Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.09.2021
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Capitolo
Diciassettesimo
Confiteor
(…
e
onora la madre)
Madre
è l'altro
nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli.
(Il Corvo)
Agosto 1499
Momolo
smontò violentemente da cavallo, la gola serrata
dall’arsura e dalla collera, intanto che si slacciava furioso
il farsetto, i
lunghi capelli in battaglia, liberi dall’oppressione della
bereta. Stringeva
gli occhi, vagando alla cieca e così pure conduceva il
docile suo cavallo, le
belle gote vermiglie bruciate dal sole e dallo sdegno.
Attorno a
lui, lo circondava il verde della natura alla vigilia di
Santa Monica [1], l’aria offrente qualche raro spiraglio di
fresco in quei
torridi vapori estivi. Il cielo d’un turchino feroce tagliava
nettamente le
sagome lontane dei monti tra cui il Grappa dietro ad Asolo, illuminando
il
dolce connubio tra le viti d’uva recantina, i campi coltivati
e la foresta che
si stringeva man mano che ci s’avvicinava ai Fontanassi del
Sile, là dove il
tredicenne anelava nascondersi nel suo selvaggio abbraccio.
Aveva
infatti cavalcato alla stregua delle Erinni da Fanzolo fino a
Casacorba, poco distante da Vedelago, con l’arco in spalla e
la scusa di
cacciare aironi in bocca: in realtà, poca concentrazione gli
restava per
destreggiarsi in quel suo passatempo. Momolo avanzava piuttosto alla
ricerca
delle risorgive tra gli arbusti incolti, le erbe alte e graffianti,
imbiancate
di sputacchine e ornate da collane di ragnatele bagnate di rugiada.
Sperava di
non imbattersi in nessuno, specie negli operosi mugnai che
lì macinavano le
numerose staie provenienti dai campi arati.
L’assenza
di civiltà nella boscaglia – i casoni dal tetto di
grisole [2], le ville, le chiesette, perfino i monasteri –
ristoravano l’animo
avvelenato del giovinetto, beandosi del paesaggio imbevuto del caos
della
natura contro quello armonioso ma forzato dell’uomo. In esso
non esisteva né
logica né utilità, soltanto quel fiero disordine
che ben rifletteva i
turbolenti pensieri del ragazzo, la sua ribellione alla ragione e alla
calma.
Similmente all’acqua indomita, essi scorrevano vorticosi e
Momolo v’annegava,
soffocando nel suo malessere.
Il
fontanasso sbucò all’improvviso, riflettente il
verde delle
fronde degli alberi e dei giunchi fluttuanti. L’acqua della
possente ed
irrequieta Piave, giunta grazie al sottosuolo permeabile fino a
Casacorba,
risorgeva ora a nuova vita. Sul fondo fangoso e sulle rive laterali di
queste
che, in apparenza, parevano grandi pozze d’acqua, piccole
bocche borbottavano
in continue bolle il loro benvenuto alla nascita del Sile, lo
stridulo
richiamo di qualche uccello lontano a tener loro compagnia o
l’eco dell’acqua
sollevata dai mulini e le campane di una qualche cappella sperduta
nell’alta e
fitta vegetazione.
Momolo
era consapevole di quel limo, di come avrebbe provocato la
contrarietà di Madre, di sicuro non contenta delle macchie
grigiastre sugli
stivaletti e le braghe. In altre circostanze, al tredicenne il solo
pensiero di
un cipiglio in quel volto amatissimo l’avrebbe inorridito.
Adesso, non soltanto
non gliene importava, anzi, quasi desiderava provocarlo.
Nella
torba dunque procedette, a piedi, incurante di lodarsi, del
graffiare dei rovi, del pizzicore delle ortiche. Afferrò un
ramo secco e avanzò
battendo siepi e rovi, sia per farsi spazio sia per spaventare
eventuali bisce
nascoste. Quando raggiunse uno dei tratti nascenti del Sile -
“La Porta
dell’Acqua” -
pareva uno di quei
selvaggi che si diceva giungere dall’India, tanto che un
povero mugnaio lo
scambiò per un brigante di strada e poco mancò
che gli sguinzagliasse addosso i
cani. Chiaritisi in tempo, l’uomo per discolparsi
offrì al giovinetto di
ristorarsi a casa sua, magari di nettarsi via il sudore e il fango dal
viso.
Momolo,
invece, s’accontentò di sedersi a gambe penzoloni
sul
pontile davanti alla casa del mugnaio, le mani graffiate che gli
coprivano gli
occhi ricolmi di lacrime di rabbia e impotenza.
***
Al mondo
Madre era l’unica persona che aveva fatto sentire Momolo
veramente amato, ricco e speciale, i suoi abbracci morbidi,
rassicuranti e
profumati d’ambracane [3], un porto sicuro ogniqualvolta il
giovinetto si
sentiva agitato, nervoso, triste.
O
semplicemente felice. Molto spesso, senza un motivo apparente,
egli raggiungeva Madre e l’abbracciava tenero, inebriandosi
del suo profumo e
sospirando soddisfatto quando lei ricambiava. Questo dalla mattina fino
alla
sera, al risveglio di Madre in cui ancora in camicia Momolo le balzava
in letto
per darle il bacio del buongiorno e poi in svariate occasioni
(così giusto per)
e ovviamente nell’ora in cui Madre gli rimboccava le coperte,
egli
l’abbracciava e le baciava di nuovo le gote per poi assopirsi
contento.
Era
sempre stato così, d’altronde, ancora prima della
morte di
Padre. Solo che col trascorrere degli anni quel sentimento
s’era rafforzato,
invece di affievolirsi in uno più formalmente contenuto
com’era successo per i
suoi fratelli. Ed era strano osservare i suoi abbracci crescere con
lui, il
quale all’inizio doveva accontentarsi di
cingere le gambe di Madre
mentre negli ultimi anni la raggiungeva tranquillamente in altezza o
quasi,
apparendole più piccola, più fragile e
rinforzando quella necessità sua di
protezione nei confronti della genitrice. Aveva sofferto la prima volta
che,
abbracciandola da dietro con troppo impeto e sollevandola di peso per
qualche
istante, lei si era sciolta da lui esclamando ridendo: mo’
via,
Momolin! Sei troppo forte, mi fai male!
Il
giovinetto s’era allora staccato da lei come ustionato,
rifugiandosi avvilito in altana e madona Leonora ebbe il suo bel
daffare a
spiegargli che non lo stava rimproverando, bensì il suo
corrispondeva ad un
consiglio: stava diventando uomo, doveva far attenzione e misurare la
sua
forza, esser insomma gentile, specie con una donna.
Il fatto
era che Momolo aborriva l’idea di ferire sua madre, sia
fisicamente che spiritualmente. Vederla triste, lo rattristava. Se
soffriva,
soffriva con lei.
E
pertanto, odiava chiunque la rattristasse.
La prima
volta in cui aveva provato tal connessione era accaduto
nel 1491, quando Padre venne nominato provveditore a Lepanto.
Momolo
avrebbe ricordato per sempre quella mattina: contrariamente
alla solita consuetudine laddove il genitore doveva assentarsi da casa
per
andare o agli Uffici o ai fonteghi, quel giorno si respirava aria
pesante.
Madre colazionava avida di parole e le poche proferite secche e
taglienti.
Padre mangiava altrettanto silenzioso, vestito da viaggio al posto
della sua
solita vesta rossa e nessuno a tavola pareva incline alla
benché minima
conversazione, spiando timidamente di sottecchi la coppia. Da marzo i
due
coniugi litigavano incessanti e testardi, poiché sier Anzolo
aveva deciso
d’arbitrio di portare seco sua zia madona Andronica da
Modone, vedova di suo
zio sier Nicolò Miani, al posto della suocera, madona
Ysabeta Contarini reclita
Morexini. Padre s’era giustificato fino alla nausea che tale
disposizione non
era stata presa perché mal sopportasse la sua madona
(suocera, ndr.), bensì
perché, recandosi in terra greca, avere una madrelingua
affidabile come sua zia
gli era parsa una gran bella idea. Peccato che tal opinione non era
stata ben
accolta dalla moglie, la quale già non era contenta
d’esporre nuovamente la sua
famiglia in terre di confine (le era bastato lo spavento
dell’invasione del
Duca d’Austria nel 1487, quando sier Anzolo era stato
podestà e capitano di
Feltre), ma l’idea di separarsi un anno dalla figliastra
Crestina, la cui
gravidanza ahimè non procedeva serenamente e per di
più dalla sua anziana
genitrice l’imbestialiva e la preoccupava, paventando in una
sua morte mentre
si trovava a Lepanto.
“La Tina è
in eccellenti mani, suo marito e madona Gracimana sono sempre
lì ai suoi
ordini, molto premurosi e amorevoli, non le fanno mancare niente!
Quanto alla
vostra siora Mare, di che v’angustiate? Quella galde
d’ottima salute, vedrete
se non ci seppellirà tutti!”
“Barbaro!
Parlate così perché siete geloso di mia
madre!”
“Macché!”
“Siete un
anaffettivo!”
“Pure!”
“Non
sapete cosa significhi amare una madre, perché non ne avete
mai avuta una vera
e propria!”
“Menzogne,
io ho sempre rispettato la mia siora Maregna!”
“Appunto:
rispettato, non amato. “Maregna”, la chiamate, non
“Mare” come faceva vostro
fratello Marco, a chi Dio perdoni. E ora lasciatemi in pace, devo
preparare i
cassoni!”
Momolo,
ch’aveva origliato tutto, aveva intuito, dalla smorfia di
Padre, come quello di Madre fosse stato un doloroso colpo basso: in
effetti, da
quanto appreso dai suoi parenti, la sua nonna di sangue, madona
Crestina
Loredan Miani, era morta quando i suoi tre figlioli erano ancora dei
fantolini,
sicché era stata la loro matrigna ad averli allevati e se
sussistevano prove
concrete dell’amore portato nei suoi confronti dai figliastri
Marco e Vorzilio,
il mediano Anzolo non s’era mai sbilanciato, almeno
esternamente, dimostrandole
un composto rispetto.
“Insomma,
non siete riuscita persuaderlo?”
“Il sior
mio marido sostiene che voi siete troppo fragile per affrontare codesto
viaggio.”
“Che
jotonia! Io fragile? Ha sbattuto la testa, forse? La malaria polesana
gli ha
trasformato in sbatudin il cervello? Io, fragile?! Io, che ho
seppellito due
mariti?! Io, che da Negroponte ho dovuto riportare a Venexia le ossa
del vostro
sior Pare, con voialtri appresso ancora fanciulli! Ed io sarei
fragile?!”
Al
momento del congedo dall’unica sua figlia, madona Ysabeta
aveva
sistemato e risistemato incessantemente la cappa sulle spalle dei
nipoti, goffo
tentativo di posticipare quanto più possibile la partenza.
Madona Leonora le
aveva infine afferrato le mani e sussurrato qualcosa
all’orecchio, molto
probabilmente rassicurando la madre, il cui labbro inferiore tremava
sia di
tristezza che di rabbia per non aver potuto seguire la sua creatura. La
vedova
Morexini aveva poi salutato cortesemente gelida sia il genero sia la
sua ignara
sostituta, la quale tanto era contenta di rimettere piede nella sua
patria
d’origine, da non accorgersi della palese ostilità
della nobildonna nei suoi
confronti.
“Mamma”, aveva chiesto Momolo a Madre, approfittandone
dell’assenza di Padre e dei fratelli dal pizzuolo [4] per
conferire indisturbato
con la genitrice, rimasta lì per pudicizia, non essendo
decoroso che
deambulasse tra i vogatori mezzi nudi. “Perché
dobbiamo andare a Nepanto? A
Tata non piace più Veniexia?”
“Il
sior tuo Pare mio marido sta badando agli affari della
Signoria, come dovrai fare anche tu da grande. E poiché gli
incarichi in
territori di confine sono tra i più pericolosi, a lungo
termine però sono i più
remunerativi.”
“Perché?”
“Perché
gli permetteranno di accedere a cariche esclusivamente a
Veniexia!”
“Oh!
E perché non ha voluto portare la Nonna?” e scoccando un’occhiata furtiva a madona
Andronica, che sonnecchiava
serafica, aveva sussurrato: “Come ne porta una, ne
porta anche due! Non sarà
che anche Tata segue il detto: Per quanto bone che le sia,
le madone sta
ben sui quadri?” [5]
“No”, s’era intromesso
Padre, venuto a controllare come stesse la moglie. “Piuttosto:
perché
tre done vada d’acordo, ghe vol una viva, una morta e una
piturada su la porta!”
“Dovevate
allora lasciarmi a Veniexia e portare seco il mio
ritratto, se già in casa ne avete una viva”, e se la
risposta era parsa sarcastica, in realtà Momolo aveva notato
l’angolo della
bocca di Madre arricciarsi all’insù, quando
scherzava giocosamente birbante con
Padre.
Se a
distrarre Madre non ci fossero state le mogli del Podestà e
degli altri funzionari palatini, nonché la gravidanza della
figliastra
Crestina, alla quale scriveva quanto più possibile,
riempiendola di buoni
consigli e d’incoraggiamenti, di certo madona Leonora si
sarebbe rosa il fegato
in quell’anno di separazione dalla madre e in generale la sua
famiglia per
intero. I due anni a Feltre non le erano pesati perché
comunque erano rimasti
in suolo italico e Venezia, in fin dei conti, non era poi
così distante e
irraggiungibile come al contrario le pareva Lepanto; inoltre, madona
Ysabeta
l’aveva accompagnata per aiutarla durante la sua gravidanza,
essendo Crestina
ancora troppo cruda per gestire da sola una casa e la
servitù.
“Mamma,
siete ancora arrabbiata con Tata?”
“No, amore
mio. Sono solo un po’ triste.”
“Per colpa
di Tata?”
“Momolin,
quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del
bene, purtroppo
finiamo per ferire le persone che amiamo.”
“Io
no! Mamma, io non vi farò mai del male!”, le aveva
promesso solennemente Momolo, quando deambulando per la
terrazza-giardino del
loro palazzo a Lepanto, Madre s’era attardata a fissare
malinconica l’orizzonte
e le galee scivolare sul mare liscio e azzurrissimo, uscendo o entrando
in
porto. Le aveva afferrato la mano, drizzando le spalle e tirando fuori
il
petto, cercando di farsi più grande dei suoi cinque anni.
Madre gli aveva
accarezzato la guancia e il bambino s’era sentito
d’un colpo grande,
responsabile, contentissimo.
Avrebbe
protetto Madre da qualunque male e da chiunque. Anche da
Padre se necessario.
Perché
qualche settimana più tardi, poco prima di cena, sier
Anzolo era entrato negli appartamenti della consorte, intavolando un
discorso
che suonava a metà tra un’informazione e una scusa.
“Pensavo,
una volta rientrati, di presentare la mia candidatura a provveditore di
Zante.
È una carica bene remunerata, a soldo, e meno distante.
Avremo così i fondi
necessari, per non muoverci mai più.”
“Me ne
rallegro: dopo due anni in Grecia, potrete ambire senza problemi ad una
cattedra di greco a Padoa.”
“Lasciatemi
finire. Siccome si
parlerà d’un altro
anno fuori Veniexia, mi sembrava giusto, a questo punto,
d’invitare anche la
vostra siora Mare mia madona. Se non erro, si lamenta spesso dei suoi
reumi,
quindi potrà approfittarne per asciugarsi ossa e legamenti e
…”
A quelle
parole Madre aveva distolto lo sguardo dal suo ricamo,
trattenendo a malapena un sorrisone soddisfatto. “Non v’astierà in alcun modo,
ve lo prometto. La siora mia Mare sarà la
discrezione fatta persona, manco v’accorgerete
d’averla in casa!”, lo aveva
assicurato, alzandosi dallo sgabello e andandosi a sedere sulle
ginocchia del
marito, le mani bianche e affusolate tra i capelli di lui, scendendo
languide
lungo la nuca, dentro il colletto. “E
ora,
con vostra buona licenzia, scendo in cucina a predisporre per la cena
con
l’Orsolina.”
“Di già?
Aspettate ancora un poco!”
“No, no, è
tardi. Forse, dopo, vedremo …”
A tavola,
Padre aveva per tutto il tempo seguitato a scrutare
Madre così fissamente, che Momolo aveva creduto volerla
tramutare in pietra; né
lei si sottraeva, anzi, nel miglior suo abito ricambiava ora timida ora
civettuola, reclinando il collo tornito in un tintinnare di perle, un
mezzo
sorriso arricciato sulla bocca formosa.
Dopo
mangiato aveva poi osservato il modo in cui Padre la
conduceva spingendola verso la camera, il braccio ben serrato alla sua
vita;
tutto nel suo atteggiamento ricordava nel bambino uno strano archetipo
d’aggressione, di rapina, al punto da temere per la
genitrice, prigioniera in
un abbraccio inflessibile. Eppure, Madre ad esso non si sottraeva,
semmai lo
assecondava morbida e flessuosa, calmissima, in contrasto con
l’incalzante
nervosità del consorte. Di tanto in tanto, sier Anzolo le
scoccava un bacio
sulla nuca, lungo la colonna vertebrale, più denti che
labbra e a Momolo gli
parve un lupo pronto a divorare la sua preda.
Un’arcana
angoscia l’assalì, il desiderio di sottrarre Madre
a
quella bestia antropomorfa troppo grande, unito però ad un
nuovo senso di
rabbia e gelosia, come di scalzare Padre, come se a cingere la donna
dovesse
essere lui al posto del genitore.
Momolo
ovviamente non era riuscito a dormire quella notte,
tormentato dagli incubi. Sicché a notte fonda, quando ormai
sapeva l’intero
palazzo addormentato, decise di sgattaiolare in punta dei piedi lungo
il
corridoio fino alla camera dei genitori, onde assicurarsi che Madre
stesse
bene.
Al lume
della candela, celato dietro la tenda rossa, aveva visto i
genitori sul letto sfatto, tranquilli neanche la previa tensione non
fosse mai
esistita. Una camiciola sottile accarezzava il corpo bianco di Madre,
distesa
puntellandosi sul fianco verso il marito e impegnata in muta
conversazione con
lui, mentre questi le accarezzava la coscia, scoprendola, risalendo
fino al
gluteo, invitandola a schiudere le gambe. Padre non indossava nulla, se
non
appena il lenzuolo ai lombi, fiero contrasto il suo corpo bruno contro
il
candore delle lenzuola. Pur tendendosi egli verso la moglie, le spalle
e i
muscoli delle braccia si muovevano rilassati, appagati, forse sfiniti
da chissà
quale sforzo.
Madre gli
sorrideva ambigua, piegandosi su di lui, baciandolo a
lungo e invitandolo a distendersi di schiena mentre questi
l’abbracciava,
sollevandole la camiciola.
Fu allora
che Momolo a sua volta si sentì issato per le ascelle e
penzolone come un micio trasportato dalla gatta veniva riportato da una
brontolante Eudokia in letto.
“Cosa
fanno?”
“Quando
sarai più grande, ve lo spiegherò.”
“Lo
voglio sapere adesso!”
“L’erba
voglio non cresce neanche nel giardino del re!”
“Non
c’è re a Veniexia ed io voglio sapere che
fanno!”
Trascorse
una settimana tonda prima che Momolo potesse essere
riammesso in camera dei genitori, ma da quell’episodio egli
già aveva
incominciato a nutrire gelosia e diffidenza verso Padre, il quale
possedeva il
misterioso potere di rendere Madre sommamente felice o terribilmente
infelice.
Come
quella mattina del 18 agosto 1496.
Quando
l’ufficiale sanitario aveva bussato alla porta di
Ca’
Miani, Madre già sapeva quale tremenda notizia era venuto a
portarle; tuttavia,
non aveva resisto all’ingresso dei barellieri entrare nel
portego col loro
macabro carico. La mano di madona Leonora tremava impazzita mentre
sollevava il
telo bianco che copriva il corpo sottostante; un urlo ingolato
d’animale
agonizzante le sfuggì dalle labbra livide nel riconoscere il
volto di sier
Anzolo in quella maschera grigia e contratta davanti a lei. Gli occhi
le si
girano all’indietro, impallidì fino a competere
col marmo, cadde svenuta talmente
pesantemente tra le braccia di suo fratello sier Batista Morexini, che
questi
dovette flettersi in ginocchio per attutirne la caduta. Momolo aveva
assistito
atterrito dal modo frenetico con cui suo zio scuoteva Madre,
chiamandola a voce
alta, elargendole buffetti d’incoraggiamento sulle guance,
baciandole le
tempie, le lacrime agli occhi.
Niente,
Madre seguitava a rimanere immobile come Padre.
Giustamente,
madona Leonora aveva dovuto riprendersi e sforzarsi
di vivere per i suoi figli, però Momolo sapeva come di notte
ella piangesse tra
le braccia di Eudokia, come invocasse il marito. Egli in quelle
occasioni
avrebbe tanto voluto già esser adulto e sostituire la
fantesca candiota, nonché
trovare il modo di poter assorbire su di sé il dolore di
Madre, alleviandola
dalle sue pene.
Si
ripromise che se Padre l’aveva ferita, lui
l’avrebbe guarita,
restandole sempre accanto, aiutandola, perfino giocando al buffone per
tirarla
su di morale. Le rivoleva sul viso quel sorriso gioioso che
evidentemente
soltanto Padre le sapeva instillare, ma Momolo non era persona che si
tirava
indietro dinanzi a qualsiasi sfida.
“Sei
proprio tutto il tuo sior Pare!”, gli aveva
confidato Madre, stringendolo a sé la mattina di San Nicola
[6], quando Momolo
aveva trovato un pacchetto di biscotti ai fichi e subito
l’aveva condiviso con
lei.
Tal
paragone l’aveva all’epoca reso euforico, sapendo
quanto il
genitore fosse stato importante per Madre.
Ma
ovviamente gli altri dovevano mettersi in mezzo e rovinare
tutto.
Era stata
colpa di Jacomo Corner, il figlio del cavalier sier
Zorzi Corner e nipote di sua zia acquisita madona Morexina, la moglie
dello zio
Batista. Il ragazzo non aveva infatti digerito d’aver
perduto, a San Nicolò del
Lido, alla sfida di tiro con l’arco contro un nanerottolo
qual era ancora il
giovanissimo Miani. Sicché, staccando astiosamente dal
bersaglio le frecce,
aveva borbottato rancoroso: “Momolo
mammolon!”, perché il
giovinetto s’era vantato di come avrebbe regalato il premio a
sua madre. Al che
Momolo gli aveva elargito un calcio sui reni, saltandogli addosso una
volta a
terra e mentre lo riempiva di sberle gli gridava che male ci fosse a
voler bene
alla propria madre.
“Ma
tu esageri!”,
gli aveva urlato dietro il giovane Corner,
massaggiandosi lo scalpo e il viso doloranti. “Sei
peggio d’Edipo!”
“Non
conosco nessun “E-di-po” ma se t’azzardi
a ripetere tali
bestialità, ti strappo la lingua e te la ficco su per il
culo!”
E Jacomo
Corner c’era andato assai vicino quando Momolo, tarmando
suo fratello Carlo, aveva suo malgrado appreso a chi
il suo rivale
l’avesse paragonato.
“Chi
è Edipo?”
“Lasciami
in pace: contrariamente a te, ho da lavorare!”
“Dai!
Chi è Edipo?!”
“Avessi
trascorso un po’ più di tempo sui libri che
sull’arco, a
quest’ora lo sapresti!”
“Carlino!”
“Uffa
e va bene: è un personaggio della mitologia greca, il quale
uccise suo padre Laio e fece l’amore con sua madre Giocasta.
Contento?”
No.
“Io
non ho ucciso mio padre né ho fatto l’amore con
mia madre!”
“Ma
che diavolo …? Ohé, Momolo, dove corri? Guarda
ciò che strambazzo
…”
Un
disgusto indicibile aveva infatti nauseato il ragazzino, la sua
mente già di suo turbata dai primi accenni di
sensualità tipici
dell’adolescenza. Amava Madre d’un amore profondo e
infinito come il mare, ma
l’idea di far certe cose con
lei gli provocava feroci tremiti
di ribrezzo, similmente al paragone con Padre, associandolo ora a
quella volta
che li aveva pizzicati in letto.
Sior
Barba, voi avete voluto bene alla vostra siora Mare Querina e
alla mia siora Nonna Ysabeta?,
ne approfittò Momolo per investigare con suo
zio Batista, quando andò a trovarlo a casa sua per le
pubbliche scuse col
cugino acquisito Jacomo Corner, su insistenza di sua zia madona
Morexina la
quale a sua volta era stata tormentata da sua sorella madona Ysabeta.
Il giovanissimo
Miani aveva dunque emulato l’Imperatore a Canossa, ribadendo
però che se il
Corner avesse insistito a blaterare tali oscenità, gli
avrebbe strappato uno ad
uno i denti come Sant’Apollonia. Le occhiatacce delle sue zie
raggiunsero
livelli da Gorgone Medusa, mentre il suo avunculo ridacchiava sotto i
baffi,
orgogliosissimo.
Quella
domanda gli era sorta in testa ripensando alle antiche
accuse di Madre, di come Padre non avesse mai nutrito grande amore nei
confronti della sua matrigna. Essendo deceduta prima della sua nascita,
Momolo
non possedeva alcun brazzoler [7] di giudizio personale onde smentire o
confermare tali parole; ciononostante, ben si ricordava del funerale
del suo
prozio sier Hironimo Miani, laddove perfino quello stoico di suo padre
sier
Anzolo non era riuscito a nascondere le lacrime. Sicché,
tale analoga
situazione gli sarebbe servita per capire, se si poteva voler bene solo
alla
propria madre di sangue, anche se morta precocemente, oppure se una
matrigna
poteva supplire. Perché, guardando il rapporto tra Madre e
Crestina,
quest’ultima devotissima alla sua matrigna, che
l’aveva cresciuta come se
l’avesse partorita lei e di fatti la prima figlia femmina
della sua sorellastra
era stata battezzata Leonora. Ma lo zio Batista? Di sua madre Querina
Querini Morexini,
Momolo non sapeva pressoché nulla e il fatto che il suo
Barba non ne accennasse
mai, pur nomando una sua figlia Querina, lo intrigava assaissimo.
“Che
domande, sempioto! Anche se la
mia siora Mare è morta quand'ero fantolino
e dunque oramai non me la ricordo assai bene, so per certo che
l’amai con tutta
la mia anima! Così come voglio bene alla mia siora Maregna,
che m’ha cresciuto
amorevolmente.”
“Lo stesso bene
che volete
alla siora mia Amia vostra mojer?”
“An,
no! Quello è un tipo d’amore diverso!”
“In
che senso?”
“Eh
… nel senso che è un amore anche fisico, oltre
che spirituale.
L’amore che si nutre verso la madre è puramente
platonico, alto, puro, privo di
qualsiasi sensualità. Un po’ come quello che si
porta verso la Madonna. Quello
per la moglie è sì pieno di rispetto e dedizione,
ma in esso giustamente
sussiste anche una componente più carnale, altrimenti non si
genera prole.”
“Ma
l’amore per la Luzia Trivixan, allora?
Cos’è?”
“E
tu come fai a sapere di lei?”
“Ho
occhi per vedere sior Barba e voi non siete discreto. Né la
siora mia Amia vostra mojer l’è donna che fa la
gelosa in silenzio,
lamentandosi come il sabato mattina voi vi rechiate a prender Messa a
Santa
Caterina solo per incontrarvi con la siora Luzia e disnar poi
assieme.”
“E
ti pareva che non andasse a spettegolare in giro i fatti miei,
quella betonega de me mojer … Cos’è la
siora Luzia Trivixan? … Hé, lei è solo
carne e niente spirito … E che carne, nezzo mio, che carne
… un gran bel senato e culàta!
[8]
…”
“Sicché
dovesse la siora Luzia morire, voi non piangereste per
lei, sior Barba?”
“Cosa
c’entra adesso?”
“Sior
Barba, non mi pigliate per idiota!”
“D’accordo,
d’accordo … Sì, me ne dispiacerei,
più che altro
perché la Luzietta è di tanta compagnia
… con quella sua voce d’usignolo e le
sue conversazioni brillanti … un giorno ti
porterò ad un suo concerto, quando
sarai più grandicello … Però la moglie
è la moglie e non bisogna confondere i
due tipi d’amore. Ci sono cose che non puoi chiedere alla
moglie, Momolo, lei è
la madre dei tuoi figli, sta su di un sacro piedistallo e non puoi
pretendere
che si abbassi alle tue necessità meno onorevoli.”
“La
siora Luzia invece si abbassa?”
“Sapessi
quanto … Volevo dire, lei posso amarla d’amor
totalmente
profano.”
“Il
sior mio Pare non aveva di questi prusegini (pruriti, ndr.).
Anzi, sosteneva che donne come la siora Luzia sono fredde, artificiose,
bugiarde, addestrate sin dall’infanzia a comportarsi a
seconda dell’occasione e
del ganzo loro. Sono una e cento donne allo stesso tempo, di cui mai ti
puoi
veramente fidare. Mi diceva che chi è sincero con te e che
vuole il tuo bene
anche a costo d’apparire antipatico, allora ti ama per
davvero e che di questa
persona ti puoi fidare. Mi diceva che quando non
c’è reciproca fiducia, non
c’è
amore.”
“Il
sior tuo Pare mio cugnado, pace all’anima sua,
l’era una
bestia rara che però su molte cose aveva ragione.”
“Sior
Barba?”
“Uhm?”
“Ho
agito male a menare il Jacomo?”
“No,
ti ha detto una cosa davvero disgustosa, che poi mi sorprende
visto che la siora sua Mare mia cugnada è sempre
lì a coccolarselo. Bah. Però
la prossima volta picchialo senza testimoni.”
“Sior
Barba? Se la siora Luzia dovesse morire, voi ve ne
pigliereste un’altra?”
“Possibile.”
“E
se la siora mia Amia vostra mojer dovesse morire, voi ve ne
pigliereste un’altra?”
“Assolutamente
no: una m’è già bastata!”
“Ma
come! Se dichiarate d’amarla!”
“Ed
è vero, la mia Morexina è per me molto
importante. Però lei
non è come la Luzietta, che quando m’infastidisce
la mando via. La tua siora
Amia mia mojer la devo sopportare, anche ahimè in quei
momenti in cui la
prenderei volentieri per il collo. E lo sa, la furbastra, che lei
è la moglie e
può prendersi con me tutte le libertà che
vuole!”
“Mica
v’insulta, vi descrive per quel che siete!”
“Ossia?”
“Un
cotolon impenitente, con più amanti che anima, tanto da parer el galo de dona checa!”
“An,
quello quando lei è di buonumore!”
“Sior
Barba, secondo voi, c’è la possibilità
che la siora mia Mare
si possa risposare?”
“Non
lo so, dipenderà da lei. Le donne talvolta si dimostrano
più
pragmatiche di noi uomini e se si risposano non è
necessariamente per motivi di
cuore o di lascivia.”
“Ma
io non voglio che si risposi! Non glielo permetto!”
“Perché
mai dovrebbe risposarsi?”
“La
siora mia Mare è molto bella e qualche malintenzionato
potrebbe volerla tutta per sé, sottoponendola a porcherie
assai oscene …”
“Bah,
dubito: ormai mia sorela Leonetta l’è vecchia e
neppure più tanto
bella.”
“Balle
de musso! Come vi permettete, sior Barba? Mi meraviglio di
voi! La siora mia Mare è bellissima invece, la
donna più bella di Veniexia
e d’Italia e chi afferma il contrario è
irrimediabilmente un fiorentino
bacia-piselli come il vostro amico sier Orsato!”
Sier
Batista Morexini s’era messo a ridere di gusto, considerando
l’ultima affermazione un motto di spirito: ovvio che Momolo
guardasse la madre
cogli occhi del cuore, trovandola eternamente pulchra e affascinante
nonostante
gli implacabili segni del tempo. Ignorava, purtroppo, la sottile ansia
del
nipote dietro tale affermazione giacché ai suoi timori egli
aveva sul serio
accostato un nome e un cognome.
Esatto,
c’era per davvero chi gli insidiava la madre, non erano
chimere le sue.
E Momolo
al sol pensiero crepava di rabbia.
Fanzolo,
nella podesteria di Castelfranco e poco distante da
Vedelago, era una terra pedemontana di conformazione un po’
bizzarra, che
racchiudeva nei suoi teneri contorni di campagna fertile e gentile, le
insidie
delle torbiere e i dislivelli delle colline in vista delle montagne.
Sier
Anzolo Miani vi aveva acquistato quarantasei campi a prezzo
irrisorio, in aggiunta a quelli ereditati da sua madre madona Crestina,
dandoli
in affitto a tre famiglie di contadini con cui aveva stabilito il
personale
prezzo di due o tre staie (a seconda del raccolto) di frumento, segale,
miglio,
biada per cavalli, saggina, grano nonché di vino reccardino
che per la natura
dell’uva sua autoctona della Marca Trevigiana - grappolo e
acini grandi d’un
blu nero, pruinoso e dalla buccia consistente - non aveva bisogno di
concia.
A Momolo
era sempre piaciuto recarsi in visita alla casa di paron
Menego Storti, di paron Miorotto e di paron Mathio de Bonio, durante i
suoi
vagabondaggi per la campagna. Gente semplice ma curiosa, onesta e
pratica, di
buon consiglio e grandi lavoratori da cui imparava un sacco di nozioni
sulla
vita dei campi e sui mestieri ad essa legati e non.
Mutua
simpatia che si manifestava in particolare alla domenica,
quando tra un gioco e l’altro coi loro figlioli i fittavoli
lo invitavano per
un goto di vino e una fetta di polenta dolce nei loro casoni dalla
copertura a
cuspide, una struttura che aveva sempre affascinato Momolo per la sua
diversità
dalle case alte e strette di Venezia. Al di fuori della copertura a
cuspide era
sistemata la cucina con l’ampio camino posto sottovento e
svettante, con il
terminale conformato a campana per proteggere il tetto di paglia dalla
fuoriuscita delle scintille. La canna del camino era poi realizzata
sporgente
verso l’interno delle murature d’ambito,
acciocché anche gli ambienti al piano
superiore potessero riscaldarsi d’inverno. Nel sottotetto,
all’interno della
copertura, vi si trovava la teza, da cui si accedeva soltanto
all’esterno a mezzo
di una scala a pioli attraverso un abbaino. Lì i contadini
conservavano le
biade ed i formaggi, al riparo dalle intemperie e affidati
all’abilità
predatoria dei loro fidi gatti, in perpetua lotta contro i topi. Nulla
però
potevano contro i ragazzini che giocando l’usavano come
nascondiglio, o peggio
i giovani innamorati.
V’era
nella campagna un non so che di arcano e di selvaggio, che
aveva sempre attirato Momolo, forse l’illusione
d’ampio respiro fornito dalla
vastità di quelle terre fluviali e collinose, protette dalle
rassicuranti
montagne. O forse l’assenza di formalità e di
quelle cerimonie da cortigiani,
che da sempre pizzicavano i nervi del giovinetto, percependoli infatti
non come
segno di raffinatezza, bensì d’untuosa piaggeria.
Una via
di mezzo era Treviso, bellissima città-giardino, un cento
commerciale molto fiorente e ricercato luogo residenziale. Dal suo
cuore
antico, racchiuso tra le mura scaligere, si diramavano
tutt’intorno come raggi
otto sobborghi, creando una pianta cittadina assai armoniosa,
circondata da
giardini, orti, prati, ville, vigne, piazzette, case, chiese e
monasteri. Lì la
vita scorreva placida come i suoi due fiumi e le sue chiare fontane,
gli
abitanti di natura gaudente e assai golosa di quel “piacer
d’amor che quivi è fino”,
come poetava Fazio degli Uberti nel suo
“Dittamondo.” E di fatti, Momolo,
ch’aveva iniziato a guardarsi un po’ attorno,
spesso si ritrovava a rispondere
ai sorrisi e ad inchinarsi dinanzi a qualche giovinetta trevisana,
trovando
donne e fanciulle tutte belle, gioiose, devotissime eppur affatto
introverse,
provocandogli le prime smanie in petto.
Ogni
tanto, interrompevano il soggiorno a Treviso e a Fanzolo per
recarsi in visita a degli amici di famiglia, come ad esempio i
Costanzo, i
Pellizzari e i Morexini a burgo Tarvisii a Castelfranco, oppure ad
Asolo quando
sier Batista raggiungeva per qualche giorno la cognata acquisita, la
Regina di Cipro,
domina Catharina Corner.
Tali
visite equivalevano per Momolo ad una vera e propria tortura,
infastidito dai perpetui paragoni cogli altri suoi cugini, laddove egli
in
tutto era carente - cultura, vestiario, galateo, patrimonio.
Più che per se
stesso, soffriva per la spocchiosa sufficienza con cui trattavano
Madre, la
quale si sottoponeva a quel teatrino soltanto per compiacere suo
fratello,
sorda alle frecciatine e alla sottile perfidia contenuta nelle parole
dei
cortigiani di domina Catharina, quando accennavano alla loro
“villa rustica
dell’epoca dei Caminesi” a Fanzolo o al
“palazzetto di fronte ad un mulino” a
Treviso.
Momolo
non sopportava veder dileggiata Madre per la sua frugalità,
men che meno adesso che vestiva in perpetuo lutto, senza gioielli
tranne che
per la vera e l’anello di Padre, le trecce nascoste dalla
scuffia nera sopra
cui scendeva un pesante paneselo del medesimo colore,
tant’è vero che i
forestieri scambiavano le vedove veneziane per monache, meravigliati
dall’assoluto rigore della loro vedovanza, poiché
una volta perduto il marito
esse rinunciavano ad ogni vanità del mondo. O almeno
così davano ad intendere,
considerate alcune vedovelle che non potevano vivere se non sentivano
in casa
il passo d’un uomo.
Ad ogni
modo, dopo un anno volato via coi suoi alti e bassi,
nell’ottobre
del 1498 Momolo era dovuto rientrare ritornare a Venezia e a scuola, a
subirsi
per tutto l’inverno oltre
Cicerone e la
Bibbia anche i vanti dei parenti Miani di San Giacomo
dell’Orio perché sier
Lorenzo era stato nominato console a Palermo, nonché il
biasimo loro e degli
altri parenti Morexini poiché ai primi di marzo 1499 sier
Marin Sanudo, sier
Marco da Molin, sier Zacharia Dolfin e sier Hironimo Querini avevano
bussato a
Ca’ Miani per riscuotere un debito di 100 ducati, che Lucha
doveva ad un
protogero di Morea [9], a detta di sier Marin personaggio poco limpido
quasi
uno spione. Madre aveva spellato vivo Lucha, rimproverandolo di non
impegolarsi
in nessun prestito, che non fosse riuscito poi a pagare. Cosa suo
fratello
maggiore le avesse risposto tra un urlo e l’altro, Momolo non
lo seppe mai;
nondimeno, il danno era fatto e i parenti semplicemente godevano alla
stregua d’un riccio nel rivangare all’infinito quel
succoso pettegolezzo. Come
se loro fossero immacolati quanto la veste dei Giusti
nell’Apocalisse.
Grazie a
Crono giunse la Sensa e Momolo poté ritornare a Treviso e
Fanzolo e madona Leonora alla gestione degli affitti e dei raccolti.
Momolo,
dal canto suo, poco ci badava se non lo stretto
necessario; traeva invece maggior diletto nel seguire la crescita di un
nuovo
puledro bianco latte, ch’egli aveva ribattezzato
Eòo come uno dei cavalli del
carro del dio Febo e per il cui possesso aveva affrontato di petto i
suoi
fratelli. Giorno dopo giorno pieno d’aspettativa studiava
l’esili gambe
posteriori e braccia anteriori dell’animale e scalpitava
pensando al giorno in
cui avrebbe potuto infine cavalcarlo, intanto che
s’impratichiva cogli altri
cavalli.
Cavallo
vecchio, cavaliere giovane; cavallo giovane, cavaliere
vecchio, patron Momolo!,
gli spiegava Zulian Canestri, un veterano di
guerra e un tempo abile cavalleggero, che ora insegnava equitazione ai
rampolli
di buona famiglia, maestro assai raccomandatogli dal suo zio acquisito
sier
Antonio Trum, il primo a capire quanto quella disciplina fosse capace
di
contenere la prorompente esuberanza del nipote.
Ormai a
Momolo era chiaro come tra i suoi simili non avrebbe
svettato in altezza, il fisico snello ma al contempo robusto lo
rendevano un
cavaliere ideale e la povera madona Leonora doveva imbrigliare oltre
che al cavallo
anche il figlio, il quale non le teneva nascosto il suo progetto di
partecipare
un giorno al palio di Santa Lucia a Treviso, anche per zittire
definitivamente
quelle pettegole dei suoi cugini.
“Vuoi
gareggiare con quel ronzino?”
“Taci,
vecia ciacola invidiosa! Eòo crescerà in un
bellissimo
cavallo e assieme vinceremo il palio, vedrai!”
“Ma
tu lo sai che il mio cavallo proviene dalle scuderie
mantovane?”
“Puoi
anche cavalcare la Marchesana di Mantoa, per quel che
m’importa:
alla fine sarà io a farti mangiar la
polvere!” (e
via a
prendersi a sberle e a tirarsi per i capelli)
Screzi a
parte coi suoi cugini, madona Leonora osserva piena di
soddisfazione la ritrovata la serenità sul volto del suo
ultimogenito,
assecondando ogni sua iniziativa con grande pazienza e
generosità e a Momolo a
sua volta piaceva viziare sua madre, riempiendola costantemente di
piccoli doni
e attenzioni. Adorava il suo sorriso, si sentiva ricco
dell’amore da lei
riversatogli e non ne aveva mai abbastanza. Il suo spirito,
profondamente
scosso e ferito dal lutto e dai recenti avvenimenti a Venezia,
s’aggrappava a
quel balsamo materno, sviluppando un odio sotterraneo verso chiunque
dall’esterno s’avventurasse nella loro piccola
bolla felice.
La loro
villa a Fanzolo, pur modesta se comparata a quelle degli
altri patrizi veneziani o nobili locali, saltava tuttavia
all’occhio per la sua
sobria e raffinata armonia architettonica. Un’elegante
trifora centrale e il
delicato taglio delle finestre del piano nobile
s’accompagnavano alle grandi arcate
del porticato aperto su tre lati, cozzando con la spiccia
solidità delle altre
pertinenze rurali accanto alla villa, quali la stalla, il granaio e i
magazzini. Il tutto era circondato da un alto muro così da
creare sia una sorta
di corte che di giardinetto dove refrigerarsi e oziare. Sier Anzolo,
osservando
i palazzi di Treviso e le altre ville nella Marca, l’aveva
fatta affrescare sia
all’esterno che nelle lunette del portego, così da
nobilitarne la struttura non
particolarmente elaborata e il materiale di costruzione non ricco. Sul
muro il
senatore aveva preferito dei motivi geometrici simili ai tappeti
persiani;
nelle due lunette una Sacra Conversazione e San Giorgio che uccideva il
drago,
essendogli particolarmente garbata un’omonima tela ammirata
all’Abbazia di
Santa Maria del Pero di Monastier di Treviso. Madona Leonora, invece,
aveva
provveduto ad arredare l’interno con mobili o vecchi o di
scarsa qualità,
portandoseli da Ca’ Miani così da consumarli
definitivamente e disporne di
conseguenza. In questo modo s’era creata
un’impressione di prolungamento del
palazzo, senza sentir la nostalgia di casa e di Venezia.
Lì
i giorni scivolavano via felici, monotoni eppure laboriosi,
interrotta quella bucolica quotidianità da qualche festa
comandata a Castelfranco
e a Treviso o le odiate visite ad Asolo o al Paradiso.
E fu
lì che Momolo conobbe il Rivale.
Villa
Paradiso (così nomata per via del terreno su cui sorgeva,
cioè appunto il Paradiso) in realtà era ancora un
edificio assai austero, forse
un’antica fortezza rimaneggiata, chissà, e Momolo
non capiva come mai i Morexini
se la tirassero tanto, visto che non gli appariva più
signorile della loro a
Fanzolo. [10] Forse perché era appartenuta un tempo alla
nobile famiglia dei
Tempesta, avogari del Vescovo di Treviso, mentre la loro ad un
diossacchi però
abbastanza ricco da permettersi un’abitazione in stile
cittadino.
Con la
dedizione della Marca Trevigiana alla Serenissima Signoria
e la conseguente corsa alla compera di terreni da parte dei patrizi
veneziani,
i Morexini avevano infatti acquistato il Paradiso a burgo Tarvisii
dagli ultimi
esponenti dei Tempesta, la loro importanza politica ridottasi a Noale,
soppiantati come avogari dalla famiglia Azzoni.
Generazione
dopo generazione, era giunta a sier Orsato Morexini q.
sier Francesco, buon amico di famiglia, uomo di ingente patrimonio e
rinomata
pecora nera della sua gens. Era stato infatti pizzicato assieme
all’avvocato
sier Alvixe Zorzi q. sier Polo nel retrobottega di un barbiere in
procinto di
lavorarsi il giovane Piero Mozenigo, figlio del loro vicino di casa
sier
Francesco, cosa che a momenti Padre si soffocava a cena col boccone
d’agnello
andatogli di traverso, quando apprese del fattaccio, conoscendo infatti
egli
bene sier Francesco e Lucha e Carlo frequentavano la stessa compagnia
di Piero.
Al
conseguente arresto e processo era scoppiato un tal buferone in
contrada, da compatire quei poveracci, malmenati sia dai Dieci sia a
turno in
casa da ogni loro parente maschio.
“Insomma,
tra suo padre sier Francesco e gli altri Mozenigo non so
chi l’avesse scudisciato di più!”, aveva
raccontato madona Magdalena Miani, che non solo riscuoteva a San Vidal
gli
affitti, ma anche i pettegolezzi. “Non
si capiva più niente! Ad un certo punto pareva quasi una
partita a pallacorda:
smetteva uno e incominciava l’altro! Il tutto mentre gli
urlavano dietro ogni
sorta d’invettiva, tipo: “Con sì gran
numero di potte disponibili a Veniexia,
tu proprio sentivi la necessità di prendertelo in culo non
da uno, bensì da due
uomini?!”,
aveva per caso sentito un giovanissimo Momolo discutere i suoi
parenti da dietro la porta dello studio di Padre. “Lo dicevo, io, che il giovane Piero Mozenigo
ultimamente vestiva troppo
elegante, per le possibilità economiche del suo sior Pare!
Ed ecco qua svelato
l’arcano: s’accompagnava a quel sodomita di sier
Orsato!” Madre, beccatolo
ad origliare assieme a Marco, li aveva trascinati via assieme ad
Orsolina,
evitando con grande abilità le domande dei suoi figlioli, su
cosa fosse
esattamente un sodomita.
Un
po’ per il prestigio sociale ed economico del clan Morexini;
un
po’ perché niente d’irreparabile era
accaduto tra sier Orsato, sier Alvixe e il
ragazzo Piero Mozenigo (o almeno questo quanto emerso dalle indagini),
il
Consiglio dei Dieci aveva optato per la clemenza, limitandosi ad
esiliare il
Morexini per dieci anni da Venezia, sicché sier Orsato si
era trasferito nei
suoi possedimenti a Castelfranco, pur sorvegliato a vista dai suoi
famigliari
tramite i servitori.
Ma un
uomo ricco, anche se sodomita, rimane comunque una risorsa
socialmente utile ed ecco che sier Orsato venne riammesso a Venezia nel
1491
per grazia dei Dieci e del Serenissimo Doge Missier Agustin Barbarigo,
sotto sacra
promessa di pentirsi, di sposarsi e di generare figli. Onde favorire la
riabilitazione del suo nome, Sua Serenità gli aveva
generosamente offerto in
moglie una sua nipote, Pellegrina di sier Zorzi Nani sicché
sier Orsato,
volente o nolente, quel figlio lo dovette dare al clan, se non per
dovere o
riconoscenza almeno onde evitare una sorte ben peggiore del bando al
confine o
un altro giro di scudisciate da parte dei parenti.
All’esposizione delle
lenzuola macchiate di sangue più che un urlo di giubilo, si
narrò esser
corrisposto ad un urlo di sollievo.
Di
conseguenza l’intera famiglia aveva ritrovato la pace e
l’equilibrio interiore alla nascita della piccola e graziosa
Marina Morexini,
peccato che lì i suoi genitori si erano fermati, stavolta
non perché sier
Orsato fosse ritornato ai suoi antichi vizi, piuttosto
perché la morte per
febbre l’aveva vigliaccamente colto a Milano
nell’ottobre del 1495, dove si
trovava in qualità di pagatore di campo. Il patrizio venne
seppellito ai Santi
Apostoli a Venezia, lasciando erede universale la figlia di case, terre
e
30.000 ducati liquidi.
A Momolo
quella bimba faceva molta pena: l’essersi ritrovata da un
giorno all’altro un’appetibile ereditiera
l’aveva trasformata in una reclusa,
controllata a vista. Sua madre, infatti, ovunque leggeva tranelli per
accaparrarsi la figlia e non si poteva darle ogni torto: la Morexini
ancora si
succhiava il pollice e già ogni famiglia patrizia a Venezia
tramava per
maritarla ai propri rampolli. C’era invero da impazzire e la
vedova di sier
Orsato forse un po’ matta lo era diventata, a giudicare dal
modo in cui aveva
aggredito Momolo quando lo aveva pizzicato a passeggiare mano nella
mano con
Marina. Mossa esagerata e infelice giacché
sperimentò tutta la furia di madona
Leonora, la quale giurò a madona Pellegrina le pene
dell’inferno se avesse
osato prendere di nuovo a vergate suo figlio come l’ultimo
dei villani.
“Cosa
facevamo allora da soli in giardino? An? Avanti, piccolo
turco, che facevi con la mia Rina?”
“Parlavamo
dei nostri defunti padri!”
Le due
vedove dinanzi a tale risposta erano rimaste gelate sul
posto. Non era una menzogna: tra i due bambini s’era
instaurata una delicata
affinità, che nulla però aveva
d’amoroso. Semplicemente, la perdita del
genitore li accumunava e pertanto spendevano ore e ore a discutere su
di loro, sui ricordi che conservavano, sul vuoto che
li avevano
lasciato. Si capivano a vicenda e tentavano in maniera goffa di
consolarsi.
“Talvolta,
se mi sforzo di notte, ho come la sensazione di poter
ancora udire la voce del mio sior Pare. E tu Momolo?”
“La
mia siora Mare ha tenuto tutti gli abiti del mio sior Pare nei
cassoni. Ogni tanto vado ad aprili per vedere, se riesco ad annusare il
suo
profumo.”
“E
lo senti?”
“Ogni
giorno sempre di meno.”
“Mi
dispiace per come s’è comportata la mia siora
Mare.”
“Non
ti preoccupare.”
“Sai
che non s’è neppure risposata, perché
teme che un mio
eventuale patrigno possa rubarmi l’eredità? Almeno
tu sei fortunato, perché non
hai un granché di soldi.”
“Grazie
per avermi dato del povero! E comunque, la mia siora Mare
non si risposerà mai!”
“Tu
non comandi niente alla tua siora Mare! Se si vuole risposare,
lo farà!”
“E
invece no!”
“E
invece sì!”
“Tu
sei solo invidiosa, perché la mia siora Mare, al contrario
della tua, rimane fedele alla memoria del mio sior Pare
perché lo amava e non
perché ha paura di perdere i suoi soldi!”
Al che
Marina l’aveva buttato giù dall’altalena
e se n’era
scappata via in lacrime, giurando di non parlargli mai più
in vita sua.
Promessa
non mantenuta ché la volta dopo i due avevano ripreso le
loro conversazioni, sebbene di nascosto, quando gli adulti erano troppo
impegnati a merendare al fresco sotto le pompeiane di cedri o presso il
roseto.
Quel
particolare giorno d’estate, accadde che tra i ragazzi venne
voglia d’improvvisare una partita a pallacorda, per passare
il lungo e monotono
pomeriggio e Momolo s’aggregò immediatamente,
poiché puntava di vincere uno dei
due premi, un fazzoletto di seta finissima dai bordi merlettati secondo
la
nuova moda, per regalarlo a Madre.
“Posso
giocare anch’io?”, chiese Momolo al gruppetto di
giovanotti, tra cui figuravano domino Mathio Costanzo; Gasparo Valier;
Marco
Antonio Michiel, i nipoti di domina Catharina Corner
- Francesco,
Marco, Hironimo, Zuam e Jacomo; Francesco e Phelippo Contarini di sier
Zacharia
cavalier; Piero Trivixan; Ferigo Contarini di sier Hironimo biscugino di Madre; Francesco
Contarini del “Grillo”, i cugini più
grandi di Momolo e naturalmente suo
fratello Marco.
“Ma
dai, cosa vuoi giocare a pallacorda, con quei tuoi braccetti
corti!”, lo sfotterono inclementi i ragazzi. Perfino Marco
sghignazzava, il
turco traditore!
“Su,
vai a giocare coi tuoi coetanei!”, indicavano il resto dei
bambini, che già avevano preso posto accanto alle sottane
delle loro madri per
assistere al gioco.
“Non
ne ho voglia! Preferisco unirmi a voialtri!”
“Nah!”
“No!”
“Ma
va là!”
“Contame
naltra!”
“Sei
troppo piccolo!”, gli rivelò ridacchiando Jacomo
Corner,
provocando un feroce arricciamento di capelli da parte del tredicenne
Miani.
“Sicuramente
meno piccolo del tuo bifi!”, replicò
quest’ultimo
prontamente velenoso, mostrandogli tramite l’ausilio
dell’indice e del pollice
le supposte misure del pene del Corner, il quale divenne paonazzo dallo
sdegno
per quell’illazione.
“Ma
io ti squarto, razza di …”
“Mo
via, te la pigli per uno scherzo?”, sdrammatizzò il suo parente
Ferigo
Contarini, appoggiando una mano sulla spalla di Momolo, col duplice
scopo di
trattenerlo e di calmarlo. “Sta ben, il piccoletto vuole
giocare con noi e
donca? Hai forse paura che ti stracci?”
Jacomo
Corner alzò altero il mento. “Figurati se ho
timore di
questo ma-ca-co!”
Ferigo
sorrise carnivoro. “Pulito! Allora: il Momolo ed io
facciamo coppia; poi, vedetevela voialtri!”
Un deluso
grugnito si levò in aria: il ventenne Contarini era uno
dei migliori giocatori di pallacorda e ovviamente ciascuno progettava
di finire
appaiato con lui.
Onoratissimo
di tal privilegio e considerazione da parte di un suo parente
maggiore, Momolo gli sorrise sincero e Ferigo gli rispose tramite un
complice
occhiolino.
Il duo si
rivelò una coppia ben sortita: laddove il più
anziano
sfruttava la sua naturale inclinazione al gioco di tattica, fiaccando
l’avversario con passaggi insidiosi più che
violenti; il minore suppliva in
agilità, intercettando e riacchiappando la palla con balzi
al limite del
circense e ben presto i due giovani si portarono in finale,
fronteggiando i
fratelli Marco e Jacomo Corner.
“Zò,
Soa Santità! Volete cresimarmi di nuovo?!”,
esclamò beffardo
Ferigo, evitando in un’assai tersicorea piroetta la palla
lanciatagli da Marco
Corner (che uscì fuori dal tracciato assegnando il punto al
Contarini),
accompagnato dalla grassa risata di Momolo. Era risaputo come il
cavalier sier
Zorzi avesse intenzione d’avviare il figlio alla carriera
ecclesiastica e i
suoi amici non mancavano di sfotterlo per quello. Anche
perché, bel giovine
qual era, si sa che la Curia a Roma …
“Tase-là,
turco miscredente!”, gli mulinò Marco Corner
contro la
racchetta, atteggiamento strano per quel solitamente placido ragazzo.
La verità
è che la coppia avversaria li stava raggiungendo, rendendo
nullo il vantaggio
iniziale dei due fratelli Corner.
I quattro
giocatori fletterono le ginocchia, incurvandosi
leggermente in avanti ed evitando perfino di sbattere le ciglia pur di
non
perdersi alcun movimento della palla. Le camice di lino erano divenute
ormai
trasparenti dal sudore, rivelando il brunito dei loro torsi e
modellandosi ad
ogni loro muscolo. I ragazzi si scostavano frustrati dalla nuca gli
ingombranti
capelli o la frangia molesta, le ciocche bagnate appiccicate alla pelle
sudatissima. Perfino le braghe apparivano più aderenti, ben
delineando lo
sforzo muscolare delle gambe snelle e agili.
Ferigo
servì stavolta, imprimendo grande possanza nel tiro e la
palla sfrecciò oltre la corda e con un rumoroso grugnito
Jacomo la rispedì
indietro. Scattando alla stregua d’un grillo, Momolo la
intercettò e gridando
la ributtò dai Corner e Marco dovette sbilanciarsi non poco
per non perderla,
ma comunque riuscendo a salvarla. Il tredicenne corse perdifiato a
riprenderla
e per poco cadde in una capriola ma la palla la ricacciò ai
Corner. Jacomo
allora tentò di schiacciarla, approfittando del vuoto
lasciato da Momolo,
sennonché Ferigo gli corse incontro e con una torsione da
discobolo gli impedì
di segnar il punto, anzi, accaparrandoselo lui.
“Pari!
Dai mo’ che se li facciamo ingoiare ‘sta palla,
vinciamo!”,
incoraggio il Contarini il suo compagno di gioco.
“Momolo?”, domandò, notando
come questi si fosse imbambolato, lo sguardo torvo puntato sulla
tribuna
improvvisata.
Chi era
quel tizio seduto accanto a Madre?
Se alla
destra di madona Leonora stava la sua amica madona Alba
Donado Contarini, alla sua sinistra s’era accomodato un
gentiluomo e dal modo
in cui chiacchierava fitto-fitto con sua madre, Momolo
avvertì una gran rabbia
montargli in petto. Il viso di lei, infatti, non possedeva la medesima
gelida
cortesia che la vedova Miani rifilava a qualunque uomo, specie dopo la
morte di
sier Anzolo: v’era un non so che di dolce, pacato nel suo
sorriso e lo zenit fu
il risolino che la nobildonna coprì con la punta delle dita.
Momolo
vide letteralmente rosso, digrignò i denti al richiamo di
Ferigo e si lasciò travolgere da un’ira cieca
all’ultimo turno di punti. Ad
ogni servizio impresse una violenza inaudita per il suo corpo ancora
magro
d’adolescente, urlando imbestialito e mirando più
a colpire gli avversari che
in posti strategici, dove avrebbero faticato a salvare la palla. Le
parole di
monito di Ferigo gli scivolavano addosso come il rivoletto di sudore
sulle
tempie.
Ansimava
inferocito a guisa di tigre, figurandosi dinanzi il
misterioso gentiluomo al posto di Jacomo Corner, nelle orecchie
l’eco delle
parole di Marina Morexini. Madre non si sarebbe risposata, nessun uomo
avrebbe
preso il posto di Padre al suo fianco e men che meno il suo! Momolo
aveva
giurato che avrebbe protetto Madre, che le sarebbe rimasto sempre
accanto.
Nessuno gliel’avrebbe portata via! Già a Padre
aveva dovuto rinunciare, ma a
lei no! Lei no!
“Ah!”,
cacciò il ragazzino un urlo inumano, facendo perno sul
piede sinistro e roteando il busto portò la palla a
schizzare velocissima
contro Jacomo che rinculò comicamente all’indietro
per rispedirla indietro,
sbilanciandosi.
“Ah!”,
gridò nuovamente Momolo, che al contrario pareva ancorato
al terreno, ampliando il movimento d’apertura e la palla
viaggiò ancora più
veloce e sempre puntata contro il petto del Corner.
“AH!”,
non si accorse delle lacrime di rabbia che gli offuscavano
la vista, soltanto della frustrazione che la palla avesse colpito il
piede al
posto della gola di Jacomo, contrariamente al suo progetto iniziale.
Temerario,
il tredicenne era corso quasi sotto la corda e s’era
letteralmente buttato
addosso alla palla al mero scopo di distruggere l’avversario,
rivoltandogli
contro il tiro di rimando.
Segnò
l’ultimo punto per vincere soltanto un grande amaro in
bocca, soprattutto quando, al momento di consegnare il prezioso
fazzoletto
merlettato alla sua “dama”, Madre gli aveva fatto
un cenno nascosto di diniego,
che non stava bene regalarle platealmente il premio – lo
doveva dare a
qualcun’altra in segno di cavalleria. Seminascosto dalla sua
spalla, il
gentiluomo sorrideva compiaciuto, neanche gliel’avesse
suggerito lui al mero
scopo d’indispettirlo.
Momolo
allora strinse convulsamente la preziosa stoffa,
sgualcendola e, portatosi davanti alla giovanissima Regina Contarini
sorella di
Ferigo, glielo gettò sgarbatamente sul grembo per poi
allontanarsi a grandi
falcate, pugnalato mille volte alle spalle dalle occhiatacce assassine
delle
cugine Anzola, Maria e Querina Morexini, le quali, sotto-sotto, avevano
sperato
ricevere loro quel bel fazzoletto.
Madre lo
ripigliò al rinfresco dopo l’improvvisato torneo,
una
volta levato il campo e rivestitisi e rinfrescatisi i giocatori, e
poiché
evidentemente il destino ce l’aveva a morte con lui, il
tredicenne se la vide
arrivare col gentiluomo appresso.
“Sior
Alvixe, questi è il Momolo, il mio più
piccolo”, lo presentò
madre all’uomo, anch’egli nerovestito (ma non della
toga patrizia) e con la
barba castana macchiata di bianco. Forse coetaneo di Madre,
giudicò il
giovinetto, il cui corpo s’era teso sulla difensiva.
“Momolo, saluta il signor
Alvixe Beltramin.”
“Come
stai, Momolo? E’ un piacere conoscerti. La toa siora Mare
m’ha
parlato molto bene di te.”
Il
tredicenne serrò i denti e i pugni. “Mi stago ben,
sior Alvixe.
E per voi sono Hironimo, non Momolo”, dichiarò
battagliero, beccandosi un
furtivo scappellotto al braccio da parte di sua madre.
“Momolo!
Che maniere da turco!”, ridacchiò ella
nervosamente,
inasprendo il malessere del suo ultimogenito. “Qualche volta
è proprio un
rebégolo!” (ragazzo irrequieto, ndr.)
“No,
no ha perfettamente ragione! Ammetto d’esser stato un poco
presuntuoso a volerlo chiamare da
subito
“Momolo”, soprattutto se è un nomignolo
conferitogli dal fu suo padre”, lo
giustificò bonario Beltramin e il ragazzino
spalancò sconvolto la bocca,
voltandosi di scatto verso la genitrice, sul viso
un’espressione tradita: come
aveva potuto raccontargli quel dettaglio? Con quale diritto?
“Il
signor Alvixe è un nostro vicino a Fanzuolo, dove possiede
della terra e per mestiere, fa il mercante di vino. Ha viaggiato per il
mondo
in lungo e in largo; di fatti, mi stava raccontando alcuni interessanti
aneddoti dal Principato di Trento!'”
“Troppo
gentile, patrona. Mi dipingete più interessante di quanto
lo sia in realtà: so benissimo di non poter certo competere
col vostro parente sier
Ambruoxo Contarini, l’esploratore!”
“Oh
bella, ci terremo dunque in buona compagnia!”, e risero
complici, similmente a quelle volte in cui Padre scherzava con Madre in
altana.
Momolo si
sentì morire.
Alvixe
Beltramin di Liberale era un intraprendente commerciante di
vini e proprietario di qualche appezzamento di terra vicino ai terreni
dei
Miani e pertanto si poteva dire sufficientemente agiato da partecipare
alla
vita mondana di Castelfranco, grande amico del condottiero e
viceré di Cipro,
domino Tuzio Costanzo. La sua famiglia era originaria di Piove di Sacco
(si
sentiva forte il pavan nella sua calata) e s’era fatto da
solo, lavorando
duramente sin da ragazzo pur d’emergere
dall’anonimato cittadino. Sier Batista
Morexini, anch’egli dedito alla mercatura, aveva avuto modo
di conoscerlo a
Rialto e subito s’erano intesi bene, sicché quando
il patrizio era venuto in
visita alla vedova di sier Orsato era stato oltremodo contento di
rivederlo,
presentandolo alla moglie madona Morexina e alla sorella madona Leonora.
Per
questo e altri due motivi, scoprì in seguito Momolo, aveva
egli avvicinato Madre e incominciato a discorrere con lei: il primo era
perché
malgrado i suoi meriti un poco rimaneva snobbato e non potendo sempre
stare
attaccato alla vesta di sier Batista o di domino Tuzio Costanzo,
l’uomo doveva
pur andar da qualche altra parte, rimanendo però
puntualmente relegato
all’angolo, analogo destino che si riservava spesso e
volentieri a Madre. Il
secondo, poiché anche Beltramin era rimasto vedovo, perdendo
la moglie per il
parto di un figlio. Questo spiegava l’abito bruno e
soprattutto la barba. Con
discrezione aveva chiesto da quanto tempo madona Leonora portasse il
lutto e
lei gli aveva replicato da tre anni il prossimo 18 agosto. Al che il
signor
Alvixe le aveva domandato se ancora lei ripensasse al consorte e se
quel
dolore, che avvertiva in petto, si sarebbe prima o poi addolcito. Lei
gli aveva
confessato di no.
E
incominciarono a discorrere d’altro.
Quello fu
l’inizio di una serie di numerose visite, specie
dopopranzo quando Madre si portava assieme ad Eudokia e Orsolina sotto
il
portico della villa a ricamare, mentre il resto del personale o era a
dormire o
in giro per i fatti propri.
Malgrado
i modi di fare un po’ diretti e spicci, il signor Alvixe si
comportava da perfetto cittadino, buon conversatore e di ottima
compagnia,
conquistando piuttosto facilmente l’amicizia di Marco, con il
quale discuteva
animatamente di affari, dei mercati all’estero e degli ultimi
regolamenti sul
territorio, che si rivelarono assai utili per il governo dei loro
campi. Di
recente però i due uomini parlavano molto di politica sia
interna (di nuovo i
Turchi portavano la guerra nell’Egeo) sia estera (di nuovo
Francesi portavano
la guerra in Italia). Anche Momolo partecipava a questi dibattiti
accanto al
fratello, ascoltando in rancoroso silenzio, la sua antipatia nei
confronti
dell’uomo tenuta a freno soltanto per compiacere Madre, la
quale lo
incoraggiava ad imparare dall’esperienza dei suoi maggiori.
Non
soltanto sotto i porteghi in villa si doveva Momolo sorbire la
sua presenza: che fosse stato in piazza o al mercato a Castelfranco o
ai
ricevimenti al Paradiso; in chiesa o in borgo a Fanzolo, il tredicenne
si
ritrovava il Beltramin in ogni luogo. Marco era totalmente entusiasta
della sua
compagnia; Madre non si sbilanciava però aveva insistito
d’invitarlo a pranzo
quando Carlo l'aveva raggiunta in villa per qualche giorno,
presentandolo ufficialmente alla famiglia:a
desinare terminato il secondogenito Miani, famoso per la sua lingua da
sarto, che
tagliava e cuciva, sorprendentemente aveva cantato ogni lode del sior Beltramin.
“Momolo,
perché ti comporti sempre in maniera così
scontrosa col
signor Alvixe?”, gli domandò Madre una sera,
mentre gli sistemava il cuscino
dietro la schiena. A causa dell’intenso caldo estivo, la
nobildonna era venuta
meno ai dettami dell’etichetta, togliendosi la scuffia nera e
pertanto
lasciando respirare i lunghi capelli, le trecce sciolte in un manto di
boccoli
misti tra bianco e nero.
“Non
mi piace averlo tra i piedi!”, dichiarò
imbronciato il
ragazzino, giocherellando con quelle ciocche sale e pepe che gli
sfioravano il
petto, essendosi la donna sporta verso di lui. Alla tremula luce della
candela
il viso di lei gli appariva ancor più giovanile, risaltando
il luccichio dei
suoi occhi grandi e nerissimi e il giovinetto
s’irritò doppiamente, affatto
contento di doverla condividere con altri uomini.
Madona
Leonora sospirò, accarezzando i folti capelli scuri del
figlio. “Momolo, devi sapere che il povero signor Alvixe
soffre molto di
solitudine. Noialtri gliela alleviamo un poco.”
“Non
ha una sua famiglia a Piove di Sacco?!”, protestò
ostinato il
tredicenne, battendo il pugno sul materasso.
“Perché deve intromettersi nella
nostra?”
“La
solitudine non è solo un male del corpo, ma anche
dell’anima.”
“Balle
de musso!”
“Quando
sarai più grande, capirai.”
“Ma
anche no”, si voltò astioso Momolo dalla parte
opposta,
stringendo offeso il cuscino e imponendosi di dormire.
Non
c’era niente da capire. Cosa gli importava se Beltramin
soffriva di solitudine? Quale diritto gli conferiva
d’impicciarsi nei loro
affari? Di trascorrere ogni dopopranzo con Madre?
Perché,
tra tutte le donne della Serenissima Signoria, aveva
puntato proprio a lei? Perché non dirigeva altrove le sue
attenzioni?
Quella
notte Momolo venne tormentato da una serie di incubi, il
più orribile una rievocazione di quella volta che, appena
cinquenne, s’era per
caso trovato a spiare i genitori in letto. Ma al posto di Padre, nudo
sul corpo
di Madre c’era il signor Alvixe
Beltramin e il tredicenne si svegliò
urlando con quanto fiato avesse nei polmoni, sudato neanche avesse
contratto la
malaria e ammazzando per poco suo fratello Marco dallo spavento,
destandolo di
soprassalto.
“Che
c’è? Cos’hai?”
“Non
voglio! Non voglio!”, si tirava i capelli il giovinetto,
scuotendo il capo e piangendo disperato. “Non voglio! Non
voglio!”
“Cosa
non vuoi?”, lo spronò il diciottenne a confidarsi,
osservando ansioso i calci a vuoto del fratellino e
l’agitarsi convulso del suo
corpo. Fu costretto a bloccargli i polsi quando il tredicenne
incominciò a
pigliarsi la fronte a pugni. “Parlami, su, Momolo! De diana,
parlami invece di
gridare!”, lo supplicò disperato e notando
l’assenza di risultati e l’epistassi
dal naso che stava tingendo di rosso le lenzuola, corse a chiamare la
madre.
“Amore
mio, che ti succede?”, abbracciò ella la sua
creatura in
affanno, stringendosela al petto e tamponandogli le nari sanguinanti.
Ma se in
altre occasioni quel dolce contatto l’avrebbe rassicurato da
ogni cruccio, in
quella al contrario lo esacerbò e Momolo, singhiozzando,
vomitò sul letto per
poi cadere svenuto.
“Nervi, soltanto nervi”,
fu il
conciso responso della curandera del paese. “Qualche
tisana di camomilla e lavanda e gli passerà; se proprio
peggiora
allora provate con quella alla valeriana, ma senza esagerare, anche se
per
me il problema, patrona, non sta nel corpo
bensì tutto qui”, disse
l’anziana donna, ticchettandosi la tempia destra.
Ovviamente,
quel maledetto di Beltramin, appreso del confinamento
in letto di Momolo, figurarsi se non venne a trovarlo per informarsi
della sua
salute così d’avere un’ulteriore scusa
per trascorrere indisturbato maggior
tempo con Madre, sicché la sua malattia si
prolungò di una settimana, tra
febbriciattole, nausee e uso continuo del pitale a causa
dell’infernali tisane.
Neppure
alla Messa commemorativa di Padre il Beltramin gli
risparmiò la sua presenza e se le maledizioni scagliategli
dal tredicenne
avessero potuto far crollare l’antica chiesa romanica di
Santa Maria Assunta [11]
a Castelfranco, a quell’ora non ne sarebbero rimaste neanche
le macerie. Tra
tutti i giorni, proprio quello! Ma certo! Era una sfida alla memoria di
Padre,
per godere del suo trionfo su di lui, essendosi ormai autoproclamato
suo
sostituto al fianco di Madre!
Vedi?
Vedi? Te lo rubata! Tu sei morto, io sono vivo e ora mi
chiavo la tua donna! –
lo poteva il giovinetto quasi sentire
vantarsi con quel suo odioso accento pavano – dopodiché
venderò i tuoi
figli ai Turchi, i quali li trasformeranno in eunuchi e così
la tua discendenza
sparirà dalla faccia della terra!
“Dio
sia lodato, posso finalmente rasarmi questa barba
maledetta!”,
sospirò allegro Marco alla fine della funzione, grattandosi
enfaticamente le
gote intanto che scendevano gli scalini d’ingresso della
chiesa. “Con questa
barba e i capelli lunghi, mi pareva d’essere un monaco
greco!”
“Ti
pare?”, lo rimbeccò aspro Momolo, sul cui mento
invece ancora
non cresceva nulla, le gote morbide e lisce. “Oggi
è l’anniversario della morte
del nostro sior Pare e l’unico tuo pensiero è
quello di sbarbarti? Ma fammi una
carità!”
Secondo i
costumi di Venezia gli uomini erano tenuti a portare la
barba in segno di lutto, la durata variante a seconda del grado di
parentela.
Nel caso di sier Anzolo, i suoi figli l’avevano portata per
tre anni come di
precetto, mentre gli altri suoi zii e parenti già
l’anno successivo la morte
del Miani se l’erano rasata.
Marco
strinse gli occhi, piccato per la verità dietro quelle
parole, avendo in effetti odiato la barba più per un fattore
estetico che
simbolico. “Mo’ andiamo dal barbiere”,
bofonchiò impacciato, spingendo in
avanti il minore onde spronarlo a muoversi. Sennonché
quest’ultimo rimase ben
piantato per terra, rifiutandosi di chiudere in quattro e
quattr’otto la
questione. “Che ti prende oggi, Sior Contrario?”,
sbuffò snervato il
diciottenne, ponendosi le mani sui fianchi.
Momolo
gli indicò col mento Madre, attardatasi a chiacchierare sul
sagrato della chiesa con la moglie di domino Tuzio Costanzo e suo
figlio
Mathio; con una gentildonna assieme ad una fanciulla che il ragazzino
non aveva
mai visto fino a quel momento e, figurarsi se mancava, il signor Alvixe
Beltramin.
“Donca?”,
aggrottò Marco la fronte, piuttosto confuso.
“Mi
domando cosa voglia da noi, quello là …”
“Chi?”
“Quello
là!”
“Se
non parli schietto, non ti capisco!”
“Il
signor Alvixe!”, sputò il tredicenne il nome,
manco avesse
pronunciato un improperio. “Perché è
venuto oggi a prender Messa?”
“Per
creanza?”
“No,
perché vuole sedurre la nostra siora Mare!”
Marco
aprì la bocca, rimanendo comicamente interdetto per qualche
istante. Dopodiché, si piegò in due dalle risate
fino ad annaspare dalla
mancanza d’aria, trascinando il fratellino in un angolo
appartato dietro una
stradina secondaria tra mura, chiesa e castello.
“Burlestu?”, inquisì
divertito, asciugandosi le lacrime agli occhi.
“No!”,
batté Momolo frustrato il piede sul selciato, la sua
collera direttamente proporzionale all’ilarità del
maggiore. “Spiegami allora
come mai è sempre attaccato alle sue sottane? Ogni giorno si
presenta a casa
nostra! Dopo pranzo neanche tu puoi negare, come se ne stiano a
ciacolar
fitto-fitto, manco la zia Maddaluzza e le sue betòneghe di
contrada!”
“E
allora?”
“Non
lo giudichi il tipico comportamento d’un
corteggiatore?”
“Bah,
t’immagini le cose!”, scrollò le spalle
il maggiore,
liquidando quei dubbi alla stregua di sciocche bambinate e pertanto
accennando
a raggiungere il gruppetto, sennonché Momolo lo trattenne
per la manica,
costringendolo a rimanere.
“Scoltame
ben: quel pavan vuole la nostra siora Mare! E noi
dobbiamo assolutamente impedirgli di sposarla!”, gli
rivelò talmente ansioso
che Marco non ebbe più alcun dubbio sulla
veridicità delle parole del
fratellino. Invero non stava scherzando, glielo leggeva in faccia e
finalmente
il giovane capì la cagione dietro quei perpetui bronci nel
minore ogniqualvolta
s’imbatteva nel signor Alvixe.
“No.”
“Come
no?”, ripeté scioccato Momolo da quel secco e
infastidito
rifiuto, mollando di colpo la presa dalla manica.
“Scoltame ti
ben”, gli puntò Marco l’indice
contro il
petto, severissimo. “Io non so se ti sei bevuto il cervello o
che, però se ti
sei ammalato per questa jotonia, copandome quasi dallo spavento, giuro
che te
dago tante di quelle sberle, che a Carlevar non avrai più
bisogno d’indossare
una maschera! Secondo”, lo interruppe inflessibile, levando
in alto la mano in
un veemente scatto, “cosa te ne cale, se la nostra siora Mare
si vuole
rimaritare? Sei forse il suo sior Pare? No! Sei suo figlio e alla siora
Mare
s’obbedisce, senza tante storie! Quando tu
sarai un marito e un padre e quando possiederai
la tua casa, allora
sì che
potrai comandare e dire al mondo: Mi vojo cussì,
mi vojo cosà! Siccome
però non hai niente e non sei niente, abbassa le orecchie e
obbedisci in
silenzio. Comprendestu?”
Momolo
incassò la sferzante predica a capo chino, le gote
vermiglie e gli occhi umidi dal pianto a stento trattenuto.
“Non la può sposare!
Non la deve sposare! Non può rubarcela! Non la voglio in
casa d’altri! Non
voglio che porti un altro cognome! Non voglio un fratellastro! Non
voglio nuovi
parenti!”, insistette istericamente il tredicenne e prese ad
ansimare in
affanno, sballottato dalla perdita d’un potenziale alleato
nella sua personale
lotta contro il Rivale. “L’unico uomo cui
è maritata è il nostro sior Pare!”
“CHE
E’ MORTO DA TRE ANNI! SVEJA, IMMATONIO MACARON DE
PUJA!”,
l’apostrofò spazientito il maggiore, forse
più aggressivo di quanto intendesse,
ché infatti Momolo indietreggiò intimidito,
sbattendo la schiena contro il
muro. “Ammettendo che il signor Alvixe la voglia sposare: e
allora? Dove
sarebbe in ciò il crimine? An? Nostro padre – a
chi Dio perdoni - è
morto e nostra madre è libera di fare ciò
che meglio crede! Cosa t’impicci degli affari suoi?”
“E’
la donna del nostro sior Pare, comprendestu? Nostro. Padre!”,
si batté il giovinetto il petto onde reiterare il concetto.
“L’affare sul serio
non ti tange? Non t’importa sapere nostra madre in letto,
nuda a fare l’amore
con uno che manco è nostro pa-ahia!”, non
riuscì Momolo a terminare la frase,
che suo fratello gli aveva afferrato i capelli, tirandoglieli
crudelmente, i
denti digrignati ben in mostra.
“Ti
te sporcarie da sbisào no te le me disi,
sastu? O TE
COPO!”, l’avvertì perentorio, ogni
traccia affabile sparita dal suo viso. “La
siora nostra Mare è una nobildonna onorata, pudica di corpo
e di pensieri! E
anche se si volesse rimaritare, chi sei tu per impedirglielo, chi sei
tu per
comandarla, per dirle cosa può e cosa non può
fare? Chi sei tu?”
Suo
figlio!, avrebbe
voluto replicare un Momolo sull’orlo
dell’ennesima crisi nervosa, ma già prevedeva la
replica di Marco, ovvero che
anch’egli era figlio di Madre e di certo non si permetteva di
pontificare in
giro sul suo operato.
Era
dunque rimasto solo ad affrontare i suoi problemi, come
sempre.
***
“Zò,
patron! Saria anca horra de tornar ndrio a chaxa vuostra per
zenar!”
Momolo
trasalì alle parole mugnaio, rendendosi soltanto ora conto
delle prime luci rossastre del tramonto. Tirò su col naso e
s’asciugò le
lacrime dalle gote, ottenendo solo l’effetto di sporcarsi
ulteriormente di fango.
“Dime,
caro ti”, chiese piuttosto egli all’uomo,
rimettendosi in
piedi sul pontile, “facciamo che un giorno la Morte di colga.
Saresti contento,
se la siora toa mojer la se maridasse de novo?”
Il
mugnaio reclinò confuso il capo, grattandosi il collo
sudato,
intanto che meditava sia ad una risposta soddisfacente sia al motivo
dietro
quella bislacca domanda. “Beh, tuti i saven ch’i
morti ndove i van, no tornan
indrio: anca se mi no vorave la mia femena co naltr’om, chome
imperdighelo se
sonjo morto?! De po’, le femene gh’han senpre fato
zò che le piasen, dai tempi
d’Adam et Eva!”
“E
ciò senza tener conto dei tuoi parenti e del tuo
onore?”
L’uomo
scoppiò a ridere fragorosamente, a bocca ben larga e
mostrando
qualche dente mancante. “Il mio honor? I mii danari, ecco
zò ch’el premarà a
staltri! Co’ se more, patron, no ghe rimane al morto ni honor
ni niente, solum
Sen Michiel cum la bassacuna” [12], ridacchiò
ilare, scotendo il capo dinanzi a
tal ingenuità.
Insoddisfatto
e un poco piccato per quella non troppo velata presa
per i fondelli, Momolo raggiunse il suo cavallo, salendoci in groppa
assai
imbronciato.
“Patron”,
lo trattenne all’ultimo il mugnaio, avvicinandosi e
guardandolo serio-serio, “aricordeve ste parolle: ante de far
la moral a
qualchedun, vardé drento de vu et pensé
se vuj seti mejo o
pezo di chi volé criticar. Queo sgrandezón
(superbo, ndr.) dil luzifero fo el
primo a dir: Mi sun parfeto!”
Il
ragazzino strinse la bocca in una piega dura, ribelle a quel
consiglio come lo era nei confronti di tutti quegli altri elargitigli
dagli
adulti. Inoltre, la malcelata vanità dovuta al suo ceto gli
suggeriva di non
tener da conto i pareri di un popolano, anche se più maturo
di lui e con
maggior esperienza del mondo. Che ne sapeva quel plebeo della morale,
dell’onore? Similmente ad ogni esponente del popolo bue, egli
non era che
un’anima semplice, i cui unici scopi della vita rimanevano il
cibo, i soldi e
il sesso. Nient’altro. Inutile dunque contraddirlo e tentar
di cavar sangue
dalle rape: non ci sarebbe mai arrivato. Che vivesse dunque nel fango
alla
stregua di bestie, che gliene importava? Ma che non venisse a riempirlo
di
consigli, quello no!
“Iddio
sia teco”, si congedò il tredicenne in un tono
assai
frettoloso e scocciato, battendo i tacchi sui fianchi del cavallo.
“El
xé senpre meco, patron!”, si toccò il
mugnaio appena il bordo
del cappello di paglia a mo’ di saluto, seguitando ad
osservare con quell’aria
tra il furbo e il bonario la figura di cavallo e cavaliere allontanarsi
lungo
il fiume fino a sparire all’interno del bosco.
Quando
Momolo raggiunse la villa, oramai l’ora di cena era
bell’e
passata. Ad avvistarlo fu Trovaxo, che subito gli corse incontro ad
afferrare
il morso del cavallo, costringendolo a fermarsi definitivamente
acciocché il
padroncino scendesse.
Neanche
diede tempo al servitore d’avvertirlo o rimproverarlo, che
subito il giovinetto sfrecciava in casa, ignorando bellamente i
richiami misti
di rimprovero e preoccupazione di madona Leonora.
“Ciò!
Ciò! Ti sto parlando! Che modi sono questi?”, lo
tallonava
non senza qualche difficoltà, essendo infatti il figlio
più veloce, salendo le
scale a due a due. “Te paiono ore da rincasare? Ero spasimata
dalla
preoccupazione! Ho spedito il Marchetto a cercarti! Nessuno dei tuoi
fratelli
s’è mai comportato da turco come te
…”, brontolava la nobildonna sbuffando,
finalmente però capace di allungare il braccio per afferrare
il discolo del suo
figliolo.
Sennonché
questi, guizzando come una vipera, si scrollò
violentemente dalla sua presa, gridandole furioso: “NON MI
TOCCARE!”, e quando
la madre tentò di trattenerlo una seconda volta, questi le
schiaffò via la mano
con tal forza da sbilanciarla.
Portandosi
la mano dolorante al petto, madona Leonora studiava
confusa il figlio, neanche si fosse trovata dinanzi ad uno sconosciuto.
Non
l’aveva mai visto così arrabbiato: la bocca
tremante di piccoli spasimi,
l’assottigliarsi convulso degli occhi,
quell’ingobbirsi da gatto … La
nobildonna immediatamente riconobbe in lui le medesime crisi di collera
che
ogni tanto esplodevano nel marito. Dunque, come aveva imparato a
percepirle e
anticiparle in sier Anzolo, similmente operò col figlio.
“Momolo, come ti sei
ridotto? Sei tutto sporco di fango!”, abbassò e
addolcì ella il tono di voce,
rendendolo più conciliante. S’avvicinò
lentamente al ragazzino, quasi si
trovasse di fronte ad un animaletto selvatico. “Momolo, vieni
su, ti faccio
preparare il bagno. Dopodiché ceni e ti metti tranquillo in
letto …”
Il
tredicenne s’allontanò bruscamente dalla
genitrice. “Lasciami
stare!”, l’interruppe aspramente, acquattandosi
contro la porta della sua
camera e rifiutandosi di guardarla dritto negli occhi. “Non
toccarmi! Non ho
bisogno del tuo aiuto! Da te non voglio niente!”,
berciò pure dimenticandosi di
darle del voi da quant’era incollerito.
“Ma
se fino a ieri mi domandavi sempre d’aiutarti a lavarti
…”,
gli ricordò dolcemente madona Leonora, provocando un feroce
rossore sulle gote
del giovinetto.
“Oggi
invece non lo voglio più!”, replicò
gridando, battendo
imperioso il piede per terra. “Vermocane! Hai mai nettato i
miei fratelli a
tredici anni? No! E’ sbagliato! Indecoroso!”
L’espressione
di sua madre, da comprensiva, mutò in una severa e
inquisitrice. “Chi ti ha messo in bocca queste
parole?”, esigette di sapere,
impedendo col suo corpo ogni via di fuga al figlio.
“Nessuno!”,
sgattaiolò via ugualmente Momolo. “E comunque, non
preoccupatevi per me: tanto a breve avrete un nuovo pargolo da
accudire!”, berciò,
sbattendole in faccia la porta, che sbarrò rapidamente con
un cassone, sordo ai
richiami adesso arrabbiati di sua madre.
“Momolo!
Momolo! Apri questa porta! Ora!”, batteva irata la donna
contro la porta, cui s’unì poco dopo anche Marco,
il quale, seppur aprendo una
breccia, non poteva ugualmente entrare a causa del pesante ostacolo
postogli
dal cassone.
“Apri
la porta, peocio, o domani tu ed io faremo i conti! Ti
faccio ingoiare i denti a furia di s-ciafoni!”, gli promise
assai minaccioso il
maggiore.
Momolo,
seduto di spalle contro il cassone, aspettò di scorgere
dalla fessura della porta il viso di Marco, per rifilargli una
lunghissima
linguaccia. “Andé a zogar a la lipa!”, e
balzato sopra il mobile, spinse la
porta che per poco gli troncava il braccio, tra colorite imprecazioni e
il
tredicenne sogghignò perfido sapendo quanto Marco si stesse
trattenendo, primo
per non scandalizzare Madre; secondo, per non dargli del figlio di
puttana
senza, in un colpo solo, vituperare la genitrice e se stesso.
Una magra
consolazione: il tredicenne sapeva benissimo che
l’indomani il fratello in qualche modo l’avrebbe
agguantato e scorticato vivo a
furia di sberle, secondo la pratica ludica preferita a Ca’
Miani, il
pituffamento del Momolo.
Quella
sera, però, il vincitore rimaneva lui giacché,
tra ringhi e
insulti, Marco dovette cedere e la casa sprofondò in un
tesissimo silenzio.
Ignorando
i crampi della fame, il ragazzino si cavò la bereta, il
farsetto, gli stivaletti e le brache, gettandoli disordinatamente per
terra.
Dopodiché si buttò sopra il letto, affondando la
faccia sul cuscino e
stringendo tanto questi convulsamente quanto i suoi denti.
Quel
pomeriggio, poco dopo il pranzo, Momolo aveva cercato sua
Madre nel salone principale della villa, non avendola scorta da nessuna
parte
nel più fresco portico. Aveva avuto una brutta sensazione
nel non trovarla al
solito posto, sentimento esacerbato dal mutismo di Eudokia, che come
sempre
quando si trattava della sua padrona non sapeva e non vedeva mai niente.
Il
tredicenne allora, appurato come anche quella stanza risultasse
vuota, si era spostato alla volta della cucina per poi uscire dal retro
e fu
lì, dentro la serra, che li scovò, Madre
col cestino colmo di limoni del
Garda sottobraccio e il signor Alvixe Beltramin accanto a lei, che le
parlava
talmente fitto che le loro spalle si toccavano quasi.
“Madona
Leonora”, il tono di voce dell’uomo suonava assai
ansioso,
incalzante, “oramai ci conosciamo … solo a voi
posso dirlo francamente … Voi
sapete della mia vedovanza, di come abbia amato moltissimo la mia
povera moglie
…
tuttavia”, si morse a disagio il
labbro inferiore, incerto su come proseguire. “Che ne
pensate?”, le domandò
infine. “Credete in una seconda
possibilità?”
Momolo
si tramutò in pietra, manco più respirava. I suoi
timori
s’erano dunque avverati? Quel tanghero sul serio le stava
chiedendo di … Il
ragazzino allungò il collo, sperando di scorgere sul volto
di Madre una
qualsivoglia forma di rifiuto e fastidio per quelle avances. Al
contrario, vi
trovò un sorriso assai soddisfatto.
“Certo
che sì, signor Alvixe. La vita è troppo breve per
trascorrerla soli ed infelici. Inoltre, il vostro puttino
avrà pur bisogno di
una madre per crescere, no?”
“Sì,
sì proprio così, m’avete cavato le
parole di bocca!”,
convenne energico l’uomo, afferrandole d’impeto la
mano. “Grazie, grazie di
cuore! Siete un angelo disceso dal cielo!” e gliela
baciò gioioso.
Doveva
agire! Assolutamente! Impedire ad ogni costo quelle nozze
scellerate! Non voleva nessun patrigno, non voleva nessuno tranne
Padre, nessun
uomo gli avrebbe tolto Madre! Se soltanto non fosse stato un figlio
ribelle e
malvagio, se soltanto non avesse biasimato di continuo il genitore,
forse
Domine Iddio non l’avrebbe punito sottraendoglielo per sempre
e addirittura
infierendo con la prospettiva di dargli un secondo padre, un uomo che
Momolo
odiava con tutto se stesso.
Ma chi
poteva aiutarlo? Chi?
Lucha?
Carlo? Pah, figurarsi! Il primo, a Marostica e ignaro di tutto, avrebbe ugualmente dato ragione a
Madre come aveva fatto Marco e il secondo se ne fregava di tutto e di
tutti,
tant’è vero ch’avrebbe campato fino a
cent’anni! Crestina? Aveva da badare alla
sua di famiglia, col Gasparo che cresceva veloce e irrequieto come ogni
pargolo
in salute, riempiendole le giornate. Il mite e benevolo prozio Hironimo
detto
“il Pizzocchero” ormai cantava alla presenza del
Signore, quindi no. Il biscugino
Thomaso? Nah, quello se ne stava sempre per i fatti suoi nel fontego.
L’altro
biscugino sier Zuan Francesco s’era tutto dedicato alla
politica, candidandosi
a questa o quella carica e di sicuro non avrebbe avuto tempo per starlo
a
badare … E comunque a Ca’ Miani comandava
incontrastata Madre, ergo anche se il
biscugino avesse voluto che avrebbe potuto rimproverarle senza venir
prontamente zittito?
Il barba
Batista! Come aveva potuto non pensarci prima? Non era
soggetto alla dura lex del gineceo, tra i suoi zii era quello che
più ci teneva
a loro e vantava di una posizione di parentela abbastanza forte da
poter
ragionare con Madre da suo pari!
Balzando
giù dal letto, Momolo corse al piccolo scrittoio, intingendo
velocemente la punta della penna nell’inchiostro e tra mille
sbrodoli e macchie
scrisse in gran pressa:
Clarissimo
e magnifico sior Barba. So che molti negozi vi tengono
occupato a Veniexia e che gli affari dello Stato vengon sempre prima
dei
nostri. Tuttavia vi chiedo di porre attenzione anche al governo della
vostra
medesima famiglia, la quale senza la guida del mio sior Pare non si
mantiene
più onesta come prima. Mi duole informarvi come la mia siora
Mare vostra sorela
si comporta in maniera vergognosissima, accettando la presenza
d’un altro uomo
nella casa del mio sior Pare e non avendo né il Marchetto
né gli altri miei
fradeli alcuna volontà d’intervenire, vi supplico
di provvedere acciocché
codesto serpente tentatore nomato Alvixe Beltramin di Liberale venga
allontanato dalla mia siora Mare vostra sorela. Di vostra signoria
devotissimo
servitore, Jer.mo Miani scrisse. Fanzuolo a dì …
Ora
avrebbe dovuto trovare il modo di sgattaiolare e consegnare a
chi di dovere la lettera, prima che Marco l’acciuffasse e a
ceffoni gli
conciasse in cuoio la pelle delle chiappe.
Ogni sua
speranza di conservare Madre per sé ormai si trovava
nelle mani di sier Batista Morexini.
Come da
lui profetizzato, invero Momolo l’indomani si
ritrovò
catturato da suo fratello, entrato dalla finestra tramite una scala, e
neanche
il tempo di dirgli “Parlamento!” che il ragazzino
si ritrovava a faccia ingiù
sulle sue ginocchia a pigliarsi i giusti sculaccioni.
Dopodiché il maggiore lo
gettò di peso nella vasca a lavarsi, intanto che Orsolina
scuotendo il capo
toglieva le lenzuola sporche di fango secco, prefiggendosi una dura
giornata di
bucato.
Questo
però soltanto dopo che il tredicenne aveva già
inviato la
sua preziosa missiva a Venezia.
Saggiamente,
in attesa dello zio, Momolo optò per la tattica
dell’invisibilità, ossia di starsene quieto e di
comparire il meno possibile in
casa, anche perché pervasa dal contagiante malumore di
Marco.
All’inizio
il giovinetto aveva pensato il suo maggiore avercela
ancora con lui; più tardi, interrogando Orsolina, apprese
che il motivo per cui
suo fratello aveva un diavolo per capello corrispondeva alla sconfitta
a
Zonchio dell’ammiraglio sier Antonio Grimani da parte della
flotta turca. Le
loro basi commerciali, i loro affari in quella parte di Grecia
… tutti
compromessi! “Spero che
quell’innominabile testa di cazzo coli a picco
con la sua fottuta ammiraglia!”, avevano i ruggiti
del diciottenne Miani
scosso la villa dalle fondamenta, “Perché
non appena mostra quel suo
muso di merda a Veniexia, quant’è vero Iddio lo
impicco con le sue stesse
budella al Campanile di San Marco! s’era
sfogato ben bene, per poi
chiudersi per due giorni di seguito nello studiolo di Padre a scrivere
numerose
lettere a sier Antonio Trum, ai barba Miani e Morexini e altri suoi
agenti a
Veniexia, Candia, Cipro e perfino a Rodi per sperare che il danno della
perdita
di Lepanto e altri basi greche non avesse scalfito eccessivamente gli
introiti
totali della loro attività laniera. E mentre faceva questo,
similmente a tutti
i monelli di strada a Venezia e com'era anche dipinto sulle botteghe,
sui muri
e perfino sulla porta di Ca' Grimani, il giovane Miani ripeteva
anch'egli
l'oramai famoso ritornello: "Antonio
Grimani / Ruinà de’ cristiani / Rebello
de’ venitiani / Puòstu esser manzà
da’
canni / Da’ canni, da’ cagnolli / Ti e toi fiulli!"
Tanto
Marco era preso dalle vicende provenienti dal Levante, da
ignorare completamente quelle dal Ponente e più nello
specifico quelle nella
sua medesima casa. Altrimenti, quel pomeriggio del 30 agosto non si
sarebbe
assentato, mancando d’un soffio l’arrivo del suo
zio materno.
Avvertito
da una perplessa Orsolina dell’inaspettata (per loro)
presenza di sier Batista, Momolo scese veloce dalle scale, andando
incontro al
patrizio per salutarlo e condurlo al frutteto, là dove Madre
stava valutando
quali pere cogliere.
Il suo
Barba doveva aver viaggiato di gran pressa, presentandosi
scarmigliato e gli abiti pieni di polvere, il volto tirato da
un’espressione
talmente arcigna che il ragazzino si bloccò
sull’ultimo gradino della scala,
improvvisamente intimidito da quello sguardo di fuoco. Capì
d’aver commesso un
errore di giudizio: tanto era preso dal suo malessere, da aver ignorato
ciò che
accadeva fuori Fanzolo e non si riferiva solo alla perduta guerra di
Zonchio,
bensì del fallimento del banco dei Lipomano il 16 marzo
scorso, una vergogna
per l’intera Serenissima. Il 20 giugno, sier Batista, sier
Christofal Moro e
sier Stephano Contarini erano stati eletti nella commissione che
avrebbe dovuto
indagare sulla questione del fallimento della banca, fondata nel 1480
da sier
Thomà Lipomano, assieme ai fratelli e cognati Alvixe, Andrea
e Polo Capelo, poi
liquidati. Quest’ultimi, ironia della sorte, erano previi
cognati di sier
Christophal e come lui, anche se ormai fuori dalla società,
avevano dei
risparmi, i Capelo tredicimila ducati e sier Moro quattromila. Se Lucha
se
l’era vista brutta a saldare in tempo il debito di cento
ducati al protogero di
Morea e così evitare la galera, a quale santo doveva
appellarsi sier Hironimo
Lipomano? La sua banca contava più di mille depositanti, tra
cui settecento
nobili, i quali v’avevano messo da parte le doti per le
figlie, svanite ora nel
nulla. Da mesi sier Batista aveva dovuto affrontare
quell’ingarbugliata matassa
finanziaria, respingendo e difendendosi dai creditori inferociti, i
quali
reclamavano a gran voce il sangue di tutti i Lipomano, perfino dei loro
neonati.
Non che contrattare con sier Hironimo, sier Bortolo e sier Vitor fosse
più
semplice, protestando questi come il dissesto del banco fosse dovuto ai
troppi
crediti accordati all’Erario statale, chiamando quindi
indirettamente in causa
la Signoria.
Si
preannunciava dunque un lungo braccio di ferro tra i tre
commissario, il Consiglio dei Dieci, i creditori e i debitori e se sier
Batista
era sempre riuscito a dissimulare la sua frustrazione nelle visite al
Paradiso
o a Fanzolo, adesso, tra la sconfitta di sier Antonio Grimani e la
lettera di
suo nipote, l’ultima oncia della sua pazienza s’era
esaurita e anche lui
giungeva col coltello tra i denti.
“Schiavo
vostro, patr- …”, provò a salutarlo,
sennonché l’uomo in
due falcate lo raggiunse e, afferratolo per il polso, lo costrinse a
scendere
giù. Trascinatolo sotto la luce delle finestre, gli
sventolò sotto il naso la
lettera spiegazzata dal pugno.
“Mi
spieghi questa porcheria?”, ringhiò gutturalmente
sier
Batista, stringendo la presa tanto da strappare un piccolo guaito da
parte del
nipote, più per la sorpresa della reazione del parente che
per il dolore vero e
proprio. Non aveva minimamente immaginato poter lo zio reagire
così: invece di
mostrargli gratitudine, pareva offeso a morte dalla sua lettera.
“Non ti
vergogni a scrivere tali monade?!”
“Non
è una jontonia, è la
verità!”, pigolò Momolo, le gote tinte
di rosso. “La mia siora Mare si vuole risposare!”,
gli rivelò in un sol sorso,
fissando l’uomo pieno d’aspettativa.
Il
Morexini socchiuse sospettoso gli occhi. “Risposarsi? E con
chi?”
“Il
signor Alvixe Beltramin!”
“Hai
delle prove? Ne hanno parlato apertamente?”
“Siorsì!”
“Dove
e quando?”
“Nella
serra, meno di una settimana fa.”
“Cosa
facevano?”
“Chiacchieravano.”
“Soltanto?”
“Siorsì
…”
“Di
che cosa esattamente?”, e notando l’assenza di
risposta da
parte del nipote, l’incalzò: “Sei
davvero sicuro che la tua siora Mare si
voglia risposare?”
Momolo
serrò la bocca, cercando freneticamente una scappatoia da
quell’interrogatorio. Aveva coscientemente lasciato ambigui
molti dettagli,
onde pungolare l’orgoglio dello zio e invogliarlo a
raggiungerli a Fanzolo.
Evidentemente l’aveva giudicato male, credendolo
più impulsivo di quanto in
realtà non fosse. Le serrate domande e contro-domande cui lo
stava sottoponendo
non avevano nulla da invidiare ad un consigliere dei Dieci, tradendo la
sua
intima diffidenza.
Il
ragazzino non aveva totalmente errato i suoi calcoli, glielo si
conceda: fosse accaduta tal vicenda trent’anni addietro,
forse-forse il “da
Lisbona” avrebbe reagito con maggior impetuosità e
scatenato un buferone. Gli
anni, l’esercizio della mercatura e la sottile ambizione
d’inserirsi bene in
politica e farvi carriera avevano aiutato sier Batista a stemperare
l’irruenza
giovanile tramite l’assidua pratica della virtù
cardinale della prudenza,
ponderando ogni volta i pro e i contro prima d’agire e di
parlare. A onor del
vero s’era dapprincipio sdegnato nel leggere di tali
indecenze in seno alla sua
famiglia; dopodiché, a mente fredda, il patrizio aveva
considerato l’età del
mittente, ossia un giovinetto di tredici anni che sicuramente aveva
peccato
d’impulsiva drammaticità. Gli avessero inviato o
Lucha o Carlo tale missiva,
ancora Batista si sarebbe preoccupato: invece, essendo stato Momolo,
dubitava
della veridicità di tale faccenda, non nel senso che non gli
credesse, ma più
che altro che avesse esagerato nei dettagli, distorcendo la
realtà.
E di
questo il Morexini era venuto ad accertarsi.
“Perché
non mi rispondi?”, indietreggiò l’uomo
di un passo,
squadrando accigliato il nipote da capo a piedi.
“Perché sei così nervoso?”
“Perché
mi ponete tutte queste domande?”, replicò di
rimando
Momolo, il quale sul serio però si stava innervosendo
dinanzi a quell’occhiata
inflessibile e indagatrice.
“Non
hai forse richiesto il mio intervento? Come posso agire, se
non conosco approfonditamente l’intera faccenda?”
“Tutto
quel che c’è da sapere, lo trovate scritto in
quella
lettera! Che volete
che aggiunga? La mia
siora Mare ha il ganzo!”
Sier
Batista alzò il mento e il tredicenne abbassò il
suo. “Tu
menti per la gola”, sentenziò infine il patrizio
dopo un lungo silenzio.
“No!”,
gridò il giovinetto, scattando in avanti come se volesse
afferrare il parente per la vesta, ma trattenendosi
all’ultimo momento. “No,
no, no, sior Barba, vi giuro su quel che volete, che vi sto dicendo la
verità!
La mia siora Mare si vuole maritare!”
“Deciditi,
Momolo: ha il ganzo o si vuole maritare? Qui mi hai
scritto, che mia sorella conduce un disonesto commerzio con questo
Beltramin! Ora
però mi dici che lo vuole sposare. A quale delle due
versioni debbo credere?”
Certamente uno poteva prima fornicare e poi sposarsi, però
sier Bastita
percepiva quella persistente nota di contraddizione che non lo
convinceva. Se
davvero la sua sorellastra si fosse data a gioie disoneste con un altro
uomo,
anche se da vedova, difficilmente i suoi nipoti Lucha, Carlo e Marco
sarebbero
rimasti a guardare silenti e inattivi, sicuramente qualche
provvedimento
avrebbero preso onde troncare quella disdicevole relazione.
“Momolo”,
l’avvertì spazientito l’avunculo,
“per l’ultima volta,
dimmi come stanno veramente le cose! Varda che sun stuffo!”,
l’apostrofò severo
il patrizio. “Se t’ostini nel tuo silenzio, non ti
potrò né credere né aiutare!”
“Aiutarlo?
E in che cosa?”, s’intromise madona Leonora,
rincasando
assieme ad Eudokia. Ignorando l’irrigidimento del figlio e
del fratellastro, la
nobildonna cedette alla fantesca la sua cesta di pere, inviandola in
cucina,
mentre lei rimase lì nella sala principale. “Titta
caro, ma che sorpresa! Quando
siete arrivato? Non v’aspettavo, altrimenti vi avrei
preparato una piccola
refezione”, gli andò incontro sorridente, intanto
che si levava il pesante
paneselo nero, rimanendo solo con la scuffia d’altrettanto
colore.
“Da
poco”, replicò a denti stretti sier Batista,
gelando la sua
sorellastra che si bloccò, riconoscendo nel viso solitamente
amabile dell’uomo
un’espressione assai dura e contrariata. “Per
rispondere alla vostra prossima
domanda - perché sono qui - leggete
prima questa lettera e poi abbiate la cortesia di spiegarmi codesta
novità”,
l’esortò perentorio Batista a prendere la missiva
che le stava porgendo.
Momolo
trattenne il fiato, avvertendo il cuore sprofondargli in
pancia.
Confusa,
madona Leonora afferrò la lettera e ne lesse rapidamente
i contenuti, sbiancando peggio d’un panno appena lavato.
Levò incredula gli
occhi verso il figlio, la bocca schiusa e il labbro inferiore tremante;
rilesse
e di nuovo fissò smarrita il fratellastro, scuotendo
inconsciamente il capo in
diniego.
“Giusto
adesso ho appreso, come fra poco dovrò chiamare vossioria
madona Leonora Morexini Beltramin!”
Come
punta da una vespa, la patrizia si risvegliò, accartocciando
la lettera nel pugno. “Che asinerie andate blaterando? Io?
Maritarmi con
Bel-tra-min?” e pronunciò il nome del gentiluomo
come se l’avesse sentito per
la prima volta in vita sua, sconcertata da tal assurdità.
“Donca
per dasseno intrattenete un disonesto negozio con
quest’uomo!”, concluse sardonico il “da
Lisbona”, girandosi brevemente verso il
suo ammutolito nipote.
“Rivolgetevi
ancora a me con questo tono e – fratello o non – vi
faccio sbattere fuori di casa mia a cialz en cul!”,
s’inalberò immediatamente
la nobildonna, visibilmente offesa da quell’insinuazione.
“Il mio cuore di
donna l’ho seppellito tre anni fa nell’arca di
Anzolo! Mai e poi mai accetterei
un secondo matrimonio! Mi fate torto, missier, voi e il vostro
dubitare! Come
potete pensare che io … che io …”,
s’impappinò, non riuscendo più ad
articolare
i suoi pensieri a causa dell’indignazione.
“A
me lo chiedete? Domandatelo a vostro figlio! Domandategli
perché scrive tali barbarità! Domandategli
perché ha preferito sbottonarsi col
suo barba e non coi suoi fratelli maggiori, men che meno con sua
madre!”, esclamò
aspro Batista e indicò bruscamente un impietrito Momolo, che
abbassò lo
sguardo, incapace di sostenere quello incredulo e deluso di Madre.
“Sangue di
Cristo, che qualcuno mi spieghi una volta per tutte
quest’intrigo, poiché io
per primo fino a ieri non ne sapevo niente! Anzi! Me ne stavo a casa
mia, a
districarmi in quel … bordello ch’è il
fu banco dei Lipomano, quand’ecco che
m’arriva questa lettera dove mi s’invoca aiuto,
spiegandomi come mia sorella si
comporti da mamola (donnaccia, ndr.)!
“Mi
sono recato prima a Cha’ Miani dal Carlino a domandargli cosa significasse questa storia del ganzo. Sapete
che cosa
m’ha risposto? Che son matto; che avevo preso troppe
legnate in testa! Mi
ha quasi mangiato vivo, gridandomi come la loro siora Mare non
faccia di
queste sporcarie, che non era a conoscenza di alcuna tresca tra voi e
codesto
signor Alvixe. Avanti! Ditemi a chi debbo credere!”,
sbottò frustrato il
patrizio, pigliando il nipote per il gomito e costringendolo seduto
sulla
cassapanca foderata di cuoio. Accomodatosi anch’egli,
batté sull’imbottitura
del sedile acciocché la sorellastra lo imitasse alla svelta.
“Cul del cancaro, visto
che m’avete trascinato in questo casino, ora esigo di
conoscere tutta la
storia, dall’inizio fino alla fine!”,
esclamò sbuffando e appoggiando ambedue
le mani sulle ginocchia leggermente divaricate, si sporse in avanti
onde meglio
ascoltar la tanto sospirata delucidazione.
“Non
v’è niente da spiegare: il signor Alvixe Beltramin
è un
nostro vicino, il cui unico crimine, a quanto pare, fu di venire qui a
tenerci
un poco di compagnia.”
“E
secondo voi, lo reputate un comportamento saggio e confacente
ad una nobildonna della vostra sorte? Vi pare onesto avere un estraneo
alla
famiglia gironzolare in casa?”
“E
secondo voi, io accetto lezioni di morale da uno che fa beca
(cornuta, ndr.) la soa mojer dalla mattina alla sera?”
“Io
sono un uomo; voi siete una donna e come tale dovete
comportarvi con decoro!”
“Voi
siete marito e padre e il decoro, Titta carissimo, manco
sapete dove stia di casa!”
I due
Morexini si fissarono in cagnesco, ognuno sfidando l’altro a
proseguire nelle proprie moralistiche invettive.
Batista
si morse l’interno della guancia, congiungendo stizzito le
mani sul grembo. Leonora aveva stretto talmente le labbra, che pareva
volersele
ingoiare e dal luccichio dei suoi occhi, Momolo intuì come
si stesse
trattenendo da un pianto rabbioso.
Fu il
patrizio a rompere per primo il silenzio, allargando le
braccia tra il conciliante e l’aggressivo. “Ma alla
fine, de diana, che diavolo
veniva a fare questo gentiluomo in casa vostra?”
“A
chiacchierare un poco … E’ vedovo e solo con un
bambino ancora
in fasce …”
“Puoah,
affari suoi … Certo che a voi, sorella, i vedovi piacciono
assai … ”, commentò malizioso Batista,
beccandosi un’occhiataccia fustigatrice da
parte della patrizia che proseguì imperterrita:
“Veniva
a chiedermi consiglio.”
“A
voi?”
“A
me!”
“E
qual consiglio poteva offrigli la dottoressa, qua?”,
inquisì
beffardo il “da Lisbona”.
“La
fiozza (figlioccia, ndr.) del signor Pellizzari, no la
cognosseu?”,
replicò a tono Leonora, arcuando il sopracciglio.
“Vagamente
…”, rispose incolore il suo fratellastro,
aggrottando
la fronte e incominciando a capire dove la sorellastra stesse andando a
parare.
Si ricordava di quel passerotto di fanciulla, timida e discreta e
sempre
nascosta dietro la madre. Una biondina molto graziosa dalla pelle di
latte e
rosa.
“Il
signor Alvixe la vorrebbe in moglie e poiché sono amica
della
madre della puta, egli mi domandava: primo, d’intercedere
presso di lei;
secondo, se non fosse troppo presto per risposarsi. Se dubitate delle
mie
parole, prego, recatevi dalla siora Marta e domandatele
conferma!”, lo sfidò la
nobildonna a verificare di persona la sua giustificazione, indicandogli
tramite
un ampio gesto del braccio la porta da dove uscire. "Su, andate
controllare,
Missier Grando, chiedete a tutta Fanzuolo e Castel Francho, a chi vi
pare! Dopodiché,
m’auguro si possa chiudere per sempre quest’assurda
vicenda!"
Fu comico
osservare le diverse reazioni di zio e nipote dinanzi a
quella rivelazione: il primo si rilassò immediatamente,
neanche gli avessero
levato un grande macigno dal petto e anzi, ridacchiò pure
nervosamente,
appoggiando la schiena sui cuscini appoggiati al muro sopra la
cassapanca. Il
secondo parve invece essere schiacciato da essa, afflosciandosi quasi
su se
stesso.
“Tuttavia”,
puntualizzò Batista, “avreste forse fatto meglio a
chiarirvi prima col vostro puto. Poareto, non ha capito niente, anzi,
s’è preso
un brutto spavento e questo soltanto perché vi vuole molto
bene. Nevvero,
Momolo?”, gli accarezzò il capo senza voltarsi
né accorgersi di come il nipote
avesse sussultato, sconvolto.
Stavolta
fu madona Leonora ad abbassare il capo, ammettendo il suo
errore in quel frangente. Il suo fratellastro aveva ragione: avrebbe
forse
dovuto spiegare meglio la situazione a suo figlio, onde evitare quel
malinteso.
Ciononostante, non capiva come mai quell’ansietà
da parte sua, aveva sempre
pensato d’esser stata assai palese circa la sua
contrarietà ad eventuali seconde
nozze.
Proprio
in quel momento rincasava Marco che, raggiungendo il
gruppetto onde salutare il nuovo arrivato,
s’imbatté nel curioso spettacolo del
suo Barba un poco imbarazzato, di sua madre costernata e del suo
fratellino
sull’orlo delle lacrime.
“Dime,
caro ti”, partì immediatamente il patrizio
all’attacco. “Tu
ovviamente non ne sapevi niente, vero?”
“Sora
che?”, sbatté il diciottenne confuso le ciglia.
“Mah,
che la tua siora Mare vuol sposarsi il signor Alvixe!”
“Titta!”
“Eh?”,
mutò d’un colpo l’espressione di Marco
da disorientata a
furiosa, girandosi di scatto verso Momolo, il quale ormai vagava nel
suo mondo,
insensibile ad ogni contatto esterno, tramortito.
“An!”,
schioccò trionfante Bastita la lingua, puntando contro
l’indice al ragazzo. “Ecco qua il complice. Vedete,
Leonetta? Questi due”, e
accennò col capo a Marco e Momolo, “stanno
attaccati l’un l’altro come Juda ai
suoi trenta danari. Ma tu guarda”, asserì severo,
scuotendo il capo, “se mi
tocca giocare al re Salomon per cavarvi di bocca la
verità!”
“Marchetto,
per dasseno sapevi tutto?”, l’interpellò
mesta sua
madre, costringendo il giovane ad abbassare contrito il capo.
“Purtroppo”,
ammise, per poi scoccare l’ennesima occhiataccia al
fratellino. “Ma non fino a questo punto! Sì, siora
Mare e sior Barba, Momolo
s’era confidato con me, però subito ho tentato di
dissuaderlo dal perseguire
questa sua asineria! Non è colpa né mia
né della mia siora Mare, se questo
disgraziato non ascolta mai i suoi maggiori e agisce sempre di testa
sua!”
“Figlio mio,
potevi però
avvertirmi.”
Le
orecchie di Marco avvamparono, ammansendosi il suo tono di
voce. “E ripetervi le … le turpi schifezze che
m’ha confessato? Sarà ancora un
piccoletto, ma possiede una mente più sporca d’un
marinaio! On marso
malignasso!”
Madona
Leonora aprì la bocca per replicare in difesa
dell’ultimogenito, sennonché Bastita, captando
un’aria piuttosto tesa e volendo
evitare altri inutili discussioni, s’intromise onde
appacificare gli animi.
“Mo’
via, mo’ via! Pace e non parliamone più.
S’è trattato di un
semplice malinteso; noialtri ci siamo chiariti come gente civile e la
questione, per me, è bella che chiusa. Non vi trovate
d’accordo?” e squadrò uno
ad uno il volto dei suoi interlocutori, i quali convennero a malincuore.
“Sior
Barba, vi fermereste a cena?”, lo invitò
impacciato Marco
dopo un lungo silenzio.
“Vorrei
ben vedere! Ho una gran fame, neanche ho pranzato!”,
esclamò ilare, alzandosi dalla cassapanca foderata e
seguendo il giovane verso
l’altra sala.
“Vi
faccio anche preparare un bagno e una stanza.”
“Buon’idea:
il mio povero cavallo ancora ha da riprendersi e
d’altronde mai fidarsi di viaggiare di notte.
Ripartirò domani mattina, se non
v’incomoda.”
“No,
no, è il minimo che possiamo fare per scusarci
…”
Madona
Leonora, invece, era partita alla rincorsa di Momolo che,
appurando la perdita perfino del sostegno e considerazione dello zio,
era
zompato via in camera sua alla stregua di una lepre.
Ripigliatosi
dall’intontimento ricevuto da quell’inaspettata
batosta, il giovinetto era passato
dall’incredulità alla vergogna ad infine
alla collera più nera. Si trattava di un inganno, ne era
certo, un teatrino
architettato ad arte da Madre e il suo ganzo onde ingannare suo zio. La
figlioccia del Pellizzari … figurarsi! Momolo non
sarà stato un grande
appassionato di poesia, però la figura della donna schermo
se la ricordava bene
ed ecco che di nuovo s’era ritrovato da solo nella sua lotta
e stavolta sul
serio senza alcun alleato.
E se ne
avesse parlato col prete?
“Momolo”,
gli giunse la voce di Madre alle sue spalle,
interrompendo il suo esagitato andirivieni per la stanza. Subito il
ragazzino
si sedette sul letto, le spalle rigide sulla difensiva.
Madona
Leonora chiuse la porta, avanzando verso il suo
ultimogenito, il cuore inquieto dinanzi all’espressione
furibonda in quelle
giovani iridi nerissime: in nessuno ella vi aveva scorto tal rancore,
neppure
in Anzolo nelle sue crisi peggiori. Per un istante, per un folle
istante, le
parvero gli occhi di una creatura infernale più
d’un essere umano.
“Momolo”,
gli disse dolcemente, sedendosi accanto a lui. Il
ragazzino si scostò bruscamente, voltando il capo in
direzione opposta. Madre
sospirò. “Momolo, non sono arrabbiata.
Però, dopo quanto successo questo
pomeriggio, hai ora l’obbligo di dirmi perché ti
sei comportato così. Perché
non ti sei confidato?” e ostinandosi il figlio nel suo
mutismo, proseguì: “Ci
siamo sempre raccontati tutto … Sai bene che non ti giudico
…”, provò ad
accarezzargli i capelli, sennonché il tredicenne si
sottrasse al suo tocco.
“Momolo …”
L’interpellato
in questione serrò i muscoli della guancia,
incrociando le braccia al petto, irremovibile.
“Amore
mio, non t’angustiare: non mi risposerò. Men che
meno col
signor Alvixe, che, come ora ben sai, veniva qui allo scopo di
conoscere meglio
quella ragazza.”
“Le
solite scuse”, ribatté infine Momolo, strisciando
dall’astio
le parole. “Non appena il sior Barba rientrerà a
Veniexia, torneremo daccapo!”
Sua madre
scosse il capo. “Ma no …”
“Ma
sì, invece! Mica sono scemo! Sempre lì a
sminuirmi, quando
invece giudico le cose per quel che sono! E non rifilatemi il solito
stornello Ora sei giovane e non capisci, perché
al
contrario ho ben capito, come anche gli adulti sappiano essere
più stupidi e
ingenui dei bambini!”
“Per
questo motivo hai scritto al tuo Barba? Perché mi credevi
stupida ed ingenua?”
“Speravo
facesse qualcosa. Qualsiasi cosa”, bofonchiò
impacciato
l’adolescente, gonfiando le guance. “Ed ecco che si
rivela più mona della
mona.”
“Momolo!
Porta rispetto al tuo sior Barba!”, lo rimproverò
la
nobildonna, scontenta da quel turpiloquio che proprio non riusciva a
sradicare
dal figlio. “Cosa t’auguravi che facesse? Non ha
potuto risolvere niente,
perché non c’è mai stato niente da
risolvere! Tesoro …”, si portò ella
più
presso al ragazzino. “Il tuo Tata era la mia vita, anche se
ogni tanto ci
vedevi litigare e gli tenevo il broncio, l’ho amato dalla
prima volta fino
all’ultima in cui l’ho visto … Neanche
obbligandomi, neanche se Missier il Doxe
o il domino Patriarcha me lo comandassero riuscirei mai a sopportare un
secondo
matrimonio … Dio m’ha dato il tuo Tata; Dio me
l’ha tolto. Dio me lo restituirà
nell’ora della mia morte.”
Un feroce
groppo in gola strangolò Momolo, che si morse feroce il
labbro inferiore. “Non bestemmiate il nome di Padre
né di Dio!”, gracchiò, battendo
i pugni sul materasso. “Come potete … come potete
…?”
“Come
hai tu potuto accusare un uomo senza prove concrete?”, gli
chiese di rimando sua madre. “Scrivere tali accuse al tuo
Barba! Hai mai
pensato a cosa sarebbe potuto accadere, se qualcun altro avesse letto
la tua
lettera? Per gelosia avresti rovinato la vita ad uomo
innocente!”
“Ecco,
sempre a difendere Sant’Alvixe Beltramin, confalonier
(patrono, ndr.) dei maridi bechi et di le védoe
allegre!”, ridacchiò sarcastico
il tredicenne e pieno di tal malignità, da frustrare un poco
la nobildonna. Il
suo figliolo avrà pur ereditato l’aspetto dei
Morexini, ma in quanto a
testardaggine era tutto Miani …
“Mi
deludi, sai? Non ti facevo così maligno e
rancoroso”, gli
confidò infine, alzandosi dal letto. Un qualcosa si
ruppe nel cervello di
Momolo a quelle parole, sconvolgendogli la ragione e
letteralmente
vide rosso, il suo cuore incapace di sopportare anche quel tradimento.
Dell’opinione altrui se ne fregava, ma quella di Madre gli
era vitale. Se
dunque anch’ella lo disprezzava … “Se lo
sapesse il tuo sior Pare …”
“Ancora
avete la faccia tosta di nominarlo?”, berciò
all’improvviso Momolo, interrompendola furioso.
Balzò giù dal letto e raggiunta
sua madre le impedì di lasciare la stanza, anzi, le
afferrò di malagrazia il
polso e la costrinse a voltarsi. “Se lo sapesse il mio sior
Pare, si
rivolterebbe nella tomba nello scoprire che razza di troia
s’è preso in casa!”
Il
ragazzino scorse appena il lampo d’ira negli occhi della
madre,
avvertendo immediatamente un poderoso ceffone sulla bocca, il primo in
tutta la
sua vita da parte della genitrice. Sconvolto, si portò la
mano là dove gli
pulsava un taglio aperto, scoprendo piccole gote di sangue sui
polpastrelli:
ironia della sorte, Madre lo aveva schiaffeggiato con la mano recante
proprio
l’anello di Padre, dal quale non si separava mai.
Per un
arco indefinito di tempo i due si fissarono in silenzio
assoluto, Madona Leonora con un’espressione inflessibile da
Christus Judex e
Momolo come un’anima prava in attesa del giudizio. Entrambi,
curiosamente,
volevano in realtà parlare sennonché
l’orgoglio, la paura, lo sdegno, il dolore
e la vergogna glielo impedivano.
“Gnanca
presentate a tola.”
“Gnanca
vojo sofrir di la vuostra cumpagnia.”
Si
dissero il contrario di ciò che in realtà premeva
nei loro
cuori, ossia l’impellente necessità di perdono e
conciliazione.
Il
tredicenne represse il naturale istinto di correre dalla madre
e di abbracciarle le ginocchia, supplicandola di perdonarlo e di
confessarle in
lacrime la sua intima paura di perderla, di rimanere solo ad affrontare
quel
pazzo mondo assassino. Voleva confidarle del vuoto lasciatogli da
Padre, della
sua ira contro quell’ingiustizia divina, della sua invidia
verso i suoi cugini
benedetti da ogni fortuna, specie quella di avere un padre che li
guidava
mentre di lui nessuno si curava e ciononostante avevano
l’ardire di criticarlo
ugualmente, come se fosse facile crescere da soli. Voleva dirle che
l’ama
tantissimo, più della sua vita, che lei era
l’unica persona in cui nutriva una
fiducia assoluta, l’unica che non l’avrebbe mai
ingannato né abbandonato. Il
suo scudo, la sua aria, il medesimo sangue che gli scorreva nelle vene.
Voleva
solo proteggerla per proteggersi.
Momolin,
quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del
bene, purtroppo
finiamo per ferire le persone che amiamo.
Tacque
invece, l’orgoglio troppo grande, la voce della sua
vanità
che gli sussurrava quanto lui fosse nel giusto, mentre la colpa stava
in Madre,
l’artefice di quell’incresciosa situazione.
Mi
sun parfeto.
Madre e
figlio si separavano e Momolo si domandò se forse, quel
lontano 18 agosto 1496, non sarebbe stato meglio se avessero trovato
impiccato
lui a Rialto al posto di Padre.
***
Madre, in
cuor suo, l’aveva ovviamente già perdonato
malgrado
Hironimo non le avesse mai chiesto esplicitamente scusa.
L’aveva riaccolto a
braccia aperte, senza mai rinfacciargli nulla e ciò
l’aveva doppiamente ferito
perché ormai sapeva d’aver varcato una linea da
cui era impossibile ritornare
indietro. La loro perfetta sintonia era stata irrimediabilmente
contaminata da
dubbi e paure ed egli non si sentiva più in diritto di
godere di quell’amore
così intenso, né di reclamarlo esclusivamente per
se stesso.
Sicché
cercò attivamente altrove.
Nei
giorni e negli anni che seguirono, Hironimo in apparenza si
comportò da figlio modello, adoprandosi nella difficile arte
della doppia vita
– un volto per la genitrice, uno per i suoi amici e
conoscenti. Pur
spiritualmente attaccatissimo alla genitrice, fece di tutto per
staccarsi dai
suoi dolci legami, vertendo ogni suo sforzo a dimostrare al mondo come
egli non
fosse uno smidollato mammone. Agli altri questo suo cambiamento piacque
assai,
finalmente si comportava normalmente, era uno di loro, conforme alla
società.
Poco importava se la sua vita stesse gradualmente divenendo sempre
più
sterile. Si trasformò consciamente in una
barca danzante alla deriva
dei flutti, lasciandosi guidare da questa o quella moda,
dall’ambizione, seguendo
i suoi capricci e i suoi istinti ma mai la voce della ragione
ch’era sua Madre,
la quale, pur rispettandola, gli divenne cadaun giorno sempre
più fastidiosa e
insopportabile.
“Momolo,
sii attento. Momolo, sii prudente”, gli
ripeteva Madre ogniqualvolta usciva “a cena” cogli
amici. Sapeva che suo figlio
non era cattivo e si sforzava nella titanica impresa di tenerlo sulla
buona
via, di non perdere quell’antico legame d’amore e
fiducia.
“Sì,
sì, non vi preoccupate. Non son più un
bambino!”
Se madona
Leonora avesse mai sospettato della verità, il giovane
Miani se lo seppe lo relegò nel dimenticatoio, giustificando
le sue come le
ennesime chimere della sua coscienza sporca e costì tirando
dritto per la sua
strada. Un giorno si sarebbe comportato meglio, un giorno avrebbe fatto
ammenda
… un giorno forse, quello del mai …
Ignorava
che così facendo, non onorava per niente Madre e il
tenerla all’oscuro delle sue baronate, non rendevano le sue
colpe meno lievi.
Ella
mi ha educato soffrendo tante volte per me i dolori del parto
quante mi vide allontanarmi da voi, o Dio. [1b]
Hironimo
ciononostante non s’azzardò mai più
d’ingiuriarla,
d’urlarle dietro, né di disobbedirle o
contraddirla. La sua espiazione
corrispose alla consapevolezza, che lui aveva e tuttora stava mancando
di
rispetto alla sola persona in tutta Venezia che lo amava
incondizionatamente,
senza aspettarsi nulla in cambio e che non lo frequentava per doppi
fini. Madre
desiderava solamente che fosse un bravo figlio e cittadino per giovare
se
stesso e la sua anima, non per compiacerla. Già lo amava per
ciò che era, anche
se poca cosa a detta di Hironimo, non necessitava che lui le
dimostrasse
alcunché o che si contendesse il suo amore ai fratelli.
Per
questo motivo, col senno di poi, Hironimo comprese perché
aveva perduto la ragione alla prospettiva di perdere Madre: dopo la
morte di
Padre, s’era sentito perduto, solo al mondo e indifeso. Ogni
certezza gli era
crollata, la vita non gli appariva più alla stregua di
un'avventura, bensì un
mostro divoratore ingiusto, crudele, ipocrita. Improvvisamente,
Hironimo s’era
sentito vulnerabile ad ogni cosa, costantemente in pericolo, solo Madre
gli
infondeva sicurezza, conforto e amore. Come gli aveva detto la
genitrice, la
solitudine non è soltanto un male del corpo ma anche
dell’anima, la quale si
accartoccia su se stessa, impazzendo dalla disperazione.
Cos’avrebbe
fatto Hironimo senza Madre? Niente. Il resto della
famiglia l’avrebbe sopportato, sobbarcandosi di lui
più per dovere che per
amore, i propri pargoli più importanti di lui. Sarebbe
finito come Thomà, se
non di peggio, con la testa sul ceppo come Gasparo Valier.
Come
aveva ringraziato la fortuna d’aver avuto l’amore
di Madre?
Insultandola, tormentandola con la sua disobbedienza, arroganza,
testardaggine.
Aveva
sputato sul dono offertogli, l’ingrato. L’ennesimo
sgarbo a
Dio che gli aveva generosamente offerto una madre amorevole e attenta.
Thomà
avrebbe costruito ponti d’oro per riavere indietro la sua
mamma e Hironimo
s’era congedato da lei senza neppure esaudire il desiderio
ultimo di madona
Leonora prima della sua partenza a Castelnuovo di Quero, ovvero che si
riappacificasse coi suoi fratelli, almeno per amor suo. Per farla
contenta. Per
non condannarla all’angoscia di sapere i propri figli morti
odiandosi l’un
l’altro, com'era accaduto coi suoi fratelli sier Batista e
sier Hironimo, deceduto
quest'ultimo sei anni addietro "in lite et in grandissimo odio" nei
confronti del minore.
Da lei
aveva preteso senza offrirle di concreto nulla in cambio.
Era partito con le migliori intenzioni – di proteggerla al
posto di Padre – per
poi divenire un parassita che si nutriva e basta del
suo amore.
Se
uscirò vivo da qui, si ripromise solennemente Hironimo,
cercando d’appoggiarsi più comodamente sul muro
umido e sporco della stalla.
Non avrebbe più commesso lo stesso errore con Padre, non
sarebbe morto senza
scusarsi con Madre e confessarle quanto l'amasse. Se
la scampo giuro
che le chiederò perdono. Andrò a Veniexia, da mia
Madre, e in ginocchio la
supplicherò di perdonarmi per ogni mia mancanza nei suoi
confronti e da quel
giorno, finché avrò vita, non farò mai
nulla che le possa recare dispiacere.
Questo si
ripeté e ripeté senza sosta fino alle prime luci
dell’alba e per la prima volta in quindici anni
sperò, sperò con ogni fibra del
suo essere in una seconda possibilità, sul serio in una
seconda possibilità.
Continua
…
*******************************************************************************************************************
Come
sempre, non sapendo un bel niente dell’infanzia del Nostro,
le maggior parte dei fatti di quest’episodio sono romanzati
(così come alcuni
personaggi quali Alvise Beltramin), tranne i cenni storici di contorno
(la
guerra veneto-turca e la seconda calata dei francesi) e le vicende di
Orsatto
Morosini. Anche l’episodio del debito di Luca Miani
è riportato dal Sanudo,
pure quest’ultimo protagonista di quella poco chiara faccenda.
Riguardo
al nome della moglie di Orsatto, purtroppo non ci è stato
possibile reperire il nome. Tuttavia, poiché sua sorella
minore era stata chiamata
Elisabetta in onore della nonna materna, la (de iure mai de facto)
dogaressa
Elisabetta Soranzo Barbarigo, non si può escludere che la
sorella maggiore
fosse stata chiamata Pellegrina, in onore della nonna paterna,
Pellegrina Zorzi
Nani. Pertanto, ci siamo presi questa licenza di così
nomarla.
Colgo
l’occasione per ringraziare Semperinfelix
per il suo sostegno e Sagitta72 per
avermi in particolare aiutata nella stesura
dell’ultima parte – grazie mille! ^^
Il
prossimo capitolo verterà ancora sull’esame di
coscienza del
Nostro: come accennato nel precedente capitolo, abbiamo raggiunto
metà storia e
ci addentreremo poi verso la seconda e ultima parte.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Santa
Monica = 26 agosto. Madre di Sant’Agostino
Dottore della Chiesa
(celebrato il giorno dopo, 27 agosto), giocò un ruolo
importantissimo nella sua
conversione al cristianesimo. Il Santo ammise in più
occasioni come non fosse
stato un figlio esemplare, riempiendola spesso di preoccupazioni. Un
parallelo
davvero affascinante col Nostro, specie il suo rapporto con la madre.
La
citazione [1b] nel capitolo è infatti dello stesso Santo.
[2] grisole (o
grisiole) = Graticci o graticciuole (arelle di valle) formate di canne
verticali.
[3] ambracane =
antico nome dell’ambra grigia, da cui si produceva
l’omonimo profumo.
[4] pizzuolo = la
cabina del comandante in galea.
[5]
gioco di
parole, tra “madonna” intesa come
“suocera” e la Madonna. Da questo motto, si
può dunque intuire l’opinione dei generi verso le
loro suocere e dove le
preferiscono.
[6]
San Nicola =
6 dicembre. Un famoso episodio della
vita di San Nicola narra di come l’allora giovane santo,
saputo di come un
padre avrebbe prostituito le sue figlie senza dote, di notte
lanciò dalla
finestra dei sacchi piene di monete così da risparmiarle a
quel triste destino.
Da allora era tradizione lasciare il 6 dicembre soldi o dolciumi o
piccoli
presenti, specie per i bambini.
[7]
brazzoler = il metro/stecca per
misure
la stoffa.
[8] un gran bel senato = il motto completo è “Quela
signora ga un gran senato!” Quella
signora ha un gran petto, dei seni prepotenti. Gioco di parole tra
“seno” e
“senato”. "Culàta", invece, è riferito alla natica, ma è anche il nomignolo dato all'estrema poppa di galee e galeazze, il cui fasciame si richiudeva in due parti quasi semisferiche tra le quali ruotava il timone. "Parer el galo de dona checa" si dice ad un uomo che non solo si innamora facilmente, ma che non va tanto per il sottile nella scelta della donna.
[9] protogero =
il capo più anziano della comunità greca.
[10]
anche
questa è una descrizione “intuitiva” di
Villa Paradiso (oggi nota come Villa
Bolasco) poiché non si sa come fosse stata prima
della demolizione e
ricostruzione nel 1509 e poi della significativa ristrutturazione del
1607, che
lo trasformò in un vero e proprio palazzo signorile senza
però intaccare la
struttura originaria del 1509.
[11]
questa
chiesa è stata abbattuta nel XVIII secolo per costruire
l’attuale Duomo. Qui si
trovava l’originaria Cappella Costanzo, dove
l’omonima famiglia nel 1503
collocherà la celebre Pala commissionata da Tuzio Costanzo
al Giorgione in
occasione della morte del figlio Matteo a Ravenna.
[12] San
Michiel cum la bassacuna = San Michele con la
bilancia. Secondo
un’iconografia molto diffusa, l’Arcangelo Michele
veniva raffigurato nel
Giudizio Universale con spada e la bilancia, misurando le anime e
smistandole
poi dove di dovere. Riprende molto l’iconografia egiziana
della pesatura del
cuore da parte del dio Anubi al cospetto di Osiride.