Singing
is the answer
20 – Welcome back, Mr. Youtuber
«Bene, io vado.» Raon passò di corsa dal piano di
sopra a quello inferiore, stringendo tra le mani la borsa contenente il laptop
con cui avrebbe preso appunti a lezione. Era mancata il tempo necessario a
riprendere completa mobilità senza avvertire troppo dolore, constatando con suo
grande sollievo che la caduta di qualche giorno prima non aveva portato a
conseguenze gravi. Il dolore avvertito accompagnato alla sensazione di
instabilità era dato dalla botta, non da una distorsione seria. Con la scusa
dell’incidente però, la ragazza s’era presa dello spazio per sé, distanziandosi
da Aya, dai familiari e non ultimo dallo stesso Åsli che più volte aveva tentato di contattarla, senza
ricevere risposta. Era giunto il momento di riprendere i propri ritmi, le
abitudini giornaliere e un po’ di sana vita sociale di cui cominciava ad
avvertire la mancanza.
Auricolari alle orecchie, salì sull’autobus diretta all’ateneo. La musica era
stata la sua amica più grande in quel breve isolamento imposto, dove non le
andava di vedere né sentire anima viva; l’aveva sostenuta nelle notti insonni,
durante gli scoppi di rabbia, le morse allo stomaco ed alla gola. L’aiutava a
pensare, così come in quel momento la stava aiutando a riflettere su parecchie
cose: constatò come la vita stesse prendendo una direzione decisamente strana
ai suoi occhi, e di come certe persone che prima non esistevano nemmeno erano
ormai in grado di scombussolarle il cervello. Era arrivata ad un’unica grande
conclusione: avrebbe dovuto fregarsene, di tutto.
La fronte appoggiata al vetro dell’autobus vibrava al motore del mezzo, la cosa
le faceva quasi ridere, però le permetteva di focalizzare l’attenzione sul
mondo esterno, quel mondo che aveva rigettato con tanto disprezzo fino alla
sera prima. E che grazie al primo giorno di ciclo mestruale, sembrava più
ostile del solito. Un giorno orribile, un inspiegabile bisogno spinto dalla
gola, dagli ormoni, dalla mancanza di zuccheri nel corpo, il giorno in cui aveva
ceduto alle avances culinarie del fratello finalmente, dopo tutto quel
chiudersi tanto da risultare più testarda del solito. Ne aveva sentite tante di
ramanzine, ma mai come quella ricevuta la stessa mattina. Ancora rimbombava il
tono accorato e non proprio pacato – incazzato nero, l’aveva definito tra sé e
sé – della voce di Han, che le aveva rovesciato addosso frustrazione e paura
come se lei fosse stata in guerra e tornata quasi morta di stenti. S’era messa
a ridere constatando quanto potesse essere incostante suo fratello.
Solo un’altra volta aveva reagito in maniera simile, quando lui e Aya s’erano lasciati. Anzi, quando lei aveva deciso di troncare.
L’unico elemento tabù dell’amicizia che le coinvolgeva da anni era proprio la
relazione con il fratello di Raon. Aveva provato ad
insistere a sufficienza, anche di più, ma infine aveva gettato la spugna: il
silenzio stampa era stato l’arma di difesa dell’amica, e quasi si sentiva in
colpa adesso perché aveva fatto altrettanto. Non aveva pensato affatto d’aver
ferito le persone che la circondavano e le volevano bene.
Si stava sentendo in colpa.
Non con tutti però.
«Coglione.»
«Come, scusi?»
Un uomo sulla sessantina s’era seduto accanto a lei, le giacche a sfiorarsi per
via dei sedili troppo attaccati. La ragazza però era concentrata nel suo mondo,
persa tra i suoi pensieri, quindi non s’era accorta d’aver parlato ad alta voce:
boccheggiò presa completamente alla sprovvista.
«Mi scusi, mi scusi lo giuro, non intendevo lei. Mi creda, guardi…» sembrava
inciampare sui propri piedi tentando di alzarsi ed uscire da quell’angolo
imbarazzante. «Vede? Devo scendere. Ecco, è la mia fermata. Arrivederci, cioè
buongiorno.»
S’era mangiata le sillabe nel tentativo di giustificare una parola sbagliata
pronunciata nel momento peggiore. Si scagliò contro il tasto della richiesta di
fermata e fece per scendere, notando con la coda nell’occhio gli auricolari bluetooth presenti alle orecchie dello sconosciuto che le
stava sorridendo cordiale. Non l’aveva sentita, ma lei ormai aveva già poggiato
il piede sul marciapiede.
«Sono una scema. Aya mi ucciderà.»
Rise esasperata mentre estraeva il cellulare dalla tasca, mettendo in pausa di
malavoglia il video in riproduzione su YouTube e contattando Aya con un rapido messaggio di scuse. Avrebbe tardato, non
di molto, giusto qualche fermata.
Qualche.
Un po’ più di qualche.
Almeno mezzora a piedi, quantificando la strada: avrebbe camminato tagliando in
diagonale tra le due vie principali della zona nord della città, intrufolandosi
tra un passo carraio e un passaggio pedonale. Escludendo i lavori in corso in
centro, avrebbe dovuto passare davanti alla biblioteca comunale, quella dove
era solita studiare con l’amica; ritrattò il messaggio precedente proponendole
di andare lì, proprio come avevano programmato qualche giorno prima. Saltò poi
a piè pari il numero di Åsli, nonostante le
quattordici notifiche presenti accanto all’immagine del profilo nell’app.
Non le andava di rispondere, non ancora.
Rilesse ad alta voce ciò che aveva spedito, sicura di non creare
incomprensioni, e si avviò. Sgattaiolava sicura tra una stradina in
acciottolato e una laterale tra vecchi appartamenti, superando vasi di fiori in
cemento, cucce di cani impolverate, ed un paio di sdraio abbandonate alle intemperie.
Non le piaceva particolarmente quella zona, la metteva in soggezione, ma
permetteva di recuperare almeno duecento metri di vantaggio.
Ed eccola, ecco l’edificio che stava cercando. Alto, in parte ristrutturato
mantenendo le forme rigorose e geometriche di uno stile architettonico non
proprio fresco; ingrigito dagli anni, ancora sotto manutenzione nella fascia
laterale destra, permetteva un ingresso secondario raggiungendo direttamente il
terzo piano, evitando lo scalone principale. Si fermò Raon,
osservando quella facciata che aveva ormai imparato a memoria: lo stemma degli
antichi Signori della cittadina svettava all’altezza del primo piano, sopra la
terrazza chiusa al pubblico. Lo guardava con nostalgia, ripensando a quanto le
sarebbe piaciuto poterlo toccare, saggiarne la consistenza ruvida, constatare
come fosse conservato. Scosse il capo, dandosi della stupida. Stava ancora
ragionando come quando la madre l’aveva costretta a scegliere un indirizzo idoneo
ma non il suo, quando le aveva urlato contro tutto il suo odio, sotto la
minaccia di un semplice e gelido “pago io, decido io cosa sia meglio per te.”
Aspettava soltanto l’occasione di poter essere autonoma e quindi reindirizzare
i propri studi, ma non aveva ancora trovato un’occupazione che le permettesse
un tale passo. Deglutì nervosa, consapevole d’aver probabilmente sbagliato
approccio. Forse doveva essere meno dura con la donna. Sarebbe bastato
accettare le sue direttive tanto da facilitarsi la vita; non le aveva fatto
mancare nulla, non aveva bisogno di vestiti, di oggetti per la cura di sé.
Semplicemente riceveva un contributo ogni quattro settimane, gentilmente
consegnato dalla nonna che faceva da triste tramite a una transazione tanto
subdola. Sentì pizzicare gli occhi all’idea di dover dipendere da quella che
non chiamava “madre” già da qualche anno, anche se di fatto si stava
riappropriando di arretrati di mantenimento di cui aveva diritto. Si morse la
lingua e l’interno bocca come quando era nervosa, odiava essere così emotiva: gli
ormoni la stavano distraendo dall’attenzione che voleva dare allo studio, e già
stava saltando la prima lezione che si era ripromessa di seguire. Avrebbe
bilanciato la cosa con una sessione di studio, ma non riusciva a concentrarsi
in modo preciso.
Aya aveva risposto chiedendole di aspettarla all’ingresso
principale.
Poco male, la pioggia non scendeva ancora nonostante la minaccia da parte del
cielo, ed era piacevole stringersi nella giacca autunnale che ne avvolgeva il
corpo esile. Si sarebbe guardata un altro paio di video nell’attesa.
Che male avrebbe potuto farle?
Nessuno, se non la presenza di un nuovo aggiornamento sul blog di colui che
aveva riconosciuto immediatamente.
«Cosa? E questo da dove viene?»
Åsli apparve sullo schermo dello smartphone, il volto
nascosto dai capelli slegati, le dita intente a pizzicare le corde di una
chitarra.
Stava suonando.
Ed era tremendamente triste.