Singing
is the answer
21 – Give me another shot, please
«Ma che cazzo vogliono questi adesso?»
Åsli sbuffò notevolmente irritato. Possibile non
fossero in grado di lasciarlo in pace nemmeno volendo? Quando non pubblicava, i
follower dei vari social rompevano irrimediabilmente le scatole; ora che si era
deciso a riprendere a suonare, a farsi vedere, a dare voce al proprio disagio
ed alla frustrazione, veniva subissato da commenti e domande, decine di
domande, centinaia di domande. Stavolta centinaia, sì. Faticava a seguire i
continui aggiornamenti delle pagine, delle home.
Avevano fiutato qualcosa quei benedetti esseri umani che volevano di nuovo
vederlo su internet. Cosa poi, lo sapevano solo loro, ma intanto l’entusiasmo
per il nuovo video aveva scatenato reazioni contrastanti. Cosa avrebbe dovuto
fare? Rispondere a ogni singolo commento e sperare avrebbero finito con le loro
elucubrazioni? Sia mai, ci avrebbe impiegato un’eternità. Poco prima di uscire
dal sito scorse un messaggio che attirò la sua attenzione, colpendolo in modo
diretto, inaspettato.
KSH11.
Era solo un accostamento di lettere e numeri, che altro avrebbe potuto
significare?
“Du
er veldig god. Ikke glem
meg.”
Gli si gelò il sangue nelle vene, le mani si informicolarono improvvisamente e
gettò il cellulare sul divano, fregandosene della probabile caduta; si sarebbe
rotto forse, poco importava. Imprecò impallidendo per poi andare a sbattere
contro il frigorifero accanto all’ingresso del corridoio. La rabbia saliva
accompagnata da una frustrazione tale da scombussolargli i pensieri: non era
uno stupido, i segnali erano più che chiari, non potevano esserci equivoci. Strizzò
gli occhi ed inspirò cercando di calmarsi, avrebbe potuto e dovuto contrastare
lo scatto d’ira che lo avrebbe portato a rompersi una mano contro al muro.
Trattenne a stento un gemito mentre si stringeva un polso con le dita sbiancate,
frenando l’impulso di farsi del male e gettare all’aria la possibilità di poter
suonare di nuovo la chitarra.
Era lei.
Soltanto lei avrebbe potuto fargli i complimenti in norvegese sul suo link
diretto, davanti a tutto il mondo. Solo lei avrebbe potuto scrivergli “ikke glem meg, non dimenticarmi”. Che cazzo le stava prendendo?
Con che faccia tosta si era ripresentata così? Stupido lui ad averle dato un
minimo di speranza il giorno in cui Josh li aveva messi in contatto. Un idiota
patentato il suo amico, e lui ancora di più, perché di fatto dopo aver chiuso
con lei, dopo aver lasciato la band, finito di pubblicare sul profilo le proprie
esibizioni, mollato tutto e trasferitosi nella periferia anonima di una
cittadina qualsiasi, ancora non era riuscito a dimenticarsela. Quel “KSH”
poteva stare tranquillamente per Kisha. E sapeva che
era così, non c’era margine di errore.
Si avvicinò alla vetrinetta della sala, dove conservava un paio di bottiglie di
quelle forti, per poter riuscire a reggere momenti simili senza andare
completamente fuori di testa. Voleva ricominciare, riprendere a lavorare in
autonomia senza far preoccupare nessuno, e invece di trarne giovamento s’era
ritrovato a bere di nuovo quel liquido acido che neanche gli piaceva più di
tanto, però era efficace: la foschia che avrebbe annebbiato il cervello di lì a
poco era meglio di qualsiasi medicina, o terapista. Stavolta ci sarebbe andato
piano, e si promise di prenderne solo un paio di sorsi. Recuperò un bicchiere
da shot, se lo sarebbe fatto bastare.
Un ippopotamo dall’aspetto orrido e dal sorriso sghembo se la rideva beffandosi
di lui, un adesivo inquietante su quel bicchierino di vetro da quattro soldi.
Che regalo pessimo: era stata Raon a darglielo quando
l’aveva aiutato a sistemare la spesa per la casa, dopo poco il suo
trasferimento. Sbuffò ridendo un po’ a casaccio, un po’ isterico, nemmeno lui
sapeva come sentirsi. Ingoiò trovando conforto nella gola bruciante, nell’acido
allo stomaco, negli occhi strizzati per lo sforzo a trattenere il tutto oltre
l’esofago. Se ne versò un altro, tanto che male avrebbe potuto fare? Nulla di
che, era solo in casa, nessuno l’avrebbe disturbato e sarebbe stato in grado di
rovinargli il pomeriggio; avrebbe canticchiato ancora qualcosa, probabilmente
pulito un po’ in giro e perché no, anche dormito prima di cena. Sembrava
davvero un ottimo programma.
Irrimediabilmente rovinato dal campanello, insistente, pressante sui timpani,
eterno.
Avrebbe dovuto staccarlo prima o poi. Anzi, l’avrebbe fatto quella stessa sera.
Rifletté in piedi sul corridoio, limitandosi a tre scelte: quel
idiota di amico infame puttaniere di Josh, Raon
che lo evitava come la peste dopo l’episodio della caviglia della madre, e…
«Per… Per Fredrik? Signor Fredrik?»
Lei, naturalmente. Probabilmente l’ospite più gradito tra le possibilità che
aveva preso in considerazione. L’unica che avrebbe potuto evitargli una sbronza
epocale, solo come un cane, in un pomeriggio triste di una stagione di mezzo.
Niente di speciale sotto quel cielo grigio e atono, se non la presenza stessa
della signora Luciye. Non si premurò nemmeno di
richiudere la bottiglia, aveva già rimosso la sua presenza dalla mente così
come il sapore dalla bocca. La accolse in casa con un sorriso amaro, la sua
presenza lo rasserenava in qualche modo nonostante i brutti tiri lanciati al
suo ingresso in quell’appartamento.
Si accomodò la vecchina, scricchiolando come un pavimento in legno del secolo
scorso – proprio come la soffitta in cui Åsli ancora
faticava a salire per via dello shock; si stiracchiò allungando le braccia
stanche e osservando il ragazzo da dietro gli occhiali da vista che indossava
con un certo disagio. Infine si decise a toglierli
borbottando contro l’incapacità di sostenerli e sopportarli.
«Signora, quanto tempo! Mi dica, come sta?»
«Oh, figliuolo, con un cicchetto di quel buon whiskey probabilmente andrebbe meglio.»
«Come, scusi?»
«Orsù non faccia quello che non sa di cosa sto parlando. Sono anziana, non
rimbambita. Su su, allunghi un bicchierino e
beviamocene un paio.»
Åsli sorrise consegnandole ciò che aveva richiesto, e
riempiendone una parte per sé.
«E questo cosa sarebbe? Ho chiesto un cicchetto, non un assaggio. Ah, questi
giovani di oggi… bisogna proprio insegnargli tutto. Si sieda caro ragazzo, si
sieda pure.» Con mano malferma recuperò il distillato cercando di versarsene
una dose abbondante, rovesciandone una parte sul tavolino. Imprecò in una
cadenza dialettale che il ragazzo non era riuscito a riconoscere e collocare,
per poi mandare giù con un colpo secco il contenuto.
«Questo sì che farà bene alla pressione bassa! Ah, bene, ora che mi sono
sciacquata il sapore di medicinale dalla bocca, possiamo cominciare.»
Cosa intendeva con cominciare se lo stava chiedendo l’inquilino, ancora stupito
del gesto superbo di colei che poteva tranquillamente portare una cinquantina
d’anni più di lui sul groppone.
«Cominciare?»
«Certo, tesoro. L’interrogatorio. Per quale motivo crede sia qui?»
Confuso più di prima, sorseggiò il contenuto del proprio bicchiere prima che Luciye glielo strappasse di mano.
«Raon, eh? Vittima anche lei del suo pessimo gusto,
noto.»
Åsli si mosse agitato sulla sedia avvicinata al
tavolino del soggiorno, così da mantenere la dovuta distanza di cortesia
dall’ospite.
«Chiunque la conosca è condannato a ricevere cose simili. Io ho un plaid che
tengo rigorosamente nascosto nell’armadio della camera. Sa cosa significa
avvolgersi con dei ragnetti disegnati? Non posso avere una nipote che mi regala
i centrini di pizzo, come tutte? Santa ragazza, che ho fatto di male… mi dica,
che ho fatto di male? E beva per la miseria, mandi giù che fa bene.»
Ingollò immediatamente sentendosi punto sul vivo, convinto che la moderazione
potesse essere una buona dimostrazione di cortesia e bon ton. Cortesia un
corno, decise di spostare la bottiglia e riporla in vetrina prima che lei se la
scolasse e si facesse venire un arresto cardiaco in sala.
«La conserva per quanto tornerà Raon?»
Avrebbe voluto rispondere “ovvio che no.”
«Tanto non tornerà.»
Risposta idiota, inadatta, sincera una volta tanto.
«E per quale motivo, stellina?»
Åsli tentò di nascondere con un colpo di tosse
l’ilarità suscitata dai continui nomignoli affibbiatogli, ma si sentiva certo
più leggero. Complice la presenza della donna, poteva evitare di pensare a tutto
ciò che lo circondava, che lo stava stritolando ripresentandosi come uno
spettro.
«Oh lasciamo stare questa faccenda, se pensa che quella impiastra di mia nipote
non si ripresenti, farà bene a prepararsi. A breve sarà qui, sa, io queste cose
le sento, il mio fiuto non sbaglia mai.»
Lui scosse il capo, convinto che l’unica assunzione di alcool le avesse già
dato alla testa portandola a fantasticare delirando. Un improvviso trillo ben
distinto e costante richiamò l’attenzione del ragazzo, mentre la signora se ne
stava ancora tranquilla e sorridente ad osservare la modifica degli arredi in
casa propria con una certa curiosità.
«Ehm, mi scusi…»
Aveva alzato la testa ed assottigliato lo sguardo, corrucciando le sopracciglia
massaggiandosi il mento con gesto ritmico: no, non ricordava di aver lasciato
quel mobile in quella posizione.
«Signora?»
E da quando una plafoniera sul soffitto? No, non andava bene, doveva
assolutamente regalare al nuovo arrivato uno di quei bei lampadari a goccia,
con le candele finte, proprio come andava di moda nel nuovo millennio.
«Il telefono!»
Sì, un bel lampadario di quelli eleganti, preciso preciso
a quello del salone di casa dell’amica di lunga data – lunghissima.
«Non si preoccupi, ciccino, risponda pure.»
«No, il suo telefono!»
Luciye per qualche secondo si tastò, controllando la
tasca destra, quella sinistra, entrambe quelle dei pantaloni, per poi aprire il
giaccone che indossava rovistando nel golf. Niente. Allora scavò più in là,
nella tasca interna dell’indumento, estraendolo con gesto trionfante. Strinse
le palpebre nel tentare di tradurre il nome a lettere cubitali nello schermo
del moderno smartphone che i nipoti avevano avuto la bella idea di regalarle
qualche mese prima, per poi decidersi ad indossare nuovamente gli occhiali,
così da vederci di nuovo.
«Visto, signor Per, che le avevo detto? Ho fiuto.» Sorrise gongolando,
toccandosi la punta del naso con il dito. «Sì? Pronto tesoro!»