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Autore: Hoel    10/10/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato l’11.09.2021

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Capitolo Diciassettesimo

Confiteor

(… e onora la madre)

 

 

Madre è l'altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli.

(Il Corvo)

 

 

 

Agosto 1499

 

 

 

Momolo smontò violentemente da cavallo, la gola serrata dall’arsura e dalla collera, intanto che si slacciava furioso il farsetto, i lunghi capelli in battaglia, liberi dall’oppressione della bereta. Stringeva gli occhi, vagando alla cieca e così pure conduceva il docile suo cavallo, le belle gote vermiglie bruciate dal sole e dallo sdegno.

Attorno a lui, lo circondava il verde della natura alla vigilia di Santa Monica [1], l’aria offrente qualche raro spiraglio di fresco in quei torridi vapori estivi. Il cielo d’un turchino feroce tagliava nettamente le sagome lontane dei monti tra cui il Grappa dietro ad Asolo, illuminando il dolce connubio tra le viti d’uva recantina, i campi coltivati e la foresta che si stringeva man mano che ci s’avvicinava ai Fontanassi del Sile, là dove il tredicenne anelava nascondersi nel suo selvaggio abbraccio.

Aveva infatti cavalcato alla stregua delle Erinni da Fanzolo fino a Casacorba, poco distante da Vedelago, con l’arco in spalla e la scusa di cacciare aironi in bocca: in realtà, poca concentrazione gli restava per destreggiarsi in quel suo passatempo. Momolo avanzava piuttosto alla ricerca delle risorgive tra gli arbusti incolti, le erbe alte e graffianti, imbiancate di sputacchine e ornate da collane di ragnatele bagnate di rugiada. Sperava di non imbattersi in nessuno, specie negli operosi mugnai che lì macinavano le numerose staie provenienti dai campi arati.

L’assenza di civiltà nella boscaglia – i casoni dal tetto di grisole [2], le ville, le chiesette, perfino i monasteri – ristoravano l’animo avvelenato del giovinetto, beandosi del paesaggio imbevuto del caos della natura contro quello armonioso ma forzato dell’uomo. In esso non esisteva né logica né utilità, soltanto quel fiero disordine che ben rifletteva i turbolenti pensieri del ragazzo, la sua ribellione alla ragione e alla calma. Similmente all’acqua indomita, essi scorrevano vorticosi e Momolo v’annegava, soffocando nel suo malessere.

Il fontanasso sbucò all’improvviso, riflettente il verde delle fronde degli alberi e dei giunchi fluttuanti. L’acqua della possente ed irrequieta Piave, giunta grazie al sottosuolo permeabile fino a Casacorba, risorgeva ora a nuova vita. Sul fondo fangoso e sulle rive laterali di queste che, in apparenza, parevano grandi pozze d’acqua, piccole bocche borbottavano in continue bolle il loro benvenuto alla nascita del Sile, lo stridulo richiamo di qualche uccello lontano a tener loro compagnia o l’eco dell’acqua sollevata dai mulini e le campane di una qualche cappella sperduta nell’alta e fitta vegetazione.

Momolo era consapevole di quel limo, di come avrebbe provocato la contrarietà di Madre, di sicuro non contenta delle macchie grigiastre sugli stivaletti e le braghe. In altre circostanze, al tredicenne il solo pensiero di un cipiglio in quel volto amatissimo l’avrebbe inorridito. Adesso, non soltanto non gliene importava, anzi, quasi desiderava provocarlo.

Nella torba dunque procedette, a piedi, incurante di lodarsi, del graffiare dei rovi, del pizzicore delle ortiche. Afferrò un ramo secco e avanzò battendo siepi e rovi, sia per farsi spazio sia per spaventare eventuali bisce nascoste. Quando raggiunse uno dei tratti nascenti del Sile - “La Porta dell’Acqua” -  pareva uno di quei selvaggi che si diceva giungere dall’India, tanto che un povero mugnaio lo scambiò per un brigante di strada e poco mancò che gli sguinzagliasse addosso i cani. Chiaritisi in tempo, l’uomo per discolparsi offrì al giovinetto di ristorarsi a casa sua, magari di nettarsi via il sudore e il fango dal viso.

Momolo, invece, s’accontentò di sedersi a gambe penzoloni sul pontile davanti alla casa del mugnaio, le mani graffiate che gli coprivano gli occhi ricolmi di lacrime di rabbia e impotenza.

 

 

***

 

 

Al mondo Madre era l’unica persona che aveva fatto sentire Momolo veramente amato, ricco e speciale, i suoi abbracci morbidi, rassicuranti e profumati d’ambracane [3], un porto sicuro ogniqualvolta il giovinetto si sentiva agitato, nervoso, triste.

O semplicemente felice. Molto spesso, senza un motivo apparente, egli raggiungeva Madre e l’abbracciava tenero, inebriandosi del suo profumo e sospirando soddisfatto quando lei ricambiava. Questo dalla mattina fino alla sera, al risveglio di Madre in cui ancora in camicia Momolo le balzava in letto per darle il bacio del buongiorno e poi in svariate occasioni (così giusto per) e ovviamente nell’ora in cui Madre gli rimboccava le coperte, egli l’abbracciava e le baciava di nuovo le gote per poi assopirsi contento.

Era sempre stato così, d’altronde, ancora prima della morte di Padre. Solo che col trascorrere degli anni quel sentimento s’era rafforzato, invece di affievolirsi in uno più formalmente contenuto com’era successo per i suoi fratelli. Ed era strano osservare i suoi abbracci crescere con lui, il quale all’inizio  doveva accontentarsi di cingere le gambe di Madre mentre negli ultimi anni la raggiungeva tranquillamente in altezza o quasi, apparendole più piccola, più fragile e rinforzando quella necessità sua di protezione nei confronti della genitrice. Aveva sofferto la prima volta che, abbracciandola da dietro con troppo impeto e sollevandola di peso per qualche istante, lei si era sciolta da lui esclamando ridendo: mo’ via, Momolin! Sei troppo forte, mi fai male!

Il giovinetto s’era allora staccato da lei come ustionato, rifugiandosi avvilito in altana e madona Leonora ebbe il suo bel daffare a spiegargli che non lo stava rimproverando, bensì il suo corrispondeva ad un consiglio: stava diventando uomo, doveva far attenzione e misurare la sua forza, esser insomma gentile, specie con una donna.

Il fatto era che Momolo aborriva l’idea di ferire sua madre, sia fisicamente che spiritualmente. Vederla triste, lo rattristava. Se soffriva, soffriva con lei.

E pertanto, odiava chiunque la rattristasse.

La prima volta in cui aveva provato tal connessione era accaduto nel 1491, quando Padre venne nominato provveditore a Lepanto.

Momolo avrebbe ricordato per sempre quella mattina: contrariamente alla solita consuetudine laddove il genitore doveva assentarsi da casa per andare o agli Uffici o ai fonteghi, quel giorno si respirava aria pesante. Madre colazionava avida di parole e le poche proferite secche e taglienti. Padre mangiava altrettanto silenzioso, vestito da viaggio al posto della sua solita vesta rossa e nessuno a tavola pareva incline alla benché minima conversazione, spiando timidamente di sottecchi la coppia. Da marzo i due coniugi litigavano incessanti e testardi, poiché sier Anzolo aveva deciso d’arbitrio di portare seco sua zia madona Andronica da Modone, vedova di suo zio sier Nicolò Miani, al posto della suocera, madona Ysabeta Contarini reclita Morexini. Padre s’era giustificato fino alla nausea che tale disposizione non era stata presa perché mal sopportasse la sua madona (suocera, ndr.), bensì perché, recandosi in terra greca, avere una madrelingua affidabile come sua zia gli era parsa una gran bella idea. Peccato che tal opinione non era stata ben accolta dalla moglie, la quale già non era contenta d’esporre nuovamente la sua famiglia in terre di confine (le era bastato lo spavento dell’invasione del Duca d’Austria nel 1487, quando sier Anzolo era stato podestà e capitano di Feltre), ma l’idea di separarsi un anno dalla figliastra Crestina, la cui gravidanza ahimè non procedeva serenamente e per di più dalla sua anziana genitrice l’imbestialiva e la preoccupava, paventando in una sua morte mentre si trovava a Lepanto.

“La Tina è in eccellenti mani, suo marito e madona Gracimana sono sempre lì ai suoi ordini, molto premurosi e amorevoli, non le fanno mancare niente! Quanto alla vostra siora Mare, di che v’angustiate? Quella galde d’ottima salute, vedrete se non ci seppellirà tutti!”

“Barbaro! Parlate così perché siete geloso di mia madre!”

“Macché!”

“Siete un anaffettivo!”

“Pure!”

“Non sapete cosa significhi amare una madre, perché non ne avete mai avuta una vera e propria!”

“Menzogne, io ho sempre rispettato la mia siora Maregna!”

“Appunto: rispettato, non amato. “Maregna”, la chiamate, non “Mare” come faceva vostro fratello Marco, a chi Dio perdoni. E ora lasciatemi in pace, devo preparare i cassoni!”

Momolo, ch’aveva origliato tutto, aveva intuito, dalla smorfia di Padre, come quello di Madre fosse stato un doloroso colpo basso: in effetti, da quanto appreso dai suoi parenti, la sua nonna di sangue, madona Crestina Loredan Miani, era morta quando i suoi tre figlioli erano ancora dei fantolini, sicché era stata la loro matrigna ad averli allevati e se sussistevano prove concrete dell’amore portato nei suoi confronti dai figliastri Marco e Vorzilio, il mediano Anzolo non s’era mai sbilanciato, almeno esternamente, dimostrandole un composto rispetto.

“Insomma, non siete riuscita persuaderlo?”

“Il sior mio marido sostiene che voi siete troppo fragile per affrontare codesto viaggio.”

“Che jotonia! Io fragile? Ha sbattuto la testa, forse? La malaria polesana gli ha trasformato in sbatudin il cervello? Io, fragile?! Io, che ho seppellito due mariti?! Io, che da Negroponte ho dovuto riportare a Venexia le ossa del vostro sior Pare, con voialtri appresso ancora fanciulli! Ed io sarei fragile?!”

Al momento del congedo dall’unica sua figlia, madona Ysabeta aveva sistemato e risistemato incessantemente la cappa sulle spalle dei nipoti, goffo tentativo di posticipare quanto più possibile la partenza. Madona Leonora le aveva infine afferrato le mani e sussurrato qualcosa all’orecchio, molto probabilmente rassicurando la madre, il cui labbro inferiore tremava sia di tristezza che di rabbia per non aver potuto seguire la sua creatura. La vedova Morexini aveva poi salutato cortesemente gelida sia il genero sia la sua ignara sostituta, la quale tanto era contenta di rimettere piede nella sua patria d’origine, da non accorgersi della palese ostilità della nobildonna nei suoi confronti.

“Mamma”, aveva chiesto Momolo a Madre, approfittandone dell’assenza di Padre e dei fratelli dal pizzuolo [4] per conferire indisturbato con la genitrice, rimasta lì per pudicizia, non essendo decoroso che deambulasse tra i vogatori mezzi nudi. “Perché dobbiamo andare a Nepanto? A Tata non piace più Veniexia?”

“Il sior tuo Pare mio marido sta badando agli affari della Signoria, come dovrai fare anche tu da grande. E poiché gli incarichi in territori di confine sono tra i più pericolosi, a lungo termine però sono i più remunerativi.”

“Perché?”

“Perché gli permetteranno di accedere a cariche esclusivamente a Veniexia!”

“Oh! E perché non ha voluto portare la Nonna?” e scoccando un’occhiata furtiva a madona Andronica, che sonnecchiava serafica, aveva sussurrato: “Come ne porta una, ne porta anche due! Non sarà che anche Tata segue il detto: Per quanto bone che le sia, le madone sta ben sui quadri?” [5]

“No”, s’era intromesso Padre, venuto a controllare come stesse la moglie. “Piuttosto: perché tre done vada d’acordo, ghe vol una viva, una morta e una piturada su la porta!”

“Dovevate allora lasciarmi a Veniexia e portare seco il mio ritratto, se già in casa ne avete una viva”, e se la risposta era parsa sarcastica, in realtà Momolo aveva notato l’angolo della bocca di Madre arricciarsi all’insù, quando scherzava giocosamente birbante con Padre.

Se a distrarre Madre non ci fossero state le mogli del Podestà e degli altri funzionari palatini, nonché la gravidanza della figliastra Crestina, alla quale scriveva quanto più possibile, riempiendola di buoni consigli e d’incoraggiamenti, di certo madona Leonora si sarebbe rosa il fegato in quell’anno di separazione dalla madre e in generale la sua famiglia per intero. I due anni a Feltre non le erano pesati perché comunque erano rimasti in suolo italico e Venezia, in fin dei conti, non era poi così distante e irraggiungibile come al contrario le pareva Lepanto; inoltre, madona Ysabeta l’aveva accompagnata per aiutarla durante la sua gravidanza, essendo Crestina ancora troppo cruda per gestire da sola una casa e la servitù.

“Mamma, siete ancora arrabbiata con Tata?”

“No, amore mio. Sono solo un po’ triste.”

“Per colpa di Tata?”

“Momolin, quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del bene, purtroppo finiamo per ferire le persone che amiamo.”

“Io no! Mamma, io non vi farò mai del male!”, le aveva promesso solennemente Momolo, quando deambulando per la terrazza-giardino del loro palazzo a Lepanto, Madre s’era attardata a fissare malinconica l’orizzonte e le galee scivolare sul mare liscio e azzurrissimo, uscendo o entrando in porto. Le aveva afferrato la mano, drizzando le spalle e tirando fuori il petto, cercando di farsi più grande dei suoi cinque anni. Madre gli aveva accarezzato la guancia e il bambino s’era sentito d’un colpo grande, responsabile, contentissimo.

Avrebbe protetto Madre da qualunque male e da chiunque. Anche da Padre se necessario.

Perché qualche settimana più tardi, poco prima di cena, sier Anzolo era entrato negli appartamenti della consorte, intavolando un discorso che suonava a metà tra un’informazione e una scusa.

“Pensavo, una volta rientrati, di presentare la mia candidatura a provveditore di Zante. È una carica bene remunerata, a soldo, e meno distante. Avremo così i fondi necessari, per non muoverci mai più.”

“Me ne rallegro: dopo due anni in Grecia, potrete ambire senza problemi ad una cattedra di greco a Padoa.”

“Lasciatemi finire. Siccome  si parlerà d’un altro anno fuori Veniexia, mi sembrava giusto, a questo punto, d’invitare anche la vostra siora Mare mia madona. Se non erro, si lamenta spesso dei suoi reumi, quindi potrà approfittarne per asciugarsi ossa e legamenti e …”

A quelle parole Madre aveva distolto lo sguardo dal suo ricamo, trattenendo a malapena un sorrisone soddisfatto. “Non v’astierà in alcun modo, ve lo prometto. La siora mia Mare sarà la discrezione fatta persona, manco v’accorgerete d’averla in casa!”, lo aveva assicurato, alzandosi dallo sgabello e andandosi a sedere sulle ginocchia del marito, le mani bianche e affusolate tra i capelli di lui, scendendo languide lungo la nuca, dentro il colletto. “E ora, con vostra buona licenzia, scendo in cucina a predisporre per la cena con l’Orsolina.”

“Di già? Aspettate ancora un poco!”

“No, no, è tardi. Forse, dopo, vedremo …”

A tavola, Padre aveva per tutto il tempo seguitato a scrutare Madre così fissamente, che Momolo aveva creduto volerla tramutare in pietra; né lei si sottraeva, anzi, nel miglior suo abito ricambiava ora timida ora civettuola, reclinando il collo tornito in un tintinnare di perle, un mezzo sorriso arricciato sulla bocca formosa.

Dopo mangiato aveva poi osservato il modo in cui Padre la conduceva spingendola verso la camera, il braccio ben serrato alla sua vita; tutto nel suo atteggiamento ricordava nel bambino uno strano archetipo d’aggressione, di rapina, al punto da temere per la genitrice, prigioniera in un abbraccio inflessibile. Eppure, Madre ad esso non si sottraeva, semmai lo assecondava morbida e flessuosa, calmissima, in contrasto con l’incalzante nervosità del consorte. Di tanto in tanto, sier Anzolo le scoccava un bacio sulla nuca, lungo la colonna vertebrale, più denti che labbra e a Momolo gli parve un lupo pronto a divorare la sua preda.

Un’arcana angoscia l’assalì, il desiderio di sottrarre Madre a quella bestia antropomorfa troppo grande, unito però ad un nuovo senso di rabbia e gelosia, come di scalzare Padre, come se a cingere la donna dovesse essere lui al posto del genitore.

Momolo ovviamente non era riuscito a dormire quella notte, tormentato dagli incubi. Sicché a notte fonda, quando ormai sapeva l’intero palazzo addormentato, decise di sgattaiolare in punta dei piedi lungo il corridoio fino alla camera dei genitori, onde assicurarsi che Madre stesse bene.

Al lume della candela, celato dietro la tenda rossa, aveva visto i genitori sul letto sfatto, tranquilli neanche la previa tensione non fosse mai esistita. Una camiciola sottile accarezzava il corpo bianco di Madre, distesa puntellandosi sul fianco verso il marito e impegnata in muta conversazione con lui, mentre questi le accarezzava la coscia, scoprendola, risalendo fino al gluteo, invitandola a schiudere le gambe. Padre non indossava nulla, se non appena il lenzuolo ai lombi, fiero contrasto il suo corpo bruno contro il candore delle lenzuola. Pur tendendosi egli verso la moglie, le spalle e i muscoli delle braccia si muovevano rilassati, appagati, forse sfiniti da chissà quale sforzo.

Madre gli sorrideva ambigua, piegandosi su di lui, baciandolo a lungo e invitandolo a distendersi di schiena mentre questi l’abbracciava, sollevandole la camiciola.

Fu allora che Momolo a sua volta si sentì issato per le ascelle e penzolone come un micio trasportato dalla gatta veniva riportato da una brontolante Eudokia in letto.

Cosa fanno?”

Quando sarai più grande, ve lo spiegherò.”

“Lo voglio sapere adesso!”

“L’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re!”

“Non c’è re a Veniexia ed io voglio sapere che fanno!”

Trascorse una settimana tonda prima che Momolo potesse essere riammesso in camera dei genitori, ma da quell’episodio egli già aveva incominciato a nutrire gelosia e diffidenza verso Padre, il quale possedeva il misterioso potere di rendere Madre sommamente felice o terribilmente infelice.

Come quella mattina del 18 agosto 1496.

Quando l’ufficiale sanitario aveva bussato alla porta di Ca’ Miani, Madre già sapeva quale tremenda notizia era venuto a portarle; tuttavia, non aveva resisto all’ingresso dei barellieri entrare nel portego col loro macabro carico. La mano di madona Leonora tremava impazzita mentre sollevava il telo bianco che copriva il corpo sottostante; un urlo ingolato d’animale agonizzante le sfuggì dalle labbra livide nel riconoscere il volto di sier Anzolo in quella maschera grigia e contratta davanti a lei. Gli occhi le si girano all’indietro, impallidì fino a competere col marmo, cadde svenuta talmente pesantemente tra le braccia di suo fratello sier Batista Morexini, che questi dovette flettersi in ginocchio per attutirne la caduta. Momolo aveva assistito atterrito dal modo frenetico con cui suo zio scuoteva Madre, chiamandola a voce alta, elargendole buffetti d’incoraggiamento sulle guance, baciandole le tempie, le lacrime agli occhi.

Niente, Madre seguitava a rimanere immobile come Padre.

Giustamente, madona Leonora aveva dovuto riprendersi e sforzarsi di vivere per i suoi figli, però Momolo sapeva come di notte ella piangesse tra le braccia di Eudokia, come invocasse il marito. Egli in quelle occasioni avrebbe tanto voluto già esser adulto e sostituire la fantesca candiota, nonché trovare il modo di poter assorbire su di sé il dolore di Madre, alleviandola dalle sue pene.

Si ripromise che se Padre l’aveva ferita, lui l’avrebbe guarita, restandole sempre accanto, aiutandola, perfino giocando al buffone per tirarla su di morale. Le rivoleva sul viso quel sorriso gioioso che evidentemente soltanto Padre le sapeva instillare, ma Momolo non era persona che si tirava indietro dinanzi a qualsiasi sfida.

“Sei proprio tutto il tuo sior Pare!”, gli aveva confidato Madre, stringendolo a sé la mattina di San Nicola [6], quando Momolo aveva trovato un pacchetto di biscotti ai fichi e subito l’aveva condiviso con lei.

Tal paragone l’aveva all’epoca reso euforico, sapendo quanto il genitore fosse stato importante per Madre.

Ma ovviamente gli altri dovevano mettersi in mezzo e rovinare tutto.

Era stata colpa di Jacomo Corner, il figlio del cavalier sier Zorzi Corner e nipote di sua zia acquisita madona Morexina, la moglie dello zio Batista. Il ragazzo non aveva infatti digerito d’aver perduto, a San Nicolò del Lido, alla sfida di tiro con l’arco contro un nanerottolo qual era ancora il giovanissimo Miani. Sicché, staccando astiosamente dal bersaglio le frecce, aveva borbottato rancoroso: “Momolo mammolon!”, perché il giovinetto s’era vantato di come avrebbe regalato il premio a sua madre. Al che Momolo gli aveva elargito un calcio sui reni, saltandogli addosso una volta a terra e mentre lo riempiva di sberle gli gridava che male ci fosse a voler bene alla propria madre.

“Ma tu esageri!”, gli aveva urlato dietro il giovane Corner, massaggiandosi lo scalpo e il viso doloranti. “Sei peggio d’Edipo!”

“Non conosco nessun “E-di-po” ma se t’azzardi a ripetere tali bestialità, ti strappo la lingua e te la ficco su per il culo!”

E Jacomo Corner c’era andato assai vicino quando Momolo, tarmando suo fratello Carlo,  aveva suo malgrado appreso a chi il suo rivale l’avesse paragonato.

“Chi è Edipo?”

“Lasciami in pace: contrariamente a te, ho da lavorare!”

“Dai! Chi è Edipo?!”

“Avessi trascorso un po’ più di tempo sui libri che sull’arco, a quest’ora lo sapresti!”

“Carlino!”

“Uffa e va bene: è un personaggio della mitologia greca, il quale uccise suo padre Laio e fece l’amore con sua madre Giocasta. Contento?”

No.

“Io non ho ucciso mio padre né ho fatto l’amore con mia madre!”

“Ma che diavolo …? Ohé, Momolo, dove corri? Guarda ciò che strambazzo …”

Un disgusto indicibile aveva infatti nauseato il ragazzino, la sua mente già di suo turbata dai primi accenni di sensualità tipici dell’adolescenza. Amava Madre d’un amore profondo e infinito come il mare, ma l’idea di far certe cose con lei gli provocava feroci tremiti di ribrezzo, similmente al paragone con Padre, associandolo ora a quella volta che li aveva pizzicati in letto.

Sior Barba, voi avete voluto bene alla vostra siora Mare Querina e alla mia siora Nonna Ysabeta?, ne approfittò Momolo per investigare con suo zio Batista, quando andò a trovarlo a casa sua per le pubbliche scuse col cugino acquisito Jacomo Corner, su insistenza di sua zia madona Morexina la quale a sua volta era stata tormentata da sua sorella madona Ysabeta. Il giovanissimo Miani aveva dunque emulato l’Imperatore a Canossa, ribadendo però che se il Corner avesse insistito a blaterare tali oscenità, gli avrebbe strappato uno ad uno i denti come Sant’Apollonia. Le occhiatacce delle sue zie raggiunsero livelli da Gorgone Medusa, mentre il suo avunculo ridacchiava sotto i baffi, orgogliosissimo.

Quella domanda gli era sorta in testa ripensando alle antiche accuse di Madre, di come Padre non avesse mai nutrito grande amore nei confronti della sua matrigna. Essendo deceduta prima della sua nascita, Momolo non possedeva alcun brazzoler [7] di giudizio personale onde smentire o confermare tali parole; ciononostante, ben si ricordava del funerale del suo prozio sier Hironimo Miani, laddove perfino quello stoico di suo padre sier Anzolo non era riuscito a nascondere le lacrime. Sicché, tale analoga situazione gli sarebbe servita per capire, se si poteva voler bene solo alla propria madre di sangue, anche se morta precocemente, oppure se una matrigna poteva supplire. Perché, guardando il rapporto tra Madre e Crestina, quest’ultima devotissima alla sua matrigna, che l’aveva cresciuta come se l’avesse partorita lei e di fatti la prima figlia femmina della sua sorellastra era stata battezzata Leonora. Ma lo zio Batista? Di sua madre Querina Querini Morexini, Momolo non sapeva pressoché nulla e il fatto che il suo Barba non ne accennasse mai, pur nomando una sua figlia Querina, lo intrigava assaissimo.

“Che domande, sempioto! Anche se  la mia siora Mare è morta quand'ero fantolino e dunque oramai non me la ricordo assai bene, so per certo che l’amai con tutta la mia anima! Così come voglio bene alla mia siora Maregna, che m’ha cresciuto amorevolmente.”

 “Lo stesso bene che volete alla siora mia Amia vostra mojer?”

“An, no! Quello è un tipo d’amore diverso!”

“In che senso?”

“Eh … nel senso che è un amore anche fisico, oltre che spirituale. L’amore che si nutre verso la madre è puramente platonico, alto, puro, privo di qualsiasi sensualità. Un po’ come quello che si porta verso la Madonna. Quello per la moglie è sì pieno di rispetto e dedizione, ma in esso giustamente sussiste anche una componente più carnale, altrimenti non si genera prole.”

“Ma l’amore per la Luzia Trivixan, allora? Cos’è?”

“E tu come fai a sapere di lei?”

“Ho occhi per vedere sior Barba e voi non siete discreto. Né la siora mia Amia vostra mojer l’è donna che fa la gelosa in silenzio, lamentandosi come il sabato mattina voi vi rechiate a prender Messa a Santa Caterina solo per incontrarvi con la siora Luzia e disnar poi assieme.”

“E ti pareva che non andasse a spettegolare in giro i fatti miei, quella betonega de me mojer … Cos’è la siora Luzia Trivixan? … Hé, lei è solo carne e niente spirito … E che carne, nezzo mio, che carne … un gran bel senato e culàta! [8] …”

“Sicché dovesse la siora Luzia morire, voi non piangereste per lei, sior Barba?”

“Cosa c’entra adesso?”

“Sior Barba, non mi pigliate per idiota!”

“D’accordo, d’accordo … Sì, me ne dispiacerei, più che altro perché la Luzietta è di tanta compagnia … con quella sua voce d’usignolo e le sue conversazioni brillanti … un giorno ti porterò ad un suo concerto, quando sarai più grandicello … Però la moglie è la moglie e non bisogna confondere i due tipi d’amore. Ci sono cose che non puoi chiedere alla moglie, Momolo, lei è la madre dei tuoi figli, sta su di un sacro piedistallo e non puoi pretendere che si abbassi alle tue necessità meno onorevoli.”

“La siora Luzia invece si abbassa?”

“Sapessi quanto … Volevo dire, lei posso amarla d’amor totalmente profano.”

“Il sior mio Pare non aveva di questi prusegini (pruriti, ndr.). Anzi, sosteneva che donne come la siora Luzia sono fredde, artificiose, bugiarde, addestrate sin dall’infanzia a comportarsi a seconda dell’occasione e del ganzo loro. Sono una e cento donne allo stesso tempo, di cui mai ti puoi veramente fidare. Mi diceva che chi è sincero con te e che vuole il tuo bene anche a costo d’apparire antipatico, allora ti ama per davvero e che di questa persona ti puoi fidare. Mi diceva che quando non c’è reciproca fiducia, non c’è amore.”

“Il sior tuo Pare mio cugnado, pace all’anima sua, l’era una bestia rara che però su molte cose aveva ragione.”

“Sior Barba?”

“Uhm?”

“Ho agito male a menare il Jacomo?”

“No, ti ha detto una cosa davvero disgustosa, che poi mi sorprende visto che la siora sua Mare mia cugnada è sempre lì a coccolarselo. Bah. Però la prossima volta picchialo senza testimoni.”

“Sior Barba? Se la siora Luzia dovesse morire, voi ve ne pigliereste un’altra?”

“Possibile.”

“E se la siora mia Amia vostra mojer dovesse morire, voi ve ne pigliereste un’altra?”

“Assolutamente no: una m’è già bastata!”

“Ma come! Se dichiarate d’amarla!”

“Ed è vero, la mia Morexina è per me molto importante. Però lei non è come la Luzietta, che quando m’infastidisce la mando via. La tua siora Amia mia mojer la devo sopportare, anche ahimè in quei momenti in cui la prenderei volentieri per il collo. E lo sa, la furbastra, che lei è la moglie e può prendersi con me tutte le libertà che vuole!”

“Mica v’insulta, vi descrive per quel che siete!”

“Ossia?”

“Un cotolon impenitente, con più amanti che anima, tanto da parer el galo de dona checa!”

“An, quello quando lei è di buonumore!”

“Sior Barba, secondo voi, c’è la possibilità che la siora mia Mare si possa risposare?”

“Non lo so, dipenderà da lei. Le donne talvolta si dimostrano più pragmatiche di noi uomini e se si risposano non è necessariamente per motivi di cuore o di lascivia.”

“Ma io non voglio che si risposi! Non glielo permetto!”

“Perché mai dovrebbe risposarsi?”

“La siora mia Mare è molto bella e qualche malintenzionato potrebbe volerla tutta per sé, sottoponendola a porcherie assai oscene …”

“Bah, dubito: ormai mia sorela Leonetta l’è vecchia e neppure più tanto bella.”

“Balle de musso! Come vi permettete, sior Barba? Mi meraviglio di voi! La siora mia Mare è bellissima invece, la donna più bella di Veniexia e d’Italia e chi afferma il contrario è irrimediabilmente un fiorentino bacia-piselli come il vostro amico sier Orsato!”

Sier Batista Morexini s’era messo a ridere di gusto, considerando l’ultima affermazione un motto di spirito: ovvio che Momolo guardasse la madre cogli occhi del cuore, trovandola eternamente pulchra e affascinante nonostante gli implacabili segni del tempo. Ignorava, purtroppo, la sottile ansia del nipote dietro tale affermazione giacché ai suoi timori egli aveva sul serio accostato un nome e un cognome.

Esatto, c’era per davvero chi gli insidiava la madre, non erano chimere le sue.

E Momolo al sol pensiero crepava di rabbia.

 

 

Fanzolo, nella podesteria di Castelfranco e poco distante da Vedelago, era una terra pedemontana di conformazione un po’ bizzarra, che racchiudeva nei suoi teneri contorni di campagna fertile e gentile, le insidie delle torbiere e i dislivelli delle colline in vista delle montagne.

Sier Anzolo Miani vi aveva acquistato quarantasei campi a prezzo irrisorio, in aggiunta a quelli ereditati da sua madre madona Crestina, dandoli in affitto a tre famiglie di contadini con cui aveva stabilito il personale prezzo di due o tre staie (a seconda del raccolto) di frumento, segale, miglio, biada per cavalli, saggina, grano nonché di vino reccardino che per la natura dell’uva sua autoctona della Marca Trevigiana - grappolo e acini grandi d’un blu nero, pruinoso e dalla buccia consistente - non aveva bisogno di concia. 

A Momolo era sempre piaciuto recarsi in visita alla casa di paron Menego Storti, di paron Miorotto e di paron Mathio de Bonio, durante i suoi vagabondaggi per la campagna. Gente semplice ma curiosa, onesta e pratica, di buon consiglio e grandi lavoratori da cui imparava un sacco di nozioni sulla vita dei campi e sui mestieri ad essa legati e non.

Mutua simpatia che si manifestava in particolare alla domenica, quando tra un gioco e l’altro coi loro figlioli i fittavoli lo invitavano per un goto di vino e una fetta di polenta dolce nei loro casoni dalla copertura a cuspide, una struttura che aveva sempre affascinato Momolo per la sua diversità dalle case alte e strette di Venezia. Al di fuori della copertura a cuspide era sistemata la cucina con l’ampio camino posto sottovento e svettante, con il terminale conformato a campana per proteggere il tetto di paglia dalla fuoriuscita delle scintille. La canna del camino era poi realizzata sporgente verso l’interno delle murature d’ambito, acciocché anche gli ambienti al piano superiore potessero riscaldarsi d’inverno. Nel sottotetto, all’interno della copertura, vi si trovava la teza, da cui si accedeva soltanto all’esterno a mezzo di una scala a pioli attraverso un abbaino. Lì i contadini conservavano le biade ed i formaggi, al riparo dalle intemperie e affidati all’abilità predatoria dei loro fidi gatti, in perpetua lotta contro i topi. Nulla però potevano contro i ragazzini che giocando l’usavano come nascondiglio, o peggio i giovani innamorati.

V’era nella campagna un non so che di arcano e di selvaggio, che aveva sempre attirato Momolo, forse l’illusione d’ampio respiro fornito dalla vastità di quelle terre fluviali e collinose, protette dalle rassicuranti montagne. O forse l’assenza di formalità e di quelle cerimonie da cortigiani, che da sempre pizzicavano i nervi del giovinetto, percependoli infatti non come segno di raffinatezza, bensì d’untuosa piaggeria.

Una via di mezzo era Treviso, bellissima città-giardino, un cento commerciale molto fiorente e ricercato luogo residenziale. Dal suo cuore antico, racchiuso tra le mura scaligere, si diramavano tutt’intorno come raggi otto sobborghi, creando una pianta cittadina assai armoniosa, circondata da giardini, orti, prati, ville, vigne, piazzette, case, chiese e monasteri. Lì la vita scorreva placida come i suoi due fiumi e le sue chiare fontane, gli abitanti di natura gaudente e assai golosa di quel “piacer d’amor che quivi è fino”, come poetava Fazio degli Uberti nel suo “Dittamondo.” E di fatti, Momolo, ch’aveva iniziato a guardarsi un po’ attorno, spesso si ritrovava a rispondere ai sorrisi e ad inchinarsi dinanzi a qualche giovinetta trevisana, trovando donne e fanciulle tutte belle, gioiose, devotissime eppur affatto introverse, provocandogli le prime smanie in petto.

Ogni tanto, interrompevano il soggiorno a Treviso e a Fanzolo per recarsi in visita a degli amici di famiglia, come ad esempio i Costanzo, i Pellizzari e i Morexini a burgo Tarvisii a Castelfranco, oppure ad Asolo quando sier Batista raggiungeva per qualche giorno la cognata acquisita, la Regina di Cipro, domina Catharina Corner.

Tali visite equivalevano per Momolo ad una vera e propria tortura, infastidito dai perpetui paragoni cogli altri suoi cugini, laddove egli in tutto era carente - cultura, vestiario, galateo, patrimonio. Più che per se stesso, soffriva per la spocchiosa sufficienza con cui trattavano Madre, la quale si sottoponeva a quel teatrino soltanto per compiacere suo fratello, sorda alle frecciatine e alla sottile perfidia contenuta nelle parole dei cortigiani di domina Catharina, quando accennavano alla loro “villa rustica dell’epoca dei Caminesi” a Fanzolo o al “palazzetto di fronte ad un mulino” a Treviso.

Momolo non sopportava veder dileggiata Madre per la sua frugalità, men che meno adesso che vestiva in perpetuo lutto, senza gioielli tranne che per la vera e l’anello di Padre, le trecce nascoste dalla scuffia nera sopra cui scendeva un pesante paneselo del medesimo colore, tant’è vero che i forestieri scambiavano le vedove veneziane per monache, meravigliati dall’assoluto rigore della loro vedovanza, poiché una volta perduto il marito esse rinunciavano ad ogni vanità del mondo. O almeno così davano ad intendere, considerate alcune vedovelle che non potevano vivere se non sentivano in casa il passo d’un uomo.

Ad ogni modo, dopo un anno volato via coi suoi alti e bassi, nell’ottobre del 1498 Momolo era dovuto rientrare ritornare a Venezia e a scuola, a subirsi per tutto l’inverno oltre  Cicerone e la Bibbia anche i vanti dei parenti Miani di San Giacomo dell’Orio perché sier Lorenzo era stato nominato console a Palermo, nonché il biasimo loro e degli altri parenti Morexini poiché ai primi di marzo 1499 sier Marin Sanudo, sier Marco da Molin, sier Zacharia Dolfin e sier Hironimo Querini avevano bussato a Ca’ Miani per riscuotere un debito di 100 ducati, che Lucha doveva ad un protogero di Morea [9], a detta di sier Marin personaggio poco limpido quasi uno spione. Madre aveva spellato vivo Lucha, rimproverandolo di non impegolarsi in nessun prestito, che non fosse riuscito poi a pagare. Cosa suo fratello maggiore le avesse risposto tra un urlo e l’altro, Momolo non lo seppe mai; nondimeno, il danno era fatto e i parenti semplicemente godevano alla stregua d’un riccio nel rivangare all’infinito quel succoso pettegolezzo. Come se loro fossero immacolati quanto la veste dei Giusti nell’Apocalisse.

Grazie a Crono giunse la Sensa e Momolo poté ritornare a Treviso e Fanzolo e madona Leonora alla gestione degli affitti e dei raccolti.

Momolo, dal canto suo, poco ci badava se non lo stretto necessario; traeva invece maggior diletto nel seguire la crescita di un nuovo puledro bianco latte, ch’egli aveva ribattezzato Eòo come uno dei cavalli del carro del dio Febo e per il cui possesso aveva affrontato di petto i suoi fratelli. Giorno dopo giorno pieno d’aspettativa studiava l’esili gambe posteriori e braccia anteriori dell’animale e scalpitava pensando al giorno in cui avrebbe potuto infine cavalcarlo, intanto che s’impratichiva cogli altri cavalli.

Cavallo vecchio, cavaliere giovane; cavallo giovane, cavaliere vecchio, patron Momolo!, gli spiegava Zulian Canestri, un veterano di guerra e un tempo abile cavalleggero, che ora insegnava equitazione ai rampolli di buona famiglia, maestro assai raccomandatogli dal suo zio acquisito sier Antonio Trum, il primo a capire quanto quella disciplina fosse capace di contenere la prorompente esuberanza del nipote.

Ormai a Momolo era chiaro come tra i suoi simili non avrebbe svettato in altezza, il fisico snello ma al contempo robusto lo rendevano un cavaliere ideale e la povera madona Leonora doveva imbrigliare oltre che al cavallo anche il figlio, il quale non le teneva nascosto il suo progetto di partecipare un giorno al palio di Santa Lucia a Treviso, anche per zittire definitivamente quelle pettegole dei suoi cugini.

“Vuoi gareggiare con quel ronzino?”

“Taci, vecia ciacola invidiosa! Eòo crescerà in un bellissimo cavallo e assieme vinceremo il palio, vedrai!”

“Ma tu lo sai che il mio cavallo proviene dalle scuderie mantovane?”

“Puoi anche cavalcare la Marchesana di Mantoa, per quel che m’importa: alla fine sarà io a farti mangiar la polvere!” (e via a prendersi a sberle e a tirarsi per i capelli)

Screzi a parte coi suoi cugini, madona Leonora osserva piena di soddisfazione la ritrovata la serenità sul volto del suo ultimogenito, assecondando ogni sua iniziativa con grande pazienza e generosità e a Momolo a sua volta piaceva viziare sua madre, riempiendola costantemente di piccoli doni e attenzioni. Adorava il suo sorriso, si sentiva ricco dell’amore da lei riversatogli e non ne aveva mai abbastanza. Il suo spirito, profondamente scosso e ferito dal lutto e dai recenti avvenimenti a Venezia, s’aggrappava a quel balsamo materno, sviluppando un odio sotterraneo verso chiunque dall’esterno s’avventurasse nella loro piccola bolla felice.

La loro villa a Fanzolo, pur modesta se comparata a quelle degli altri patrizi veneziani o nobili locali, saltava tuttavia all’occhio per la sua sobria e raffinata armonia architettonica. Un’elegante trifora centrale e il delicato taglio delle finestre del piano nobile s’accompagnavano alle grandi arcate del porticato aperto su tre lati, cozzando con la spiccia solidità delle altre pertinenze rurali accanto alla villa, quali la stalla, il granaio e i magazzini. Il tutto era circondato da un alto muro così da creare sia una sorta di corte che di giardinetto dove refrigerarsi e oziare. Sier Anzolo, osservando i palazzi di Treviso e le altre ville nella Marca, l’aveva fatta affrescare sia all’esterno che nelle lunette del portego, così da nobilitarne la struttura non particolarmente elaborata e il materiale di costruzione non ricco. Sul muro il senatore aveva preferito dei motivi geometrici simili ai tappeti persiani; nelle due lunette una Sacra Conversazione e San Giorgio che uccideva il drago, essendogli particolarmente garbata un’omonima tela ammirata all’Abbazia di Santa Maria del Pero di Monastier di Treviso. Madona Leonora, invece, aveva provveduto ad arredare l’interno con mobili o vecchi o di scarsa qualità, portandoseli da Ca’ Miani così da consumarli definitivamente e disporne di conseguenza. In questo modo s’era creata un’impressione di prolungamento del palazzo, senza sentir la nostalgia di casa e di Venezia.

Lì i giorni scivolavano via felici, monotoni eppure laboriosi, interrotta quella bucolica quotidianità da qualche festa comandata a Castelfranco e a Treviso o le odiate visite ad Asolo o al Paradiso.

E fu lì che Momolo conobbe il Rivale.

Villa Paradiso (così nomata per via del terreno su cui sorgeva, cioè appunto il Paradiso) in realtà era ancora un edificio assai austero, forse un’antica fortezza rimaneggiata, chissà, e Momolo non capiva come mai i Morexini se la tirassero tanto, visto che non gli appariva più signorile della loro a Fanzolo. [10] Forse perché era appartenuta un tempo alla nobile famiglia dei Tempesta, avogari del Vescovo di Treviso, mentre la loro ad un diossacchi però abbastanza ricco da permettersi un’abitazione in stile cittadino.

Con la dedizione della Marca Trevigiana alla Serenissima Signoria e la conseguente corsa alla compera di terreni da parte dei patrizi veneziani, i Morexini avevano infatti acquistato il Paradiso a burgo Tarvisii dagli ultimi esponenti dei Tempesta, la loro importanza politica ridottasi a Noale, soppiantati come avogari dalla famiglia Azzoni.

Generazione dopo generazione, era giunta a sier Orsato Morexini q. sier Francesco, buon amico di famiglia, uomo di ingente patrimonio e rinomata pecora nera della sua gens. Era stato infatti pizzicato assieme all’avvocato sier Alvixe Zorzi q. sier Polo nel retrobottega di un barbiere in procinto di lavorarsi il giovane Piero Mozenigo, figlio del loro vicino di casa sier Francesco, cosa che a momenti Padre si soffocava a cena col boccone d’agnello andatogli di traverso, quando apprese del fattaccio, conoscendo infatti egli bene sier Francesco e Lucha e Carlo frequentavano la stessa compagnia di Piero.

Al conseguente arresto e processo era scoppiato un tal buferone in contrada, da compatire quei poveracci, malmenati sia dai Dieci sia a turno in casa da ogni loro parente maschio.

“Insomma, tra suo padre sier Francesco e gli altri Mozenigo non so chi l’avesse scudisciato di più!”, aveva raccontato madona Magdalena Miani, che non solo riscuoteva a San Vidal gli affitti, ma anche i pettegolezzi.  “Non si capiva più niente! Ad un certo punto pareva quasi una partita a pallacorda: smetteva uno e incominciava l’altro! Il tutto mentre gli urlavano dietro ogni sorta d’invettiva, tipo: “Con sì gran numero di potte disponibili a Veniexia, tu proprio sentivi la necessità di prendertelo in culo non da uno, bensì da due uomini?!”, aveva per caso sentito un giovanissimo Momolo discutere i suoi parenti da dietro la porta dello studio di Padre. “Lo dicevo, io, che il giovane Piero Mozenigo ultimamente vestiva troppo elegante, per le possibilità economiche del suo sior Pare! Ed ecco qua svelato l’arcano: s’accompagnava a quel sodomita di sier Orsato!” Madre, beccatolo ad origliare assieme a Marco, li aveva trascinati via assieme ad Orsolina, evitando con grande abilità le domande dei suoi figlioli, su cosa fosse esattamente un sodomita.

Un po’ per il prestigio sociale ed economico del clan Morexini; un po’ perché niente d’irreparabile era accaduto tra sier Orsato, sier Alvixe e il ragazzo Piero Mozenigo (o almeno questo quanto emerso dalle indagini), il Consiglio dei Dieci aveva optato per la clemenza, limitandosi ad esiliare il Morexini per dieci anni da Venezia, sicché sier Orsato si era trasferito nei suoi possedimenti a Castelfranco, pur sorvegliato a vista dai suoi famigliari tramite i servitori.

Ma un uomo ricco, anche se sodomita, rimane comunque una risorsa socialmente utile ed ecco che sier Orsato venne riammesso a Venezia nel 1491 per grazia dei Dieci e del Serenissimo Doge Missier Agustin Barbarigo, sotto sacra promessa di pentirsi, di sposarsi e di generare figli. Onde favorire la riabilitazione del suo nome, Sua Serenità gli aveva generosamente offerto in moglie una sua nipote, Pellegrina di sier Zorzi Nani sicché sier Orsato, volente o nolente, quel figlio lo dovette dare al clan, se non per dovere o riconoscenza almeno onde evitare una sorte ben peggiore del bando al confine o un altro giro di scudisciate da parte dei parenti. All’esposizione delle lenzuola macchiate di sangue più che un urlo di giubilo, si narrò esser corrisposto ad un urlo di sollievo.

Di conseguenza l’intera famiglia aveva ritrovato la pace e l’equilibrio interiore alla nascita della piccola e graziosa Marina Morexini, peccato che lì i suoi genitori si erano fermati, stavolta non perché sier Orsato fosse ritornato ai suoi antichi vizi, piuttosto perché la morte per febbre l’aveva vigliaccamente colto a Milano nell’ottobre del 1495, dove si trovava in qualità di pagatore di campo. Il patrizio venne seppellito ai Santi Apostoli a Venezia, lasciando erede universale la figlia di case, terre e 30.000 ducati liquidi. 

A Momolo quella bimba faceva molta pena: l’essersi ritrovata da un giorno all’altro un’appetibile ereditiera l’aveva trasformata in una reclusa, controllata a vista. Sua madre, infatti, ovunque leggeva tranelli per accaparrarsi la figlia e non si poteva darle ogni torto: la Morexini ancora si succhiava il pollice e già ogni famiglia patrizia a Venezia tramava per maritarla ai propri rampolli. C’era invero da impazzire e la vedova di sier Orsato forse un po’ matta lo era diventata, a giudicare dal modo in cui aveva aggredito Momolo quando lo aveva pizzicato a passeggiare mano nella mano con Marina. Mossa esagerata e infelice giacché sperimentò tutta la furia di madona Leonora, la quale giurò a madona Pellegrina le pene dell’inferno se avesse osato prendere di nuovo a vergate suo figlio come l’ultimo dei villani.

“Cosa facevamo allora da soli in giardino? An? Avanti, piccolo turco, che facevi con la mia Rina?”

“Parlavamo dei nostri defunti padri!”

Le due vedove dinanzi a tale risposta erano rimaste gelate sul posto. Non era una menzogna: tra i due bambini s’era instaurata una delicata affinità, che nulla però aveva d’amoroso. Semplicemente, la perdita del genitore li accumunava e pertanto spendevano ore e ore a discutere su di  loro, sui ricordi che conservavano, sul vuoto che li avevano lasciato. Si capivano a vicenda e tentavano in maniera goffa di consolarsi.

“Talvolta, se mi sforzo di notte, ho come la sensazione di poter ancora udire la voce del mio sior Pare. E tu Momolo?”

“La mia siora Mare ha tenuto tutti gli abiti del mio sior Pare nei cassoni. Ogni tanto vado ad aprili per vedere, se riesco ad annusare il suo profumo.”

“E lo senti?”

“Ogni giorno sempre di meno.”

“Mi dispiace per come s’è comportata la mia siora Mare.”

“Non ti preoccupare.”

“Sai che non s’è neppure risposata, perché teme che un mio eventuale patrigno possa rubarmi l’eredità? Almeno tu sei fortunato, perché non hai un granché di soldi.”

“Grazie per avermi dato del povero! E comunque, la mia siora Mare non si risposerà mai!”

“Tu non comandi niente alla tua siora Mare! Se si vuole risposare, lo farà!”

“E invece no!”

“E invece sì!”

“Tu sei solo invidiosa, perché la mia siora Mare, al contrario della tua, rimane fedele alla memoria del mio sior Pare perché lo amava e non perché ha paura di perdere i suoi soldi!”

Al che Marina l’aveva buttato giù dall’altalena e se n’era scappata via in lacrime, giurando di non parlargli mai più in vita sua.

Promessa non mantenuta ché la volta dopo i due avevano ripreso le loro conversazioni, sebbene di nascosto, quando gli adulti erano troppo impegnati a merendare al fresco sotto le pompeiane di cedri o presso il roseto.

Quel particolare giorno d’estate, accadde che tra i ragazzi venne voglia d’improvvisare una partita a pallacorda, per passare il lungo e monotono pomeriggio e Momolo s’aggregò immediatamente, poiché puntava di vincere uno dei due premi, un fazzoletto di seta finissima dai bordi merlettati secondo la nuova moda, per regalarlo a Madre.

“Posso giocare anch’io?”, chiese Momolo al gruppetto di giovanotti, tra cui figuravano domino Mathio Costanzo; Gasparo Valier; Marco Antonio Michiel,  i nipoti di domina Catharina Corner - Francesco, Marco, Hironimo, Zuam e Jacomo; Francesco e Phelippo Contarini di sier Zacharia cavalier; Piero Trivixan; Ferigo Contarini di sier Hironimo biscugino di Madre; Francesco Contarini del “Grillo”, i cugini più grandi di Momolo e naturalmente suo fratello Marco.

“Ma dai, cosa vuoi giocare a pallacorda, con quei tuoi braccetti corti!”, lo sfotterono inclementi i ragazzi. Perfino Marco sghignazzava, il turco traditore!

“Su, vai a giocare coi tuoi coetanei!”, indicavano il resto dei bambini, che già avevano preso posto accanto alle sottane delle loro madri per assistere al gioco.

“Non ne ho voglia! Preferisco unirmi a voialtri!”

“Nah!”

“No!”

“Ma va là!”

“Contame naltra!”

“Sei troppo piccolo!”, gli rivelò ridacchiando Jacomo Corner, provocando un feroce arricciamento di capelli da parte del tredicenne Miani.

“Sicuramente meno piccolo del tuo bifi!”, replicò quest’ultimo prontamente velenoso, mostrandogli tramite l’ausilio dell’indice e del pollice le supposte misure del pene del Corner, il quale divenne paonazzo dallo sdegno per quell’illazione.

“Ma io ti squarto, razza di …”

“Mo via, te la pigli per uno scherzo?”, sdrammatizzò il suo parente Ferigo Contarini, appoggiando una mano sulla spalla di Momolo, col duplice scopo di trattenerlo e di calmarlo. “Sta ben, il piccoletto vuole giocare con noi e donca? Hai forse paura che ti stracci?”

Jacomo Corner alzò altero il mento. “Figurati se ho timore di questo ma-ca-co!”

Ferigo sorrise carnivoro. “Pulito! Allora: il Momolo ed io facciamo coppia; poi, vedetevela voialtri!”

Un deluso grugnito si levò in aria: il ventenne Contarini era uno dei migliori giocatori di pallacorda e ovviamente ciascuno progettava di finire appaiato con lui.

Onoratissimo di tal privilegio e considerazione da parte di un suo parente maggiore, Momolo gli sorrise sincero e Ferigo gli rispose tramite un complice occhiolino.

Il duo si rivelò una coppia ben sortita: laddove il più anziano sfruttava la sua naturale inclinazione al gioco di tattica, fiaccando l’avversario con passaggi insidiosi più che violenti; il minore suppliva in agilità, intercettando e riacchiappando la palla con balzi al limite del circense e ben presto i due giovani si portarono in finale, fronteggiando i fratelli Marco e Jacomo Corner.

“Zò, Soa Santità! Volete cresimarmi di nuovo?!”, esclamò beffardo Ferigo, evitando in un’assai tersicorea piroetta la palla lanciatagli da Marco Corner (che uscì fuori dal tracciato assegnando il punto al Contarini), accompagnato dalla grassa risata di Momolo. Era risaputo come il cavalier sier Zorzi avesse intenzione d’avviare il figlio alla carriera ecclesiastica e i suoi amici non mancavano di sfotterlo per quello. Anche perché, bel giovine qual era, si sa che la Curia a Roma …

“Tase-là, turco miscredente!”, gli mulinò Marco Corner contro la racchetta, atteggiamento strano per quel solitamente placido ragazzo. La verità è che la coppia avversaria li stava raggiungendo, rendendo nullo il vantaggio iniziale dei due fratelli Corner.

I quattro giocatori fletterono le ginocchia, incurvandosi leggermente in avanti ed evitando perfino di sbattere le ciglia pur di non perdersi alcun movimento della palla. Le camice di lino erano divenute ormai trasparenti dal sudore, rivelando il brunito dei loro torsi e modellandosi ad ogni loro muscolo. I ragazzi si scostavano frustrati dalla nuca gli ingombranti capelli o la frangia molesta, le ciocche bagnate appiccicate alla pelle sudatissima. Perfino le braghe apparivano più aderenti, ben delineando lo sforzo muscolare delle gambe snelle e agili.

Ferigo servì stavolta, imprimendo grande possanza nel tiro e la palla sfrecciò oltre la corda e con un rumoroso grugnito Jacomo la rispedì indietro. Scattando alla stregua d’un grillo, Momolo la intercettò e gridando la ributtò dai Corner e Marco dovette sbilanciarsi non poco per non perderla, ma comunque riuscendo a salvarla. Il tredicenne corse perdifiato a riprenderla e per poco cadde in una capriola ma la palla la ricacciò ai Corner. Jacomo allora tentò di schiacciarla, approfittando del vuoto lasciato da Momolo, sennonché Ferigo gli corse incontro e con una torsione da discobolo gli impedì di segnar il punto, anzi, accaparrandoselo lui.

“Pari! Dai mo’ che se li facciamo ingoiare ‘sta palla, vinciamo!”, incoraggio il Contarini il suo compagno di gioco. “Momolo?”, domandò, notando come questi si fosse imbambolato, lo sguardo torvo puntato sulla tribuna improvvisata.

Chi era quel tizio seduto accanto a Madre?

Se alla destra di madona Leonora stava la sua amica madona Alba Donado Contarini, alla sua sinistra s’era accomodato un gentiluomo e dal modo in cui chiacchierava fitto-fitto con sua madre, Momolo avvertì una gran rabbia montargli in petto. Il viso di lei, infatti, non possedeva la medesima gelida cortesia che la vedova Miani rifilava a qualunque uomo, specie dopo la morte di sier Anzolo: v’era un non so che di dolce, pacato nel suo sorriso e lo zenit fu il risolino che la nobildonna coprì con la punta delle dita.

Momolo vide letteralmente rosso, digrignò i denti al richiamo di Ferigo e si lasciò travolgere da un’ira cieca all’ultimo turno di punti. Ad ogni servizio impresse una violenza inaudita per il suo corpo ancora magro d’adolescente, urlando imbestialito e mirando più a colpire gli avversari che in posti strategici, dove avrebbero faticato a salvare la palla. Le parole di monito di Ferigo gli scivolavano addosso come il rivoletto di sudore sulle tempie.

Ansimava inferocito a guisa di tigre, figurandosi dinanzi il misterioso gentiluomo al posto di Jacomo Corner, nelle orecchie l’eco delle parole di Marina Morexini. Madre non si sarebbe risposata, nessun uomo avrebbe preso il posto di Padre al suo fianco e men che meno il suo! Momolo aveva giurato che avrebbe protetto Madre, che le sarebbe rimasto sempre accanto. Nessuno gliel’avrebbe portata via! Già a Padre aveva dovuto rinunciare, ma a lei no! Lei no!

“Ah!”, cacciò il ragazzino un urlo inumano, facendo perno sul piede sinistro e roteando il busto portò la palla a schizzare velocissima contro Jacomo che rinculò comicamente all’indietro per rispedirla indietro, sbilanciandosi.

“Ah!”, gridò nuovamente Momolo, che al contrario pareva ancorato al terreno, ampliando il movimento d’apertura e la palla viaggiò ancora più veloce e sempre puntata contro il petto del Corner.

“AH!”, non si accorse delle lacrime di rabbia che gli offuscavano la vista, soltanto della frustrazione che la palla avesse colpito il piede al posto della gola di Jacomo, contrariamente al suo progetto iniziale. Temerario, il tredicenne era corso quasi sotto la corda e s’era letteralmente buttato addosso alla palla al mero scopo di distruggere l’avversario, rivoltandogli contro il tiro di rimando.

Segnò l’ultimo punto per vincere soltanto un grande amaro in bocca, soprattutto quando, al momento di consegnare il prezioso fazzoletto merlettato alla sua “dama”, Madre gli aveva fatto un cenno nascosto di diniego, che non stava bene regalarle platealmente il premio – lo doveva dare a qualcun’altra in segno di cavalleria. Seminascosto dalla sua spalla, il gentiluomo sorrideva compiaciuto, neanche gliel’avesse suggerito lui al mero scopo d’indispettirlo.

Momolo allora strinse convulsamente la preziosa stoffa, sgualcendola e, portatosi davanti alla giovanissima Regina Contarini sorella di Ferigo, glielo gettò sgarbatamente sul grembo per poi allontanarsi a grandi falcate, pugnalato mille volte alle spalle dalle occhiatacce assassine delle cugine Anzola, Maria e Querina Morexini, le quali, sotto-sotto, avevano sperato ricevere loro quel bel fazzoletto.

Madre lo ripigliò al rinfresco dopo l’improvvisato torneo, una volta levato il campo e rivestitisi e rinfrescatisi i giocatori, e poiché evidentemente il destino ce l’aveva a morte con lui, il tredicenne se la vide arrivare col gentiluomo appresso.

“Sior Alvixe, questi è il Momolo, il mio più piccolo”, lo presentò madre all’uomo, anch’egli nerovestito (ma non della toga patrizia) e con la barba castana macchiata di bianco. Forse coetaneo di Madre, giudicò il giovinetto, il cui corpo s’era teso sulla difensiva. “Momolo, saluta il signor Alvixe Beltramin.”

“Come stai, Momolo? E’ un piacere conoscerti. La toa siora Mare m’ha parlato molto bene di te.”

Il tredicenne serrò i denti e i pugni. “Mi stago ben, sior Alvixe. E per voi sono Hironimo, non Momolo”, dichiarò battagliero, beccandosi un furtivo scappellotto al braccio da parte di sua madre.

“Momolo! Che maniere da turco!”, ridacchiò ella nervosamente, inasprendo il malessere del suo ultimogenito. “Qualche volta è proprio un rebégolo!” (ragazzo irrequieto, ndr.)

“No, no ha perfettamente ragione! Ammetto d’esser stato un poco presuntuoso a volerlo chiamare  da subito “Momolo”, soprattutto se è un nomignolo conferitogli dal fu suo padre”, lo giustificò bonario Beltramin e il ragazzino spalancò sconvolto la bocca, voltandosi di scatto verso la genitrice, sul viso un’espressione tradita: come aveva potuto raccontargli quel dettaglio? Con quale diritto?

“Il signor Alvixe è un nostro vicino a Fanzuolo, dove possiede della terra e per mestiere, fa il mercante di vino. Ha viaggiato per il mondo in lungo e in largo; di fatti, mi stava raccontando alcuni interessanti aneddoti dal Principato di Trento!'”

“Troppo gentile, patrona. Mi dipingete più interessante di quanto lo sia in realtà: so benissimo di non poter certo competere col vostro parente sier Ambruoxo Contarini, l’esploratore!”

“Oh bella, ci terremo dunque in buona compagnia!”, e risero complici, similmente a quelle volte in cui Padre scherzava con Madre in altana.

Momolo si sentì morire.

Alvixe Beltramin di Liberale era un intraprendente commerciante di vini e proprietario di qualche appezzamento di terra vicino ai terreni dei Miani e pertanto si poteva dire sufficientemente agiato da partecipare alla vita mondana di Castelfranco, grande amico del condottiero e viceré di Cipro, domino Tuzio Costanzo. La sua famiglia era originaria di Piove di Sacco (si sentiva forte il pavan nella sua calata) e s’era fatto da solo, lavorando duramente sin da ragazzo pur d’emergere dall’anonimato cittadino. Sier Batista Morexini, anch’egli dedito alla mercatura, aveva avuto modo di conoscerlo a Rialto e subito s’erano intesi bene, sicché quando il patrizio era venuto in visita alla vedova di sier Orsato era stato oltremodo contento di rivederlo, presentandolo alla moglie madona Morexina e alla sorella madona Leonora.

Per questo e altri due motivi, scoprì in seguito Momolo, aveva egli avvicinato Madre e incominciato a discorrere con lei: il primo era perché malgrado i suoi meriti un poco rimaneva snobbato e non potendo sempre stare attaccato alla vesta di sier Batista o di domino Tuzio Costanzo, l’uomo doveva pur andar da qualche altra parte, rimanendo però puntualmente relegato all’angolo, analogo destino che si riservava spesso e volentieri a Madre. Il secondo, poiché anche Beltramin era rimasto vedovo, perdendo la moglie per il parto di un figlio. Questo spiegava l’abito bruno e soprattutto la barba. Con discrezione aveva chiesto da quanto tempo madona Leonora portasse il lutto e lei gli aveva replicato da tre anni il prossimo 18 agosto. Al che il signor Alvixe le aveva domandato se ancora lei ripensasse al consorte e se quel dolore, che avvertiva in petto, si sarebbe prima o poi addolcito. Lei gli aveva confessato di no.

E incominciarono a discorrere d’altro.

Quello fu l’inizio di una serie di numerose visite, specie dopopranzo quando Madre si portava assieme ad Eudokia e Orsolina sotto il portico della villa a ricamare, mentre il resto del personale o era a dormire o in giro per i fatti propri.

Malgrado i modi di fare un po’ diretti e spicci, il signor Alvixe si comportava da perfetto cittadino, buon conversatore e di ottima compagnia, conquistando piuttosto facilmente l’amicizia di Marco, con il quale discuteva animatamente di affari, dei mercati all’estero e degli ultimi regolamenti sul territorio, che si rivelarono assai utili per il governo dei loro campi. Di recente però i due uomini parlavano molto di politica sia interna (di nuovo i Turchi portavano la guerra nell’Egeo) sia estera (di nuovo Francesi portavano la guerra in Italia). Anche Momolo partecipava a questi dibattiti accanto al fratello, ascoltando in rancoroso silenzio, la sua antipatia nei confronti dell’uomo tenuta a freno soltanto per compiacere Madre, la quale lo incoraggiava ad imparare dall’esperienza dei suoi maggiori.

Non soltanto sotto i porteghi in villa si doveva Momolo sorbire la sua presenza: che fosse stato in piazza o al mercato a Castelfranco o ai ricevimenti al Paradiso; in chiesa o in borgo a Fanzolo, il tredicenne si ritrovava il Beltramin in ogni luogo. Marco era totalmente entusiasta della sua compagnia; Madre non si sbilanciava però aveva insistito d’invitarlo a pranzo quando Carlo l'aveva raggiunta in villa per qualche giorno, presentandolo ufficialmente alla famiglia:a desinare terminato il secondogenito Miani, famoso per la sua lingua da sarto, che tagliava e cuciva, sorprendentemente aveva cantato ogni lode del sior Beltramin.

“Momolo, perché ti comporti sempre in maniera così scontrosa col signor Alvixe?”, gli domandò Madre una sera, mentre gli sistemava il cuscino dietro la schiena. A causa dell’intenso caldo estivo, la nobildonna era venuta meno ai dettami dell’etichetta, togliendosi la scuffia nera e pertanto lasciando respirare i lunghi capelli, le trecce sciolte in un manto di boccoli misti tra bianco e nero.

“Non mi piace averlo tra i piedi!”, dichiarò imbronciato il ragazzino, giocherellando con quelle ciocche sale e pepe che gli sfioravano il petto, essendosi la donna sporta verso di lui. Alla tremula luce della candela il viso di lei gli appariva ancor più giovanile, risaltando il luccichio dei suoi occhi grandi e nerissimi e il giovinetto s’irritò doppiamente, affatto contento di doverla condividere con altri uomini.  

Madona Leonora sospirò, accarezzando i folti capelli scuri del figlio. “Momolo, devi sapere che il povero signor Alvixe soffre molto di solitudine. Noialtri gliela alleviamo un poco.”

“Non ha una sua famiglia a Piove di Sacco?!”, protestò ostinato il tredicenne, battendo il pugno sul materasso. “Perché deve intromettersi nella nostra?”

“La solitudine non è solo un male del corpo, ma anche dell’anima.”

“Balle de musso!”

“Quando sarai più grande, capirai.”

“Ma anche no”, si voltò astioso Momolo dalla parte opposta, stringendo offeso il cuscino e imponendosi di dormire.

Non c’era niente da capire. Cosa gli importava se Beltramin soffriva di solitudine? Quale diritto gli conferiva d’impicciarsi nei loro affari? Di trascorrere ogni dopopranzo con Madre?

Perché, tra tutte le donne della Serenissima Signoria, aveva puntato proprio a lei? Perché non dirigeva altrove le sue attenzioni?

Quella notte Momolo venne tormentato da una serie di incubi, il più orribile una rievocazione di quella volta che, appena cinquenne, s’era per caso trovato a spiare i genitori in letto. Ma al posto di Padre, nudo sul corpo di Madre c’era il signor Alvixe Beltramin  e il tredicenne si svegliò urlando con quanto fiato avesse nei polmoni, sudato neanche avesse contratto la malaria e ammazzando per poco suo fratello Marco dallo spavento, destandolo di soprassalto.

“Che c’è? Cos’hai?”

“Non voglio! Non voglio!”, si tirava i capelli il giovinetto, scuotendo il capo e piangendo disperato. “Non voglio! Non voglio!”

“Cosa non vuoi?”, lo spronò il diciottenne a confidarsi, osservando ansioso i calci a vuoto del fratellino e l’agitarsi convulso del suo corpo. Fu costretto a bloccargli i polsi quando il tredicenne incominciò a pigliarsi la fronte a pugni. “Parlami, su, Momolo! De diana, parlami invece di gridare!”, lo supplicò disperato e notando l’assenza di risultati e l’epistassi dal naso che stava tingendo di rosso le lenzuola, corse a chiamare la madre.

“Amore mio, che ti succede?”, abbracciò ella la sua creatura in affanno, stringendosela al petto e tamponandogli le nari sanguinanti. Ma se in altre occasioni quel dolce contatto l’avrebbe rassicurato da ogni cruccio, in quella al contrario lo esacerbò e Momolo, singhiozzando, vomitò sul letto per poi cadere svenuto.

Nervi, soltanto nervi”, fu il conciso responso della curandera del paese. “Qualche tisana di camomilla e lavanda e gli passerà; se proprio peggiora allora provate con quella alla valeriana, ma senza esagerare, anche se per me  il problema, patrona, non sta nel corpo bensì tutto qui”, disse l’anziana donna, ticchettandosi la tempia destra.

Ovviamente, quel maledetto di Beltramin, appreso del confinamento in letto di Momolo, figurarsi se non venne a trovarlo per informarsi della sua salute così d’avere un’ulteriore scusa per trascorrere indisturbato maggior tempo con Madre, sicché la sua malattia si prolungò di una settimana, tra febbriciattole, nausee e uso continuo del pitale a causa dell’infernali tisane.

Neppure alla Messa commemorativa di Padre il Beltramin gli risparmiò la sua presenza e se le maledizioni scagliategli dal tredicenne avessero potuto far crollare l’antica chiesa romanica di Santa Maria Assunta [11] a Castelfranco, a quell’ora non ne sarebbero rimaste neanche le macerie. Tra tutti i giorni, proprio quello! Ma certo! Era una sfida alla memoria di Padre, per godere del suo trionfo su di lui, essendosi ormai autoproclamato suo sostituto al fianco di Madre!

Vedi? Vedi? Te lo rubata! Tu sei morto, io sono vivo e ora mi chiavo la tua donna! – lo poteva il giovinetto quasi sentire vantarsi con quel suo odioso accento pavano – dopodiché venderò i tuoi figli ai Turchi, i quali li trasformeranno in eunuchi e così la tua discendenza sparirà dalla faccia della terra!

“Dio sia lodato, posso finalmente rasarmi questa barba maledetta!”, sospirò allegro Marco alla fine della funzione, grattandosi enfaticamente le gote intanto che scendevano gli scalini d’ingresso della chiesa. “Con questa barba e i capelli lunghi, mi pareva d’essere un monaco greco!”

“Ti pare?”, lo rimbeccò aspro Momolo, sul cui mento invece ancora non cresceva nulla, le gote morbide e lisce. “Oggi è l’anniversario della morte del nostro sior Pare e l’unico tuo pensiero è quello di sbarbarti? Ma fammi una carità!”

Secondo i costumi di Venezia gli uomini erano tenuti a portare la barba in segno di lutto, la durata variante a seconda del grado di parentela. Nel caso di sier Anzolo, i suoi figli l’avevano portata per tre anni come di precetto, mentre gli altri suoi zii e parenti già l’anno successivo la morte del Miani se l’erano rasata.

Marco strinse gli occhi, piccato per la verità dietro quelle parole, avendo in effetti odiato la barba più per un fattore estetico che simbolico. “Mo’ andiamo dal barbiere”, bofonchiò impacciato, spingendo in avanti il minore onde spronarlo a muoversi. Sennonché quest’ultimo rimase ben piantato per terra, rifiutandosi di chiudere in quattro e quattr’otto la questione. “Che ti prende oggi, Sior Contrario?”, sbuffò snervato il diciottenne, ponendosi le mani sui fianchi.

Momolo gli indicò col mento Madre, attardatasi a chiacchierare sul sagrato della chiesa con la moglie di domino Tuzio Costanzo e suo figlio Mathio; con una gentildonna assieme ad una fanciulla che il ragazzino non aveva mai visto fino a quel momento e, figurarsi se mancava, il signor Alvixe Beltramin.

“Donca?”, aggrottò Marco la fronte, piuttosto confuso.

“Mi domando cosa voglia da noi, quello là …”

“Chi?”

“Quello là!”

“Se non parli schietto, non ti capisco!”

“Il signor Alvixe!”, sputò il tredicenne il nome, manco avesse pronunciato un improperio. “Perché è venuto oggi a prender Messa?”

“Per creanza?”

“No, perché vuole sedurre la nostra siora Mare!”

Marco aprì la bocca, rimanendo comicamente interdetto per qualche istante. Dopodiché, si piegò in due dalle risate fino ad annaspare dalla mancanza d’aria, trascinando il fratellino in un angolo appartato dietro una stradina secondaria tra mura, chiesa e castello. “Burlestu?”, inquisì divertito, asciugandosi le lacrime agli occhi.

“No!”, batté Momolo frustrato il piede sul selciato, la sua collera direttamente proporzionale all’ilarità del maggiore. “Spiegami allora come mai è sempre attaccato alle sue sottane? Ogni giorno si presenta a casa nostra! Dopo pranzo neanche tu puoi negare, come se ne stiano a ciacolar fitto-fitto, manco la zia Maddaluzza e le sue betòneghe di contrada!”

“E allora?”

“Non lo giudichi il tipico comportamento d’un corteggiatore?”

“Bah, t’immagini le cose!”, scrollò le spalle il maggiore, liquidando quei dubbi alla stregua di sciocche bambinate e pertanto accennando a raggiungere il gruppetto, sennonché Momolo lo trattenne per la manica, costringendolo a rimanere.

“Scoltame ben: quel pavan vuole la nostra siora Mare! E noi dobbiamo assolutamente impedirgli di sposarla!”, gli rivelò talmente ansioso che Marco non ebbe più alcun dubbio sulla veridicità delle parole del fratellino. Invero non stava scherzando, glielo leggeva in faccia e finalmente il giovane capì la cagione dietro quei perpetui bronci nel minore ogniqualvolta s’imbatteva nel signor Alvixe. 

“No.”

“Come no?”, ripeté scioccato Momolo da quel secco e infastidito rifiuto, mollando di colpo la presa dalla manica.

“Scoltame ti ben”, gli puntò Marco l’indice contro il petto, severissimo. “Io non so se ti sei bevuto il cervello o che, però se ti sei ammalato per questa jotonia, copandome quasi dallo spavento, giuro che te dago tante di quelle sberle, che a Carlevar non avrai più bisogno d’indossare una maschera! Secondo”, lo interruppe inflessibile, levando in alto la mano in un veemente scatto, “cosa te ne cale, se la nostra siora Mare si vuole rimaritare? Sei forse il suo sior Pare? No! Sei suo figlio e alla siora Mare s’obbedisce, senza tante storie! Quando tu sarai un marito e un padre e quando possiederai  la tua casa, allora sì che potrai comandare e dire al mondo: Mi vojo cussì, mi vojo cosà! Siccome però non hai niente e non sei niente, abbassa le orecchie e obbedisci in silenzio. Comprendestu?”

Momolo incassò la sferzante predica a capo chino, le gote vermiglie e gli occhi umidi dal pianto a stento trattenuto. “Non la può sposare! Non la deve sposare! Non può rubarcela! Non la voglio in casa d’altri! Non voglio che porti un altro cognome! Non voglio un fratellastro! Non voglio nuovi parenti!”, insistette istericamente il tredicenne e prese ad ansimare in affanno, sballottato dalla perdita d’un potenziale alleato nella sua personale lotta contro il Rivale. “L’unico uomo cui è maritata è il nostro sior Pare!”

“CHE E’ MORTO DA TRE ANNI! SVEJA, IMMATONIO MACARON DE PUJA!”, l’apostrofò spazientito il maggiore, forse più aggressivo di quanto intendesse, ché infatti Momolo indietreggiò intimidito, sbattendo la schiena contro il muro. “Ammettendo che il signor Alvixe la voglia sposare: e allora? Dove sarebbe in ciò il crimine? An? Nostro padre – a chi Dio perdoni -  è morto e nostra madre è libera di fare ciò che meglio crede! Cosa t’impicci degli affari suoi?”

“E’ la donna del nostro sior Pare, comprendestu? Nostro. Padre!”, si batté il giovinetto il petto onde reiterare il concetto. “L’affare sul serio non ti tange? Non t’importa sapere nostra madre in letto, nuda a fare l’amore con uno che manco è nostro pa-ahia!”, non riuscì Momolo a terminare la frase, che suo fratello gli aveva afferrato i capelli, tirandoglieli crudelmente, i denti digrignati ben in mostra.

“Ti te sporcarie da sbisào no te le me disi, sastu? O TE COPO!”, l’avvertì perentorio, ogni traccia affabile sparita dal suo viso. “La siora nostra Mare è una nobildonna onorata, pudica di corpo e di pensieri! E anche se si volesse rimaritare, chi sei tu per impedirglielo, chi sei tu per comandarla, per dirle cosa può e cosa non può fare? Chi sei tu?”

Suo figlio!, avrebbe voluto replicare un Momolo sull’orlo dell’ennesima crisi nervosa, ma già prevedeva la replica di Marco, ovvero che anch’egli era figlio di Madre e di certo non si permetteva di pontificare in giro sul suo operato.

Era dunque rimasto solo ad affrontare i suoi problemi, come sempre.

 

***

 

 

“Zò, patron! Saria anca horra de tornar ndrio a chaxa vuostra per zenar!”

Momolo trasalì alle parole mugnaio, rendendosi soltanto ora conto delle prime luci rossastre del tramonto. Tirò su col naso e s’asciugò le lacrime dalle gote, ottenendo solo l’effetto di sporcarsi ulteriormente di fango.

“Dime, caro ti”, chiese piuttosto egli all’uomo, rimettendosi in piedi sul pontile, “facciamo che un giorno la Morte di colga. Saresti contento, se la siora toa mojer la se maridasse de novo?”

Il mugnaio reclinò confuso il capo, grattandosi il collo sudato, intanto che meditava sia ad una risposta soddisfacente sia al motivo dietro quella bislacca domanda. “Beh, tuti i saven ch’i morti ndove i van, no tornan indrio: anca se mi no vorave la mia femena co naltr’om, chome imperdighelo se sonjo morto?! De po’, le femene gh’han senpre fato zò che le piasen, dai tempi d’Adam et Eva!”

“E ciò senza tener conto dei tuoi parenti e del tuo onore?”

L’uomo scoppiò a ridere fragorosamente, a bocca ben larga e mostrando qualche dente mancante. “Il mio honor? I mii danari, ecco zò ch’el premarà a staltri! Co’ se more, patron, no ghe rimane al morto ni honor ni niente, solum Sen Michiel cum la bassacuna” [12], ridacchiò ilare, scotendo il capo dinanzi a tal ingenuità.

Insoddisfatto e un poco piccato per quella non troppo velata presa per i fondelli, Momolo raggiunse il suo cavallo, salendoci in groppa assai imbronciato.

“Patron”, lo trattenne all’ultimo il mugnaio, avvicinandosi e guardandolo serio-serio, “aricordeve ste parolle: ante de far la moral a qualchedun, vardé drento de vu et pensé se vuj seti mejo o pezo di chi volé criticar. Queo sgrandezón (superbo, ndr.) dil luzifero fo el primo a dir: Mi sun parfeto!”

Il ragazzino strinse la bocca in una piega dura, ribelle a quel consiglio come lo era nei confronti di tutti quegli altri elargitigli dagli adulti. Inoltre, la malcelata vanità dovuta al suo ceto gli suggeriva di non tener da conto i pareri di un popolano, anche se più maturo di lui e con maggior esperienza del mondo. Che ne sapeva quel plebeo della morale, dell’onore? Similmente ad ogni esponente del popolo bue, egli non era che un’anima semplice, i cui unici scopi della vita rimanevano il cibo, i soldi e il sesso. Nient’altro. Inutile dunque contraddirlo e tentar di cavar sangue dalle rape: non ci sarebbe mai arrivato. Che vivesse dunque nel fango alla stregua di bestie, che gliene importava? Ma che non venisse a riempirlo di consigli, quello no!

“Iddio sia teco”, si congedò il tredicenne in un tono assai frettoloso e scocciato, battendo i tacchi sui fianchi del cavallo.

“El xé senpre meco, patron!”, si toccò il mugnaio appena il bordo del cappello di paglia a mo’ di saluto, seguitando ad osservare con quell’aria tra il furbo e il bonario la figura di cavallo e cavaliere allontanarsi lungo il fiume fino a sparire all’interno del bosco.

Quando Momolo raggiunse la villa, oramai l’ora di cena era bell’e passata. Ad avvistarlo fu Trovaxo, che subito gli corse incontro ad afferrare il morso del cavallo, costringendolo a fermarsi definitivamente acciocché il padroncino scendesse.

Neanche diede tempo al servitore d’avvertirlo o rimproverarlo, che subito il giovinetto sfrecciava in casa, ignorando bellamente i richiami misti di rimprovero e preoccupazione di madona Leonora.

“Ciò! Ciò! Ti sto parlando! Che modi sono questi?”, lo tallonava non senza qualche difficoltà, essendo infatti il figlio più veloce, salendo le scale a due a due. “Te paiono ore da rincasare? Ero spasimata dalla preoccupazione! Ho spedito il Marchetto a cercarti! Nessuno dei tuoi fratelli s’è mai comportato da turco come te …”, brontolava la nobildonna sbuffando, finalmente però capace di allungare il braccio per afferrare il discolo del suo figliolo.

Sennonché questi, guizzando come una vipera, si scrollò violentemente dalla sua presa, gridandole furioso: “NON MI TOCCARE!”, e quando la madre tentò di trattenerlo una seconda volta, questi le schiaffò via la mano con tal forza da sbilanciarla.

Portandosi la mano dolorante al petto, madona Leonora studiava confusa il figlio, neanche si fosse trovata dinanzi ad uno sconosciuto. Non l’aveva mai visto così arrabbiato: la bocca tremante di piccoli spasimi, l’assottigliarsi convulso degli occhi, quell’ingobbirsi da gatto … La nobildonna immediatamente riconobbe in lui le medesime crisi di collera che ogni tanto esplodevano nel marito. Dunque, come aveva imparato a percepirle e anticiparle in sier Anzolo, similmente operò col figlio. “Momolo, come ti sei ridotto? Sei tutto sporco di fango!”, abbassò e addolcì ella il tono di voce, rendendolo più conciliante. S’avvicinò lentamente al ragazzino, quasi si trovasse di fronte ad un animaletto selvatico. “Momolo, vieni su, ti faccio preparare il bagno. Dopodiché ceni e ti metti tranquillo in letto …”

Il tredicenne s’allontanò bruscamente dalla genitrice. “Lasciami stare!”, l’interruppe aspramente, acquattandosi contro la porta della sua camera e rifiutandosi di guardarla dritto negli occhi. “Non toccarmi! Non ho bisogno del tuo aiuto! Da te non voglio niente!”, berciò pure dimenticandosi di darle del voi da quant’era incollerito.

“Ma se fino a ieri mi domandavi sempre d’aiutarti a lavarti …”, gli ricordò dolcemente madona Leonora, provocando un feroce rossore sulle gote del giovinetto.

“Oggi invece non lo voglio più!”, replicò gridando, battendo imperioso il piede per terra. “Vermocane! Hai mai nettato i miei fratelli a tredici anni? No! E’ sbagliato! Indecoroso!”

L’espressione di sua madre, da comprensiva, mutò in una severa e inquisitrice. “Chi ti ha messo in bocca queste parole?”, esigette di sapere, impedendo col suo corpo ogni via di fuga al figlio.

“Nessuno!”, sgattaiolò via ugualmente Momolo. “E comunque, non preoccupatevi per me: tanto a breve avrete un nuovo pargolo da accudire!”, berciò, sbattendole in faccia la porta, che sbarrò rapidamente con un cassone, sordo ai richiami adesso arrabbiati di sua madre.

“Momolo! Momolo! Apri questa porta! Ora!”, batteva irata la donna contro la porta, cui s’unì poco dopo anche Marco, il quale, seppur aprendo una breccia, non poteva ugualmente entrare a causa del pesante ostacolo postogli dal cassone.

“Apri la porta, peocio, o domani tu ed io faremo i conti! Ti faccio ingoiare i denti a furia di s-ciafoni!”, gli promise assai minaccioso il maggiore.

Momolo, seduto di spalle contro il cassone, aspettò di scorgere dalla fessura della porta il viso di Marco, per rifilargli una lunghissima linguaccia. “Andé a zogar a la lipa!”, e balzato sopra il mobile, spinse la porta che per poco gli troncava il braccio, tra colorite imprecazioni e il tredicenne sogghignò perfido sapendo quanto Marco si stesse trattenendo, primo per non scandalizzare Madre; secondo, per non dargli del figlio di puttana senza, in un colpo solo, vituperare la genitrice e se stesso.

Una magra consolazione: il tredicenne sapeva benissimo che l’indomani il fratello in qualche modo l’avrebbe agguantato e scorticato vivo a furia di sberle, secondo la pratica ludica preferita a Ca’ Miani, il pituffamento del Momolo.

Quella sera, però, il vincitore rimaneva lui giacché, tra ringhi e insulti, Marco dovette cedere e la casa sprofondò in un tesissimo silenzio.

Ignorando i crampi della fame, il ragazzino si cavò la bereta, il farsetto, gli stivaletti e le brache, gettandoli disordinatamente per terra. Dopodiché si buttò sopra il letto, affondando la faccia sul cuscino e stringendo tanto questi convulsamente quanto i suoi denti.

Quel pomeriggio, poco dopo il pranzo, Momolo aveva cercato sua Madre nel salone principale della villa, non avendola scorta da nessuna parte nel più fresco portico. Aveva avuto una brutta sensazione nel non trovarla al solito posto, sentimento esacerbato dal mutismo di Eudokia, che come sempre quando si trattava della sua padrona non sapeva e non vedeva mai niente.

Il tredicenne allora, appurato come anche quella stanza risultasse vuota, si era spostato alla volta della cucina per poi uscire dal retro e fu lì, dentro la serra, che li scovò, Madre col cestino colmo di limoni del Garda sottobraccio e il signor Alvixe Beltramin accanto a lei, che le parlava talmente fitto che le loro spalle si toccavano quasi.

“Madona Leonora”, il tono di voce dell’uomo suonava assai ansioso, incalzante, “oramai ci conosciamo … solo a voi posso dirlo francamente … Voi sapete della mia vedovanza, di come abbia amato moltissimo la mia povera moglie  … tuttavia”, si morse a disagio il labbro inferiore, incerto su come proseguire. “Che ne pensate?”, le domandò infine. “Credete in una seconda possibilità?”

Momolo si tramutò in pietra, manco più respirava. I suoi timori s’erano dunque avverati? Quel tanghero sul serio le stava chiedendo di … Il ragazzino allungò il collo, sperando di scorgere sul volto di Madre una qualsivoglia forma di rifiuto e fastidio per quelle avances. Al contrario, vi trovò un sorriso assai soddisfatto.

“Certo che sì, signor Alvixe. La vita è troppo breve per trascorrerla soli ed infelici. Inoltre, il vostro puttino avrà pur bisogno di una madre per crescere, no?”

“Sì, sì proprio così, m’avete cavato le parole di bocca!”, convenne energico l’uomo, afferrandole d’impeto la mano. “Grazie, grazie di cuore! Siete un angelo disceso dal cielo!” e gliela baciò gioioso.

Doveva agire! Assolutamente! Impedire ad ogni costo quelle nozze scellerate! Non voleva nessun patrigno, non voleva nessuno tranne Padre, nessun uomo gli avrebbe tolto Madre! Se soltanto non fosse stato un figlio ribelle e malvagio, se soltanto non avesse biasimato di continuo il genitore, forse Domine Iddio non l’avrebbe punito sottraendoglielo per sempre e addirittura infierendo con la prospettiva di dargli un secondo padre, un uomo che Momolo odiava con tutto se stesso.

Ma chi poteva aiutarlo? Chi?

Lucha? Carlo? Pah, figurarsi! Il primo, a Marostica e ignaro di tutto, avrebbe ugualmente dato ragione a Madre come aveva fatto Marco e il secondo se ne fregava di tutto e di tutti, tant’è vero ch’avrebbe campato fino a cent’anni! Crestina? Aveva da badare alla sua di famiglia, col Gasparo che cresceva veloce e irrequieto come ogni pargolo in salute, riempiendole le giornate. Il mite e benevolo prozio Hironimo detto “il Pizzocchero” ormai cantava alla presenza del Signore, quindi no. Il biscugino Thomaso? Nah, quello se ne stava sempre per i fatti suoi nel fontego. L’altro biscugino sier Zuan Francesco s’era tutto dedicato alla politica, candidandosi a questa o quella carica e di sicuro non avrebbe avuto tempo per starlo a badare … E comunque a Ca’ Miani comandava incontrastata Madre, ergo anche se il biscugino avesse voluto che avrebbe potuto rimproverarle senza venir prontamente zittito?

Il barba Batista! Come aveva potuto non pensarci prima? Non era soggetto alla dura lex del gineceo, tra i suoi zii era quello che più ci teneva a loro e vantava di una posizione di parentela abbastanza forte da poter ragionare con Madre da suo pari!

Balzando giù dal letto, Momolo corse al piccolo scrittoio, intingendo velocemente la punta della penna nell’inchiostro e tra mille sbrodoli e macchie scrisse in gran pressa:

Clarissimo e magnifico sior Barba. So che molti negozi vi tengono occupato a Veniexia e che gli affari dello Stato vengon sempre prima dei nostri. Tuttavia vi chiedo di porre attenzione anche al governo della vostra medesima famiglia, la quale senza la guida del mio sior Pare non si mantiene più onesta come prima. Mi duole informarvi come la mia siora Mare vostra sorela si comporta in maniera vergognosissima, accettando la presenza d’un altro uomo nella casa del mio sior Pare e non avendo né il Marchetto né gli altri miei fradeli alcuna volontà d’intervenire, vi supplico di provvedere acciocché codesto serpente tentatore nomato Alvixe Beltramin di Liberale venga allontanato dalla mia siora Mare vostra sorela. Di vostra signoria devotissimo servitore, Jer.mo Miani scrisse. Fanzuolo a dì …

Ora avrebbe dovuto trovare il modo di sgattaiolare e consegnare a chi di dovere la lettera, prima che Marco l’acciuffasse e a ceffoni gli conciasse in cuoio la pelle delle chiappe.

Ogni sua speranza di conservare Madre per sé ormai si trovava nelle mani di sier Batista Morexini.

 

Come da lui profetizzato, invero Momolo l’indomani si ritrovò catturato da suo fratello, entrato dalla finestra tramite una scala, e neanche il tempo di dirgli “Parlamento!” che il ragazzino si ritrovava a faccia ingiù sulle sue ginocchia a pigliarsi i giusti sculaccioni. Dopodiché il maggiore lo gettò di peso nella vasca a lavarsi, intanto che Orsolina scuotendo il capo toglieva le lenzuola sporche di fango secco, prefiggendosi una dura giornata di bucato.

Questo però soltanto dopo che il tredicenne aveva già inviato la sua preziosa missiva a Venezia.

Saggiamente, in attesa dello zio, Momolo optò per la tattica dell’invisibilità, ossia di starsene quieto e di comparire il meno possibile in casa, anche perché pervasa dal contagiante malumore di Marco.

All’inizio il giovinetto aveva pensato il suo maggiore avercela ancora con lui; più tardi, interrogando Orsolina, apprese che il motivo per cui suo fratello aveva un diavolo per capello corrispondeva alla sconfitta a Zonchio dell’ammiraglio sier Antonio Grimani da parte della flotta turca. Le loro basi commerciali, i loro affari in quella parte di Grecia … tutti compromessi! “Spero che quell’innominabile testa di cazzo coli a picco con la sua fottuta ammiraglia!”, avevano i ruggiti del diciottenne Miani scosso la villa dalle fondamenta, “Perché non appena mostra quel suo muso di merda a Veniexia, quant’è vero Iddio lo impicco con le sue stesse budella al Campanile di San Marco! s’era sfogato ben bene, per poi chiudersi per due giorni di seguito nello studiolo di Padre a scrivere numerose lettere a sier Antonio Trum, ai barba Miani e Morexini e altri suoi agenti a Veniexia, Candia, Cipro e perfino a Rodi per sperare che il danno della perdita di Lepanto e altri basi greche non avesse scalfito eccessivamente gli introiti totali della loro attività laniera. E mentre faceva questo, similmente a tutti i monelli di strada a Venezia e com'era anche dipinto sulle botteghe, sui muri e perfino sulla porta di Ca' Grimani, il giovane Miani ripeteva anch'egli l'oramai famoso ritornello: "Antonio Grimani / Ruinà de’ cristiani / Rebello de’ venitiani / Puòstu esser manzà da’ canni / Da’ canni, da’ cagnolli / Ti e toi fiulli!"

Tanto Marco era preso dalle vicende provenienti dal Levante, da ignorare completamente quelle dal Ponente e più nello specifico quelle nella sua medesima casa. Altrimenti, quel pomeriggio del 30 agosto non si sarebbe assentato, mancando d’un soffio l’arrivo del suo zio materno.

Avvertito da una perplessa Orsolina dell’inaspettata (per loro) presenza di sier Batista, Momolo scese veloce dalle scale, andando incontro al patrizio per salutarlo e condurlo al frutteto, là dove Madre stava valutando quali pere cogliere.

Il suo Barba doveva aver viaggiato di gran pressa, presentandosi scarmigliato e gli abiti pieni di polvere, il volto tirato da un’espressione talmente arcigna che il ragazzino si bloccò sull’ultimo gradino della scala, improvvisamente intimidito da quello sguardo di fuoco. Capì d’aver commesso un errore di giudizio: tanto era preso dal suo malessere, da aver ignorato ciò che accadeva fuori Fanzolo e non si riferiva solo alla perduta guerra di Zonchio, bensì del fallimento del banco dei Lipomano il 16 marzo scorso, una vergogna per l’intera Serenissima. Il 20 giugno, sier Batista, sier Christofal Moro e sier Stephano Contarini erano stati eletti nella commissione che avrebbe dovuto indagare sulla questione del fallimento della banca, fondata nel 1480 da sier Thomà Lipomano, assieme ai fratelli e cognati Alvixe, Andrea e Polo Capelo, poi liquidati. Quest’ultimi, ironia della sorte, erano previi cognati di sier Christophal e come lui, anche se ormai fuori dalla società, avevano dei risparmi, i Capelo tredicimila ducati e sier Moro quattromila. Se Lucha se l’era vista brutta a saldare in tempo il debito di cento ducati al protogero di Morea e così evitare la galera, a quale santo doveva appellarsi sier Hironimo Lipomano? La sua banca contava più di mille depositanti, tra cui settecento nobili, i quali v’avevano messo da parte le doti per le figlie, svanite ora nel nulla. Da mesi sier Batista aveva dovuto affrontare quell’ingarbugliata matassa finanziaria, respingendo e difendendosi dai creditori inferociti, i quali reclamavano a gran voce il sangue di tutti i Lipomano, perfino dei loro neonati. Non che contrattare con sier Hironimo, sier Bortolo e sier Vitor fosse più semplice, protestando questi come il dissesto del banco fosse dovuto ai troppi crediti accordati all’Erario statale, chiamando quindi indirettamente in causa la Signoria.  

Si preannunciava dunque un lungo braccio di ferro tra i tre commissario, il Consiglio dei Dieci, i creditori e i debitori e se sier Batista era sempre riuscito a dissimulare la sua frustrazione nelle visite al Paradiso o a Fanzolo, adesso, tra la sconfitta di sier Antonio Grimani e la lettera di suo nipote, l’ultima oncia della sua pazienza s’era esaurita e anche lui giungeva col coltello tra i denti.

“Schiavo vostro, patr- …”, provò a salutarlo, sennonché l’uomo in due falcate lo raggiunse e, afferratolo per il polso, lo costrinse a scendere giù. Trascinatolo sotto la luce delle finestre, gli sventolò sotto il naso la lettera spiegazzata dal pugno.

“Mi spieghi questa porcheria?”, ringhiò gutturalmente sier Batista, stringendo la presa tanto da strappare un piccolo guaito da parte del nipote, più per la sorpresa della reazione del parente che per il dolore vero e proprio. Non aveva minimamente immaginato poter lo zio reagire così: invece di mostrargli gratitudine, pareva offeso a morte dalla sua lettera. “Non ti vergogni a scrivere tali monade?!”

“Non è una jontonia, è la verità!”, pigolò Momolo, le gote tinte di rosso. “La mia siora Mare si vuole risposare!”, gli rivelò in un sol sorso, fissando l’uomo pieno d’aspettativa.

Il Morexini socchiuse sospettoso gli occhi. “Risposarsi? E con chi?”

“Il signor Alvixe Beltramin!”

“Hai delle prove? Ne hanno parlato apertamente?”

“Siorsì!”

“Dove e quando?”

“Nella serra, meno di una settimana fa.”

“Cosa facevano?”

“Chiacchieravano.”

“Soltanto?”

“Siorsì …”

“Di che cosa esattamente?”, e notando l’assenza di risposta da parte del nipote, l’incalzò: “Sei davvero sicuro che la tua siora Mare si voglia risposare?”

Momolo serrò la bocca, cercando freneticamente una scappatoia da quell’interrogatorio. Aveva coscientemente lasciato ambigui molti dettagli, onde pungolare l’orgoglio dello zio e invogliarlo a raggiungerli a Fanzolo. Evidentemente l’aveva giudicato male, credendolo più impulsivo di quanto in realtà non fosse. Le serrate domande e contro-domande cui lo stava sottoponendo non avevano nulla da invidiare ad un consigliere dei Dieci, tradendo la sua intima diffidenza.

Il ragazzino non aveva totalmente errato i suoi calcoli, glielo si conceda: fosse accaduta tal vicenda trent’anni addietro, forse-forse il “da Lisbona” avrebbe reagito con maggior impetuosità e scatenato un buferone. Gli anni, l’esercizio della mercatura e la sottile ambizione d’inserirsi bene in politica e farvi carriera avevano aiutato sier Batista a stemperare l’irruenza giovanile tramite l’assidua pratica della virtù cardinale della prudenza, ponderando ogni volta i pro e i contro prima d’agire e di parlare. A onor del vero s’era dapprincipio sdegnato nel leggere di tali indecenze in seno alla sua famiglia; dopodiché, a mente fredda, il patrizio aveva considerato l’età del mittente, ossia un giovinetto di tredici anni che sicuramente aveva peccato d’impulsiva drammaticità. Gli avessero inviato o Lucha o Carlo tale missiva, ancora Batista si sarebbe preoccupato: invece, essendo stato Momolo, dubitava della veridicità di tale faccenda, non nel senso che non gli credesse, ma più che altro che avesse esagerato nei dettagli, distorcendo la realtà.

E di questo il Morexini era venuto ad accertarsi.

“Perché non mi rispondi?”, indietreggiò l’uomo di un passo, squadrando accigliato il nipote da capo a piedi. “Perché sei così nervoso?”

“Perché mi ponete tutte queste domande?”, replicò di rimando Momolo, il quale sul serio però si stava innervosendo dinanzi a quell’occhiata inflessibile e indagatrice.

“Non hai forse richiesto il mio intervento? Come posso agire, se non conosco approfonditamente l’intera faccenda?”

“Tutto quel che c’è da sapere, lo trovate scritto in quella lettera!  Che volete che aggiunga? La mia siora Mare ha il ganzo!”

Sier Batista alzò il mento e il tredicenne abbassò il suo. “Tu menti per la gola”, sentenziò infine il patrizio dopo un lungo silenzio.

“No!”, gridò il giovinetto, scattando in avanti come se volesse afferrare il parente per la vesta, ma trattenendosi all’ultimo momento. “No, no, no, sior Barba, vi giuro su quel che volete, che vi sto dicendo la verità! La mia siora Mare si vuole maritare!”

“Deciditi, Momolo: ha il ganzo o si vuole maritare? Qui mi hai scritto, che mia sorella conduce un disonesto commerzio con questo Beltramin! Ora però mi dici che lo vuole sposare. A quale delle due versioni debbo credere?” Certamente uno poteva prima fornicare e poi sposarsi, però sier Bastita percepiva quella persistente nota di contraddizione che non lo convinceva. Se davvero la sua sorellastra si fosse data a gioie disoneste con un altro uomo, anche se da vedova, difficilmente i suoi nipoti Lucha, Carlo e Marco sarebbero rimasti a guardare silenti e inattivi, sicuramente qualche provvedimento avrebbero preso onde troncare quella disdicevole relazione.

“Momolo”, l’avvertì spazientito l’avunculo, “per l’ultima volta, dimmi come stanno veramente le cose! Varda che sun stuffo!”, l’apostrofò severo il patrizio. “Se t’ostini nel tuo silenzio, non ti potrò né credere né aiutare!”

“Aiutarlo? E in che cosa?”, s’intromise madona Leonora, rincasando assieme ad Eudokia. Ignorando l’irrigidimento del figlio e del fratellastro, la nobildonna cedette alla fantesca la sua cesta di pere, inviandola in cucina, mentre lei rimase lì nella sala principale. “Titta caro, ma che sorpresa! Quando siete arrivato? Non v’aspettavo, altrimenti vi avrei preparato una piccola refezione”, gli andò incontro sorridente, intanto che si levava il pesante paneselo nero, rimanendo solo con la scuffia d’altrettanto colore.

“Da poco”, replicò a denti stretti sier Batista, gelando la sua sorellastra che si bloccò, riconoscendo nel viso solitamente amabile dell’uomo un’espressione assai dura e contrariata. “Per rispondere alla vostra prossima domanda - perché sono qui -  leggete prima questa lettera e poi abbiate la cortesia di spiegarmi codesta novità”, l’esortò perentorio Batista a prendere la missiva che le stava porgendo.

Momolo trattenne il fiato, avvertendo il cuore sprofondargli in pancia.

Confusa, madona Leonora afferrò la lettera e ne lesse rapidamente i contenuti, sbiancando peggio d’un panno appena lavato. Levò incredula gli occhi verso il figlio, la bocca schiusa e il labbro inferiore tremante; rilesse e di nuovo fissò smarrita il fratellastro, scuotendo inconsciamente il capo in diniego.

“Giusto adesso ho appreso, come fra poco dovrò chiamare vossioria madona Leonora Morexini Beltramin!”

Come punta da una vespa, la patrizia si risvegliò, accartocciando la lettera nel pugno. “Che asinerie andate blaterando? Io? Maritarmi con Bel-tra-min?” e pronunciò il nome del gentiluomo come se l’avesse sentito per la prima volta in vita sua, sconcertata da tal assurdità.

“Donca per dasseno intrattenete un disonesto negozio con quest’uomo!”, concluse sardonico il “da Lisbona”, girandosi brevemente verso il suo ammutolito nipote.

“Rivolgetevi ancora a me con questo tono e – fratello o non – vi faccio sbattere fuori di casa mia a cialz en cul!”, s’inalberò immediatamente la nobildonna, visibilmente offesa da quell’insinuazione. “Il mio cuore di donna l’ho seppellito tre anni fa nell’arca di Anzolo! Mai e poi mai accetterei un secondo matrimonio! Mi fate torto, missier, voi e il vostro dubitare! Come potete pensare che io … che io …”, s’impappinò, non riuscendo più ad articolare i suoi pensieri a causa dell’indignazione.

“A me lo chiedete? Domandatelo a vostro figlio! Domandategli perché scrive tali barbarità! Domandategli perché ha preferito sbottonarsi col suo barba e non coi suoi fratelli maggiori, men che meno con sua madre!”, esclamò aspro Batista e indicò bruscamente un impietrito Momolo, che abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello incredulo e deluso di Madre. “Sangue di Cristo, che qualcuno mi spieghi una volta per tutte quest’intrigo, poiché io per primo fino a ieri non ne sapevo niente! Anzi! Me ne stavo a casa mia, a districarmi in quel … bordello ch’è il fu banco dei Lipomano, quand’ecco che m’arriva questa lettera dove mi s’invoca aiuto, spiegandomi come mia sorella si comporti da mamola (donnaccia, ndr.)!

“Mi sono recato prima a Cha’ Miani dal Carlino a domandargli cosa significasse questa storia del ganzo. Sapete che cosa m’ha risposto? Che son matto; che avevo preso troppe legnate in testa! Mi ha quasi mangiato vivo, gridandomi come la loro siora Mare non faccia di queste sporcarie, che non era a conoscenza di alcuna tresca tra voi e codesto signor Alvixe. Avanti! Ditemi a chi debbo credere!”, sbottò frustrato il patrizio, pigliando il nipote per il gomito e costringendolo seduto sulla cassapanca foderata di cuoio. Accomodatosi anch’egli, batté sull’imbottitura del sedile acciocché la sorellastra lo imitasse alla svelta. “Cul del cancaro, visto che m’avete trascinato in questo casino, ora esigo di conoscere tutta la storia, dall’inizio fino alla fine!”, esclamò sbuffando e appoggiando ambedue le mani sulle ginocchia leggermente divaricate, si sporse in avanti onde meglio ascoltar la tanto sospirata delucidazione.

“Non v’è niente da spiegare: il signor Alvixe Beltramin è un nostro vicino, il cui unico crimine, a quanto pare, fu di venire qui a tenerci un poco di compagnia.”

“E secondo voi, lo reputate un comportamento saggio e confacente ad una nobildonna della vostra sorte? Vi pare onesto avere un estraneo alla famiglia gironzolare in casa?”

“E secondo voi, io accetto lezioni di morale da uno che fa beca (cornuta, ndr.) la soa mojer dalla mattina alla sera?”

“Io sono un uomo; voi siete una donna e come tale dovete comportarvi con decoro!”

“Voi siete marito e padre e il decoro, Titta carissimo, manco sapete dove stia di casa!”

I due Morexini si fissarono in cagnesco, ognuno sfidando l’altro a proseguire nelle proprie moralistiche invettive.

Batista si morse l’interno della guancia, congiungendo stizzito le mani sul grembo. Leonora aveva stretto talmente le labbra, che pareva volersele ingoiare e dal luccichio dei suoi occhi, Momolo intuì come si stesse trattenendo da un pianto rabbioso.

Fu il patrizio a rompere per primo il silenzio, allargando le braccia tra il conciliante e l’aggressivo. “Ma alla fine, de diana, che diavolo veniva a fare questo gentiluomo in casa vostra?”

“A chiacchierare un poco … E’ vedovo e solo con un bambino ancora in fasce …”

“Puoah, affari suoi … Certo che a voi, sorella, i vedovi piacciono assai … ”, commentò malizioso Batista, beccandosi un’occhiataccia fustigatrice da parte della patrizia che proseguì imperterrita:

“Veniva a chiedermi consiglio.”

“A voi?”

“A me!”

“E qual consiglio poteva offrigli la dottoressa, qua?”, inquisì beffardo il “da Lisbona”.

“La fiozza (figlioccia, ndr.) del signor Pellizzari, no la cognosseu?”, replicò a tono Leonora, arcuando il sopracciglio.

“Vagamente …”, rispose incolore il suo fratellastro, aggrottando la fronte e incominciando a capire dove la sorellastra stesse andando a parare. Si ricordava di quel passerotto di fanciulla, timida e discreta e sempre nascosta dietro la madre. Una biondina molto graziosa dalla pelle di latte e rosa.

“Il signor Alvixe la vorrebbe in moglie e poiché sono amica della madre della puta, egli mi domandava: primo, d’intercedere presso di lei; secondo, se non fosse troppo presto per risposarsi. Se dubitate delle mie parole, prego, recatevi dalla siora Marta e domandatele conferma!”, lo sfidò la nobildonna a verificare di persona la sua giustificazione, indicandogli tramite un ampio gesto del braccio la porta da dove uscire. "Su, andate controllare, Missier Grando, chiedete a tutta Fanzuolo e Castel Francho, a chi vi pare! Dopodiché, m’auguro si possa chiudere per sempre quest’assurda vicenda!"

Fu comico osservare le diverse reazioni di zio e nipote dinanzi a quella rivelazione: il primo si rilassò immediatamente, neanche gli avessero levato un grande macigno dal petto e anzi, ridacchiò pure nervosamente, appoggiando la schiena sui cuscini appoggiati al muro sopra la cassapanca. Il secondo parve invece essere schiacciato da essa, afflosciandosi quasi su se stesso.

“Tuttavia”, puntualizzò Batista, “avreste forse fatto meglio a chiarirvi prima col vostro puto. Poareto, non ha capito niente, anzi, s’è preso un brutto spavento e questo soltanto perché vi vuole molto bene. Nevvero, Momolo?”, gli accarezzò il capo senza voltarsi né accorgersi di come il nipote avesse sussultato, sconvolto.

Stavolta fu madona Leonora ad abbassare il capo, ammettendo il suo errore in quel frangente. Il suo fratellastro aveva ragione: avrebbe forse dovuto spiegare meglio la situazione a suo figlio, onde evitare quel malinteso. Ciononostante, non capiva come mai quell’ansietà da parte sua, aveva sempre pensato d’esser stata assai palese circa la sua contrarietà ad eventuali seconde nozze.

Proprio in quel momento rincasava Marco che, raggiungendo il gruppetto onde salutare il nuovo arrivato, s’imbatté nel curioso spettacolo del suo Barba un poco imbarazzato, di sua madre costernata e del suo fratellino sull’orlo delle lacrime.

“Dime, caro ti”, partì immediatamente il patrizio all’attacco. “Tu ovviamente non ne sapevi niente, vero?”

“Sora che?”, sbatté il diciottenne confuso le ciglia.

“Mah, che la tua siora Mare vuol sposarsi il signor Alvixe!”

“Titta!”

“Eh?”, mutò d’un colpo l’espressione di Marco da disorientata a furiosa, girandosi di scatto verso Momolo, il quale ormai vagava nel suo mondo, insensibile ad ogni contatto esterno, tramortito.

“An!”, schioccò trionfante Bastita la lingua, puntando contro l’indice al ragazzo. “Ecco qua il complice. Vedete, Leonetta? Questi due”, e accennò col capo a Marco e Momolo, “stanno attaccati l’un l’altro come Juda ai suoi trenta danari. Ma tu guarda”, asserì severo, scuotendo il capo, “se mi tocca giocare al re Salomon per cavarvi di bocca la verità!”

“Marchetto, per dasseno sapevi tutto?”, l’interpellò mesta sua madre, costringendo il giovane ad abbassare contrito il capo.

“Purtroppo”, ammise, per poi scoccare l’ennesima occhiataccia al fratellino. “Ma non fino a questo punto! Sì, siora Mare e sior Barba, Momolo s’era confidato con me, però subito ho tentato di dissuaderlo dal perseguire questa sua asineria! Non è colpa né mia né della mia siora Mare, se questo disgraziato non ascolta mai i suoi maggiori e agisce sempre di testa sua!”

 “Figlio mio, potevi però avvertirmi.”

Le orecchie di Marco avvamparono, ammansendosi il suo tono di voce. “E ripetervi le … le turpi schifezze che m’ha confessato? Sarà ancora un piccoletto, ma possiede una mente più sporca d’un marinaio! On marso malignasso!”

Madona Leonora aprì la bocca per replicare in difesa dell’ultimogenito, sennonché Bastita, captando un’aria piuttosto tesa e volendo evitare altri inutili discussioni, s’intromise onde appacificare gli animi.

“Mo’ via, mo’ via! Pace e non parliamone più. S’è trattato di un semplice malinteso; noialtri ci siamo chiariti come gente civile e la questione, per me, è bella che chiusa. Non vi trovate d’accordo?” e squadrò uno ad uno il volto dei suoi interlocutori, i quali convennero a malincuore.

“Sior Barba, vi fermereste a cena?”, lo invitò impacciato Marco dopo un lungo silenzio.

“Vorrei ben vedere! Ho una gran fame, neanche ho pranzato!”, esclamò ilare, alzandosi dalla cassapanca foderata e seguendo il giovane verso l’altra sala.

“Vi faccio anche preparare un bagno e una stanza.”

“Buon’idea: il mio povero cavallo ancora ha da riprendersi e d’altronde mai fidarsi di viaggiare di notte. Ripartirò domani mattina, se non v’incomoda.”

“No, no, è il minimo che possiamo fare per scusarci …”

Madona Leonora, invece, era partita alla rincorsa di Momolo che, appurando la perdita perfino del sostegno e considerazione dello zio, era zompato via in camera sua alla stregua di una lepre.

Ripigliatosi dall’intontimento ricevuto da quell’inaspettata batosta, il giovinetto era passato dall’incredulità alla vergogna ad infine alla collera più nera. Si trattava di un inganno, ne era certo, un teatrino architettato ad arte da Madre e il suo ganzo onde ingannare suo zio. La figlioccia del Pellizzari … figurarsi! Momolo non sarà stato un grande appassionato di poesia, però la figura della donna schermo se la ricordava bene ed ecco che di nuovo s’era ritrovato da solo nella sua lotta e stavolta sul serio senza alcun alleato.

E se ne avesse parlato col prete?

“Momolo”, gli giunse la voce di Madre alle sue spalle, interrompendo il suo esagitato andirivieni per la stanza. Subito il ragazzino si sedette sul letto, le spalle rigide sulla difensiva.

Madona Leonora chiuse la porta, avanzando verso il suo ultimogenito, il cuore inquieto dinanzi all’espressione furibonda in quelle giovani iridi nerissime: in nessuno ella vi aveva scorto tal rancore, neppure in Anzolo nelle sue crisi peggiori. Per un istante, per un folle istante, le parvero gli occhi di una creatura infernale più d’un essere umano.

“Momolo”, gli disse dolcemente, sedendosi accanto a lui. Il ragazzino si scostò bruscamente, voltando il capo in direzione opposta. Madre sospirò. “Momolo, non sono arrabbiata. Però, dopo quanto successo questo pomeriggio, hai ora l’obbligo di dirmi perché ti sei comportato così. Perché non ti sei confidato?” e ostinandosi il figlio nel suo mutismo, proseguì: “Ci siamo sempre raccontati tutto … Sai bene che non ti giudico …”, provò ad accarezzargli i capelli, sennonché il tredicenne si sottrasse al suo tocco. “Momolo …”

L’interpellato in questione serrò i muscoli della guancia, incrociando le braccia al petto, irremovibile.

“Amore mio, non t’angustiare: non mi risposerò. Men che meno col signor Alvixe, che, come ora ben sai, veniva qui allo scopo di conoscere meglio quella ragazza.”

“Le solite scuse”, ribatté infine Momolo, strisciando dall’astio le parole. “Non appena il sior Barba rientrerà a Veniexia, torneremo daccapo!”

Sua madre scosse il capo. “Ma no …”

“Ma sì, invece! Mica sono scemo! Sempre lì a sminuirmi, quando invece giudico le cose per quel che sono! E non rifilatemi il solito stornello Ora sei giovane e non capisci, perché al contrario ho ben capito, come anche gli adulti sappiano essere più stupidi e ingenui dei bambini!”

“Per questo motivo hai scritto al tuo Barba? Perché mi credevi stupida ed ingenua?”

“Speravo facesse qualcosa. Qualsiasi cosa”, bofonchiò impacciato l’adolescente, gonfiando le guance. “Ed ecco che si rivela più mona della mona.”

“Momolo! Porta rispetto al tuo sior Barba!”, lo rimproverò la nobildonna, scontenta da quel turpiloquio che proprio non riusciva a sradicare dal figlio. “Cosa t’auguravi che facesse? Non ha potuto risolvere niente, perché non c’è mai stato niente da risolvere! Tesoro …”, si portò ella più presso al ragazzino. “Il tuo Tata era la mia vita, anche se ogni tanto ci vedevi litigare e gli tenevo il broncio, l’ho amato dalla prima volta fino all’ultima in cui l’ho visto … Neanche obbligandomi, neanche se Missier il Doxe o il domino Patriarcha me lo comandassero riuscirei mai a sopportare un secondo matrimonio … Dio m’ha dato il tuo Tata; Dio me l’ha tolto. Dio me lo restituirà nell’ora della mia morte.”

Un feroce groppo in gola strangolò Momolo, che si morse feroce il labbro inferiore. “Non bestemmiate il nome di Padre né di Dio!”, gracchiò, battendo i pugni sul materasso. “Come potete … come potete …?”

“Come hai tu potuto accusare un uomo senza prove concrete?”, gli chiese di rimando sua madre. “Scrivere tali accuse al tuo Barba! Hai mai pensato a cosa sarebbe potuto accadere, se qualcun altro avesse letto la tua lettera? Per gelosia avresti rovinato la vita ad uomo innocente!”

“Ecco, sempre a difendere Sant’Alvixe Beltramin, confalonier (patrono, ndr.) dei maridi bechi et di le védoe allegre!”, ridacchiò sarcastico il tredicenne e pieno di tal malignità, da frustrare un poco la nobildonna. Il suo figliolo avrà pur ereditato l’aspetto dei Morexini, ma in quanto a testardaggine era tutto Miani …

“Mi deludi, sai? Non ti facevo così maligno e rancoroso”, gli confidò infine, alzandosi dal letto. Un qualcosa si ruppe nel cervello di Momolo a quelle parole, sconvolgendogli la ragione  e letteralmente vide rosso, il suo cuore incapace di sopportare anche quel tradimento. Dell’opinione altrui se ne fregava, ma quella di Madre gli era vitale. Se dunque anch’ella lo disprezzava … “Se lo sapesse il tuo sior Pare …”

“Ancora avete la faccia tosta di nominarlo?”, berciò all’improvviso Momolo, interrompendola furioso. Balzò giù dal letto e raggiunta sua madre le impedì di lasciare la stanza, anzi, le afferrò di malagrazia il polso e la costrinse a voltarsi. “Se lo sapesse il mio sior Pare, si rivolterebbe nella tomba nello scoprire che razza di troia s’è preso in casa!”

Il ragazzino scorse appena il lampo d’ira negli occhi della madre, avvertendo immediatamente un poderoso ceffone sulla bocca, il primo in tutta la sua vita da parte della genitrice. Sconvolto, si portò la mano là dove gli pulsava un taglio aperto, scoprendo piccole gote di sangue sui polpastrelli: ironia della sorte, Madre lo aveva schiaffeggiato con la mano recante proprio l’anello di Padre, dal quale non si separava mai.

Per un arco indefinito di tempo i due si fissarono in silenzio assoluto, Madona Leonora con un’espressione inflessibile da Christus Judex e Momolo come un’anima prava in attesa del giudizio. Entrambi, curiosamente, volevano in realtà parlare sennonché l’orgoglio, la paura, lo sdegno, il dolore e la vergogna glielo impedivano.

“Gnanca presentate a tola.”

“Gnanca vojo sofrir di la vuostra cumpagnia.”

Si dissero il contrario di ciò che in realtà premeva nei loro cuori, ossia l’impellente necessità di perdono e conciliazione.

Il tredicenne represse il naturale istinto di correre dalla madre e di abbracciarle le ginocchia, supplicandola di perdonarlo e di confessarle in lacrime la sua intima paura di perderla, di rimanere solo ad affrontare quel pazzo mondo assassino. Voleva confidarle del vuoto lasciatogli da Padre, della sua ira contro quell’ingiustizia divina, della sua invidia verso i suoi cugini benedetti da ogni fortuna, specie quella di avere un padre che li guidava mentre di lui nessuno si curava e ciononostante avevano l’ardire di criticarlo ugualmente, come se fosse facile crescere da soli. Voleva dirle che l’ama tantissimo, più della sua vita, che lei era l’unica persona in cui nutriva una fiducia assoluta, l’unica che non l’avrebbe mai ingannato né abbandonato. Il suo scudo, la sua aria, il medesimo sangue che gli scorreva nelle vene.

Voleva solo proteggerla per proteggersi.

Momolin, quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del bene, purtroppo finiamo per ferire le persone che amiamo.

Tacque invece, l’orgoglio troppo grande, la voce della sua vanità che gli sussurrava quanto lui fosse nel giusto, mentre la colpa stava in Madre, l’artefice di quell’incresciosa situazione.

Mi sun parfeto.

Madre e figlio si separavano e Momolo si domandò se forse, quel lontano 18 agosto 1496, non sarebbe stato meglio se avessero trovato impiccato lui a Rialto al posto di Padre.

 

***

 

 

Madre, in cuor suo, l’aveva ovviamente già perdonato malgrado Hironimo non le avesse mai chiesto esplicitamente scusa. L’aveva riaccolto a braccia aperte, senza mai rinfacciargli nulla e ciò l’aveva doppiamente ferito perché ormai sapeva d’aver varcato una linea da cui era impossibile ritornare indietro. La loro perfetta sintonia era stata irrimediabilmente contaminata da dubbi e paure ed egli non si sentiva più in diritto di godere di quell’amore così intenso, né di reclamarlo esclusivamente per se stesso.

Sicché cercò attivamente altrove.   

Nei giorni e negli anni che seguirono, Hironimo in apparenza si comportò da figlio modello, adoprandosi nella difficile arte della doppia vita – un volto per la genitrice, uno per i suoi amici e conoscenti. Pur spiritualmente attaccatissimo alla genitrice, fece di tutto per staccarsi dai suoi dolci legami, vertendo ogni suo sforzo a dimostrare al mondo come egli non fosse uno smidollato mammone. Agli altri questo suo cambiamento piacque assai, finalmente si comportava normalmente, era uno di loro, conforme alla società. Poco importava se la sua vita stesse gradualmente divenendo sempre più sterile.  Si trasformò consciamente in una barca danzante alla deriva dei flutti, lasciandosi guidare da questa o quella moda, dall’ambizione, seguendo i suoi capricci e i suoi istinti ma mai la voce della ragione ch’era sua Madre, la quale, pur rispettandola, gli divenne cadaun giorno sempre più fastidiosa e insopportabile.

“Momolo, sii attento. Momolo, sii prudente”, gli ripeteva Madre ogniqualvolta usciva “a cena” cogli amici. Sapeva che suo figlio non era cattivo e si sforzava nella titanica impresa di tenerlo sulla buona via, di non perdere quell’antico legame d’amore e fiducia.

“Sì, sì, non vi preoccupate. Non son più un bambino!”

Se madona Leonora avesse mai sospettato della verità, il giovane Miani se lo seppe lo relegò nel dimenticatoio, giustificando le sue come le ennesime chimere della sua coscienza sporca e costì tirando dritto per la sua strada. Un giorno si sarebbe comportato meglio, un giorno avrebbe fatto ammenda … un giorno forse, quello del mai …

Ignorava che così facendo, non onorava per niente Madre e il tenerla all’oscuro delle sue baronate, non rendevano le sue colpe meno lievi.

Ella mi ha educato soffrendo tante volte per me i dolori del parto quante mi vide allontanarmi da voi, o Dio. [1b]

Hironimo ciononostante non s’azzardò mai più d’ingiuriarla, d’urlarle dietro, né di disobbedirle o contraddirla. La sua espiazione corrispose alla consapevolezza, che lui aveva e tuttora stava mancando di rispetto alla sola persona in tutta Venezia che lo amava incondizionatamente, senza aspettarsi nulla in cambio e che non lo frequentava per doppi fini. Madre desiderava solamente che fosse un bravo figlio e cittadino per giovare se stesso e la sua anima, non per compiacerla. Già lo amava per ciò che era, anche se poca cosa a detta di Hironimo, non necessitava che lui le dimostrasse alcunché o che si contendesse il suo amore ai fratelli.

Per questo motivo, col senno di poi, Hironimo comprese perché aveva perduto la ragione alla prospettiva di perdere Madre: dopo la morte di Padre, s’era sentito perduto, solo al mondo e indifeso. Ogni certezza gli era crollata, la vita non gli appariva più alla stregua di un'avventura, bensì un mostro divoratore ingiusto, crudele, ipocrita. Improvvisamente, Hironimo s’era sentito vulnerabile ad ogni cosa, costantemente in pericolo, solo Madre gli infondeva sicurezza, conforto e amore. Come gli aveva detto la genitrice, la solitudine non è soltanto un male del corpo ma anche dell’anima, la quale si accartoccia su se stessa, impazzendo dalla disperazione.

Cos’avrebbe fatto Hironimo senza Madre? Niente. Il resto della famiglia l’avrebbe sopportato, sobbarcandosi di lui più per dovere che per amore, i propri pargoli più importanti di lui. Sarebbe finito come Thomà, se non di peggio, con la testa sul ceppo come Gasparo Valier.

Come aveva ringraziato la fortuna d’aver avuto l’amore di Madre? Insultandola, tormentandola con la sua disobbedienza, arroganza, testardaggine.

Aveva sputato sul dono offertogli, l’ingrato. L’ennesimo sgarbo a Dio che gli aveva generosamente offerto una madre amorevole e attenta. Thomà avrebbe costruito ponti d’oro per riavere indietro la sua mamma e Hironimo s’era congedato da lei senza neppure esaudire il desiderio ultimo di madona Leonora prima della sua partenza a Castelnuovo di Quero, ovvero che si riappacificasse coi suoi fratelli, almeno per amor suo. Per farla contenta. Per non condannarla all’angoscia di sapere i propri figli morti odiandosi l’un l’altro, com'era accaduto coi suoi fratelli sier Batista e sier Hironimo, deceduto quest'ultimo sei anni addietro "in lite et in grandissimo odio" nei confronti del minore.

Da lei aveva preteso senza offrirle di concreto nulla in cambio. Era partito con le migliori intenzioni – di proteggerla al posto di Padre – per poi divenire un parassita che si nutriva  e basta del suo amore.

Se uscirò vivo da qui, si ripromise solennemente Hironimo, cercando d’appoggiarsi più comodamente sul muro umido e sporco della stalla. Non avrebbe più commesso lo stesso errore con Padre, non sarebbe morto senza scusarsi con Madre e confessarle quanto l'amasse. Se la scampo giuro che le chiederò perdono. Andrò a Veniexia, da mia Madre, e in ginocchio la supplicherò di perdonarmi per ogni mia mancanza nei suoi confronti e da quel giorno, finché avrò vita, non farò mai nulla che le possa recare dispiacere.

Questo si ripeté e ripeté senza sosta fino alle prime luci dell’alba e per la prima volta in quindici anni sperò, sperò con ogni fibra del suo essere in una seconda possibilità, sul serio in una seconda possibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Come sempre, non sapendo un bel niente dell’infanzia del Nostro, le maggior parte dei fatti di quest’episodio sono romanzati (così come alcuni personaggi quali Alvise Beltramin), tranne i cenni storici di contorno (la guerra veneto-turca e la seconda calata dei francesi) e le vicende di Orsatto Morosini. Anche l’episodio del debito di Luca Miani è riportato dal Sanudo, pure quest’ultimo protagonista di quella poco chiara faccenda.

Riguardo al nome della moglie di Orsatto, purtroppo non ci è stato possibile reperire il nome. Tuttavia, poiché sua sorella minore era stata chiamata Elisabetta in onore della nonna materna, la (de iure mai de facto) dogaressa Elisabetta Soranzo Barbarigo, non si può escludere che la sorella maggiore fosse stata chiamata Pellegrina, in onore della nonna paterna, Pellegrina Zorzi Nani. Pertanto, ci siamo presi questa licenza di così nomarla.

Colgo l’occasione per ringraziare Semperinfelix per il suo sostegno e Sagitta72 per avermi in particolare aiutata nella stesura dell’ultima parte – grazie mille! ^^

Il prossimo capitolo verterà ancora sull’esame di coscienza del Nostro: come accennato nel precedente capitolo, abbiamo raggiunto metà storia e ci addentreremo poi verso la seconda e ultima parte.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Santa Monica = 26 agosto. Madre di Sant’Agostino Dottore della Chiesa (celebrato il giorno dopo, 27 agosto), giocò un ruolo importantissimo nella sua conversione al cristianesimo. Il Santo ammise in più occasioni come non fosse stato un figlio esemplare, riempiendola spesso di preoccupazioni. Un parallelo davvero affascinante col Nostro, specie il suo rapporto con la madre. La citazione [1b] nel capitolo è infatti dello stesso Santo.

[2] grisole (o grisiole) = Graticci o graticciuole (arelle di valle) formate di canne verticali.

[3] ambracane = antico nome dell’ambra grigia, da cui si produceva l’omonimo profumo.

[4] pizzuolo = la cabina del comandante in galea.

[5] gioco di parole, tra “madonna” intesa come “suocera” e la Madonna. Da questo motto, si può dunque intuire l’opinione dei generi verso le loro suocere e dove le preferiscono.

[6] San Nicola = 6 dicembre. Un famoso episodio della vita di San Nicola narra di come l’allora giovane santo, saputo di come un padre avrebbe prostituito le sue figlie senza dote, di notte lanciò dalla finestra dei sacchi piene di monete così da risparmiarle a quel triste destino. Da allora era tradizione lasciare il 6 dicembre soldi o dolciumi o piccoli presenti, specie per i bambini.

[7] brazzoler = il metro/stecca per misure la stoffa.

[8] un gran bel senato = il motto completo è “Quela signora ga un gran senato!” Quella signora ha un gran petto, dei seni prepotenti. Gioco di parole tra “seno” e “senato”. "Culàta", invece, è riferito alla natica, ma è anche il nomignolo dato all'estrema poppa di galee e galeazze, il cui fasciame si richiudeva in due parti quasi semisferiche tra le quali ruotava il timone. "Parer el galo de dona checa" si dice ad un uomo che non solo si innamora facilmente, ma che non va tanto per il sottile nella scelta della donna.

[9] protogero = il capo più anziano della comunità greca.

[10] anche questa è una descrizione “intuitiva” di Villa Paradiso (oggi nota come Villa Bolasco) poiché non si sa come fosse stata prima della demolizione e ricostruzione nel 1509 e poi della significativa ristrutturazione del 1607, che lo trasformò in un vero e proprio palazzo signorile senza però intaccare la struttura originaria del 1509.

[11] questa chiesa è stata abbattuta nel XVIII secolo per costruire l’attuale Duomo. Qui si trovava l’originaria Cappella Costanzo, dove l’omonima famiglia nel 1503 collocherà la celebre Pala commissionata da Tuzio Costanzo al Giorgione in occasione della morte del figlio Matteo a Ravenna.

[12] San Michiel cum la bassacuna = San Michele con la bilancia. Secondo un’iconografia molto diffusa, l’Arcangelo Michele veniva raffigurato nel Giudizio Universale con spada e la bilancia, misurando le anime e smistandole poi dove di dovere. Riprende molto l’iconografia egiziana della pesatura del cuore da parte del dio Anubi al cospetto di Osiride.

 

  
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