The
way we were
XIV
Nemesi
storica
To
find a queen without a king…
Pansy
non
riusciva a distogliere lo sguardo da Lucius Malfoy.
I suoi occhi non
erano quelli di un figlio che aveva vissuto gli anni più
difficili nel ricordo
di suo padre, e non aveva riconosciuto Lucius fino a quando Draco lo
aveva
chiamato “papà” e si era perso in un
abbraccio che aveva tutte le probabilità
di essere il primo.
Ai propri occhi,
quello che risaltava maggiormente era quanto Lucius fosse diverso
dall’uomo che
ricordava, che altero camminava in ogni posto come ne fosse il futuro
padrone,
accompagnandosi con un bastone, un ornamento più che un
supporto di cui non
aveva alcun bisogno.
L’uomo che aveva
abbracciato Draco invece era infinitamente stanco, spogliato di ogni
arroganza,
e forse in tutto quello che aveva perso, non era neanche più
tanto padrone di
sé.
Però aveva
conservato quella bellezza aristocratica e fredda di cui Pansy aveva
soggezione
e ammirazione, e nonostante avesse le ossa piegate dalla prigionia era
ancora in
piedi e dava ordini a suo figlio, aveva ancora la forza di stringere
qualcuno
tra le braccia, e i capelli biondi di sempre, accompagnati da una barba
rada
che Pansy non aveva mai visto sui lineamenti decisi e affilati del suo
volto.
Aveva la voce
arrochita da anni di silenzio, e gli occhi grigi velati dalle immagini
dietro
cui si era barricato per vincere la lotta
all’autodistruzione, al logorio
interiore che Azkaban scavava nell’anima dei suoi ospiti.
Pansy distolse
presto lo sguardo, sentendosi di troppo in quel ricongiungimento
ancestrale tra
Draco e suo padre, e avvertì qualcosa pungerle il cuore
quando d’improvviso le
immagini di quei due uomini così vicini si confusero tra
loro.
Mai in una vita
avrebbe immaginato che le mani di Narcissa Black potessero quasi
tremare, o che
i suoi occhi freddi potessero adagiarsi carezzevoli su qualcuno in
presenza di
altri che non fossero un figlio e un marito.
Quasi
inconsapevolmente Pansy arretrò di un passo, e poi di un
altro, ripercorrendo
la strada di prima, cercando nel corridoio aria sufficiente per
respirare come
si confà a chi è padrone di sé.
Le sembrava
impossibile che Lucius Malfoy fosse tornato da Azkaban, tanto
impossibile che
qualcosa le impediva di esserne felice.
«Credevo che
fosse preparata alla teatralità della nostra
famiglia» la raggiunse la voce
rude del prozio Wilbert, sfrattato dalla propria cornice dal padre di
Lucius,
poco prima.
Pansy sollevò la
testa di colpo, spaventata.
L’uomo le
sorrideva dal bordo della cornice, lisciando tra le dita la propria
sciabola,
incastonata.
«Ci sono più
colpi di scena in una cena a casa Malfoy che in tre atti di
un’operetta, le
pare?» proseguì invitandola a prendere parte al
proprio monologo.
Pansy annuì,
guardandosi intorno, e scoprendo di avere addosso tutti gli sguardi
della
progenie Malfoy, con qualche comparsa Black, presenti nel corridoio.
Rivolse un
sorriso piuttosto esplicito a tutti loro, chiarendo che gli esami le
erano
sempre piaciuti poco.
«Si aspettava di
trovarlo cadavere, non è vero?» domandò
ancora il prozio Wilbert, provocando
una risata sommessa da sua cugina, al suo fianco.
Pansy la incenerì
con lo sguardo senza troppe remore, guadagnandosi senza saperlo le
simpatie di Archibald
Malfoy, che mai aveva sopportato le sciocche moine di sua sorella.
«Azkaban non è
famosa per la sua clemenza» fece notare in propria difesa.
Le parve inutile
spiegare a quella gente perché le risultasse più
semplice prepararsi al peggio,
piuttosto che crogiolarsi in speranze che mai si sarebbero avverate.
Wilbert affilò il
proprio sguardo in direzione di Pansy, deponendo la sciabola al proprio
posto.
Pansy non osò
sperare che fosse un buon segno, per restare in tema.
«Lo diverrà il
Ministro di Grazia e Giustizia, al suo posto»
osservò sardonico un lontano
barone, tre quadri più su. Wilbert ne rise, seguito da
qualche altro esponente
della fanteria Malfoy.
Poi calò il
silenzio sul corridoio, da parte di tutti i ritratti, concentrati con i
propri
sguardi su Pansy, in attesa di leggere sul suo viso il barlume della
comprensione.
Non tardò ad
arrivare, compiacendo tutti loro sull’arguzia e la scaltrezza
di quella che a
nessuno sarebbe dispiaciuto accogliere nell’albero
genealogico del casato.
«Miss, se mai
deciderà di togliersi la vita, sappia che sarò
bendisposto ad ospitarla nelle
mie pittoresche dimore» le fece presente
l’Archibald di poco prima,
schiarendosi la voce.
Sua sorella lo
guardò indignata, ancora offesa per l’occhiata
torva che Pansy le aveva
rivolto, ma dovette compiacersi di quella identica che
riservò anche a suo
fratello dopo la gentilezza di quell’invito.
«Non vorrei
offendere i vostri gusti, ma trovo che i melodrammi siano fonte di
imbarazzo
per la dignità del genere umano»
replicò leggermente stizzita Pansy, mentre
cercava di non essere sopraffatta dal peso di quella notizia.
Nessuno torna da
Azkaban senza pagarne il prezzo, neanche Lucius Malfoy e la sua
abilità nella
compravendita di valori e occasioni d’oro.
«Smettetela di
importunare i nostri ospiti» si intromise imperiosa la voce
di Narcissa,
scivolando nel corridoio e mettendo a tacere illustri baroni e
facoltose
duchesse.
Pansy sussultò
come scottata, quando sentì la mano di Narcissa posarsi
sulla spalla,
invitandola a seguirla, e tornare sui suoi passi.
«Hanno un
concetto di ironia piuttosto discutibile» mormorò
sottovoce, facendo intendere
a Pansy di aver condiviso più di una volta i pensieri che in
quei minuti le
avevano attraversato la mente.
Pansy pensò di
chiederle l’immane favore di non parlare in tono tanto
confidenziale, di non
toccarla in quel modo, di non sorriderle con quello sguardo sornione,
di non
rievocare i tempi in cui da piccola aveva sentito quel castello anche
un po’
suo, perché a ben vedere la felicità di quel
ritrovo la stava uccidendo
lentamente, nel prendere atto che il ritorno di Lucius Malfoy
l’avrebbe
allontanata per sempre da Draco.
●●●
…wondered how
tomorrow could ever follow today.
Narcissa
ebbe
l’impressione di avere qualcosa in comune con Pansy, dai
primi tempi in cui lei
e suo marito frequentavano i signori Parkinson, scambiandosi visite
reciproche
nei propri manieri.
Era
quell’aria
disincantata che le leggeva nello sguardo, quel suo modo di essere
curiosa ma
con cautela: le ricordavano la circospezione con cui da piccola si
guardava
intorno per prendere le misure, per essere certa di non inciampare
goffamente
come fanno tutti i bambini.
Allora
lei era
ancora una novella sposa, e già sapeva a cosa sarebbe andata
incontro.
Pansy
sembrava
sicura delle sue intenzioni e consapevole dei rischi che avrebbe dovuto
correre
per ottenerle già da bambina.
Narcissa
era
stata più vezzeggiata di lei, e nel diventare una donna
aveva conservato la
morbida eleganza di chi non ha dovuto porre troppe domande per ottenere
conferme, laddove Pansy opponeva recalcitrante la fierezza
dell’orgoglio di chi
ha dovuto rinunciare ad avere sicurezze dagli altri costruendosi da
sola le
proprie risposte.
Ma
soprattutto,
quello che Narcissa Black e Pansy Parkinson condividevano, era il
pesante
fardello dell’amare un certo tipo di uomo.
«Immagino
che tu
sia piuttosto confusa» mormorò Narcissa, facendole
strada nei giardini interni
del maniero.
Pansy
concentrò
lo sguardo sui propri passi. Il giardino era diverso da come lo
ricordava,
molto più selvaggio pur nella sua armonia di forme e di
colori. Immaginò che
tutti avessero avuto diverse distrazioni, negli ultimi tempi, e che
avessero
sprecato ogni loro forza nella cura del proprio personalissimo dolore
piuttosto
che negli alberi da frutto.
«Temo
di non
esserlo affatto, invece» rispose Pansy, sentendo qualcosa
gravarle sul petto e
impedirle di prendere ampi respiri. Cercò di non incontrare
gli occhi di
Narcissa, perché aveva una certa considerazione di lei, che
a ben vedere
sfiorava i picchi dell’adorazione, e avrebbe preferito non
mostrarle quanto
profonda potesse essere la ferita che aveva addosso.
Narcissa
sorrise quietamente,
come se tutto sommato avesse già capito le regole del gioco.
«Ero
più che
certa che Draco fosse con te».
«Lo
hai reso
piuttosto chiaro, nel tuo biglietto» mormorò Pansy
imbarazzandosi al posto di
Draco. Avvertiva una irrequietezza di fondo agitarsi in lei; percepiva
lo
scorrere dei minuti come una inarrestabile discesa verso la conclusione
di
qualcosa, e si dimenava tra il contrastante desiderio di porre fine a
quel
tormento e la speranza ridicola e tristemente umana che la fine
ritardasse il più
possibile.
I
giardini erano
avvolti nel silenzio, e Pansy si chiese di cosa stessero parlando Draco
e
Lucius nel salone, immaginando con quali sguardi si abituavano alla
presenza
reciproca.
«Hai
mai pensato
di non poterlo riavere?» domandò di colpo,
sentendo le parole venire fuori
dalle proprie labbra. Narcissa percepì su di sé
lo sguardo bruciante di Pansy,
e si sentì in dovere di essere sincera con lei,
dovendoglielo come donna e come
in parte responsabile di quella sua infelicità.
«…
ho iniziato a
considerare l’idea» ammise, cercando di arginare
tutto quello che aveva
accuratamente tenuto sotto chiave in quegli anni di solitudine, in cui
si era
tenuta occupata con la gestione degli affari di famiglia,
perché mettere le
mani tra le carte di Lucius si era rivelato essere uno dei pochi modi
rimastole
per sentirlo ancora vicino, forte e presente, nella sua
quotidianità.
Sapeva
di non
poter mentire, con Pansy Parkinson, perché anche lei per
molto tempo aveva
imparato a convivere con il pensiero di Draco vedendolo ridursi giorno
dopo
giorno a ricordo.
Narcissa
aveva
trovato inconcepibile che accadesse, con Lucius.
Che
suo marito
divenisse una figura lontana e al margine della sua vita,
l’immagine cui votare
un pensiero la sera quando le incombenze della giornata erano concluse,
il nome
di cui parlare al passato, l’altra metà di se
stessi atrofizzata dal gelo
dell’assenza.
Merlino
solo
sapeva quanto lunghi erano stati i giorni, e quanto difficile restare
in una
casa permeata di ogni aspetto della vita di Lucius. In qualche modo
sapeva che
Pansy sarebbe stata perfettamente in grado di comprendere tutto quello,
senza
che lei dovesse sforzarsi di trovare parole, in ogni caso vuote e senza
voce al
confronto dell’intensità del sentimento.
«E
cosa hai
pensato di fare, allora?» domandò timidamente
Pansy.
Aveva
un
disperato bisogno di prendere le misure anche lei con quello che le
sarebbe
spettato di lì a poco.
Narcissa
estrasse
la bacchetta dalla manica del proprio vestito, richiamando a
sé un
portasigarette nascosto in una fenditura del muro. Lucius trovava poco
piacevole l’odore di fumo, e lì si chiudeva
l’elenco dei segreti che Narcissa
aveva con lui.
«Sono
entrata nel
suo studio e ho provato a mettere via la sua borsa da lavoro»
rispose,
espirando un po’ di fumo. Pansy cercò di
immaginare Narcissa e le sue mani
sottili avvolgere quella borsa da lavoro in un panno e riporla in un
cassetto,
lontana dagli occhi, e le sembrò un’eresia.
«Le
sue piume e
le boccette di inchiostro, le camicie nell’armadio, il suo
bastone» proseguì
Narcissa, scrollando della cenere a terra. Ne parlava con tono
distante, quasi
preferisse salvarsi relegandosi a spettatrice di quel tentativo sciocco
e
patetico, inutile.
Rise
di sé,
guardando lontano.
«Ho
rimesso tutto
a posto, la mattina dopo» concluse, sorridendole
incredibilmente delicata.
Pansy
notò per la
prima volta quanto fosse fragile la sua bellezza, come bastasse un
solco di
dolore agli angoli degli occhi belli e glaciali perché si
sfigurasse e tornasse
disperatamente umana, come tutti gli uomini di questa Terra.
«Ho
chiesto a
Draco di prendere il bastone, e portarlo nel suo studio»
ammorbidì la voce
«Credo che lo abbia tenuto per sé».
Pansy non sentì il bisogno di darle
conferma, ricordandosi di averlo visto adagiato in uno studio che
però era
quello di Draco.
«Ma
comunque»
riprese quasi vergognandosi di quelle parole, «per quanto
l’idea possa non
piacerti, si sopravvive a tutto, anche ad una vita senza di
loro».
Pansy
comprese
che avrebbe dovuto accettare quelle parole e custodirle da qualche
parte dentro
di sé, perché sarebbero state sempre il porto a
cui tornare il giorno in cui
avrebbe voluto salvarsi.
Quando
si decise
a sollevare lo sguardo, incontrò quello di Draco, inerme,
che guardava dietro
il vetro della finestra lei e sua madre.
Forse
si chiedeva
anche lui quali segreti si stessero raccontando, e quali consapevolezze
Pansy avesse
acquistato. Forse le stesse che suo padre gli aveva appena gettato
addosso,
perché la guardava come se quel vetro fosse acciaio e la
vista iniziasse a sbiadirsi,
tra loro.
Narcissa
ricordò il giorno in cui
aveva raggiunto suo marito, dietro quella stessa finestra, intento a
fissare il
giardino di cui si era preso cura per tutti quegli anni, che aveva
coltivato e
accudito come ogni progetto che entrambi avevano ideato e condiviso per
loro
figlio. Quel giorno gli occhi grigi di Lucius Malfoy erano della stessa
tormentata intensità di quelli di suo figlio in quel
momento. Narcissa si era
accostata a lui, e Lucius, nel silenzio delle sue sconfitte, le aveva
regalato
la parte di sé che gli era rimasta, ad un passo dalla fine. “E’ stato un delirio di
onnipotenza. Sono
solo un uomo, Cissa. Ho sbagliato i conti. Cosa succede ad un uomo,
quando
sbaglia?” le aveva chiesto, con l’orrore
nella voce.
Narcissa
non aveva trovato
risposta, perché le sembrava di aver commesso tutti gli
sbagli che un uomo
potesse commettere, scoprendo che suo padre e sua madre, la propria
famiglia,
le avevano insegnato soltanto ad occultarli e a fingere che non fossero
mai
stati commessi, e non le avessero minimamente insegnato a risolverli ed
utilizzarli preziosamente, come garanzia che certi errori non si
sarebbero
ripetuti due volte, neanche con i propri figli.
Mai
come quel giorno si era
sentita del tutto abbandonata da un padre che invece l’aveva
coperta di
attenzioni fittizie, per tutta la vita.
«Mio
padre non mi ha mai chiesto
scusa, Pansy. Prima di morire mi ha guardato con occhi pieni di amore,
dispiaciuto perché doveva lasciarmi, ma nella
sincerità della sua morte non ha
sentito di dovermi delle scuse. Penso molto a voi. Poveri ragazzi. Che
cosa vi
abbiamo fatto?” mormorò piena di rammarico e di
dolore.
Pansy
dal canto suo rimase lì
dov’era, immobile, a fissare Draco e l’angoscia che
gli leggeva addosso e che
sentiva avvolgerla poco a poco. In attesa che il resto accadesse, con
l’inevitabilità con cui gli errori svelano se
stessi, cadendo senza freno su
chi li ha commessi.
Qualche
secondo dopo Astoria si
materializzò alle spalle di Draco seguita dai suoi bauli ed
elfi domestici.
Pansy e Narcissa osservarono la scena dal giardino: il Draco sfinito,
vinto
dagli eventi, che si voltò per salutarla, e l’aria
grave ma sicura di sé con
cui Astoria posò le labbra su quelle di suo marito, senza
accorgersi di tutto
il resto, come se portasse il peso di una ricchezza con sé,
di una ricchezza
ben più grande del cerchietto d’oro che le
fasciava l’anulare sinistro.
Lucius
Malfoy apparve poco dopo,
lasciando il salone, per andare incontro alla moglie di suo figlio che
mai
aveva conosciuto. Pansy fissò attentamente Astoria e il suo
sorriso emozionato,
nello stringere la mano di quel Lucius Malfoy di cui aveva tanto
sentito
parlare, ma non le sembrò affatto sorpresa né
sbigottita di trovarlo in casa
propria quando secondo la sentenza delle Corti unite del Wizengamot
difficilmente la sua data di scarcerazione gli avrebbe permesso di
vedere
nascere un nipote.
Sembrava
anzi che aspettasse quel
momento, e che avesse sistemato i propri capelli per
l’occasione.
A
quel punto, Narcissa seppe di
non dover aggiungere altro.
Sebbene
da oltre il vetro Pansy
non potesse sentire la voce di Astoria, annunciare tremante di
aspettare il
prossimo erede Malfoy, non sentì comunque alcun bisogno di
riceverne conferma.
La gestualità apparve molto chiara a tutti.
Prima
che si smaterializzasse,
incontrò lo sguardo di Draco, un’ultima volta.
La
guardava e nei suoi occhi e
nella tensione che sentiva addosso cercava di ricordarle che nonostante
tutto
non era cambiato niente rispetto a poche ore prima e a tutti quegli
anni. Che
era ancora suo, e che lei non sarebbe mai potuta appartenere a
Theodore, e che
avrebbero potuto sposarsi con altre persone, e fare figli, e costruire
una
famiglia con loro ma mai, mai nessuno sarebbe stato in grado di amarla
quanto
la amava lui.
●●●
Seems
that the wrath of the Gods
Got a punch on the nose
and it started to flow;
I think I might be sinking.
Throw me a line if I reach it in time
I'll meet you up there where the path
Runs straight and high.
Di
tradimenti
Blaise Zabini poteva dirsi un grande esperto, essendo cresciuto sotto
lo stesso
tetto della più grande ingannatrice della storia; passando
poi per i sette anni
trascorsi nelle dimore Slytherin, senza contare le piacevolezze a cui
si era
lasciato andare senza per questo offrire garanzie di monogamia a
nessuna che le
condividesse con lui. E dato che non si conosce niente se non grazie al
suo
contrario, poteva dire di conoscere qualcosa anche in fatto di
lealtà, e più
perché aveva stretto quel rapporto a tre con Draco e Pansy,
che per i dettami
della logica Slytherin, a dirla tutta.
Ma
a ben vedere,
poteva avere solo due certezze, nella vita, nonostante fosse Blaise
Zabini e
sapesse ottenere le giuste promesse da chi gli viveva intorno. La prima
certezza, riguardava Draco e Pansy, che mai avrebbero lasciato le sue
spalle
scoperte nel caso – improbabile – ce ne fosse mai
stato bisogno, e la seconda
era il brandy. Fedele compagno che mai lo aveva tradito in tutti quegli
anni,
continuava ad essere il suo interlocutore preferito, da quando si era
del tutto
disabituato alle velleità comunicative tipiche degli esseri
umani.
Le
sincerità
delle persone lo mettevano a
disagio,
senza alcun dubbio.
A
ragione di
questo, quando quella sera rischiò di rovesciare per terra
il brandy che aveva
versato a se stesso nel solito bicchiere, Blaise Zabini si sarebbe
alquanto innervosito,
se la ragione dello sventato incidente non fosse stata Draco Malfoy.
«Per
Merlino!»
esclamò stranamente su di toni per la placida eleganza con
cui esprimeva di
solito le sue contrarietà. Draco non si scompose in alcuno
stupore per
l’evento, consapevole di avere un aspetto tanto terribile da
poter giustificare
una reazione del genere.
Blaise
lo squadrò
per qualche istante, cercando di capire se non avesse davanti una delle
solite
allucinazioni che lo coglievano dalla fine della guerra, come reflusso
di
quanto aveva visto accadere sotto i propri occhi e anche come effetto
delle
droghe che Warrington si premurava di fargli arrivare, puntuale come un
orologio svizzero.
«Se
Pansy fosse
stata la ragione di questa spossatezza, avresti la cravatta di traverso
e
un’aria un po’ più appagata»
osservò ragionando tra sé. Il lampo di dolore che
attraversò lo sguardo di Draco nel sentir nominare Pansy lo
convinse del fatto
che quella sera avrebbe dovuto condividere la sua preziosa riserva con
un
vecchio amico.
«E’
tornato mio
padre» sputò fuori Draco, raggiungendo a passi
nervosi la finestra,
spalancandola.
«In
licenza?»
domandò ironico Blaise, stemperando lo sgomento che lo aveva
colto.
L’altro
richiamò
a sé con la bacchetta il pacchetto di sigarette dal primo
cassetto del comodino
di Blaise. «Serviti pure, è un piacere avertele
offerte». Draco ne accese una,
prendendo atto che non era affatto una sigaretta, e che Warrington
fosse
passato di lì recentemente.
«A
che ti
servono, me lo spieghi?» gli domandò, aspirando il
fumo. Lo avvolse un profumo
lontano ed esotico, un invito recondito a disperdersi nel nulla, ben
diverso
dal sapore agre e maschile del tabacco che fumava di solito. Blaise lo
guardò
sornione, accendendo una sigaretta a sua volta, certo che alla seconda
boccata
non avrebbe avuto bisogno di spiegare altro.
La
perdizione era
una delizia più voluttuosa del corpo di una donna tra le
braccia, persino delle
labbra di Daphne e dei luoghi inconsueti in cui amavano poggiarsi. Fare
l’amore
con Daphne lo appagava e lo faceva sentire bene per la durata di un
amplesso,
ma non gli dava la sensazione di salvezza che provava in quel modo.
Il
corpo di
Daphne poi era infinitamente bello ma troppo materiale, sotto le sue
dita, e
tra le sue gambe; che fosse una carezza o la contrazione dei muscoli
nella
tensione di un abbraccio, gli ricordava quanto tutto fosse reale, al
punto da
risultare anche doloroso, in fin dei conti.
Non
avrebbe mai
potuto perdersi in lei, perché doveva prestare attenzione a
tutto il resto: ai
confini da non lasciarle varcare, alla sapienza amatoria a cui doveva
prestare
fede, alle parti di sé che le concedeva di toccare, ma mai
fino in fondo.
“E
questa?”
gli aveva domandato la sera prima,
incontrando la cicatrice che aveva sulla nuca, nascosta dai capelli
corvini,
troppo corti per occultarla a dovere. La domanda era stata curiosa,
perché non
aveva idea del mondo che nascondeva un taglio tanto superficiale da
essersi
rimarginato senza troppe storie nel giro di poco tempo. Restava solo la
cicatrice, e Blaise aveva fatto di tutto per non cedere alla
banalità di quella
situazione; per non dover spiegare che una cicatrice nasconde la ferita
più
profonda, che con ogni probabilità non può essere
rimarginata, ed è pronta a
sanguinare non appena chiunque cercherà di rimuoverne
l’imperfezione dalla
pelle altrimenti perfetta, integra, del proprio corpo.
Avrebbe
dovuto
spiegarle che, in una guerra, anche chi si ammanta della divisa
splendente e brandisce
l’arma del giusto, rinuncia alla propria
irreprensibilità, e prima o dopo
attacca qualcuno alle spalle. E avrebbe anche dovuto giustificare
l’ironia con
cui Daphne gli avrebbe fatto notare che Blaise Zabini non si sarebbe
mai fatto
prendere alle spalle.
Allora,
avrebbe
dovuto raccontarle di cosa avesse visto sotto i propri occhi, che lo
avesse
pietrificato a tal punto da dimenticare di proteggersi da una ferita, o
peggio,
una morte, da idiota sprovveduto come un Hufflepuff qualunque.
A
quel punto spostò
involontariamente i propri occhi su Draco, e se Daphne avesse potuto
sentirlo,
le avrebbe detto che proprio non poteva spiegarle tutto quello,
perché non era
disposto a raccontarlo neanche a Draco, di come fosse stato credere per
quegli
interminabili secondi che Pansy Parkinson fosse ai suoi piedi, riversa
in terra
come una persona qualsiasi, scomposta come mai era stata in vita,
inerme come
mai si era concessa di essere in tutti gli anni in cui
l’aveva conosciuta.
E
il corpo di
Daphne stretto al proprio non cancellava il ricordo di
quell’immagine, la
fissità con cui si stampava prepotente davanti ai suoi
occhi. Riusciva a
dissiparla solo con una sigaretta di Warrington, che lo trasportava
lontano
dalla contingenza di quella vita, e lo stordiva con lusinghe remote,
che
parlavano di serenità e lo avvolgevano in quella dolce
incoscienza per un po’.
E quando l’effetto di abbandono terminava, e tutto tornava
drasticamente sotto
i suoi piedi, aveva imparato a fare affidamento sul brandy e il
bruciore che gli
lasciava in gola, che lo abituava a riprendere confidenza con le
asprezze della
vita reale.
Guardando
le
spalle di Draco, tese, e le sue labbra pallide contratte in una smorfia
di
rabbiosa sofferenza, Blaise si chiese se davvero avesse bisogno di
tutto quello
scetticismo, riguardo quella sigaretta contraffatta.
«Lo
faccio per
Warrington, è l’unico modo per farlo sentire
ancora utile in questo mondo»
rispose sarcastico, evitando la scomodità di una risposta
già conosciuta. Draco
sorrise senza allegria. «Che ci fa tuo padre qui?»
domandò Blaise, tagliando
corto.
«Nott»
spiegò
Draco seccamente, scagliando lontano la sigaretta. Blaise
replicò con un
silenzio piuttosto funebre. «Astoria è
incinta» aggiunse Draco, per rendere
chiaro l’ultimo passaggio dell’equazione che Blaise
stava risolvendo a mente.
A
quel punto
Blaise versò dell’altro brandy nel bicchiere che
aveva preparato prima per sé,
e poi lo passò a Draco con fare pratico.
«Manda
giù» lo
invitò con voce infinitamente stanca. Sopravvivere era di
gran lunga più
difficile che chiudere gli occhi e lasciarsi morire, eppure era ancora
la cosa
più inevitabile che tutti loro potessero fare, a quanto
sembrava. Draco accettò
il bicchiere, distrattamente. Pensava che una nuova vita stava per
nascere, e
che ne era stato in parte creatore, mentre lui era nauseato e stanco
della
propria.
Si
chiese se un
figlio sarebbe stato in grado di percepire quel pensiero.
Poi
si ricordò di
se stesso, bambino, e comprese che avrebbe dovuto affinare la propria
arte del
fingere.
«E’
scortese
chiederti come hai fatto ad essere così
imbecille?» proruppe Blaise senza
alcuna delicatezza. Draco lo guardò spiazzato per la seconda
volta nel giro di
pochi minuti, registrando che mai era capitato né a lui
né a Pansy di potersi
meravigliare di qualcosa di detto o fatto da Blaise. E invece era la
seconda
volta e in ogni caso non poteva dargli torto né difendersi
in alcun modo.
Blaise
vide Draco
serrare la mascella e ripetersi la stessa domanda. Chissà da
quante ore se la
stava ponendo. Chissà quanto aveva già deciso che
non si sarebbe mai perdonato.
La leggerezza con cui aveva assecondato accondiscendente i desideri di
una
moglie esasperante, senza tenere di conto che anche l’essere
più mefitico del
pianeta ha un cervello per elaborare progetti. Avrebbe dovuto prestare
più
attenzione alle sue parole, alle allusioni a quella vita insieme,
avrebbe
dovuto ricordarsi che il semplice fatto che lui non la avesse mai
amata, non
rendeva altrettanto ovvio il fatto che Astoria serbasse odio o
indifferenza nei
suoi confronti.
Blaise
lo
guardava severamente, e nell’ombra del suo sguardo Draco
poteva scorgere
ugualmente il rammarico per quella incapacità dei suoi
migliori amici di
sapersi conquistare le proprie felicità.
«Non
so che fare»
mormorò Draco, passandosi una mano sul mento; le dita
incontrarono la ruvidità
della barba che aveva dimenticato di radere negli ultimi giorni.
Astoria glielo
aveva ripetuto ogni giorno e lui ostinato l’aveva ignorata.
Blaise si lasciò
sfuggire uno sbuffo di amaro sarcasmo. «Ho il sospetto che
tuo padre abbia
detto la stessa cosa a Narcissa, prima di finire per immolare suo
figlio per i
piaceri del suo Padrone» commentò tagliente.
Draco
lo guardò
pieno di sconforto e allo stremo delle forze.
Tutte
le energie
guadagnate nell’avere Pansy al fianco, lungo il corridoio di
Malfoy Manor;
quella piacevolezza che aveva ammorbidito un cuore pieno di
insoddisfazioni e
risentimenti nel fare di nuovo l’amore con lei e portarla di
nuovo in casa
propria, si erano dissolte nel giro di un pomeriggio.
«Potresti
dirmi
qualcosa che già non so, Blaise?»
replicò nervoso, forse addirittura
arrabbiato, come il leone che si ritrova in gabbia e non sa come
uscirne.
Blaise
scrollò le
spalle, rassegnato a non avere notizie nuove e confortanti.
«Mi
viene solo in
mente che—» fece per dire, ma Draco non lo stava
già ascoltando, del tutto
perso nell’immensità di quel disastro.
«Astoria
aspetta
un figlio, per Diana! Non ho mai imparato ad esserne uno, e adesso
addirittura
lo metto al mondo!» urlò, e Blaise era un abile
conoscitore delle psicologie
inverse di Draco, abbastanza da capire che dietro tutta quella rabbia e
frustrazione non c’era altro che panico e angoscia per una
situazione più
grande di lui, l’ennesima.
«Probabilmente
sei troppo agitato per cogliere la perfetta architettura del
tutto» gli fece
notare Blaise «la sagacia di Abraham Nott nel muovere le sue
pedine, e il
moralismo della famiglia Greengrass per fare scacco matto»
proseguì, del tutto
assorto nei suoi giri di pensiero. Razionalizzare lo aiutava a
sopravvivere nel
tumulto delle emozioni, a differenza di Draco, che era drasticamente
simile al vorrei ma non posso gestire
qualcosa senza
perdere la testa all’ultimo minuto di suo padre.
«Lucius Malfoy torna a
casa per sentenza del Ministro di Grazia e giustizia, profumatamente
ricompensato dal signor Nott, e tua moglie correda il quadretto
familiare con
un pargolo in arrivo, che porterà gioia alle prossime cene
di Natale» illustrò
in modo fin troppo vivido secondo Draco. Si sentì assalire
da una profonda
infelicità.
«E’
stato
terribile vivere senza un padre pur avendone uno, no? Non saresti mai
in grado
di abbandonare tuo figlio, condannandolo alle tue stesse tristi
sofferenze» si
avviò alla conclusione Blaise. Si versò ancora
del brandy, e lo mandò giù in un
solo sorso, perfettamente allenato. Poi tornò a guardare
Draco, senza la
pretesa di nascondergli niente di quanto lo aspettasse, per quanto
fosse certo
che la sua mente arguta avesse già eseguito tutti quei
ragionamenti. «E qualora
prendessi in considerazione l’idea di farlo, di lasciare tua
moglie e tuo
figlio da soli… la sentenza verrebbe revocata, e Lucius
Malfoy tornerebbe nei
recessi di Azkaban fino a—» a quel punto Draco
alzò una mano, per fermarlo.
«Ho
capito,
Blaise, ho capito da prima che ti esibissi tu!»
sputò fuori Draco, lasciandosi
cadere sul letto, le mani tra i capelli, in una posa struggente
perché sincera.
Blaise
abbassò il
proprio bicchiere, e si sedette accanto a lui.
Lentamente
il
bicchiere scivolò dalle sue dita, mentre Blaise giaceva
lì, accanto al suo
compagno burattino, dai fili recisi.
«Blaise»
lo
chiamò Draco, senza trovare il coraggio di alzare anche solo
lo sguardo.
«Vuoi
che ti
uccida?» chiese con un’ironia lugubre.
«No,
passami una
sigaretta» replicò l’altro, la voce
ridotta ad un sussurro, perché parlare
avrebbe dato solo più concretezza alla loro vita, ricordando
ad entrambi di
essere capaci di intendere e soprattutto di volere. Se avesse potuto
non avere
davvero scelte, forse si sarebbe sentito meno iniquo di fronte a tutto
quello.
Poi però pensava alla scelta che aveva fatto anni addietro,
agli occhi di Pansy
il giorno in cui lo aveva capito e per timore non gli aveva chiesto
conferme, e
pensò a tutte le altre scelte che avrebbe potuto compiere
con lei, e si disse che
non era sbagliato scegliere. Era soltanto terribile sapere di averne la
possibilità ma non il diritto.
«Quelle
di
Warrington» aggiunse, strappando a Blaise un sorriso mesto.
●●●
Spent
my days with a woman unkind,
Smoked my stuff and drank all my wine.
Made up my mind to make a new start,
Going To California with an aching in my heart.
Someone told me there's a girl out there
with love in her eyes and flowers in her hair
[Led
Zeppelin – Going to California][1]
Theodore
Nott
trascorse, con precisione, quindici minuti fuori dalla porta della
propria
camera da letto, quella sera.
Suo
nonno lo
aveva convocato nel suo ufficio per dargli di persona la lieta notizia:
Astoria
Greengrass in Malfoy avrebbe dato alla luce un bambino. Theodore gli
aveva
impedito di aggiungere altro sbattendogli sotto il naso la prima pagina
della
Gazzetta del Profeta, edizione speciale. Interamente dedicata alla
scarcerazione di Lucius Malfoy, per una collaborazione
dell’ultimo minuto e per
alcuni revisionismi degli atti del processo.
Tutta
la Londra
magica era indignata, e poteva immaginare il trio Gryffindor, che ora
era
diventato una famiglia, con a capo Harry Potter, fremere di rabbia e
sguinzagliare i migliori amici avvocati per cercare di ottenere una
revoca alla
sentenza.
A
Theodore non
interessava però del magnificente trio e di come si leccasse
le ferite di una
guerra, chiuso nella sua torre, con l’ultimo piano nel regno
dei cieli.
«Morirai
senza
aver sentito il mio ringraziamento, per questo» gli
comunicò livido di rabbia,
sbattendo la porta del suo studio. Abraham Nott non aveva proferito
parola,
soddisfatto della propria influenza recentemente messa alla prova, e
stanco di
dover fare i conti con i diversi approcci alla vita che aveva con suo
nipote.
«Theodore
è lì al
Maniero?» aveva domandato dieci minuti più tardi
la testa di Tracey Davis,
stranamente timida, dal camino del soggiorno. Il signor Nott
l’aveva squadrata
sospettoso, prima di sospirare pesantemente, e chiudere gli occhi su
quella
giornata.
«Recita
il
lamento dietro la porta dell’amata, Miss Davis» le
comunicò. Aprì un occhio.
«Se si tratta di affari, prenderò le sue
veci».
Tracey
scosse la
testa, ritirandosi nella stanza in affitto che occupava in attesa della
firma
sulle carte dell’ultimo divorzio.
«Gli
faccia sapere
che se smettesse di lamentarsi e bussasse alla porta, si aprirebbe con
più
probabilità» rispose con un sorriso ambiguo.
«Parlavo della mia porta,
ovviamente» aggiunse,
lanciando un’occhiata incredibilmente sincera in direzione
del patriarca.
Abraham la guardò per alcuni istanti, del tutto allibito,
chiedendosi se la
vecchiaia non gli giocasse brutti scherzi. Poi riconobbe in quegli
occhi la
luce che aveva letto in quelli di sua moglie, il giorno in cui
l’aveva chiesta
in sposa e con un cenno del capo salutò Miss Davis, tornando
a chiudere gli
occhi, stavolta sui propri ricordi.
Quindici
minuti
più tardi, Theodore si decise a bussare alla porta.
«Pans, sono io»
si annunciò, facendo leva sulla maniglia.
Trovò la sua
quasi – moglie in piedi sulla cassapanca ai piedi del letto,
con indosso il suo
abito da sposa. L’immagine ferì il suo sguardo e
sentì una quieta tristezza
inondargli il cuore, quando guardandola in viso, per metà
nell’oscurità,
comprese che quella sarebbe stata la prima e ultima volta che le
avrebbe visto
quel vestito addosso.
«Non avresti
dovuto vederlo» mormorò lei, voltandosi verso
Theodore. Aveva la voce flebile e
la pelle bianca. Non aveva mai visto quella fragilità in
Pansy Parkinson,
sempre intrattabile negli anni di Caposcuola e sarcastica in quelli
normali;
sfuggente negli anni del loro fidanzamento, silenziosa nelle loro notti
d’amore, ma sempre forte delle sue volontà, sempre
capace di provocare suo
nonno e sostenere velate discussioni con lui.
«Non avrei
neanche dovuto chiederti di sposarmi» aggiunse pieno di
rammarico, ma anche di
tenerezza. Per le proprie illusioni, e per la tristezza di Pansy.
A quelle parole
Pansy vacillò su quella cassapanca, schiacciata dal peso
della verità e anche
dal senso di colpa che era tornato a stringerle la gola. Se ancora non
aveva
pianto, forse era perché neanche si sentiva legittimata a
farlo. Di certo non
in casa di Theodore.
Lui si avvicinò,
lentamente, come se i ruoli fossero invertiti e lungo la navata della
chiesa
che avrebbe ospitato la loro unione, fosse stato lui ad andarle
incontro,
divorando ogni passo con l’impazienza
dell’innamorato, che vuole solo le labbra
e la vita della donna che ha di fronte.
La sua sposa
aveva lo sguardo smarrito e pieno di lacrime che non avrebbe pianto, e
lui continuava
a trovarla bella anche consunta da quel dolore antico e privato.
«Le cose
sarebbero andate diversamente, forse» disse lei, parlando
più a se stessa che a
Theodore. Lui non rispose, concentrato sulla sacralità
dell’evento. Se non
fosse esistito Draco Malfoy; se lei non lo avesse mai amato; o se non
lo avesse
mai ritrovato, riuscendo a tenere chiuso quel cassetto in cui aveva
riposto il
pensiero di lui.
«Tu non avresti
voluto niente di diverso, Pansy» rispose per lei Theodore,
porgendole la mano
perché scendesse da lì sopra e lo raggiungesse,
per una volta, restando con lui
allo stesso livello. «E’ la tua condanna»
proseguì troppo dolcemente perché non
potesse comunque prendersi la giusta rivincita che gli spettava,
dicendole la
verità tanto scomoda a cui lei aveva cercato di non dare
voce e di ignorare «…
vivere di assoluti».
Pansy lo guardò,
senza dire niente, perché non c’era altro da
aggiungere.
Sentiva qualcosa
trafiggerla da qualche parte, forse ovunque.
Theodore si
sporse verso di lei, ancora preso a celebrare quel matrimonio fittizio;
le dita
ad imprigionare una ciocca dei capelli neri di Pansy, riportati al loro
posto,
come avrebbe fatto il giorno del matrimonio, o in una tranquilla serata
in
casa, dividendo con lei il divano della sala da pranzo. Ma poi, ad un
passo
dalle sue labbra, dal bacio che avrebbe dovuto renderla sua moglie, la
consegnò
al proprio rivale. Con una cavalleria che, sapeva, Pansy non gli
avrebbe mai
permesso, se davvero avessero raggiunto il giorno delle nozze.
«E’ l’uomo della
tua vita?» domandò, sfiorandole quasi le labbra.
Se l’avesse
baciata, si sarebbe ritrovato tra le labbra il nome di Draco.
Solo per questo
aspettò la sua risposta, mettendosi in salvo da un dolore
immeritato.
Pansy annuì,
scoprendosi atterrita nel dirlo, perché quella era la sua
vita e non poteva
averne un’altra, in cui essere felice con un uomo diverso da
Draco, che sarebbe
stato suo. Semplicemente, non ne aveva un’altra.
E Theodore si
chiese fino a che punto potesse mancare di rispetto a se stesso,
nell’allungare
una mano a toccare Pansy e stringerle la spalla, in un gesto lontano
dall’immaginario di due sposi, ma infinitamente
più onesto e vicino.
Si rispose,
comprendendo che in fin dei conti fosse quello il suo piacere, nel
posare la
mano sulla spalla di Pansy, e di non avere niente da rimproverarsi per
questo.
Aveva voluto
renderla felice, ma la violenza dei singhiozzi che avevano scosso di
colpo le
spalle di Pansy, gli dava la rassegnata certezza di non poterne avere i
mezzi,
né ora né mai.
Lo
accettò, come
si accetta ciò di cui non si ha colpa, salvato dalla propria
innocenza.
[1] Inserisco una nota perché questa canzone fa parte di quelle cose belle che è dovere condividere.
Qui (http://www.ba.infn.it/~abruno/index_file/led_zeppelin.htm#Going%20To%20California) trovate testo completo e traduzione; e qui (http://www.youtube.com/watch?v=JkCt5HOqR-Q) trovate la meraviglia che è la canzone in sé. Non farò testo, perché amo i Led Zeppelin, ma credo che questa canzone sia qualcosa di oggettivamente prezioso.
[2]
Come avrete notato, Lucius
Malfoy in questa storia è stato condannato e imprigionato ad
Azkaban dopo la
fine del settimo libro. Aggiungerò la nota AU alla storia,
perché con questo lo
è diventata a tutti gli effetti. Aggiungo una nota qui per
spiegare il motivo
di tale scelta, saltate ovviamente se non vi interessa XD
A parte la poca tolleranza che ho verso Potter, ho
trovato la scelta della Rowling un po’ azzardata. Lucius
Malfoy ha compiuto
molti crimini nel corso della sua vita, e ogni crimine se è
un assassinio ha
come prima conseguenza la morte di qualcuno, e la perdita per qualcun
altro.
Quindi ho trovato poco giusto che Potter decidesse per molti. Ci sono
molte
persone coinvolte, e per un Potter che decide di poter accettare,
potrebbe
esserci qualcun altro che voglia giustizia per la morte di chi ha
perso. Quindi
ho immaginato che Lucius subisse un processo e una relativa condanna,
perché le
conseguenze delle proprie azioni vanno pagate ^^ in rispetto di chi ci
è andato
di mezzo, come minimo. Che sia bastata la testimonianza di Potter,
è
raccapricciante, a mio modo di vedere le cose, quindi le ho cambiate.
È una
licenza autorale che chissà se potevo prendermi, forse
sì ma solo perché è una fan
fiction. Ed è raccapricciante anche
che sempre per quella singola testimonianza, si sia addirittura passati
ad una
assenza totale di condanna. Non una riduzione della pena, ma proprio
ZERO? Mah.
Amo Lucius alla follia, ma non per questo lo giustificherò
mai per quello che
ha fatto ^^ Detto
ciò, vi direte: “tutta
sta storia sul concetto di giustizia, e poi lo scagioni comunque solo
perché
Nott senior schiocca le dita?”. Ebbene, mi sembra tristemente
verosimile anche
questo, purtroppo. Che basta relativamente poco eticamente parlando
perché chi
debbs pagare i propri crimini alla fine non li paghi affatto. Questa
è solo una
storia, non ha la pretesa di essere una denuncia sociale XD ma non lo
trovo poi
così improbabile, che in certi ambienti e tra certe persone
si combinino
impicci del genere.
Fine della tediosa annotazione :P ovviamente se avete letto e discordate siete sempre liberi di inveire contro di me, ma anche di aprire un tranquillo dibattito XD Vi lascio con i dovutissimi ringraziamenti per le recensioni *__*
Lucius è stato un colpo di scena anche per me, quando si
è affacciato nella mia testa chiedendomi una parte. Mi ha
ricordato che Draco ha le sue paturnie siglate Malfoy per un motivo ben
preciso, quindi gli ho ceduto la parte che gli spettava =P Ho amato che
abbia detto che Draco è umano, è esattamente come
lo vedo io. Lo è, e non può farci niente. Sono un
pò incerta su queste parti della storia proprio
perchè il rapporto Draco/Lucius è delicato, mi
sembra siano due grandi e forti umanità che si scontrano e
poi si incontrano, e per questo non mi sento minimamente all'altezza
nel trattarle XD ma necessità fa virtù, ed
è vero che secondo me nel parlare di Draco non si
può non tenere conto di Lucius.
Blaise è la mia sponda, gli invidio il suo sarcasmo,
perchè lui può abusarne quanto vuole e non
avrà mai una vita meno fittizia in cui qualcuno gli dica
quanto è stronzo, a dfferenza della sottoscritta XD Nel
prossimo capitolo avrà la sua parte, te lo spedisco tutto
impacchettato nel suo profumo. Un bacio :*
La storia è quasi finita sul serio (anche se
non so quanto impiegherò a scrivere quanto ho deciso XD
anche perchè sto scrivendo qualcos'altro di nuovo in
contemporanea, e se Draco e Pansy sono complicati, una original
è anche peggio) e un pò mi dispiace
ç_ç mi sono affezionata a questi Slytherin
faticosi e complessi, e anche a voi (a tal proposito, per qualsiasi
cosa la mia email è lì a disposizione). Questi
dieci giorni in Sicilia sono stati devastanti ma anche molto istruttivi
del resto, mi hanno dato molti spunti. La Sicilia è un posto
incredibile *_* una terra particolare, piena di odori, colori, suoni,
profoumi, così attaccata per le radici, e di colpo
selvaggia. Mi sono spinta fino alla punta più orientale,
guardando fisso l'orizzonte da Portopalo, sapendo che dopo ci sarebbe
stata l'Africa, ed è stato veramente spettacolare. E' un
posto che ti riempie,
ecco. Tutto questo per dire che? Niente XD Ma mi andava di condividerlo
con voi :)