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Autore: Ser Balzo    11/10/2020    1 recensioni
Ti hanno detto che la guerra è arte, e che Clove e Dan non potrebbero essere più diversi.
Ti hanno fatto vedere che occorre esercizio, pazienza e una certa dose di estro poetico, e che quella sadica assassina e quello stupido mandriano non sono altro che due patetiche pedine, due profili su una parete scalcinata, miserabili vittime di un gioco ben più grande di loro.
Ti hanno insegnato tutto questo e tu hai imparato. E hai fatto bene.
Fino ad oggi.
Perché i Settantaquattresimi Hunger Games hanno spazzato via tutto, e ora niente ha più importanza. E chiunque tu sia, se un umile pedone, un coraggioso cavallo, un disciplinato alfiere o un'implacabile regina… sai già cosa accadrà, quando ti ritroverai tra il fango e le bombe, a pregare qualunque cosa perché ti rimetta gli intestini nella pancia e ti conceda finalmente l'oblio.
Ora guarda quei due ragazzi, quelle due anime inseguite da eserciti di ombre, braccate da legioni di demoni, e chiediti: qual è la prima regola dell’arte della guerra, la più importante?
Vincere?
Quasi.
Vincere è fondamentale, ma non essenziale.
Dovresti saperlo: prima della regola uno viene la regola zero.
Resta vivo.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clove, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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21.
Un mostro chiamato destino
 
No one knows where the ladder goes
You’re gonna lose what you love the most
You're not alone in anything
You're not unique in dying

- Lorde, The Ladder Song





La sentinella che aveva quasi rischiato di ucciderla teneva lo sguardo piantato a terra mentre la conduceva verso l’edificio dove si era acquartierato il generale Paylor, comandante in capo della Quinta Armata ribelle. Katniss conosceva il viso della donna, avendolo visto molte volte nei video di propaganda del Distretto Tredici, ma non l’aveva mai incontrata di persona. Era piuttosto sicura che avrebbe ascoltato quello che aveva da dire; ma che ci avrebbe poi creduto, sarebbe stata tutta un’altra questione.
«Katniss – cioè Miss Everdeen» balbettò la sentinella, che ancora non riusciva a sollevare gli occhi dalle sue scarpe. «Io non so come—»
«Tranquillo» rispose lei, per la terza volta. «Non è stata colpa tua. Non sono abituata a fare rumore.»
Il proiettile le era passato a qualche centimetro dall’orecchio sinistro. Il fischio era quasi sparito, ma non se n’era ancora andato. Per fortuna Johanna non era nel pieno delle sue forze, pensò. Altrimenti lo avrebbe fatto a pezzi a mani nude.
Percorrevano quella che un tempo avrebbe dovuto essere una strada, ma che ormai era talmente ricoperta di erbacce e detriti da lasciar intravedere l’asfalto solo in qualche punto – piccole macchie crepate che testimoniavano di un tempo remoto in cui quella che ora era solo una serie di rovine nascoste da felci e rampicanti doveva essere stata una vera e propria città.
Katniss provò ad immaginare un mondo disseminato di tante Capitol City, una nazione costituita da una moltitudine di palazzi, ponti e grandi viali. Il pensiero le fece girare la testa.
Ai bordi della strada, per terra e tra le rovine, i soldati della Quinta Armata erano accampati in diversi gradi di dissolutezza e organizzazione. Katniss aveva temuto di venire circondata da una folla sbigottita prima di riuscire a raggiungere il generale, ma praticamente nessuno sembrava badare a lei e ai suoi compari. I soldati borbottavano, si agitavano inquieti, mentre tutti gli sguardi erano puntati lontano, verso ovest, lì dove l’enorme colonna di fumo della Montagna saliva su fino in cielo, espandendosi sempre di più – come lo spettro di quella guerra che, anche se ormai giunta alle porte della capitale nemica, nessuno riusciva ad avvertire come prossima alla fine.
Nessuno li disturbò. Giunsero di fronte a quello che un tempo doveva essere stato un immenso grattacielo, ma di cui non rimaneva altro che una mezza dozzina di piani. I pilastri d’acciaio ritorti che sbucavano fuori dalla sommità della rovina parevano una sinistra corona di chiodi.
Una soldatessa dei Volontari prese in consegna i tre. Mentre la sentinella biascicava ancora smozzicate parole di scuse per aver quasi ucciso per sbaglio la Ragazza di Fuoco, la giovane donna squadrò Katniss, come se volesse essere sicura che fosse veramente lei e non un qualche inquietante doppione mutato di Capitol City. Katniss si aspettava che la soldatessa le facesse almeno qualche domanda, ma lei non disse nulla mentre li accompagnava su per delle scale mobili consumate dalla ruggine e ricoperte di rampicanti. Tutta quell’indifferenza la inquietava: era l’ultima persona sulla Terra ad aver bisogno di attenzioni, ma dopo tutti gli spot, la propaganda e le tre dita tese verso il cielo scoprì che ritrovarsi non più al centro di tutto la destabilizzava.
Salirono altre due rampe di scale, attraversarono un corridoio e giunsero di fronte ad una porta sorvegliata da due guardie in uniforme. Katniss, abituata al nero del Distretto Tredici, si stupì di vederle vestite in grigio-verde.
«Prego» disse la soldatessa dei Volontari. «Il generale vi aspetta.»
La stanza, di forma semicircolare, presentava su tutta la sua superficie curva una lunga vetrata che, sebbene macchiata, graffiata e opaca in molti punti, era riuscita a resistere alla prova del tempo. Oltre i finestroni si vedeva la strada lungo cui la sentinella li aveva condotti fin lì, poi i boschi, il profilo di una collina e infine, in fondo, tremolanti nell’aria come una Fata Morgana, le torri e i grattacieli di Capitol City.
«Katniss Everdeen.»
Katniss spostò lo guardo verso il centro della stanza. Dietro un piccolo tavolo luminoso su cui degli ologrammi evanescenti e tremolanti quanto il profilo della città all’orizzonte mostravano la mappa tridimensionale della capitale, gli occhi scuri del generale Paylor erano puntati su di lei.
Sullo schermo sembrava più alta, fu il primo pensiero di Katniss. Ma le telecamere finiscono sempre per distorcerti. A me fanno addirittura sembrare un’eroina.
«Generale.»
Doveva aggiungere qualcos’altro? Per favore, prima di fucilarci, potreste un attimo starci a sentire? Era sempre stata un disastro a parlare. Anche i discorsi mandati giù a memoria le parevano sempre forzati e fiacchi quando uscivano dalla sua bocca. Il fatto che un intero esercito la considerasse un simbolo e non un patetico manichino era un mistero che forse non sarebbe mai riuscita a spiegarsi.
Sentì Gale accanto a sé muoversi in maniera impercettibile. Stava per parlare – forse per dire proprio quello che lei stava pensando –, ma il generale Paylor alzò una mano per bloccarlo.
«Lasciateci soli» disse ai tre ufficiali intorno al tavolo e alle quattro guardie in divisa grigio-verde che piantonavano la stanza. «Adesso» aggiunse, vedendo che nessuno pareva muoversi.
I militari passarono rapidamente ai lati del trio come un torrente intorno ad un gruppo di rocce. Il generale Paylor rimase con gli occhi puntati su di loro finché non furono tutti usciti dalla stanza, poi fece loro cenno di avvicinarsi.
«Miss Everdeen. Cominciavamo a chiederci dove foste finita.»
«L’abbiamo portata a fare un giretto» disse Johanna. «Ho visto quali danni al cervello può fare lo stare tutto il tempo sotto terra...»
Il generale Paylor fece un piccolo sorriso. «Se vuole continuare a fare dello spirito, Mason, le consiglio di essere un po’ più arguta. Quelli del Tredici non sono stupidi. Non così tanto, almeno.»
Gale lanciò a Johanna una lunga occhiata – come a dirle che era una faticaccia dirle sempre te l’avevo detto, ma, che diamine, gliel’aveva proprio detto; lei lo fulminò con lo sguardo, poi abbassò gli occhi sulla mappa tridimensionale di Capitol City e incrociò le braccia. «Così ci siamo, eh?»
Lo sguardo del generale Paylor si perse per qualche momento tra i viali e le guglie della città.
«Ci siamo.»
«Signora» disse Katniss Everdeen. «Temo che Capitol City possa non essere il nostro problema principale, al momento.»
Il generale Paylor puntò le iridi scure su di lei, aggrottando le sopracciglia.
«Come?»
Katniss esitò. Ancora una volta, le parole le si incastrarono in gola. Doveva aspettare che Gale o Johanna parlassero al posto suo? Perché non potevano essere loro gli stramaledetti simboli della Rivoluzione? Anche Johanna aveva vinto gli Hunger Games, ed era molto più in gamba e spigliata di lei; Gale era più sveglio, più sicuro di sé, senza contare che ne sapeva di armamenti, tattiche e strategie più di quanto lei avrebbe potuto imparare in una vita intera. Lei non era altro che una ragazzina che per non crepare di fame aveva dovuto imparare a cacciare di frodo. Era questo che serviva per essere un eroe?
«Questa guerra potrebbe essere già finita, signora» si sentì dire. «E non saranno né Capitol né la ribellione a rivendicare la vittoria. Qualcuno si è infilato tra i due contendenti e conta di toglierli di mezzo ora che sono al limite. È stato lui a distruggere la Montagna. Ora sta per toccare a Panem.»
Il generale Paylor fissò le tre facce che le stavano di fronte una dopo l’altra. Alla fine, i suoi occhi ritornarono su Katniss. Il suo sguardo era fermo e teso come un cavo d’acciaio.
«Chi» disse.
Katniss fece un lungo respiro. Che vada come deve andare.
«Ha mai sentito parlare del colonnello Aelius Rorke?»



«È inutile che continui a guardare fuori» disse Ares. «Ci metteranno ancora un po’.»
«Non si è mai troppo sicuri» grugnì Artemisia.
«Vero. Ma se non ti riposi sarai meno efficiente e finirai per commettere un errore di troppo.»
Lei gli scoccò un’occhiata acida. «Cos’è, sei diventato il nuovo caposquadra?»
«No» rispose lui, stupendosi della fretta con cui l’aveva fatto. Fece un lungo respiro, poi continuò. «Hai ragione.»
«Lo so» ribatté lei, con uno sdegno che le risultò più fiacco di quanto avesse creduto. Riportò lo sguardo sul vetro tondo dell’abbaino e riprese a scrutare fuori; dopo un po’, però, i suoi occhi tornarono su Ares, seduto per terra con il gomito destro appoggiato sul ginocchio sollevato.
«Sei strano.»
Lui sollevò la faccia, impassibile come sempre.
«Strano?»
«Non sei mai stato un chiacchierone, grazie al cielo; ma ultimamente sei…»
«…strano
«Già.»
Ares si alzò da terra, andò verso uno scaffale di metallo e percorse con lo sguardo le scatole polverose che erano allineate sui ripiani.
«Perderemo, lo sai vero?»
Le iridi verdi di Artemisia si fecero lontane e fisse come quelle di un gatto.
«Noi?»
«Capitol, il Presidente, il governo… siamo ormai alla fine.»
«È già successo che i ribelli arrivassero alle porte della capitale. Non—»
Ares si girò verso di lei. «Questa volta è diverso. E tu lo sai.»
«Cosa è diverso?» ringhiò Artemisia. «Quella deficiente di Katniss Everdeen? Mi pare che anche tu abbia avuto modo di vederla. È una cazzo di morta di fame...»
«È un simbolo. E la forza di un simbolo non sta nell’essere potente di per sé, ma nel rendere potenti tutti gli altri.»
«Quindi non ho capito, hai deciso che è tempo di saltare allegramente dalla parte dei ribelli?»
Ares si irriggidì. Lo sguardo si fece di ghiaccio. Il corpo di Artemisia si tese per istinto, pronto al contrattacco.
«Mai.»
La parola aleggiò a lungo nell’aria sospesa della mansarda. I due IEROS si fissavano, come due predatori pronti a scattare.
Sorprendentemente, fu Artemisia la prima a sciogliere la tensione.
«Ok» disse, rilassando i muscoli ma continuando a tenere gli occhi fissi su di lui. «Bene.»
«Il colonnello Rorke è il mio comandante. Gli obbedirò fino alla fine.»
Nella mansarda tornò il silenzio. Ares si allontanò dallo scaffale, passò accanto ad Artemisia e si sedette sul bordo dell’abbaino.
Artemisia si guardò intorno, incrociò le braccia, le distese, appoggiò il peso prima su un piede e poi sull’altro.
«Non volevo intendere che tu fossi codardo» buttò fuori ad un tratto, con un tono che pareva quasi sorpreso di se stesso.
«Lo so.»
«È solo che…» Artemisia contrasse la mascella, poi sbuffò dal naso. «…merda, Ares, sei il... miglior guerriero che conosca. Non è da te… questo.»
«Lo so.»
Il testone di Ares continuava ad essere rivolto verso la finestra. Con una strana circospezione, Artemisia si avvicinò a lui. Sollevò una mano, l’abbassò, la sollevò di nuovo e a tentoni, come se la muovesse al buio, la diresse sulla sua spalla.
All’inizio, Ares non parve neanche accorgersi del tocco; poi, ad un tratto, ruotò la testa verso di lei, lo sguardo che partiva dalla mano e saliva verso i suoi occhi.
La mano di Artemisia saltò via come se la spalla fosse diventata bollente, mentre le guance della ragazza guerriera ebbero un guizzo brunastro prima di tornare pallide come sempre. Se non fosse stata Artemisia, Ares avrebbe quasi potuto dire che fosse arrossita.
Si sentì d’un tratto scomodo, lì sul davanzale di quella finestra. Stava per alzarsi e andare di sotto – con una scusa, qualunque motivo sarebbe andato bene – quando la voce di lei lo interruppe.
«Guarda.»
Ares scrutò fuori dalla finestra.
Oltre la curva della stradina, sulla linea degli alberi, qualcosa si stava muovendo.



Clove seppe che erano giunti nei pressi della capitale perché gli alberi si erano fatti rigogliosi, ordinati, quieti – come se anche loro fossero influenzati dall’aria di superiorità di cui erano imbevuti gli abitanti di Capitol City. Forse lo sono davvero, pensò. Saranno stati bio-ingegnerizzati per essere il miglior sfondo alla finestra di qualche nuovo ricco dei sobborghi. Magari si tagliano anche i rami da soli.
Dalla testa della fila – dove si trovava quel fanfarone del capitano – giunse un’esclamazione di sorpresa.
«E questa sarebbe la periferia?»
A parlare era stato Lee, il ragazzo mulatto dei Volontari. Clove trovava il suo facile entusiasmo irritante e i piccoli gesti che si scambiava con la sua compare bionda patetici e molesti, ma doveva ammettere che rispetto ai suoi compari di scudo era una compagnia decisamente meno… beh, inquietante.
Allora, Clove, com’è stare con degli esseri umani? La vita è strana senza il lavaggio del cervello…
Sbuffò irritata per scacciare quel pensiero e rinsaldò la presa sul braccio di Cato, il cui peso aveva cominciato a crearle crampi al collo e alle spalle ormai da qualche ora.
«Stanca?» le disse Dan, in una strana voce che rendeva impossibile capire se la stesse prendendo in giro o fosse sinceramente interessato.
«A posto» replicò lei. «Andiamo.»
Il gruppo uscì dagli alberi. Davanti a loro, la curva di una stradina di asfalto proseguiva dritta, circondata da entrambi i lati, con regolarità perfetta e armoniosa, da eleganti villette a due piani dalle facciate di pietra bianca, adornate di statue di marmo dalle proporzioni impeccabili e lo sguardo grave e ponderato. Dopo un centinaio di metri, la stradina si concludeva in una rotonda, al centro della quale si riusciva a distinguere un albero dall’aria antica e il tronco ricurvo e nodoso.
«Non sembra esserci nessuno» disse Dana, la piccola Volontaria che Clove non riusciva a guardare negli occhi – perché non aveva tempo da perdere con certe irritanti bimbette, era la scusa a cui faceva finta di credere.
«Meglio non correre rischi» disse il sergente. «Avanziamo con calma e lontano dalla strada.»
Nessuno la contraddì, neanche il capitano – almeno un minimo di cervello ce l’ha, pensò Clove –; il gruppo prese dunque a seguire a distanza il percorso della stradina, tenendosi vicino alla linea degli alberi e passando accanto ai giardini sul retro delle villette.
«Guarda tu questi bastardi» disse la volontaria bionda, che Clove aveva inteso chiamarsi Penny. «In una sola di questa casa potrebbero viverci almeno venti persone.»
«E questo è niente» disse il tenente. «Per i capitolini del centro, gli abitanti dei sobborghi sono a malapena degni di essere salutati per strada.»
Penny rimase in silenzio per qualche momento, poi replicò.
«Come avete fatto a vivere per così tanto tempo senza rendervi conto che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Clove trovava quello scambio del tutto fine a se stesso. Quello che era successo era successo, non aveva senso rimuginarci sopra. Se i Distretti erano stati così stupidi da farsi dominare per settantacinque anni, peggio per loro; Capitol City aveva goduto dei benefici della propria forza, fin quando non ne aveva persa abbastanza da permettere ai suoi schiavi di arrivare armati alle sue porte. Uccidere o essere uccisi. Semplice come tutte le grandi verità.
Giunti all’altezza della rotonda, il sergente fece segno di muoversi verso di essa, raccomandandosi di avanzare in formazione più larga possibile e di buttarsi a terra al primo sentore di una minaccia. La piccola Volontaria, però, sembrava aver avuto ragione: neanche un’ombra si mosse da dietro le finestre delle due villette davanti a loro, e nessun rumore sospetto giunse alle loro orecchie mentre si infilavano nello spazio tra le due case, si accostavano al muro di quella di destra e proseguivano fino all’angolo tra il muro e la facciata della villetta.
«Ok, voi aspettate qui» disse il sergente. «Io entro dentro a vedere se la casa è libera.»
Se speri di potertene andare da sola senza che il caro tenente venga a tenerti la mano, ti sbagli di grosso, fu il pensiero di Clove.
«Vengo anche io» disse il tenente.
Chi l’avrebbe mai detto…
«E anche io» disse la ragazzina dei Volontari. «Magari dentro ci sono delle medicine o qualcosa che posso riciclare come tali.»
Il sergente esitò; ma Clove sapeva già come avrebbe risposto.
«Va bene. Voialtri, restate qui.»
Clove si accorse che il capitano stava per replicare – molto probabilmente per protestare di essere stato scavalcato in maniera così poco elegante – ma il tenente fu lesto ad anticiparlo.
«Pattuglia di ricognizione: giusto, signore?»
«Ehm – certo, sì. Giusto, giusto…»
«Se entro mezz’ora non siamo tornati…» disse il sergente, «…beh, che diamine, venite a cercarci.»



Stanno entrando.
Lo so.
Sei pronta?
Sempre.
Aspettiamo che si sentano a loro agio.
Ovviamente.
Io prendo i due. La ragazzina la lascio a te.
Oh, che caro… sei sempre così gentile.




«Poggiamolo» disse Dan.
Clove assentì. I due adagiarono Cato a terra, appoggiandogli la schiena al muro della villetta. Una volta liberato dal peso, Clove si sgranchì le spalle.
«Pesa» disse Dan.
«Anche troppo» replicò lei. «Non vedo l’ora che si svegli.»
Le palpebre di Cato tremolarono. Mormorò qualcosa di incomprensibile, poi dischiuse gli occhi.
«Mi sa che ti ha sentito» disse Lee.
Clove si inginocchiò di fronte a Cato. «Ehi. Mi senti?»
Lui serrò le palpebre, poi le riaprì. «Acqua» mormorò.
«Acqua» ripeté Clove a Dan.
«Ok.» Dan si guardò in giro, poi sembrò trovare qualcosa. «Ok. Un secondo.»
Tornò indietro costeggiando il muro per qualche metro. Un grazioso rubinetto usciva dalle fondamenta della villa: attaccato ad esso, un tubo di gomma gialla arrotolato in numerose spire.
«Spero sia potabile» disse, girando il rubinetto.
«Non siamo mica dalle vostre parti» ribatté piccato il capitano Aber. «Certo che è potabile.»
L’acqua prese a zampillare dall’imboccatura del tubo. Dan lo portò verso Cato, che mise le mani a coppa e prese a bere avidamente. A quella vista, il resto del gruppo si rese conto di avere le gole secche da parecchio tempo; quando il ragazzo biondo ebbe finito, tutti si affrettarono a dissetarsi.
«Lei non beve, capitano?» chiese Lee, asciugandosi la bocca con il dorso della mano.
«Da una canna da giardino? Rispettosamente rifiuto.»
La risposta lasciò Lee interdetto. «Sta cercando di avvelenarci?»
«Per chi mi avete preso? Non sono certo un farabutto.»
A Clove venne in mente le voci che giravano sul Presidente Snow e sul suo metodo preferito di togliere di mezzo chiunque gli si mettesse di traverso, ma era troppo impegnata a bere per potergli rispondere.
«E allora perché non beve?»
«Lee» disse Dan. «Non vuole. Lascia perdere.»
«Ok» disse Lee, facendo spallucce. «Ma se poi casca a terra disidratato io non lo raccolgo.»



In quella casa, i Giochi e la guerra non sembravano essere mai esistiti.
Ayla si muoveva nel grande salone come se si trovasse su un altro pianeta. Il pavimento di tasselli di legno – che Baeley le aveva detto chiamarsi parquet –, le pareti bianche, le poltrone dalle forme curve e allungate come dei pezzi di plastica caduti in un forno; tutto era così distante da quello che aveva sempre conosciuto che ogni tanto veniva colta da piccoli attacchi di vertigine.
 Baeley colse lo smarrimento sul suo volto. «Vuoi sederti?» le disse a bassa voce.
«Su quei cosi?» replicò lei, accennando alle poltrone. «No grazie.»
«Sono un po’ pretenziose, ma sono sorprendentemente comode. Non ti uccideranno, promesso.»
«Stando a quanto si dice della tua città, la cosa non mi pare così scontata.»
«Vero, ma qui siamo ancora in periferia. Per le sedie assassine dobbiamo aspettare di essere in centro.»
Su un lato della stanza si apriva un’apertura ad arco che conduceva in un altro locale. Ayla intravide mensole aperte, ripiani di pietra lucida, rubinetti dorati: per lei era più grande di una casa, ma per gli standard di quel posto doveva essere nient’altro che la cucina.
Baeley scrutò all’interno, la pistola mitragliatrice che scandagliava rapidamente gli angoli. «Libero» disse alla fine.
«Bene» disse Dana, togliendosi l’elmetto. «Vado a vedere se è rimasto qualcosa.»
«Fai attenzione» disse Ayla senza pensarci.
Dana le rivolse un’occhiata interrogativa.
«Voglio dire» aggiunse rapidamente lei, rendendosi conto di essere sembrata più una madre preoccupata che un sergente scrupoloso. «Cautela. Non… non si sa mai.»
Lo sguardo di Dana indugiò su di lei per qualche momento.
«Certo, sergente» disse alla fine.
Baeley si avvicinò ad Ayla. «È incredibile che sia riuscito a portarselo dietro» disse, accennando all’elmetto che la ragazzina teneva in mano come fosse un cestello di vimini.
«Non lo lascerebbe neanche sotto tortura. È il suo…» Ayla fece per dire animaletto di pezza, ma una morsa d’acciaio al petto glielo impedì. «…portafortuna.»
«Un portafortuna schifosamente efficace, visto che siamo sopravvissuti a… beh, tutto quanto
Ayla sbuffò leggermente dal naso. «Già. E io che pensavo che voi dannate giubbe bianche foste il peggio che avrei dovuto affrontare.»
«Non dirlo a me. Io mi ero arruolato per farmi una foto davanti alle rovine del Distretto Tredici, non certo per impedire ad un colonnello schizzato di farci saltare tutti per aria.»
Ayla si chiese se dovesse detestare quell’uomo. Lei era andata in guerra per vendicare la sua famiglia cancellata dalle bombe, lui per fare una simpatica scampagnata; per certi versi, rappresentava tutto quello che lei odiava di Panem e il motivo per cui aveva deciso di rischiare la vita per distruggerla. Eppure, se lei fosse nata al posto suo, avrebbe agito forse diversamente? Quanti abitanti di Capitol City erano veramente malvagi e quanti erano semplicemente stati educati ad esserlo? Il Tenente Baeley aveva mostrato rispetto per i suoi uomini e per i suoi prigionieri; e quando si era ritrovato in mezzo alle pallottole, aveva fatto tutto il possibile per salvare quelli che aveva vicino. Aveva fatto il meglio che aveva potuto con quello che aveva avuto a disposizione. Proprio come lei.
Tra la zona delle poltrone e la porta della cucina c’era un dislivello coperto da un paio di gradini. Baeley si sedette su quello superiore, poi si allungò a raccogliere qualcosa: una piccola matita rossa, con la punta spezzata e la base mangiucchiata. La guardò per qualche istante, poi disse qualcosa.
«Rorke.»
Ayla lo guardò con aria confusa. «Come?»
«Avevo sentito parlare di lui prima della guerra. Mi ricordavo che fosse qualcosa riguardante i Giochi, ma non ricordavo esattamente cosa fosse. Ora mi è tornato in mente.» Baeley si rigirò la matita tra le dita, come se stesse cercando di darle un senso. «Per caso ricordi i Sessantacinquesimi Hunger Games?»
«No. Non mi è mai interessato farlo.»
«Certo. Non volevo…» Baeley si interruppe, a disagio. «Vorrei dirti che non ne ho mai visto uno, ma non è vero. Fino a diciannove anni, ero un appassionato. Una volta ho pure vinto una discreta somma azzeccando il vincitore. Poi ho smesso di guardarli.» Rimase qualche istante in silenzio, lo sguardo vuoto che fissava la punta spezzata della matita; poi si riscosse e proseguì. «A parte le edizioni speciali che si celebrano ogni venticinque anni, anche gli Hunger Games che cadono ogni cinque ricevono un trattamento particolare. I cambiamenti non riguardano i tributi, ma l’arena. Per la Sessantacinquesima edizione, venne deciso che i partecipanti avrebbero dovuto affrontare, oltre che loro stessi, anche dei soldati geneticamente modificati. Lo Stratega designato era Aelius Rorke.»
Ayla spalancò gli occhi. «Vuoi dire che…»
«Già, non sarebbe la prima volta che il buon colonnello pasticcia con la bio-ingegneria.»
Ayla si rese conto di avere la gola incredibilmente secca. Ebbe l’impulso di correre fuori da quella casa e scappare via, lontano, senza fermarsi mai. Ma ora c’era una domanda che si affannava a saltare via dalla sua lingua, una domanda di cui aveva il terrore di sentire la risposta.
«E… com’è finita?»
Baeley lasciò cadere la matita a terra. I suoi occhi erano puntati verso il finestrone panoramico del soggiorno, persi tra gli alberi in fondo al giardino.  «I soldati erano stati modificati per obbedire senza esitazioni a qualunque ordine sarebbe stato impartito loro. Avrebbero dovuto muoversi con cautela e sarebbero stati usati con parsimonia, più per mettere pressioni ai tributi che per far loro la guerra. Ma al terzo giorno dei Giochi, qualcosa andò storto. Le creature di Rorke impazzirono e iniziarono a massacrare qualunque cosa si trovassero davanti – compresi loro stessi. I tributi rimasti si allearono tutti quanti per cercare di fermarli. Resistettero per un altro giorno; poi, quando uno dei soldati stava per strappare le braccia all’ultimo tributo rimasto, le telecamere si spensero. Dissero che si era trattato di un guasto, e che sfortunatamente non erano riusciti a riprendere il tributo che si liberava eroicamente dalla presa del mostro e lo uccideva, vincendo così gli Hunger Games. Casualmente, fu l’unico vincitore a cui non venne mai fatta un’intervista; qualche settimana dopo, venne detto che era morto per una rara malattia ereditaria. Rorke venne rimosso dal ruolo di Stratega, e sparì dalla circolazione. E dopo qualche mese, fu come se i Sessantacinquesimi Hunger Games non fossero mai esistiti.»
Ayla non disse nulla. Ora sì che aveva bisogno di sedersi; ma piuttosto che farlo su quelle assurde poltrone, si sarebbe buttata per terra. Fatto qualche passo, si lasciò cadere accanto a Baeley.
«Quindi è così» disse in un soffio. «Undici anni dopo, un esperimento si ripete. Ma questa volta, l’arena è l’intera Panem e i tributi siamo tutti noi.» Una smorfia piena di amara ironia le si dipinse sul volto. «Che i Settantaseiesimi Hunger Games abbiano inizio» mormorò. «E possa la fortuna non essere mai a nostro favore.»
Baeley rimase in silenzio per qualche momento. «Per quanto mi riguarda, la fortuna può fare quello che le pare e piace» disse alla fine. «Noi abbiamo qualcosa di meglio.»
Ayla gli rivolse un’occhiata perplessa. «Ossia?»
«Lo stramaledetto sergente Wilkins, poffarbacco.»
Ayla lo guardò con un’aria di stupore quasi comica; Baeley sostenne il suo sguardo con aria sorniona per qualche momento, poi cominciò a ridacchiare.
«Lei è veramente un…» biascicò Ayla, sentendo le guance formicolare.
«…lurido capitolino?» suggerì Baeley.
«Qualcosa del genere.»
Era veramente strano, stare lì seduta per terra in mezzo al salone di una villa svuotata, con accanto un gran simpaticone che tecnicamente era un suo nemico. Era strano, come tante altre cose lo erano state nella vita di Ayla; ma almeno questa volta, non era un problema.
Mentre un tenue e morbido calore le avvolgeva il petto, Ayla spostò lo sguardo su Dana. La ragazzina teneva l’elmetto tra le mani e stava tornando verso di loro.
«Tutto bene?»
«Sì, sergente» disse lei, guardando a terra per evitare di scivolare su un’arancia spiaccicata a terra. «Devo solo—»
Dana sollevò lo sguardo e guardò Ayla. Gli occhi azzurri le divennero di pietra.
Poi lasciò cadere l’elmetto e cominciò a urlare.
 


Lee imbracciò il fucile.
«Che succede?» chiese Penny in un filo di voce.
«Non so. Mi pareva di aver visto qualcosa.»
«Dove?»
«Tra gli alberi.» Lee abbassò l’arma. «Ma devo essermelo immaginato.»
«Meglio non rischiare» disse Dan. «Raggiungiamo il sergente e poi andiamo via da qui.» Fece per prendere il braccio di Cato, ma lui lo fermò con un gesto.
«Ce la faccio.» Con una smorfia, Cato si sollevò in piedi. «Ci sono.»
Dentro la casa, qualcuno gridò.
Dan sbarrò gli occhi.
«Dana.»

 

Ayla cercò di alzarsi, ma si rese conto di non riuscire a farlo.
«Tranquilla» le sussurrò una voce all'orecchio. «Tra poco farà effetto.»
Sul collo di Dana era comparsa una piccola freccetta rossa. La ragazzina barcollò, poi cadde a terra.
«Ora verrete tutti con noi» disse un altra voce, questa volta femminile. «Vedrete, ce la spasseremo.»
Ayla provò a gridare. Ma ormai le luci si stavano spegnendo, e non c’era più niente che lei potesse fare.



Dan scattò in avanti, mentre sentiva una voce tentare di richiamarlo. Sbucò nella rotonda, si girò verso destra e riprese a correre. Prima che potesse rendersene conto, si ritrovò per aria.
Un botto terrificante gli fece tremare tutte le ossa, mentre una ventata bollente lo lanciava all’indietro. Colpì il terreno e rotolò senza controllo. Sembrava che la superficie della Terra si fosse inclinata, e che lui stesse scivolando giù verso un pozzo nero e senza fondo. Provò invano ad artigliare l’asfalto per cercare di fermarsi; poi il suo corpo venne bloccato da un ostacolo, la sua testa batté contro qualcosa di molto duro, e non sentì più.



L’attacco contro Capitol City sarebbe dovuto cominciare alle cinque di mattina in punto; ma i treni con le munizioni per l’artiglieria d’assedio vennero ritardati da una serie di guasti e complicazioni, così si dovette posticipare il tutto alle sette. A quel punto la Presidente Coin propose di iniziare alle sette e cinque minuti, un orario simbolico per ricordare i Settantacinquesimi Hunger Games e l’inizio ufficiale della Ribellione; i generali Paylor e Lyme, comandanti della Quinta e dell’Ottava Armata ribelle, su cui era ricaduto il grande e sanguinoso onore di prendere la capitale, convennero che qualche minuto in più non avrebbe cambiato di molto le cose e obbedirono di buon grado.
Quando la lancetta lunga degli orologi raggiunse la prima tacca, le divisioni d’artiglieria dei ribelli aprirono il fuoco. Lo sbarramento con cui iniziò l’assedio per il cuore di Panem durò un’ora esatta: in quel lasso di tempo, la Quinta e l’Ottava Armata consumarono più munizioni di quanto erano riusciti a fare entrambi gli eserciti in tutta la guerra. Alle otto e zerocinque precise, le bocche da fuoco tacquero: un silenzio d’acciaio scese sul campo di battaglia.
E poi, come se si levasse dall’oltretomba, l’Inno di Panem riempì l’aria.

 
Oh Horn of Plenty
One Horn of Plenty for us all!
And when you raise the cry
The brave shall heed the call
And we should never falter

Schierata sulla linea sud del fronte, la Seconda Divisione di fanteria attendeva, ammassata dietro la linea dei carri armati del Settimo reggimento mobile. All’udire le parole dell’inno, il soldato Macob si guardò intorno spaesato.
«Ma che cazzo succede?»
«Che i bastardi vogliono farci capire che non cederanno» disse il sergente maggiore Opper, lo sguardo dritto davanti a sé.
«Ma da dove arriva la musica?»
«È la strafottuta Capitol» disse la soldatessa Perrier. «Avranno altoparlanti nascosti pure nelle rocce.»
«Quelli non sono umani» mormorò Macob. «Se entriamo lì dentro, noi... oh merda, ci mangeranno vivi...»
«Silenzio!» intimò il sergente maggiore, per scacciare la paura che iniziava a serpeggiare tra i soldati – e anche dentro se stesso. «Se spari a un capitolino, crepa come tutti noi. La loro Montagna è andata, la loro aviazione è andata, e il Due non può più venire a salvargli le chiappe. È il loro ultimo atto, e noi ci metteremo la parola fine. Sono stato chiaro?»
I soldati borbottarono un qualcosa che somigliava vagamente ad una risposta affermativa.
«Non ho capito!»
«Sì signore!»
«Bravi.»
Le ultime note dell’inno si spensero. Trascorsero due, tre, cinque secondi di quiete immobile; poi i motori dei carri armati aumentarono i giri, e i cingoli presero a scorrere sul terreno.
«In marcia» disse il sergente maggiore Opper. Andiamo a caccia di mostri.



C’era qualcuno che gridava.
Dana.
Ma era davvero lei?
Devo… io devo… cosa devo fare?
Quando aprì gli occhi, Dan ebbe la certezza di non essere più sulla Terra. Tutto era avvolto da una luce biancastra, in cui particelle di marmo galleggiavano come fossero senza peso. La gravità sembrava sparita. Gli tornarono in mente gli attimi prima di risvegliarsi sulla spiaggia, quando ogni direzione era scomparsa e a lui era parso di muoversi nel vuoto.
Era sdraiato su un fianco, la schiena appoggiata contro qualcosa e il polso sinistro schiacciato tra il suo corpo e il terreno. Mosse in avanti la mano libera, lasciando che strisciasse sull’asfalto coperto di uno strato di polvere chiara. Sentì un pizzicorio, sollevò il palmo verso la sua faccia e si rese conto di essersi conficcato una scheggia di vetro nella mano. Guardò il frammento traslucido con aria istupidita, poi se lo portò alla bocca, lo strinse tra i denti e lo estrasse dal palmo ferito. Sputacchiò la scheggia di vetro, mosse la spalla destra in avanti e ricadde di pancia sul terreno, sentendo il profilo aguzzo e irregolare dei detriti grattargli il petto.
Puntellandosi con i gomiti, riuscì a mettersi in ginocchio. Quando fu in piedi, si rese conto che il grido che aveva sentito e sentiva tutt’ora non era altro che il fischio delle sue orecchie, martoriate da… qualunque cosa fosse successa in quel posto.
Una figura vaga giunse barcollando. Quando fu abbastanza vicina, Dan riconobbe Penny. La treccia bionda era ricoperta di cenere, gli occhi sbarrrati e la bocca che si apriva e chiudeva, come se si fosse dimenticata come si facesse a respirare.
Dan la raggiunse con passo malfermo. Il fischio aumentò di intensità, poi scomparve con un piccolo pop.
«Penny?» disse, come se si meravigliasse della sua esistenza.
«Dan. Dan. Oddio – stai… stai bene?»
«Io – credo, non so – sì, forse…»
La coltre biancastra stava cominciando a posarsi. Dan vide emergere ombre grigie intorno a sé, gli spettri di quelle che un tempo erano state le villette.
«Hai visto gli altri?» le chiese.
«Non… quando sono cominciate le prime… credo mi sia caduto qualcosa in testa.»
«Non possono essere andati molto lontano. Cerchiamoli.»



«Ar…Artemisia. Artemisia? Artemisia?»
«…merda. Sono qui. Sono… ah, vaffanculo.»
«Sei ferita?»
«Niente di rotto. Solo… non pensavo fossimo già a tiro di cannone.»
«I ribelli si muovono in fretta.»
«Come i ratti che sono. Bestie schifose, parassiti bastardi—»
«Arte, non adesso. Dobbiamo—»
«Zitto.»
«Non—»
«Zitto, ti ho detto. Ore undici. Cinquanta metri.»
«Non vedo niente.»
«Io sì. Sono due. Sono loro
«Ok. Avviciniamoci con circospezione, e—»
«Vaffanculo la circospezione. Sono stanca della circospezione. Ora la facciamo finita.»
«No, ferma – Artemisia, dobbiamo—»
«Dobbiamo cosa? Aspettare, valutare, riconsiderare, ripiegare? Siamo guerrieri, Ares. E i guerrieri combattono. Fino alla fine. Non è quello che mi hai sempre detto?»
«Artemisia, aspetta—»
«Non più.»
«Aspetta, ti pre— Artemisia!»



Scendevano dentro crateri, salivano sopra cumuli di detriti, passavano intorno a resti frastagliati di muro: la geografia di quell’isolato di rispettabili abitazioni era stata completamente stravolta dai cannoni, trasformandosi in una landa spettrale al di fuori del tempo.
Dan lasciava che le sue gambe si muovessero da sole, seguendo ottusamente Penny che chiamava Lee con la gola arrochita dalle polveri e dalla cenere. Ad un certo punto si ritrovarono davanti all’albero al centro della rotonda, miracolosamente scampato al bombardamento, e si resero conto di aver girato in tondo. Dan si chiese se non fossero in realtà già morti, destinati a vagare in quel limbo di vacuo grigiore per l’eternità.
Ad un tratto, il volto di Penny si illuminò.
«Lee!» gridò. «Lee, arriviamo!»
Penny affrettò il passo verso una pila di macerie poco distante. Dan non aveva udito niente. Aveva sentito parlare degli effetti che poteva causare un bombardamento prolungato sulla mente di un essere umano, e fu preso dall’atroce dubbio che Penny si stesse immaginando tutto quanto. Stava per prenderle la mano e dirle di fermarsi, quando vide una figura comparire da dietro un brandello di muro.
«Oddio siete vivi» disse Lee in un soffio. «Grazie a… tutto quanto, siete vi—»
Il resto della frase venne troncato dalla foga di Penny, che lo abbrancò come fosse un salvagente in un mare devastato da un uragano.
«Penny… non respiro.»
«Meglio se non parli, allora.»
Dan li osservò in silenzio; e prima che potesse impedirselo, odiandosi ma soprattutto stupendosi di se stesso, li invidiò. Non sapeva da dove gli venisse quel sentimento, né quale senso avesse. Che invidia si poteva provare per due sventurati che potevano rischiare di morire – o, forse peggio, veder morire l’altro – in ogni momento?
«Ehi.»
Anche i capelli di Clove erano grigi di polvere. In un primo momento, Dan pensò che quell’improbabile tintura pareva renderla, con una certa, grottesca comicità, più vecchia; ma dopo aver indugiato sul suo sguardo fermo su di lui, si rese conto che, in realtà, quella cenere non faceva altro che mostrare all’esterno quello che lei – e lui, Penny, Lee, la Fanteria di Linea Volontaria, Katniss Everdeen e tutto il resto del mondo –  portavano dentro.
«Ehi.»
«Ti davo per spacciato.»
«A quanto pare non sei l’unica brava a scappare dalla morte.»
 «Poffarbacco» disse in tono sommesso il capitano Aber. «Guardate che disastro. Voglio dire, casette di poco conto, eh… però è comunque un peccato vederle ridotte così.»
«Siamo tutti immensamente sconvolti da questo barbaro attacco» disse Lee.
«Grazie, giovanotto. Voi sì che avete coscienza…»
Dietro il capitano, incerto ma in piedi, c’era Cato. Dan lo guardò e fece per chiedergli quale fosse il suo stato, ma lui anticipò la domanda con un cenno d’assenso.
«Ci siamo tutti» disse Penny.
«Manca il sergente» fece Dan.
Lee lo guardò, gli occhi lontani e tristi. «Dan… la casa è completamente crollata. Non credo ce l’abbiano fatta.»
«E se anche fossero ancora vivi» disse Cato, «non abbiamo tempo di cercarli. I ribelli saranno qui tra poco. Dobbiamo muoverci.»
Dan rimase immobile per quelle che gli parvero ore; poi, alla fine, parlò.
«Non ho intenzione di lasciarla lì.»
«Dan—»
«Non senza averci almeno provato.»
«Non c’è tempo.»
«Cinque minuti» disse d’un tratto Lee. «Dateci cinque minuti. E poi ce ne andiamo.»
Cato guardò Clove. Lei guardò Dan.
«Cinque minuti.»
Dan annuì, poi si voltò a guardare quello che restava della casa. Il tetto era sparito; quello che restva del primo piano era collassato sul piano terra, distruggendo l’ingresso e qualunque altro punto d’accesso a livello della strada.
«Dobbiamo salire da sopra» disse Lee. «Seguitemi, da qui dovremmo farcela.»
Messosi il fucile a tracolla, Lee si arrampicò su per una china di mattoni e tranci di cemento armato che scendeva giù dal fianco della casa come una lenta colata di lava. Arrivato in cima, prese a scrutare i dintorni, schermandosi la fronte con un gesto automatico un po’ ridicolo, visto che in quel momento la massima fonte di luce era un tenue e uniforme chiarore grigiastro.
«Ok, confermo: non si vede un accidenti» disse. «Chissà perché, la cosa non mi stupisce.»
«Ora che hai finito di fare lo scemo, per favore potresti scendere?» disse Penny, il tono che cercava il più possibile di non suonare apprensivo.
«Signorsì signora… un secondo e sono subito da lei.»
Lee si girò, abbassò un piede e fece il primo passo per scendere giù dal cumulo di detriti; mentre era lì per compiere il secondo, si rese conto che la gamba si rifiutava di obbedirgli. Il piede si è incastrato, pensò. Ci mancava solo questa.
Poi abbassò lo sguardo per controllare, e vide che dal petto gli spuntavano due lame corte e affilate. Con una certa, assurda sorpresa, si rese conto che quello di cui erano imbevute era il suo sangue.
Pensò che doveva gridare, ma non ci riuscì. Uno strano rumore di risucchio parve giungergli da molto lontano. Nella sua testa, chisssà perché, gli venne in mente di quando Merv Barbican gli aveva fatto vedere come si dissanguava una mucca. Perché poi è più comodo macellarle, gli aveva detto.
Lanciò uno sguardo a Penny, e si rese conto che neanche lei stava urlando. Forse allora va tutto bene, pensò.
Poi cadde giù dal cumulo di macerie e rotolò fino in fondo.
In cima, nera e scarmigliata, il profilo nero stampato sul biancore del cielo, Artemisia trionfava in tutta la sua terrificante gloria.
Penny aveva ancora il fucile a tracolla, la cinghia che passava intorno alla spalla destra; quando la sua mente sconvolta riuscì a ordinarle di imbracciare l’arma, Artemisia era già atterrata davanti a lei. In preda al panico, la ragazza agì seguendo l’isntinto e cercò di pararsi con il braccio destro; con un guizzo del polso, Artemisia glielo tranciò all’altezza del gomito.
Penny indietreggiò a passi sbilenchi, come fosse ubriaca. I suoi occhi fissavano sgomenti il moncherino sanguinolento che si ritrovava al posto del braccio. Aprì e chiuse la bocca, come se volesse dire qualcosa, poi rovinò a terra e non si mosse più.
Artemisia avanzò a passi rapidi verso il resto del gruppo, roteando le spade corte che aveva sottratto al guerriero nell’hangar. Sul volto splendeva una gioia folle e feroce. Gli occhi verdi erano spalancati e colmi di una luce terribile.
«Signori» disse il capitano Aber, la voce tesa ma coraggiosamente ferma, «me ne occupo io.» Con gesto lento e grave, snudò la sciabola e si pose a fronteggiare la IEROS. «Avanti, ribalda, e affronta il tuo de—»
Artemisia gli tirò la spada corta che teneva nella sinistra. La lama dritta e affilata spaccò lo sterno del capitano con un piccolo schiocco e trapassò il suo corpo con un tonfo liquido. Le ginocchia del comandante della Terza Compagnia sbatterono sul terreno, mentre Artemisia lo lasciava cadere a faccia in giù e passava oltre.
Clove e Cato ebbero il tempo di sparare un paio di colpi. Artemisia ringhiò mentre una pallottola le strisciava sulla tempia, un’altra le bucava la coscia e una terza impattava contro il pettorale antiproiettile. Tagliò la canna della pistola di Cato e lo buttò a terra con un calcio, poi lanciò via l’arma di Clove e la colpì con un violento pugno alla mascella.
Clove cadde a terra, l’impatto col terreno in parte assorbito dalla protezione dei gomiti della divisa IEROS. Strisciò febbrilmente in avanti, ma un calcio al fianco le strappò un gemito e la fece girare pancia all’aria.
«Perché scappi, Clove?» le disse Artemisia in un sibilo. «Io e te siamo amiche
Un lampo nero le esplose negli occhi quando un altro pugno la colpì in piena faccia.
«E come tutte le brave amiche, adesso giochiamo un po’



«Ehi!»
Il campo visivo traballante di Clove restituì l’immagine confusa di Artemisia che si voltava verso qualcuno alle sue spalle. La risata della spadaccina si unì al fischio che le intasava le orecchie.
«Cosa vuoi fare con quella? Da bravo, posala, prima che ti faccia del male.»
La sua vista recuperò un minimo di stabilità. Guardò oltre Artemisia, e vide che Dan aveva raccolto la spada del capitano e la puntava goffamente contro di lei.
«Vienitela a prendere» le disse.  
Artemisia si avvicinò, la luce opaca del giorno che gettava un lucore pallido sulla lama grondante di sangue.
Dan indietreggiò, incespicò e cadde a terra.
Artemisia rise di nuovo.
«Complimenti… ottimo gioco di gambe.»
Dan si rialzò e riportò tremante la sciabola contro Artemisia, tenendola malamente con due mani. Clove si preparò a una fine rapida e prevedibile.
Lo ucciderà.
Non c’era storia. Dan non aveva alcuna possibilità contro di lei. Il gatto avrebbe giocato un po’ con il topo e poi, quando si sarebbe stufato, gli avrebbe tagliato la testa senza pensarci due volte.
Eppure, mentre osservava Artemisia girare lentamente intorno alla sua preda, Clove avvertì che c’era qualcosa che non quadrava. Qualcosa che sfuggiva alla sua logica di traiettorie balistiche e trachee recise. Qualcosa che lanciò un grido, quando vide Artemisia lanciarsi su Dan, la spada nella mano destra sollevata in aria e pronta a colpire.
Poi Dan scartò di lato e, con inquietante leggiadria, tranciò di netto la mano della sua avversaria.
Artemisia ebbe appena il tempo di capire che cosa era successo che la lama in lega di titanio-diamente la colpì una seconda volta, tagliandole via quattro dita della mano ancora sana. La IEROS gridò. E questa volta non di rabbia.
Clove vide la luce negli occhi di Artemisia cambiare completamente, riempiendosi di un’altra emozione. Un sentimento antico, di cui la giovane e spietata guerriera aveva quasi scordato il sapore.
Paura.
La sciabola saettò di nuovo, tranciandole i tendini dietro le ginocchia. Artemisia cadde in ginocchio, si sbilanciò in avanti, tese le mani per attutire la caduta e urlò quando quello che restava dei suoi arti inferiori sbatteva violentemente con il terreno.
«Brutta storia mordere la polvere.»
Clove non riusciva a crederci. Trasfigurato dal sangue e dalla follia, Dan troneggiava su Artemisia, che cercava invano di strisciare verso la sua spada.
«Oh, fai pure» disse Dan inquietantemente amabile, inginocchiandosi accanto a lei. «Avanti, fai pure. Ti prometto che se ci riesci mi faccio ammazzare.»
Artemisia boccheggiava, paonazza, gli occhi fuori dalle orbite. Mosse il braccio destro in avanti, i moncherini di dita che strisciavano sul terreno come vermi ciechi e disperati.
«Avanti… avanti… ci sei quasi…»
Quel che restava del dito medio della guerriera toccò il pomo della sua spada.
«Bravissima! Meriti una ricompensa.»
Con la mano libera Dan le afferrò la coda dei suoi capelli, le tirò bruscamente in alto la testa e poi la sbatté violentemente a terra. Clove potè udire distintamente il rumore del setto nasale che si spezzava.
«Oh no, perdonami! Non volevo romperti il naso. Spero vorrai accettare le mie più sincere scuse.»
Un mormorio incomprensibile giunse da dietro la nuca della ragazza.
«Scusa, non riesco a sentirti.» Dan le tirò di nuovo su la testa.
Il volto di Artemisia era una maschera di sangue. Gli occhi roteavano senza alcun controllo, mentre la bocca si apriva e chiudeva come quella di un pesce agonizzante.
«Ti prego, mia cara, sii così gentile da ripeterti.»
«…tih… oorgl…»
«Scusami, non capisco. Andiamo, non avere paura…»
«T-ti… prego…»
«Che cosa?» Dan la guardò, lo sguardo vuoto e glaciale di un rapace. «Fammi capire bene» disse, avvicinandosi al volto della ragazza e assumendo un’espressione educatamente perplessa. «Mi stai implorando? Dopo tutto quello che hai fatto?»
Artemisia emise un gemito strozzato.
«Oh certo, capisco» continuò Dan «tu pensi che siccome io sia uno dei buoni, allora ti risparmierò la vita. Il povero, piccolo Dan, così spaurito e imbranato, che cerca solo giustizia per la sua povera sorellina.» Le parole erano scarne, metalliche, spaventose. Clove sentì la schiena ricoprirsi di un infinità di piccoli spilli. «Mi piacerebbe molto che fosse così, Arte – posso chiamarti, Arte, non è vero? –, ma temo di doverti deludere. Mi piacerebbe molto risparmiarti la vita, lasciarti andare da bravo cavaliere e vederti rispuntare un’altra volta sulla mia strada.» Dan si spostò indietro, sempre tenendo la testa di Artemisia sollevata, e appoggiò la punta della sciabola sulla nuca della ragazza.
«Ma la verità è, cara Arte, è che io non sono uno dei buoni. Sono come te. Siamo molto simili da molto, molto tempo. Siamo entrambi già morti.»
La lama potenziata trapassò la pelle, le vertebre, la trachea, di nuovo la pelle, e uscì lentamente, molto lentamente, dalla gola della ragazza.
«Sì, mia cara, quella è la lama che ti sta uccidendo. Addio.»
Artemisia assistette impotente alla lunga lama d’acciaio che sbucava sempre di più dalla sua gola. Gli occhi iniettati di sangue sembrarono volergli schizzare dalle orbite, mentre il suo corpo era scosso da un tremito incontrollabile. Poi, dopo quello che sembrò un lasso di tempo infinito, l’invincibile guerriera del battaglione IEROS sputò un ultima colata di sangue denso e scuro e smise di muoversi.
Dan attese qualche istante, poi estrasse con zelante cura la spada dal collo della ragazza, la pulì sui pantaloni di lei, si alzò in piedi e guardò Clove.
E lei scoprì di non riuscire a fare nulla se non stare lì a guardare quel giovane che era improvvisamente diventato uno spietato assassino.
Il lontano rombo di una schiera di motori si fece largo tra la polvere delle ville distrutte.
«Non c’è tempo da perdere» disse lui. «Dobbiamo andare.» Andò verso il capitano Aber, gli tolse la cintura con il fodero della sciabola e se l’allacciò in vita.
Clove si alzò in piedi, frastornata. «Tu… come—»
«Sveglialo» tagliò corto lui, indicando Cato. «Ce lo porteremo dietro finché sarà possibile.»
In silenzio, Clove obbedì. Sentiva il sangue colare dal naso e bagnarle le labbra, il fianco pulsare per il calcio che Artemisia le aveva rifilato; eppure, non riusciva a credere di essere sveglia. Artemisia era morta, e ad ucciderla era stata l’ultima persona che lei avrebbe ritenuto capace di farlo.
E di cui, adesso, poteva anche avere paura.






L’ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ok. Bene. Direi che sono successe un po’ di cose.
Erano tipo boh, quattro anni?, che avevo salvata nel computer la scena in cui Dan uccide Artemisia: vederla pubblicata fa sicuramente un certo effetto. Dopo tanti capitoli (e capitolini, ehehehe… scusate) passati a inquietare, insultare e uccidere il prossimo, la nostra IEROS ha finito per fare il passo più lungo della gamba: certo è che, dando a Cesare quel che è di Cesare, più che sciocca è stata decisamente sfigata. Insomma, Dan? Ok che è un po’ fuori di zucca, ma questa sua improvvisa maestria del duellante da dove accipigna è uscita fuori? Vi assicuro che una risposta c’è… da qualche parte dentro Capitol City.
Ancora una volta, grazie infinite per essere qui. Lo so, sono orribilmente lento a pubblicare, ma come vedete non demordo. Ci siamo quasi, manca poco. La Capitale non è facile da conquistare, ma noi non cederemo.
Alla carica, tante care cose e alla prossima!


 
  
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