“Siorno.”

“El Salve Regina?”

“Siorno.”

“Almanco l’Ave Maria?”

“Un puoco”, s’afflosciò Thomà imbarazzato nel cuscino, tirando su la coperta, intimidito dallo sguardo ora severo ora sconfortato del benedettino, il quale si domandava in che razza di mondo di pagani e ignoranti fosse nato e cresciuto.

Ironicamente, più la cultura si diffondeva grazie alla stampa e alle raffinate corti italiane, più il popolo sprofondava nell’ignoranza, soprattutto religiosa. Ah, non che lor signori fossero meglio, con le loro arroganti teorie d’antropocentrismo! Se davvero l’uomo è padrone del proprio destino, perché allora egli col suo intelletto superiore non aveva  impedito che un bambino s’insozzasse l’anima assistendo e divenendo complice di turpitudini innominabili? L’uomo piuttosto è folle, non ragiona se non d’istinto e l’unico freno è Dio Padre e appunto come ogni figlio discolo Lo ama e Lo odia, perché vuol sì la Sua protezione senza però seguirne i precetti.

E ora questa loro follia gli uomini l’avevano imposta pure nella casa del Padre, invadendo l’Abbazia e la basilica con la scusa della guerra.

“Ti no te cognossi l’Ave Maria, perhò te gh’ha pur fato ea Comunion! Qual prete turcho te gavei a Feltre, caro ti?”

“No xé colpa mia et manc’elo cognosse l’Ave Maria!”, si discolpò Thomà indicando prontamente Hironimo, il quale se ne stava a debita distanza, acciocché il decenne si potesse confessare in tutta tranquillità.

Il giovane Miani si voltò verso i due, arcuando inquisitivamente il sopracciglio, seguitando tuttavia a suggere la sua calda tisana. “Spion!”, commentò in una piccata cantilena. Thomà replicò tramite una rumorosa linguaccia e Fra’ Anselmo si grattò la fronte assai imbarazzato. “Gh’aveu terminà, sior frate?”, li raggiunse il patrizio e si sedette accanto al malato, togliendogli la pezza d’acqua dalla fronte e, imbevutala di nuovo nella bacinella accanto, gliela riposizionò, controllandogli la temperatura sotto le orecchie col dorso della mano bendata.

“Cum lu sì. Voleu anca vu confesarve?”

Hironimo s’irrigidì e lo fulminò con lo sguardo. “Mi no gh’ho gnente da dirve!”, gli ringhiò contro bellicoso, torvissimo, per poi tornarsene ad accudire il marmocchio, il quale già ciondolava dal sonno, le poche energie spese per confessarsi col frate.

Che strano giovine!, meditava Fra’ Anselmo, spiando i due di sottecchi con la scusa di riempire il boccale di terracotta con dell’altra tisana d’ontano nero. Raramente aveva scorto in un uomo tanto amore nel prendersi cura di un bambino, figurarsi in uno poi così giovane!

Il frate ben si sovveniva dell’irruzione di Hironimo in infermeria tra i Vespri e la Compieta, recante questi tra le braccia sanguinanti e ricoperte di lividi e schegge il suo piccino privo di sensi, talmente pallido in volto da temerlo il monaco un qualche fantasma dei tempi antichi. Il patrizio gli aveva ceduto esagitato il suo fardello, supplicandolo piangente di salvarlo ad ogni costo.

Come poteva egli rifiutarsi dinanzi a tanto tormento?

Fra’ Anselmo conosceva bene le sue erbe ed esse di nuovo non lo tradirono, disputandosi tutta notte Thomà con la morte e solo alle prime luci dell’alba il fantolino aveva ripreso conoscenza, quel tanto per chiedere subito di confessarsi giacché sicuro d’aver visitato per qualche ora l’inferno. Molto probabilmente, ragionava il benedettino, il delirio della febbre doveva avergli rievocato quei tremendi ricordi custoditi nel cuore.

Fino a quel momento, Hironimo gli era rimasto seduto accanto, incurante di sé e rifiutando ogni assistenza, specie quando Fra’ Anselmo gli aveva offerto una camicia nuova e di bendargli i graffi e sbucciature alle mani, spalle e perfino sulla fronte. Soltanto al risveglio di Thomà cedette, ma neanche in quel frangente volle riposarsi, preferendo rifugiarsi in un angolo lontano dell’infermeria.

All’inizio, mea culpa, il frate non aveva compreso chi i due fossero in realtà, lasciandogli l’emergenza poco spazio per congetture e spronandolo invece all’azione. Furono i segni rossi e spellati delle manette e delle cavigliere, nonché la faccia preoccupatissima di un suo confratello e la sua celere spiegazione a svelargli il mistero. Fra’ Anselmo rimase vivamente impressionato che il giovane fosse riuscito a sfondare una porta così robusta, a nulla invidiabile a quelle di un vero e proprio carcere. Quella porta è costruita apposta affinché i monaci in punizione non scappino! Com’avrà fatto?, gli aveva sussurrato confuso all’orecchio il confratello.

“No me maravejo che vuj gh’avé sfondà ea porta cum ea testa: quea sì, che vu l’avé ben dura! Testa da copo!”, commentò Fra’ Anselmo, mulinando il dito all’impenitente patrizio, che gli rifilò un’espressione da gnorri totale. E alzandosi proseguì: “Mi vago. Ve fazzo portar ea Comunion, almanco pel céo (bambino, ndr). Po’ se gh’avé besogno de mi, vu savé ndove trovarme.”

“Pì ch’ea Comunion, félo portar on fià de pan et de sopa!” (zuppa, ndr.), lo esortò ad alta voce Hironimo, ridacchiando impunito dal modo in cui le spalle del frate s’irrigidirono per il nervoso.

“Turcho!”, borbottò questi, scuotendo il capo, prima di dedicarsi al prossimo paziente ricoverato in infermeria.

Miani lo seguì sornione con lo sguardo, intanto che si sistemava più comodo sulla sedia. Quand’ecco che si sentì tirare timidamente per la manica.

“Patron?”, lo chiamò sottovoce Thomà, accertandosi della lontananza del monaco.

“Dime.”

“Xélo vero, che vu gh’avé sfondà ea porta a testate?”

Sfiorandosi il crescente bernoccolo costellato da escoriazioni più o meno profonde, Hironimo scherzò: “Solum un puoco a la fin …” ed effettivamente corrispondeva alla verità, arrivato ad un certo punto dove gli dolevano troppo sia i pugni che le spalle per proseguire all’abbattimento di quell’ostinato ostacolo. Oh beh, in testardaggine aveva trovato il suo fiero avversario.

Il volto di Thomà s’illuminò estasiato e pieno d’ammirazione. “Ostrega, che força zò! M’insegnaré un zorno?”

“Co’ ti te stà mejo, zerto.”

Il bambino annuì vivacemente, felicissimo all’idea. Quand’ecco che la sua espressione s’incupì, ingobbendosi su se stesso e storcendo vergognoso la bocca. “Patron? Jo ve fazzo schifio horra?”

“Cossa te blateri?”, sbottò immediatamente Hironimo, scrutandolo severo, le braccia incrociate al petto.

“Sun stà malguajo (malvagio, ndr.) mi”, bofonchiò dispiaciuto il fantolino, dimenando nervoso la punta dei piedi sotto le coperte. Temeva, infatti, che una volta appreso il suo vero passato il patrizio non volesse più rapportarsi con lui, nauseato da cotanta sua cattiveria e al decenne deludere l’opinione che aveva di sé l’angustiava, non tanto perché avrebbe potuto perdere un protettore bensì un amico. Strano ma vero, se all’inizio non poteva soffrire quell’arrogante nobile, adesso gli voleva bene e gli sarebbe dispiaciuto ritornare alla freddezza di prima. Il suo cuoricino aveva battuto impazzito di pura felicità, quando Hironimo l’aveva protetto dal Bua presentandolo come un figlio illegittimo; non aveva mai creduto che un privilegiato come lui si abbassasse a tali stratagemmi pur di salvare la vita ad una nullità. Gli era venuta una gran voglia di abbracciarlo, però s’era trattenuto, i veri uomini non s’abbracciano, gli aveva detto Andrea Trepin il bombardiere, l’è roba da femmine.

All’oscuro di questi suoi ragionamenti, Hironimo sospirò invece alle sue parole, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Ti te gh’ha solum copià le porcade di staltri. I puti xéi ea spièra (riflesso, ndr.) de l’omeni, i nol gh’ha juditio ni cossiensa di l’ati lhor”, dichiarò mestamente, riflettendo sui propri gesti di bambino, quando si sforzava di imitare Padre in ogni suo aspetto, dal modo di parlare, di camminare e pure di comportarsi senza però capire il significato profondo di ciò che scimmiottava. Egli era il suo modello e Hironimo, simile ad una pagina bianca, assorbiva ogni cosa e non la filtrava, non possedendo gli strumenti necessari di discernimento. Di conseguenza l’allora Momolo li aveva reputati normali e naturali e mai li aveva contestati, semmai arrabbiandosi se qualcuno lo rimproverava a causa d’essi.

“Donca Domine Iesu me pardonarà?”, insistette Thomà, d’un tratto ansioso. Aveva sempre creduto d’esser ormai al di là di ogni redenzione, tuttavia Fra’ Anselmo l’aveva assolto e se inoltre era vero che le sue colpe derivavano dalla sua scempiaggine per aver imitato degli sconsiderati adulti, forse-forse in Paradiso dalla sua mamma e papà ci poteva ancora andare.

“Se Lu no pardona a ti, che te xé on gnorante petusso (pulcino, ndr.), chi altro pole pardonar?”, gli propose il giovane Miani quella grama prospettiva. Un sardonico sbuffo gli sfuggì dalle labbra: se un bambino si fustigava così tanto per aver soltanto ceduto all’istinto di sopravvivenza, come si doveva sentire lui?

Sì, quella confessione l’aveva sconvolto, non lo negava, incapace di scorgere tanto odio nel cuore di chi era un innocente per antonomasia. Tuttavia, avesse egli vissuto le medesime esperienze di Thomà, avrebbe agito in maniera differente?

Risposta: no di certo, anzi si sarebbe comportato peggio di lui.

Thomà non era altro che il prodotto vivente delle follie degli adulti. Un loro mostro. Non era nato malvagio, lo avevano fatto divenire tale. Qualcheduno poteva anche ribattere: non è una giustificazione, poteva scegliere di tenersene fuori.

Quale giustificazione razionale può dare un bambino, che senza la guida genitoriale è tutto istinto, inconsapevole delle proprie azioni e del significato di responsabilità?

Si può biasimare la foglia sbandata al vento, se viene staccata dal ramo robusto?

“Mi credea che Lu gera pardonador. Perhò horra i me disen ch’en verità Lu xé zudese, che Lu no scolta i pecadori, ma li buta zò a l’inferno.”

Hironimo percepì un doloroso e subitaneo crampo allo stomaco nell’udire quelle parole, sinistramente a lui famigliari e infatti si rivide d’un tratto bambino a ripeterle e discuterne con suo fratello Marco, in quel lontano pomeriggio al Lido di quattordici anni addietro.

Eppure, di altri discorsi si sovvenne contemporaneamente, discorsi snobbati all’epoca ma mai del tutto obliati per quanto si fosse sforzato. In automatica e inarrestabili, le parole di Madre incominciarono inaspettatamente a fluire perfette e sicure dalla sua bocca: “Donca parla à la Madona, la qual senpre te scolta et senpre la intersede vizin Deo: Eia ergo, advocata nostra …”e Hironimo s’interruppe, non riuscendo più a ricordarsi come proseguisse. Eppure Madre e Crestina gliel’avevano insegnata e dalle lettere a Padre egli sapeva che da piccino recitava alla perfezione e con sentimento ogni preghiera, specie quelle mariane. Adesso la sua memoria a riguardo s’era tramutata in un arido deserto, vuoto e silente. “Et horra molighe coi putelezi: i malà gh’han da dromir, sennò nol guariscon pì”, si ricompose in fretta il giovane, scacciando quell’attimo di malinconia che l’aveva proditoriamente colto. Che importanza aveva ormai conoscere o meno il Salve Regina? Non era quello ciò che l’avrebbe salvato dalla sua attuale situazione.

“Pulito, perhò podeu star qui meco?”, gli offrì Thomà la manina sudaticcia, arrendendosi alla sua poco virile smania di coccole e affetto, incolpando al contempo la malattia che lo rendeva capriccioso, come gli ripeteva solerte la siora sua nonna.

Hironimo gliela strinse delicatamente. “Sì, mi stago qui”, sorrise, scrutandolo attento finché il fantolino, tirato un sospiro soddisfatto, chiuse le palpebre e si rilassò, addormentandosi.

Allora, avvertendo anch’egli una certa stanchezza, il giovane Miani appoggiò i gomiti sul materasso e la testa su di essi, pronto ad appisolarsi. Tuttavia, il suo sguardo si posò casualmente sulla scultura lignea di una Crocifissione e nello specifico sulla figura curva e piangente della Madonna, gli occhi immobili e scuri fissi sul Figlio agonizzante. L’anonimo scultore aveva disposto le statue, ch’Egli pareva ricambiare lo sguardo materno e la bocca dischiusa mormorante quasi: “Donna, ecco tuo figlio!” e “Ecco tua madre!”

Per una madre non doveva esserci nulla di più tremendo d’assistere al supplizio e alla morte della propria creatura e ad appendere Cristo alla croce era stata la medesima umanità che non solo era stata perdonata, ma per la quale Lei continuava indefessa ad intercedere, consolare, fornire esempio e consiglio. Il Figlio dell’Uomo spogliato di tutto, anche l’ultima cosa rimastaGli generosamente donava – sua madre. Quale magnifica contraddizione! Quanto amore ripagato con ingratitudine!

Ecco tua madre …

Se Le avesse parlato, l’avrebbe ascoltato? Per quindici anni s’era categoricamente rifiutato … Perché incominciare ora?  E perché doveva la Madre per eccellenza ascoltarlo? Proprio lui, che neppure con la sua madre terrena s’era mai comportato bene, facendola costantemente preoccupare e deludendola col suo comportamento indisciplinato e il suo pessimo carattere? Anch’ella l’aveva sempre perdonato e l’aveva coperto da capo a piedi d’amore incondizionato, senza mai perdere fiducia in lui. Anch’egli l’aveva ringraziata atteggiandosi da ingrato, d’egoista, da selvaggio.

 Ecco tua madre …

Come si può amare e difendere uno che ti fa soffrire? La spada che ti trafigge l’anima? Come ha potuto mia madre sopportarmi, quand’io non ero altro se non un peso morto? Un figlio ribelle e scapestrato? Un insulto all’educazione datami da lei e da Padre?

Sopraffatto da codesta sensazione di solitudine mortale, Hironimo s’addormentò, la manina di Thomà ben custodita dalla sua.

Anche se Lei m’ascoltasse, cosa potrebbe dire al Padreterno per discolparmi di tutte le mie colpe? Del rancore e indifferenza che per anni ho nutrito nei Suoi confronti?

Eia ergo, advocata nostra …

Ci sono tante persone più innocenti e meritevoli di me del sostegno divino. Che speranze avrei io? Che diritto di chiedere ciò che ho sempre disprezzato?

… Donna, ecco tuo figlio.

 

***

 

 

 

Il ponte sul Piave era stato finalmente completato e sarebbe stato motivo di gran festa nell’esercito dei franco-imperiali, se non fosse stato per un piccolo ma non trascurabile dettaglio presentatosi agli occhi del maresciallo Jacques de Chabannes de la Palice nella veste di malmenati soldati francesi.

“Cosa vorreste dire”, fumò il condottiero, strascicando feroce le parole, “che hanno attraversato il ponte?”

I poveracci farfugliarono qualcosa, tremanti sia dalla paura che dal freddo, rivelandosi infatti bagnati fino all’osso. “Avevamo appena completato il ponte, quando le capitain Jacob cogli altri suoi compari ha dato l’ordine di passarlo. Noi l’abbiamo contestato, sostenendo che non ci risultava tale ordine provenire da voi e loro ci hanno riempito di botte e gettati giù …”

La Palice gettò un’occhiata furibonda al de Boissy, du Molard, al Sanseverino e al Pallavicino. In particolare si soffermò su Mercurio Bua, che già quella mattina gli aveva portato la fastidiosa ambasciata della caduta di Castelfranco in mano veneziana e della distruzione dei forni. “E la Certosa? La maggior parte dell’esercito imperiale s’è accampato lì,  impossibile che tutti i suoi soldati abbiano attraversato il ponte in sì breve tempo!”

Il soldato scosse il capo. “Je l’ignore, monseigneur. I nostri compagni andati a controllare alla Certosa non sono ancora tornati, les Allemands non ci permettono di avvicinarsi senza giungere a discussioni e talvolta alle mani!”

“Come sarebbe a dire che non vi permettono? Siamo alleati o che? Pour les plaies de Christe! È le Roi che paga quest’impresa e loro osano comandarci cosa possiamo e cosa non possiamo fare?!”, ringhiò il maresciallo, i pugni che si serravano e aprivano collerici.

A tal proposito, arrivò la stoccata finale. “Les Allemands si sono presi parte delle nostre munizioni e dei nostri viveri …”, pigolò infine un altro soldato, augurandosi di sprofondare negli abissi della terra.

“FOUTUS CHIENS!”, esplose la Palice, la misura oramai colma. “Basta! C’est trop de félonie! È dunque questa la tanto osannata disciplina militare teutonica? Un branco di masnadieri, avidi briganti il cui unico vanto è quello di saccheggiare villaggi e di correre via al primo abbaiare del nemico?! È evidente che quest’impresa di Trévise non lo vogliono fare e non vedo perché dobbiamo rimetterci noi! Tutto abbiamo messo a disposizione di questi valorosi “alleati”: soldi, armi, uomini, il nostro stesso onore! E così che ci ripagano? Scappando all’alba alla stregua di ladri? Beh, che Trévise se la conquisti da solo l’Empereur! Io ho chiuso con questi vigliacchi!”

“Datemi l’ordine, monseigneur”, s’offrì un altrettanto furente du Molard, “datemi soltanto l’ordine e i miei guasconi vi riporteranno indietro le teste di quei fottuti disertori!”

“Non si saranno spinti troppo lontano: al massimo fino a Conegliano, se partiamo ora possiamo raggiungerli assai in fretta”, insistette du Boissy.

Sordo a quell’allettante promessa, la Palice si concentrò invece su Mercurio. “Voi lo sapevate! Voi sapevate che sarebbe finita così!”, l’accusò, puntandogli contro l’indice.

“Che c’entro io?”, si difese adirato l’albanese, la proverbiale mosca saltatagli al naso.

“Non siete conte e consigliere dell’Empereur?”

“E allora? Mica implica che debba anche far da balia a quei coglioni dei suoi capitani!”, allontanò il condottiero il dito del maresciallo dal suo petto. “Sono forse il custode delle loro anime?!”

Pigliando coraggio, Giulio Sanseverino s’intromise nella concitata discussione prima che degenerasse: “Monseigneur, maresciallo, sia a Milano che in esilio coi miei fratelli ho avuto modo di conoscere gli alemanni e vi assicuro che non diserterebbero tanto facilmente. Se hanno attraversato il ponte, l’hanno fatto in quanto spinti dalla fame. Sì”, s’affrettò ad aggiungere, anticipando l’obiezione del la Palice, “hanno contravvenuto ad un vostro ordine. Nondimeno, sono persuaso che una volta terminate le loro scorrerie al di là del Piave e in Friuli ritorneranno pronti per l’impresa!”

“Effettivamente il capitano Jacob non ha mai parlato di diserzione, soltanto di svernare in un posto più sicuro e meglio fornito”, reiterò Galeazzo Pallavicino, placando momentaneamente il giusto sdegno del maresciallo francese.

“Che ne pensate voi, capitain Bua?”, volle l’uomo conoscere l’opinione del condottiero, non ancora persuaso dall’appassionata difesa dei due nobili lombardi.

Mercurio trasalì, perso nei suoi poco rassicuranti pensieri, l’intera situazione d’un tratto un doloroso déjà vu. “Chi sparisce dal campo difficilmente ritorna, ecco la mia opinione. Vi debbo ricordare, messer Sanseverino, le vicende di Ver -…” e s’interruppe, il cuore cascatogli nello stomaco.

Una rapidissima sequenza di ricordi gli scorse davanti agli occhi. Il suo ritorno a Verona dal colloquio con l’Imperatore. La compagnia dimezzata. Suo fratello Teodoro e i suoi cognati spariti. Il letto vuoto di Caterina e Maria …

“Dov’è il conte di Gambara?”, inquisì all’improvviso il Bua, pallidissimo in volto e tremante manco avesse contratto la terzana. Guardandosi meglio attorno, constatò ansioso come non avesse scorto il bresciano in nessun luogo per tutto il giorno e dai conti di Collalto decisamente il de la Palice non l’aveva inviato.

E ora i tedeschi se l’erano data.

“E’ rimasto all’Abbazia, sin da ieri esibiva una tal brutta cera … Capitano Bua, in nome di Dio che state facendo?!”, esclamò sconcertato Giulio Sanseverino, allibito dinanzi alla folle corsa dell’albanese verso il suo cavallo, balzandovi sopra più agile d’una scimmia. “Capitan Bua!”, gli urlò dietro, girandosi impotente in cerca di sostegno verso gli altri sconvolti comandanti.

“Maurikos!”, lo richiamò gridando Lecha Busicchio, montando anch’egli in sella e lanciandosi all’inseguimento di quel pazzo del suo collega, il quale spronava il suo cavallo alla stregua d’un ciuco. “Fermati! Dove vai?”

Lo sapeva Mercurio dove stava andando, digrignando i denti e gli occhi iniettati di sangue, mentre irrompeva indiavolato nell’Abbazia tra grandi esclamazioni intimorite dei suoi abitanti, terrorizzati da quel suo incedere violento ed esagitato. Disceso dalla sua cavalcatura, a grandi falcate e facendo letteralmente volare via ogni benedettino che gli si parava innanzi, il condottiero raggiunse le celle dei monaci in punizione, ululando rabbioso alla vista della porta sfondata e, dopo aver aperto con un calcio quella della cella del Gambara, anche alla vista del letto vuoto del conte. Ecco! Ecco! Esattamente come aveva sospettato! Quel porco d’un nobilastro gli aveva sottratto il suo prigioniero e per di più da sotto il naso!

“Parla disgraziato! Dov’è diavolo è finito il conte di Gambara?”, pigliò Mercurio un frate per il saio, scrollandolo talmente forte manco volesse staccargli la testa.

“In … infermeria …”, tartagliò quegli atterrito. “Non … non stava molto bene e … Fra’ Anselmo gli sta dando qualche rimedio …”

“Per la salute del tuo corpo mortale, prega Dio che sia così!”, s’augurò il Bua, mollando sgarbatamente la presa e gettando il monaco tra le braccia dei suoi spaventati confratelli, per poi virare alla stregua d’un ossesso alla meta designata.

Oh beh, dall’infermeria al camposanto il passo era breve e Mercurio si sarebbe d’esso assicurato …

 

L’odore di minestra solleticò le nari di Hironimo, invitandolo a sbirciarsi attorno: lo stanzone era rimasto sempre uguale, coi suoi ammalati tossicolosi o dormienti, i benedettini che giravano tra i letti onde assisterli e Fra’ Anselmo impegnato a sorvegliare la distribuzione adesso del pranzo.

Si sorprese di trovare lì anche il conte Gianfrancesco di Gambara, dalla cui espressione meravigliata egli dedusse condividere il suo stupore. Memore della loro ultima conversazione, il giovane finse di non accorgersi di lui, chiudendo lesto gli occhi. Peccato che il nobile avesse altre intenzioni.

“Prendete, avete perso troppo peso, dovete nutrivi se volete arrivare vivo a Treviso”, gli porse una scodella fumante, provocandogli l’allettante profumino un’ondata di saliva nonché un rumoroso gorgoglio d’approvazione nel suo stomaco. “E’ dei monaci”, lo rassicurò scherzosamente il Gambara, alludendo a come l’orgoglioso patrizio rifiutasse ogni aiuto da parte di un traditore, fatto confermato dalla sua palese riluttanza nell’accettare la minestra.

Si trattò di un brevissimo scrupolo di coscienza: il bresciano aveva appena terminato di parlare e già Hironimo gli sottraeva cupido la scodella, gettandovisi a pesce in barba al liquido bollente che gli ustionava la lingua. “Anche al piccino!”, l’ammonì ferino, indicando Thomà, pure lui svegliato dall’odore di zuppa.

E mentre il conte serviva il villano (oh, l’ironia!), Hironimo ne approfittò per studiarsi segretamente il Gambara, cercandogli in faccia il motivo per quella bizzarra compassione nei suoi confronti e scovandovi al momento soltanto una tinta ancor più gialla, quasi verde, rispetto a quella del giorno precedente. Piccole gocciole di sudore gli ammorbidivano i capelli ingrigiti, divenutegli le occhiaie più profonde e scure così come gli occhi vitrei s’erano ulteriormente arrossati.

“Ecco”, cedette il nobile il piatto a Thomà, ma prima che quest’ultimo potesse soddisfare la sua fame, Miani lo bloccò, domandandogli:

“Cossa te disi al sior conte?”

“A la bon’horra che te me davi da magnar!”

Gianfrancesco di Gambara corrugò accigliato la fronte, affatto compiaciuto di tanta cafonaggine, Miani invece sogghignò divertito sulla sua zuppa.

“Vi vedo male, signor Conte: l’aria della Marca non vi giova?”, gli domandò beffardo. “E meno male che dovevo esser io, quello bisognoso del vostro aiuto!”

“Io sarò ammalato, ma voi rimanete prigioniero”, scrollò incurante le spalle il conte Gianfrancesco.

“Della mia sorte che v’en cale?”, ribatté aggressivo Hironimo, non sopportando il paternalismo da parte del nobile.

“Di voi non m’importa un granché”, replicò impietoso quegli, “piuttosto dell’intero quadro generale.”

Bruciandogli le gote dall’ira, il giovane patrizio ingoiò una rispostaccia assai ingiuriosa, la parte calcolatrice di lui che gli suggeriva di portar pazienza e ascoltare quanto il bresciano avesse da dire. Nella sua mente quelle frasi ambigue incominciavano ad incastrarsi e a prender forma, la quale avrebbe ben potuto giovargli a lungo termine. Ciononostante, onde non fallare né cadere in un tranello, bisognava giocar fino e seguitare a comportarsi ostilmente. Il Gambara doveva sbilanciarsi per primo, non lui.

“Ah sì?”, sbuffò Hironimo, inchiodando il suo sguardo con quello del conte Gianfrancesco. “E quale sarebbe il quadro generale?”

“Niente assicura l’esito di una guerra, tranne la Fortuna”, gli spiegò sibillino l’uomo.

“Sicché voi state cercando d’accaparravi la vostra, di Fortuna?”

“Ho buone ragioni di temere il futuro senza di essa”, nicchiò il bresciano, sedendosi accanto al Miani. “Noi tutti abbiamo qualcuno da cui ritornare, no?”

A che cosa il di Gambara alludesse, se ad uno schieramento politico o semplicemente alla famiglia, Hironimo non ebbe il tempo di domandare delucidazioni, giacché un maremoto umano investì in pieno entrambi.

Avvenne tutto troppo in fretta anche solo per rendersene conto, figurarsi per reagire: un attimo prima il veneziano stava discutendo col nobile, l’attimo dopo quest’ultimo giaceva per terra, reggendosi la spalla dolorante e inveendo contro il nuovo arrivato, mentre il patrizio si trovava subitaneamente avvinghiato da una stretta ferrea e, sollevato da terra, trascinato via di peso dall’infermeria, malgrado si dimenasse e scalciasse forsennatamente, inseguito dal tonante rimbombo delle urla di protesta del conte Gianfrancesco, di Fra’ Anselmo e di Thomà.

“Cori a ciamar l’Abbas! Cori a ciamar l’Abbas! Eo copa! Eo copa!”

La sua visione ritornò stabile solamente quando sbatté la faccia contro il pavimento. Tentò di riconoscere l’ambiente che lo circondava, notando soltanto mura bianche, un letto e un tavolo piuttosto dozzinale. Di riflesso, si pose a gattoni per balzare in piedi e correre via, sennonché si ritrovò ghermito per una spalla e rigirato brutalmente supino, un avambraccio premuto sulla gola e la faccia di Mercurio Bua a qualche pollice dalla sua, quest’ultimo con una tale espressione raccapricciante, manco l’avesse rubata al diavolo in persona.

“Che brigavi tu col Gambara?”, l’assordò per poco l’albanese, i denti ben in mostra.

“Cosa? Cosa?”, fu l’unica intelligente replica che poté fornirgli Hironimo, la cui visione si stava oscurando di macchie gialle e nere, sia per la pressione al collo sia per il peso del corpo del condottiero sistematosi a cavalcioni sopra di lui: non avrà forse questi indossato l’intera armatura, avendo infatti indosso solo il corsaletto, però di certo non era neppure una piuma per il fisico provato del giovane.

Accorgendosi dello sguardo sempre più vacuo del suo prigioniero, Mercurio sostituì il suo avambraccio col pugnale, premendone la punta sulla pelle già arrossata. “Come accidenti sei uscito dalla cella? Chi ti ha sfondato la porta? Chi ti ha aiutato? I monaci? Quel bresciano?”

“Sono stato io! Sono stato io!”, gracchiò Miani tra un colpo e l’altro di tosse, giungendogli il fiato poco e male nei polmoni. “Non mi ha aiutato nessuno!”, s’affrettò a chiarire cosicché lo stradiota terminasse lì la questione e si schiodasse da lui, magnanimamente concedendogli di ritornare dal suo fantolino ammalato.

Una pingue goccia di sangue gli scivolò dal collo, imbrattando la camicia e parte del pavimento.

“Dunque, come mai ti trovavi in infermeria col Gambara?”, sibilò minaccioso Mercurio, strisciando la punta del pugnale dalla gola su fino al mento, soffermandosi dolorosamente sul labbro inferiore del giovane. “Vi siete dati convegno?”

“Ci siamo imbattuti lì per caso; quello là mi ha solo dato un piatto di minestra e m’ha raccontato due o tre bagatelle che t’assicuro manco m’han divertito!”, confessò celere Hironimo un riassunto di quanto avvenuto, ovviamente omettendo quei piccoli particolari compromettenti, che però non toglievano alcuna veridicità al suo racconto: sul serio non aveva pianificato nulla col bresciano, ogni cosa era frutto di una sfortunata coincidenza.

Purtroppo per lui, Mercurio Bua apparteneva a quella categorie di persone perennemente convinte delle proprie ragioni, che non concedono mai il beneficio del dubbio. Sicché, afferrato il patrizio per il bordo della camicia, gli sbraitò contro feroce: “E quando t’ho permesso di parlargli? Di stare in sua compagnia? Di guardarlo?”

Un famigliare schiocco al cervello azzerò la parte conciliatrice del Miani, il cui viso si tinse di scarlatto e non solo perché, a furia di sbatacchiarlo, il sangue gli rifluiva malamente per le vene: “Hé! Oh! Queste tue patetiche gelosie risparmiale a quella poveraccia di tua moglie!”

Il condottiero si staccò da lui come scottato, ansimando lievemente, quasi Hironimo l’avesse colto in fallo su qualcosa allo stradiota soltanto noto. Quand’ecco che una maschera di animalesca furia cacciò via quella confusa ed in un battibaleno, per l’ennesima volta, il giovane si ritrovò martoriato da quelle tenaglie di mani.

Mercurio l’aveva infatti strattonato per il braccio destro, d’istinto levato in alto dal Miani per difendersi da un eventuale cazzotto, e rimesso forzatamente in piedi l’aveva condotto fino al tavolo dove lo costrinse a piegarsi in avanti su di esso, tenendogli sempre il braccio premuto dietro la schiena.

“Tu credi di continuare a fare lo spiritoso, eh? Tu credi di fare all’infinito lo spiritoso con me?”, gli sussurrò dolcemente perfido il capitano, torcendogli dolorosamente l’arto. “M’hai forse scambiato per un Giobbe?”, e flesse di nuovo. Il veneziano strinse caparbio le labbra dal dolore. “Va bene, d’accordo, abbiamo scherzato, ce la siamo un poco spassata, ci siamo fatti qualche risata ma adesso basta! Mi stai decisamente stufando! Tu sei un prigioniero, la cui vita dipende da un mio sì e un mio no! Non mi costa nulla tagliarti la gola né ordinare di spedire a tua madre un tuo pezzo alla volta, cosicché lei si diverta a ricomporti!”, ringhiò. “Chi ti credi di essere? Uh? Superiore? A me? E in quale modo? Non hai più un castello, né una spada, né una famiglia, né amici, non hai nulla, non sei nulla! Se sei vivo non è per merito tuo, bensì per un mio capriccio!”

Hironimo deglutì un singulto di rabbia e umiliazione, ferito più da quelle crudeli parole che dalle sevizie dell’albanese.

“Suvvia, parla: come sei uscito da quella cella?”

“Ho sfondato la porta, te l’ho già detto!”

“Con questo tuo ammasso di pelle ed ossa?”

“E’ la verità, perché ti dovrei mentire?”

“Che negozi hai con Gianfrancesco di Gambara?”

“Cosa?”

“Che accordi!”

“Nessuno!”

“Neghi di avergli parlato?!”

“Solo per insultarlo!”

“Neghi di essere combutta con lui?”

“Nego! Le tue prove?”

Mercurio s’appoggiò di peso col gomito in mezzo alle scapole del giovane, tirandogli all’indietro il braccio destro che costrinse ad un arco innaturale e Hironimo spalancò la bocca in un grido nato morto, le vene del collo ingrossate dal suo sforzo di non urlare.

“Troia bugiarda, vi ho pizzicati a confabulare assieme l’altroieri, quand’eravamo in marcia! Cosa gli hai promesso in cambio della libertà?”, insistette nel suo interrogatorio l’inflessibile albanese. “Soldi?”, strattonò egli il braccio. “Il perdono della Serenissima Signoria?” un’altra strappata. “Il tuo culo?”, glielo palpò volgarmente esplicito e se non fosse stato impegnato a contorcersi da atrocissimi spasimi di dolore, Miani si sarebbe anche offeso per quelle indecenti illazioni.

“Figurati …”, boccheggiò, la bocca che gli tremava e la visione vacillava a causa dei nervi impazziti, “figurati se … se voglio qualcosa da … da un traditore! Figurati …”, sibilò, collera e paura che gli annebbiavano il cervello, imbevendolo di suicida temerarietà, “figurati se ricorro ai tuoi stessi metodi per … per … per mio profitto! Conferma … su conferma quant’è piaciuto farti … farti fottere da Massimiliano!”, e rise isterico, cangiando in un singulto al logico strappo al braccio che ne conseguì.

“Un altro insulto e ingoierai il tuo medesimo cazzo!”  

“Le tue minacce … non cambieranno mai il fatto che tu sei … e resti …  una lurida baldracca, ognora … pronta a … a vendersi al miglior offerente!”, gridò Hironimo, talmente intontito dal dolore da parlare a ruota libera. “Non … non mi predicare l’onore … quando tu … per denaro …  hai volentieri abbassato testa e braghe!”

Il Bua allentò un poco la presa, concedendo un attimo di respiro al prigioniero, difficile affermare se per stanchezza del suo di braccio o se trafitto da quella cinica osservazione.

“Bah, insulti noi condottieri proprio come i Francesi ingiuriarono i Tredici ai tempi della disfida di Barletta …”

“Sai … quanto me ne frega dei …  Francesi …  dei Tredici e … e di Barletta? Per quel che mi concerne … si possono anche gettare … allegramente da uno scoglio! Io …  mi sto riferendo a te, Mercurio Bua Spata …  a te … e a te soltanto!”

“Ho le mie ragioni e non sono tenuto a giustificartele!”

“Dunque … sii altrettanto grazioso …  da non tediarmi …  coi tuoi moralismi della malora!”

Un tesissimo silenzio s’impose tra i due uomini, rotto dai rispettivi respiri irregolari e pesanti: quello di Hironimo a causa della sevizia subita, quello di Mercurio per la rabbia che quel disgraziato s’ostinava a pungolargli in petto. Se non avesse purtroppo avuto bisogno di lui per lo scambio, a quest’ora l’avrebbe già tagliato in piccole strisce di carne, distribuite poi ai porci.

Schiacciandogli ulteriormente il busto contro il tavolo grazie al peso del suo corsaletto sulla schiena, l’albanese non demorse nel suo intento di scoprire il nesso tra la quasi-fuga del prigioniero e il fitto cicalare col conte bresciano. “Cosa stavi tramando col Gambara?”, gli sussurrò all’orecchio, torcendogli il polso del quale da tempo ormai Miani aveva perduto ogni sensibilità, pizzicandogli la punta delle dite informicolate.

“Niente …! Se mi stessi … seriamente ad … ascoltare, ti … accorgeresti che non … sto mentendo!”

“Perché ti trovavi allora in infermeria con lui? Chi ti ci ha portato?”

“Nessuno, te lo … giuro! È … venuto dopo … non so quando … forse mentre dormivo! È malato … non te ne sei reso conto? Non hai visto la sua faccia da … cadavere?”

In effetti, il tarlo del dubbio incominciava ad insinuarsi in Mercurio, rivalutando la sua mente ogni singola noticina stonata in quella grottesca gagliarda. Purgatosi della frustrazione degli ultimi fallimenti, dello spavento per aver perduto una merce così preziosa di scambio, nonché dei brutti ricordi legati ad una diserzione di massa, adesso il condottiero poteva analizzare la situazione con maggior freddezza e si rimproverò della sua ottusità per non aver considerato l’elemento più palese, che avrebbe scagionato i due italiani.

“Ammettiamo che tu abbia sfondato quella porta. Perché non sei scappato?”

Ovvio no? Un prigioniero quello fa, alla prima occasione propizia fugge. Invece, il Bua aveva ritrovato il patrizio in infermeria, mossa non proprio intelligente, specie se il Gambara era suo complice. Non se ne sarebbero rimasti lì a chiacchierare. Sarebbero balzati sui primi due cavalli disponibili per galoppare in un sol sorso fino a Treviso.

“Con tutti … i tuoi uomini attaccati al mio culo … come … come sarei riuscito … secondo te … a scappare?”

Un altro valido punto a favore del veneziano. Al suo ingresso in Abbazia il Bua aveva lasciato Zilio Madalo ed altri suoi fedelissimi e nessuno di loro aveva accennato ad una fuga. Al contrario, pure l’avevano guardato straniti manco stesse scherzando.  

Hironimo ansimò e deglutì a fatica, flettendo le gambe onde scivolare giù dal tavolo e dalla presa del condottiero che, accorgendosene, aumentò la sua presa su di lui, bloccandolo e premendogli con maggior vigore il bacino contro il bordo del tavolo. “Il … piccino stava male”, gli rivelò, il fiato mozzo. “Siccome nessuno rispondeva … ai miei richiami, ho …  dovuto prendere in mano la situazione e … portarlo dal frate … Questo è quanto … Non ho mai … concepito di fuggire …” Non con Thomà ammalato.

“Così tu avresti combinato questo gioioso bordello per salvare la vita a quel moccioso?”, riassunse sardonico Mercurio, scuotendo ilare il capo. “Ti rendi conto di quante stronzate stai vaneggiando?”

“E perché no?”, lo sfidò indefesso Miani. “Gli voglio bene … è mio figlio!”

“Tu non hai alcun figlio!”

“E’ come se lo fosse!”

Mercurio rise gutturalmente, il viso deturpato improvvisamente da una smorfia cattiva, maliziosa. “La sai una cosa? Secondo me il motivo è un altro. Secondo me”, e gli pigiò con maggior forza il gomito sulla schiena, strappandogli l’ennesimo mugolo di dolore, “questo tuo ardore nel difendere il marmocchio non deriva dall’amore, che tu nutri nei suoi confronti, bensì dal senso di colpa. Meglio ancora: lo fai per addolcire il peso del tuo fallimento. Non hai saputo difendere Castelnuovo di Quero, non hai saputo difendere i tuoi soldati dalla sconfitta e dalla morte. L’unico appiglio di redenzione che ti resta è questo bambino, cui tu ti sei aggrappato ferocemente per mitigare il fatto che non sei altro che un inetto, bravo soltanto a parlare, ma poi ai fatti vali ben poca cosa. Che mi vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la sorte della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi disgusti!”

Hironimo sperò ardentemente che la lacrima colatagli sulla guancia fosse stata provocata dalla torsione al braccio. Lo sperava con ogni fibra del suo essere, malgrado sapesse corrispondere ad una bugia. Il giovane batté la fronte sul tavolo: la terra gli era testimone, non avrebbe dato a quel maledetto alcuna soddisfazione della sua pena interiore. “Sei odioso!”, sputò aspro onde mascherare l’instabilità della sua voce.

“E’ questo il meglio che sai fare?”, lo sfotté il condottiero stradiota.

Il patrizio veneziano ridacchiò crudele. “Le stesse parole ripetute … da tua moglie …  il dì in cui lei scappò via … da te?”, lo provocò, giacché per lui era più facile gestire Mercurio Bua nell’ira cieca del tormento fisico che in quello razionale e gelido del tormento mentale.

Così fu.

 

Hironimo perse sia ogni cognizione del tempo sia dei pugni ricevuti da Mercurio Bua; seppe soltanto che non riusciva nemmeno a stare in piedi quando, stancatosi dei suoi vani tentativi, l’albanese dovette issarselo sulla spalla per trasportarlo al suo nuovo carcere. Ogni parte del suo corpo bruciava di dolore e dappertutto odorava il ferro del sangue.

“Possibile che con te sia impossibile conversare civilmente?”, sbuffò il condottiero, uscendo in cortile e dirigendosi verso un modesto edificio. “Ché? Non hai più nulla da dire, adesso?”

In realtà Miani ne aveva anche fin troppe da cantargliene, se non si fosse ritrovato una faccia talmente gonfia, da fargli male anche solo aprire la bocca. Fortunatamente, la sua lingua aveva contato tutti i denti al loro posto. Aveva invece fallito a controllarsi il naso, anche perché le sue braccia non gli rispondevano più, dondolando penzoloni sulla schiena del Bua.

“Via quella faccia da monachella oltraggiata! Una buona dormita e domani t’è passato tutto!”

Il patrizio gorgogliò qualcosa d’inintelligibile, sputando sangue, saliva e catarro.

“Eccoci arrivati. Ora potrai soggiornare coi tuoi simili, così non soffrirai più di solitudine!”

Una disgustosa pozzanghera di fieno, melma e feci avvolse Hironimo nel suo nauseabondo e bagnato tanfo, laddove Mercurio l’aveva gettato senza tante cerimonie, creando poi un certo scompiglio tra le ignare mucche le quali muggirono il loro dissenso, battendogli ansiose gli zoccoli per terra.

“Non sei contento? Potevo gettarti in un porcile, sai? Fortunatamente per te, non voglio correre il rischio che tu finisca sbranato dai maiali”, s’informò melenso l’albanese, mentre costringeva il giovane seduto contro il muro della stalla, fissando le catene su di un cerchio in modo che il prigioniero si ritrovasse le braccia bene in alto. “Cosa si dice?”

Fottiti! , gli comunicarono i suoi occhi neri nella più velenosa delle sue occhiatacce, dolendogli troppo i muscoli facciali per farlo ad alta voce.

“Una o due notti di riflessione ti gioveranno. E se proprio vuoi annoiare qualcuno con le tue corbellerie, guarda, sei circondato da un pubblico molto accondiscendente”, gli spiegò Mercurio con falsa cortesia, allargando le braccia e indicando le ineffabili vacche. Chinandosi su di lui, gli afferrò il mento e gli confessò con sinistro entusiasmo: “Riuscirò a piegarti, carino, vedrai se non ti leverò questa dannata tua spocchia dagli occhi!” Non voleva leggervi lo sguardo di Caterina, non quando continuava a perseguitarlo, rinfacciandogli ogni suo errore. “Azzarda un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il marmocchio, lavandoti la faccia col suo sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio avvertimento!”, gli promise mortalmente serio, mollando bruscamente la presa. Rimessosi in piedi e sogghignando malevolo, il condottiero uscì dalla stalla, sbattendo rumorosamente la porta per sommo chagrin delle mucche, che muggirono nuovamente il loro disagio.

Questo lo vedremo! Ti ammazzerò, giuro che piscerò sulla tua testa mozzata!, scoppiò Hironimo ringhiando in uno sconquassante pianto di frustrazione, strattonando impotente le catene, furente, solo, umiliato, il viso ridotto ad una maschera di lividi, lacrime e sangue.

Avrebbe trovato il modo di fuggire, così da dargliela definitivamente sui corni a quel dannato! Fosse stata l’ultima cosa ch’avesse fatto in vita sua!

Ma prima, doveva darsi una bella calmata e far buon viso a cattivo gioco.

L’albanese poteva vantarsi d’esser un uomo di mondo, ma Hironimo proveniva dalla città del Carnevale laddove, per tre mesi, ognuno assumeva un’identità fasulla, a piacimento.

Si recitasse dunque quella del prigioniero mite e rassegnato.

Tranquillizzatosi e regolando il respiro, Miani si nettò con la lingua il naso colante di sangue, sorridendo sghembo: costasse quel che costasse, l’ultima risata l’avrebbe avuta lui.

 

 

 

***

 

 

Da Sacile, riassunto delle lettere di sier Marco da cha’ da Pexaro, podestà e capitano, e di domino Antonio Savorgnan.

 

I nimici hanno passà la Piave e auto Conejan, qual era stà abandonato. Sier Hironimo Marzelo, podestà, era venuto lì, a Sazil, et domino Baldisera di Scipioni; scriveno, si mandi fanti de lì e si provedi. Et per colegio fo terminato, che Damian di Tarsia, era qui, facesse … fanti qui et andasse a Zazil, e cussì la matina sequente a San Zacharia sier Lucha Trum, executor, andò a expedirlo et dar danari a li fanti.

 

 

Da Treviso, riassunto delle lettere di sier Zuam Paulo Gradenigo, provveditore generale, e di sier Lunardo Zustignan.

 

 

[…] in consonantia, todeschi haveano passà la Piave et francesi no, imo haveano fato comandamento e cride, niun de’ francesi non passasse e tutti li venturieri si partisseno de lì di campo. Item, che sacomani andavano per le ville dimandando lemosina di pan, et vivevano de vua, e che al presente saria il tempo di darli adosso dividendossi cussì, e il campo, è in Padoa, venisse a Noal.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

**************************************************************************************************************

E rieccoci qua ad un anno esatto dal primo capitolo (prologo): 27.09. 2019 – 27.09.2020!

Anniversari a parte, adesso ci inoltreremo nella parte meno piacevole della storia: come detto giustamente da Mercurio Bua, abbiamo riso e scherzato, ma sarà sempre di meno.

Ringraziamo Semperinfelix per le dritte che sempre ci dà e che di recente è divenuta madrina, avendo infatti nomato Fra’ Anselmo visto che il Sanudo ha un po’ il vizietto di lasciare alcuni personaggi anonimi.

Di nuovo, mi dispiace per i germanofili ma in questa guerra i tedeschi proprio hanno fatto una figura barbina, così come il La Palisse era veramente maltrattato da tutti, non sono io che mi accanisco. Quanto alle vicende di Feltre, ogni lettore trarrà le sue conclusioni.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Breve ripasso del martirologio dei santi citati: a San Sebastiano vennero prima scagliate tante frecce da parte dei suoi stessi arcieri, da crederlo morto; guarito dalla vedova Irene, ritornò ad accusare Diocleziano che lo fece bastonare a morte. San Giorgio sconfisse il drago infilzandolo con la sua lancia e subì il martirio tramite decapitazione; a Sant’Erasmo vennero cavate le budella e San Floriano venne gettato in fiume con una macina al collo.



  
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