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Autore: yonoi    01/10/2020    12 recensioni
Un italiano a Tōkyō, un lutto recente per la perdita dell’amata Fumi, una donna giapponese. Due lavori – il servizio di pulizie in una grande azienda e un part time in un ristorante – che non aiutano a colmare interamente la solitudine. All’improvviso un incontro, qualcosa di Fumi sembra tornare nelle delicate sembianze di un giovane cliente del locale.
Prima classificata al contest “Folklore d’Italia” indetto da Vintage sul Forum di EFP; partecipa alla challenge "Riproviamoci! Challenge a tempo" indetta da Mystery Koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il padiglione d’oro – una storia giapponese

 
 
“Nel mio andarmene
nel tuo restare –
due autunni”
 
(Masoka Shiki)
 

 
  1. Il padiglione d’oro
 
Da questa parte del mondo, il giorno arriva prima che da qualsiasi altra parte. Alle cinque è già chiaro, una striscia di azzurro sul muretto di cinta e il mormorio del traffico che incomincia a crescere più in là sulla strada.
Nella mia stanza, una delle pareti è composta da vetri scorrevoli, che scivolano l’uno sull’altro silenziosi: capita spesso che in quel gioco di trasparenze uno dei pannelli resti aperto, così che ho l’impressione di dormire in giardino, avvolto nel respiro che sale dalla terra e nel futon di trapunta.
Da uno spiraglio entra una bava di brezza. Fruga in mezzo alle felci, stacca le foglie dal caco con uno scricchiolio fragile e le porta qua e là, a sfiorare il terreno e poi di nuovo in alto.
Più o meno a quest’ora passa il ragazzo del giornalaio, un berretto calato tra due ginocchia che pedalano svelte, nello sforzo di correre più veloce del freddo. 
Un involto lanciato al di là del muretto, un tonfo porta le ultime notizie a destinazione. Ed è così che iniziano i rumori del giorno.
Allora le pantofole della Momoko-san iniziano a farsi sentire, girando per la casa insieme agli uccelli: il canarino nella gabbietta di bambù, nell’angolo di maggior luce della cucina. Il richiamo del merlo sull’albero del caco, tra i rami come linee che tagliano il cielo.
L’acqua del tè che bolle quasi non fa rumore, è riservata quanto la Momoko-san, che c’è ma non si vede. Quando uscirò dalla stanza, la colazione sarà pronta in un angolo, accanto al bentō annodato con cura nel fazzoletto. Il ricordo di Fumi riempirà tutta la stanza e persino nel bianco abbagliante dei muri ritroverò frammenti del nostro ultimo inverno. Lei infreddolita che si stringe nel cappotto, le sopracciglia come gabbiani sulla spiaggia e dietro la mareggiata.
Chissà perché i ricordi di Fumi sono sempre legati ai colori freddi. Il grigio della pioggia a cordicelle sui vetri, la tenue fosforescenza dei mattini di neve. Immagini che emergono da un fondo di oscurità come in certe pellicole senza sonoro, filmini in superotto che ritraggono ombre.  
Un cielo di madreperla è stampato sul furoshiki con cui la Momoko-san ha impacchettato il mio pranzo. Quando svolgerò il nodo scoprirò un volo di aironi, ciliegi in fiore o creste di spuma bianca e grigia. All’interno, involtini sigillati da cordoncini di alghe, palline di riso e verdure disposte con la stessa artistica precisione.  
Col pranzo sottobraccio e una pioggerella di aghi sopra alla testa, mi dirigo alla fermata dove l’autobus è già in attesa con la sua aria da pachiderma sonnolento, un lato un po’ inclinato per fare entrare la gente. Ombrelli che si accalcano, qualche giacca e cravatta, ragazze coi calzettoni e le orecchie filanti, collegate a minuscoli lettori di musica. L’autista ciondola il capo tra il poggiatesta e la mano, tutt’intorno si avverte l’odore della salsedine.
Il mare assomiglia alla mia padrona di casa: non si vede, ma la sua presenza s’intuisce un po’ ovunque. Si insinua in fondo ai vicoli, scricchiola sotto i passi come se fosse sabbia. Dietro agli steccati che chiudono i giardini, immagino file di ombrelloni chiusi, la spiaggia picchiettata dalle gocce di pioggia.  
Se la malinconia avesse un suono, sarebbe il fruscio della risacca che va e viene incessante.
Più tardi, sull’autobus, scoprirò qualche granello, un frammento di conchiglia giunto da chissà dove e rimasto appiccicato alle suole.
 
****** 

Attraverso quest’atmosfera di acqua e di sale, arrivo in città e il silenzio continua negli uffici. Il carrello dei detersivi, col mocio e gli altri attrezzi per il lavoro di pulizia, ha le ruote di gomma e si muove senza rumore. A quest’ora alle scrivanie non c’è ancora nessuno e persino il ricordo di Fumi si dissolve oltre la linea dei grattacieli dell’orizzonte.  
Negli ultimi tempi la malattia le aveva tolto le forze, fino a lasciarle il minimo indispensabile per aprire e chiudere gli occhi. Fumi però impiegava quegli ultimi scampoli di energia per sorridere, quando da impercettibili mutamenti nell’aria si accorgeva che ero entrato nella stanza. Fino a poco tempo prima era stata pianista e la musica continuava a tesserle attorno un bozzolo, suonando notte e giorno dal lettore appiattito tra le boccette, le garze, le scatole dei farmaci e i relativi orari.
Il suo sorriso galleggiava nella penombra insieme al sudore vecchio nelle lenzuola, la menta nei flaconi degli sciroppi e il tintinnio del furin appeso alla finestra.  
Quando all’ospedale era risultato chiaro che non c’era più niente da fare, Fumi aveva scelto di tornare nella sua casa di Tōkyō. Desiderava trascorrere il tempo che le restava sotto a un cielo che le fosse familiare. Non voleva morire in un paese non suo, in una corsia che era tutti i luoghi e nessuno, dove non c’era neppure un furin alla finestra, a rasserenarla con la cantilena del vento.  
Durante il viaggio le ho tenuto la mano e ho continuato a tenerla anche dopo. Poi sono rimasto qui, ad ascoltare il furin riempire con il suo sussurro la stanza che ho preso in affitto dalla Momoko-san.
Il furin è un oggetto piccolo ma potente. Offre sollievo dalla calura estiva dando un suono alla brezza, muovendo un bastoncino contro una piccola cupola di ceramica, di vetro, di metallo. A seconda del materiale, il timbro è sempre diverso.
Una striscia attaccata a una cordicella affida parole al vento.
Pioggia di primavera, nei campi il verso del grillo, l’autunno ha foglie rosse, l’inverno neve e cenere, vibrava il furin preferito da Fumi. Era dipinto a mano con un motivo di lucciole, la luce breve che si spegne nelle tenebre. 
Prima che mi arrivasse un rimprovero scritto da chissà chi, un furin mi faceva compagnia anche al lavoro. Lo tenevo appeso al carrello col mocio, i guanti di gomma, il secchio. È l’unico strumento che io abbia mai imparato a suonare.
Per un certo periodo, le cose sono andate avanti così: io, due stracci e Tōkyō quarantadue piani più sotto, nel silenzio delle prime ore del giorno.
Finché qualcosa è cambiato, e non per via di quell’ammonizione scritta in caratteri rigidamente incolonnati da qualche dirigente della ditta. Senza che sia accaduto nulla in particolare, mi sono reso conto che il ricordo di Fumi incomincia a sbiadire un giorno dopo l’altro. Già alcuni dettagli, il tono della voce, l’aroma della pelle in certe pieghe del corpo sono andati perduti, come quando si scende un pendio e chi resta indietro scompare dietro ai tornanti. È più o meno quello che accade al caco nel giardino della Momoko-san, che a novembre lascia andare le foglie a una a una, fino a restare nudo.
Forse è giunto il momento di andarmene dal Giappone, paese popolato solo da ombre. Ma alla sola idea di mettermi in movimento, e di recuperare biglietti e documenti, mi sento assalire dalla spossatezza del naufrago solo in mezzo all’oceano.
Così, quasi senza accorgermene, mi limito ad andare alla ricerca di spazi neutri. Esistono luoghi anonimi, come ad esempio i locali dell’azienda, dove mi sento in qualche modo al riparo. Nessun ricordo di Fumi è legato a un ufficio open space, con le postazioni occupate da pile di carte, i computer ultrapiatti e in fondo una vetrata che mostra un cielo senza colore, che potrebbe essere ovunque.  
In questa bolla di quiete, mi lascio assorbire dallo scroscio dell’acqua, dall’odore di limone che si leva dalla schiuma del secchio. Ogni flacone ha un’etichetta a fumetti, scritta in ideogrammi con un’infinità di colori e punti esclamativi. Di mio pugno, ho aggiunto brevi indicazioni in italiano sopra a strisce adesive – pavimenti, piastrelle, legno – perché anche se mi trovo in Giappone da più di un anno, della lingua non ho imparato quasi niente.
Non ho molte occasioni per parlare a qualcuno. Con la Momoko-san, ho convenuto una sorta di alfabeto dei segni: io indico col dito, balbetto qualche sillaba e lei riesce a dare a questo linguaggio amputato un senso compiuto. Immagino che si affidi a quell’intuito che molti giapponesi possiedono senza darlo a vedere, e che li rende capaci di comprendere lo stato d’animo del vicino solo standogli accanto. Sarà che tutti, qui, condividono la medesima forma di tristezza trattenuta.
 
******
 
Alle otto meno un quarto, identici uno all’altro come se fossero lo stesso individuo moltiplicato, arrivano gli impiegati. Escono dagli ascensori e da uno diventano cento, tutti in giacca e cravatta, cravatta e pullover, borsa e cappotto ripiegato ordinatamente sul braccio. Le donne si distinguono per qualche nota più accesa, un foulard colorato, un ciondolo di Hello Kitty legato alla borsetta. Come i colleghi uomini salutano con un cenno, prendono posto nelle rispettive celle dell’alveare e si lasciano assorbire subito dalle carte, gli ordini da spedire, quelli da controllare, gli imperativi categorici dei capi che piombano come fulmini a ciel sereno via mail.
Pur arrivando in anticipo, tutti hanno l’impressione di essere in ritardo. L’orario vero e proprio inizierebbe alle otto e mezza, ma nessuno perde tempo col cellulare in mano, o accanto ai distributori che elargiscono lattine di caffè bollente e tè verde. Il ticchettio delle dita che sfiorano le tastiere li avvolge in una nube di assoluta e timorosa concentrazione. Dal canto mio rifornisco il carrello, conto i rotoli da lasciare nei bagni e per oggi, qui, ho finito.
 
******
 
Al pianterreno dello stesso edificio c’è un ristorante, un cunicolo basso con una porticina chiusa da cordicelle, che nei mesi di cappa umida dell’estate tengono lontano l’assillo delle mosche. Ai lati dell’ingresso due lanterne e un grosso gatto di plastica, con la zampetta alzata per chiamare i clienti e magari anche un po’ di successo dai piani alti. La zampetta in questione è esageratamente lunga e ricorda un bastone: il che mi sembra adeguato, considerato il carattere del proprietario.
Forse perché sono loro i principali avventori e il cliente va messo in ogni caso a suo agio, davanti al bancone c’è una fila di trespoli e divisori, che ricordano le celle dentro a cui gli impiegati producono per la ditta. Dentro a quei loculi, i dipendenti della Bio Nihon mangiano come lavorano, assorti e in completa solitudine. Da una finestrella escono le scodelle del ramen col grande occhio dell’uovo che galleggia nel brodo, i tempura di gamberetti, le miniature cesellate del sushi. Il signor Muso, il gestore, manovra dietro alle quinte i cestelli del fritto, taglia la frutta a forma di ventagli e di fiori, prepara panda di riso per i bambini, per il resto del tempo è sempre di umore pessimo.
Muso, naturalmente, non è il suo vero nome ma quello che gli ha affibbiato il sottoscritto, perché lo sguardo perennemente accigliato che gli accartoccia il volto è una caratteristica che salta subito agli occhi.
Discendente di immigrati dalla Corea ancora in tempo di guerra, Muso coltiva con la devozione e il rispetto dovuti ai propri antenati un odio sanguinolento verso due categorie piuttosto ampie di individui: tutti i giapponesi e tutti gli inglesi. Secondo il suo personale metro di valutazione, per inglesi debbono intendersi gli stranieri di ogni parte del globo, sicché le possibilità di entrare nelle sue simpatie, per me e il signor Be, sono pressoché inesistenti.   
In compenso, io e Be rappresentiamo una valvola di sfogo in grado di riequilibrare i malumori di Muso quando il locale è affollato, le richieste dei clienti si susseguono pressanti, il suo faccione da Buddha diventa paonazzo e la pancetta tonda sotto al grembiule si trasforma una pentola a pressione in procinto di esplodere. Allora gli strofinacci cominciano a volare sulla mia testa di inglese che parla a monosillabi e sulla zucca di Be, che più semplicemente non dice una parola essendo sordomuto dalla nascita.
Il signor Be condivide con me l’alacre destino del lavapiatti e factotum del locale, funzione che comprende, oltre allo scarico delle merci e il servizio ai tavoli, la pulizia della cucina, dei pavimenti e di qualsiasi altra superficie esistente.
Fortunatamente, Muso non ha il bernoccolo della perfezione e non misura la polvere sulla punta dell’indice. L’unico angolo del locale su cui non transige è il padiglione d’oro. Si tratta di alcuni tavoli collocati in posizione più riservata, all’interno di una saletta chiusa da un paravento. Qui l’intonaco color mattone è meno cupo, e le stampe con vedute del monte Fuji non sono circondate da ragnatele di crepe.
Soprattutto la sera, al padiglione cenano i boss dell’azienda.
Per un certo periodo avrei dato chissà cosa per riuscire a stanare, in mezzo a quelle combriccole rilassate, il tizio che in un momento di sacro zelo s’era preso la briga di appiopparmi la famosa lettera di richiamo, dovuta all’uso non consentito del furin.
Quando mi era stata consegnata dall’addetto della Bio Nihon, il signor Be si era premurato di tradurla per metà a gesti e per l’altra metà scrivendo su un tovagliolo. I tovaglioli di carta, ridotti a brandelli e nascosti nelle tasche, sono il nostro abituale mezzo di pronto soccorso quando Muso dà ordini e io resto impalato, segno più che evidente che non ho capito niente.
Ovviamente, meno riesco a capire e più il capo si arrabbia, sicché a quel punto Be cava una strisciolina e interviene a salvare l’inglese in difficoltà. Be legge le labbra agli uomini d’affari di Singapore e Taiwan, agli americani in camicia hawaiana e infradito, agli studenti che arrivano dalla Francia e dalla Germania. Bazzica un po’ tutte le lingue e ama immergersi nella lettura dei dizionari come se si trattasse di libri di avventure.  
È vietato far musica, aveva mimato Be quella sera, scorrendo le dita sopra a un’immaginaria tastiera, e io immediatamente avevo pensato a Fumi seduta al pianoforte. Alla prossima infrazione, licenziamento, aveva scritto di seguito il mio collega, firmato Hirano Ryumei direttore del personale.
Per ribadire il concetto, Be aveva rivolto mezzo dito prudente in direzione della schiena di Muso, in quel momento completamente assorbito nell’operazione di scolare gli spaghetti e disporli nelle scodelle. Fai attenzione, aveva aggiunto, a mo’ di postilla sul tovagliolo.
All’inferno, avevo risposto alle gelide rimostranze di Hirano Ryumei. Senza considerare che di fronte a me non c’era quel tizio mai visto, bensì un poveraccio che tutti si sentivano in diritto di strapazzare solo perché non riusciva a esprimersi a parole.
Mentre il mio collega rideva con la voragine della sua bocca senza denti, mi venne in mente che non sapevo neppure quale fosse il suo nome. Provai a domandare, ma Be si limitò a puntare il dito sulla parola attenzione, sottolineando il tutto con l’unica sillaba che era in grado di pronunciare: be, per l’appunto.   
 
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Ed è qui che comincia, in realtà, questa storia.
Da un fine settimana dal clima insolitamente mite, da una sera percorsa da una brezza tiepida che spinge la gente in strada con un gelato in mano, un cartoccio di dolci acquistati dagli ambulanti e nuvole di zucchero filato per i bambini. Il crepuscolo gonfia le nubi alla stessa maniera dei venditori, indaffarati a montare quelle matasse rosa che si attaccano alle mani, ai capelli, alle guance.
Sulle facciate dei palazzi, già immerse nella penombra, le luci degli uffici si spengono una dopo l’altra. Pochissimi rimangono a fare gli straordinari, molti di più si affacciano attratti dal richiamo di questo autunno sontuoso, che sembra arrivare fin qui come un torrente in piena dalla campagna.
Anche il signor Muso ha inaugurato un banchetto per vendere ai passanti polpette e spiedini, coni di gamberoni fritti al momento. Poiché di noi non si fida, ha lasciato me e Be a presidiare il locale, che questa sera è stranamente deserto. L’intonaco mattone, che di solito crea un clima di oscurità, risplende di bagliori. Tra gli sgabelli altissimi si consuma un incendio senza rumore.
Il riverbero è così forte che io e Be quasi stentiamo a riconoscerci. I gomiti sul banco e i piedi che riposano per una volta tanto, restiamo a lungo vicini e in silenzio. L’ombra di Fumi accanto a me è così intensamente presente che se allungassi la mano potrei quasi sfiorarla. Siamo così rapiti dallo spettacolo di quel cielo che implode, che neppure ci accorgiamo che un cliente è entrato ed è andato ad accomodarsi dritto nel padiglione.
È il signor Be a rendersene conto per primo, stringendo gli occhietti come chi si desta da un sogno. Subito si precipita ad avvertire Muso, che in quel momento è circondato da un gruppo di ragazzine e sta raggiungendo rapidamente il punto di ebollizione. La breve parola che rivolge al signor Be è una delle poche che ho imparato subito e mio malgrado: Arrangiati, ringhia Muso, e mai come in quel momento il suo soprannome gli calza a pennello. La coda tra le gambe del mio collega che rientra al galoppo non necessita di ulteriori spiegazioni.
Sei tu quello che parla, gesticola il signor Be in preda all’agitazione, spingendomi verso la saletta riservata e buttandomi in pasto al cliente. Faccio presente che io capirò sì e no due parole. Per tutta risposta Be mi mette in mano un menu, non quello di plastica che usiamo di solito ma una carta elegante, con tanto di fiocco penzolante di seta rossa.
Poi comincia a sciacquare il servizio buono, calici e porcellane così preziosi e fragili che mette paura a guardarli, anche perché al collega tremano decisamente le mani. Be regola la fiamma sotto ai tegami, inizia a disporre le verdure su un tagliere, a tagliarle in nastri sottili e veloci. In ogni caso, vuole farmi capire che i ruoli sono decisi e farei meglio a sbrigarmi. Da ultimo, alza un dito verso il soffitto, per segnalarmi che il cliente in questione è uno dei piani alti, uno dei pezzi grossi della Bio Nihon, cosmetici e cibi naturali esportati in tutto il mondo, dalla Cina alla Lapponia.
Sperando che l’alto dirigente in questione ignori totalmente che a prendere il suo ordine è quello che pulisce i gabinetti in azienda, entro nel padiglione.
L’uomo che ha occupato il tavolo con grande spargimento di carte, come se fosse ancora seduto alla scrivania, alza gli occhi dal portatile e quel che mi viene incontro è lo sguardo di Fumi, posato tra le ciglia di un volto delicato e soprappensiero.
È un ragazzino, penso io sorvolando su quella strana impressione. Sarà uno stagista. Ho quasi voglia di accompagnarlo a uno dei loculi del bancone, mettergli in mano il primo menu plastificato che mi capita a tiro e risparmiarmi quello sfoggio di porcellane che vale un occhio della testa anzi due teste, la mia e quella di Be.
Il cliente, dal canto suo, ha un moto di sorpresa appena accennato, certo non si aspettava di trovare un occidentale in un locale dove non si servono pizza e ragù. Si limita a sfilarmi dalle mani il menu e comincia a ordinare con una voce infinitamente profonda e carezzevole. La sensazione che nei suoi lineamenti si nasconda qualcosa della grazia di Fumi continua a sbalordirmi. Quando esco dal padiglione, sono quasi sicuro di avere segnato un piatto al posto di un altro.
Torno al bancone in uno stato di insolita confusione.
Be sta ancora lucidando i calici e sorride.
Chi è quello là, domando, puntando con il dito alle mie spalle. Il signor Be lavora nel locale da anni, forse da prima che esistesse la Bio Nihon. Infatti, gli basta allungare il collo in direzione del padiglione per andare a colpo sicuro. Ride ancora più forte, si fa scappare un paio di be mentre scrive sulla solita strisciolina nome e qualifica del misterioso avventore: Hirano Ryumei, direttore del personale. Subito sotto, aggiunge: Fai molta attenzione!  
Quello è Hirano Ryumei? Il tizio della lettera?” replico io, con un tono un po’ troppo aguzzo. “Direi che a questo punto, la faccenda è affar tuo. Io di là non ci torno,” e ad ogni buon conto mi libero del menu come se scottasse. Il fiocchetto di seta scivola sul bancone con il fruscio di una fiammella che si accende.  
In realtà, quell’uomo mi suscita una strana mescolanza di sensazioni. Stupore, curiosità, persino nostalgia per via di quelle tracce che non riesco a ricondurre a nient’altro che a Fumi.
Non saprei neppure spiegare di che cosa si tratta: è qualcosa di simile a una fragranza nell’aria, il modo di abbassare lievemente le ciglia che era tipico di lei, un sorriso impigliato agli angoli delle labbra. Sono tutte impressioni, perché neppure per un istante Hirano Ryumei si è lasciato andare a sorridere.
Forse ho accumulato un eccesso di stanchezza. Forse dovrei andarmene da questo paese di fantasmi al più presto.
Be mi fa cenno di abbassare la voce, si precipita in strada con l’ordine alla mano per richiamare Muso dal suo presidio, riceve un altro arrangiati questa volta seguito da istruzioni dettagliate. Mentre il collega comincia a scaldare il brodo del ramen, rimango a galleggiare nella strana impressione che pochi passi più in là, dietro al paravento, Fumi mi attenda al tavolo migliore del padiglione. D’un tratto ho la certezza che voglia dirmi qualcosa.  
Quando ritorno al tavolo, il cliente sembra avere subito una trasformazione: si è scavato una nicchia dentro alla poltroncina imbottita, ha incrociato le braccia e si è addormentato. Lo schermo del portatile crea un riflesso azzurrognolo sulle ciglia di Fumi, gli zigomi alti di Fumi. E io con il ramen in bilico sul vassoio provo un senso di pena, perché mi sembra di leggere un messaggio per me in quell’abbandono così improvviso al sonno.
Fumi, sei tu? Un momento ci sei e un attimo dopo sei altrove.
 
******
 
Un ricordo di Fumi, l’ultimo.
La sua mano che, nelle ultime settimane, era diventata sempre più fredda, come se all’interno del suo corpo avanzasse l’inverno. La consistenza del sudore, l’odore che era un misto tra quello dolciastro dei farmaci e quello della neve che dentro di lei fluttuava incessante. Mi affaccio alla finestra o meglio mi nascondo dietro alle tende chiuse, ne avverto la pesantezza sulle spalle.
“Apri,” sussurra lei, che vuole vedere il cielo e nella penombra che attutisce la stanza si sente prigioniera. Mi viene incontro un fiocco che volteggia nell’aria. Poi un altro, che scompare risucchiato dagli scarichi in coda all’ora di punta.
A quel punto la neve inizia a cadere, compone falde che s’incrociano in una danza. 
La gente apre gli ombrelli, ma soprattutto si ferma a guardare in alto. Un gruppo di scolari si scompagina a in tratto, i bambini lasciano la mano del compagno, vogliono catturare quei batuffoli con la mano. Gli insegnanti si fermano anche loro col naso in su, a scrutare quel cielo lucidissimo e pallido che si disfa in frammenti.
Il furin appeso nel vano della finestra si riscuote in un fremito. Il suo tintinnio è il suono della prima neve dell’anno, giunta in anticipo forse per esaudire il desiderio di qualcuno.  
Fumi mi chiede di spegnere il lettore della musica. S’immerge in quel silenzio che cala dall’alto, annulla il brusio del traffico e adagia sopra i tetti un velo luminescente.
“Me lo sentivo, sai. Da qualche giorno sognavo grandi distese bianche. Come un immenso futon dentro a cui riposare. Avevo tanto desiderato rivederla per un’ultima volta.”
“Ho freddo,” dice poi. Lascio la mia postazione davanti alla finestra per mettermi alla ricerca di un’altra coperta.
Di lì a poche ore, Fumi si era assopita per non svegliarsi più.
Così eravamo rimasti io, la neve di Tōkyō e il furin sbattuto qua e là dal vento che trascinava i fiocchi sempre più lontano.
 
******
 
Sto ripensando a questo mentre le ombre scendono rapide nel locale. Anche quel tramonto imponente ha ceduto ormai il passo alla notte. Qua e là resta un barbaglio, una sfumatura di rosso sopra al bancone dove ritrovo Be che mi guarda stupito, vedendomi tornare con la scodella intatta del ramen. Muso sta smantellando il suo banchetto e fa la spola con gli avanzi della serata, spiedini ormai secchi, polpette che galleggiano nella teglia del sugo. Prima che il boss recuperi il suo posto di comando, domando a Be se abbiamo da qualche parte un plaid, una coperta anche piccola purché sia pulita.    
Quando torno nel padiglione, il mio cliente nonché diretto superiore alla Bio Nihon è sveglio e operativo, di nuovo concentrato sul suo lavoro al computer.
Mi rendo conto della figura assurda che faccio, piantato lì con una coperta tra le braccia a contemplare un perfetto estraneo. “Non fissare in quel modo la gente”, mi ripeteva Fumi quando la curiosità per un volto, un gesto, un dettaglio, mi coglieva d’un tratto e subito pensavo a come realizzarci un fumetto. “È una mancanza di rispetto. È maleducazione”.
“Ma qui non siamo in Giappone”, ridevo, e l’estate iniziava sotto ai portici della mia città, insieme con la fragranza dei tigli in fiore. Sulla piazzetta davanti all’uscita del teatro lei scivolava in un raggio di sole e diventava pura luce. Una bracciata di fogli sciolti, coperti dalla scrittura fitta del pentagramma, l’odore di cera e legno delle ore di prova trascorse con l’orchestra, la musica ancora intrecciata ai capelli.
Ora invece siamo proprio in Giappone, paese in cui è scortese frugare tra le pieghe l’intimità di un volto. Da dietro al bancone arrivano il ringhio di Muso e un odore estenuato, che assomiglia al sudore e probabilmente è quello delle polpette colate a picco nel sugo. Di fronte a me Hirano Ryumei esprime il suo imbarazzo chiudendo il viso come un ventaglio, probabilmente si chiede dov’è andata a finire la sua porzione di ramen.
Il servizio è scadente, leggo nell’immobilità dei suoi lineamenti.
Dalla composizione floreale sul tavolo, un crisantemo affloscia lo stelo e si piega. Vedo Hirano Ryumei accorciare il gambo e rigirarselo un poco, alla ricerca di un punto preciso della spugna dove ricollocarlo. Da queste parti i crisantemi, che sbocciano quando la terra è già fredda, sono considerati un simbolo di lunga vita. Soltanto quelli bianchi, come quello che il cliente ha in mano in questo momento, rappresentano il dolore e non si regalano mai a nessuno.  
Mi chiedo a cosa pensa Hirano Ryumei mentre gira e rigira quel fiore tra le dita. Sicuramente al ramen e al piatto di verdure che aveva ordinato, penso affrettandomi di nuovo al bancone.
 

 
  
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