10.
Helen
lasciò Chelsey e Liza dinanzi alla scuola, prima di
salutarle e tornarsene allo
chalet. Per quel giorno, di comune accordo con Liza, la famiglia
Wallace si
sarebbe dedicata allo shopping casalingo; la casa necessitava di
vettovaglie e
quant’altro e, presto o tardi, avrebbero dovuto dedicarsi a
una simile
incombenza.
L’incubo
della figlia minore, però, aveva spinto sia Rachel che
Richard a voler
rimandare ancora, ma Liza era stata irremovibile. Non era ancora pronta
a
parlare di ciò che aveva visto, e saperli impegnati in cose
piacevoli era il
modo migliore per calmarsi e schiarirsi le idee.
Chelsey
e Liza, perciò, si incamminarono lungo l’ampio e
affollato cortile scolastico
dopo aver salutato Helen dopodiché, raggiunte le scale
dinanzi al plesso, si guardarono
vicendevolmente per diversi secondi.
Chelsey
non le aveva chiesto nulla in merito alla notte precedente, e lei lo
aveva
apprezzato moltissimo. Non se la sentiva ancora di affrontare
quell’orribile
incubo, e un po’ di requie le era cara come l’aria.
La
ragazzina, quindi, la salutò con un cenno preoccupato del
capo ma nessuna frase
a corollario, avviandosi poi verso la propria classe e Liza,
sorridendole
grata, sperò di potersi riprendere alla svelta. Non voleva
che Chelsey si
preoccupasse a quel modo. Era troppo giovane per farsi carico anche dei
suoi
problemi.
Nell’avviarsi
verso la propria aula, perciò, cercò di stamparsi
in viso un sorriso di
circostanza, se non di allegria e, dopo aver salutato i pochi presenti,
sistemò
il suo zaino accanto al gancio del banco e attese.
Quella
mattina avrebbero avuto due tediose ore di inglese, subito seguite da
una di
Storia e da altre due lunghissime ore di laboratorio.
Per
la professoressa Kaneq aveva preparato un laboriosissimo diorama del
corpo
umano, unito a una tesina di venti pagine sui sistemi nervoso e
arterovenoso,
il tutto corredato da belle fotografie e schemi fatti a mano.
Non
essendo riuscita a superare ‘l’esame
della rana’, qualsiasi altra dissezione fatta in
seguito le era stata
preclusa, ivi compresa quella del modellino del corpo umano, che loro
avevano
ribattezzato Meredith, in onore di Grey’s
Anatomy.
Per
sopperire a questa mancanza, la professoressa Kaneq le aveva
perciò proposto di
dedicarsi alle ricerche scritte, e a questo Liza si era attenuta con
grande
scrupolo.
Non
che vedere Huginn e Muninn sventrare topolini e piccole pernici
l’avesse
aiutata a non ripensare alla povera rana eviscerata. A lei,
però, piaceva fare
i compiti all’aperto e in compagnia dei suoi corvi,
perciò aveva sopportato
stoicamente mentre descriveva le parti anatomiche dell’uomo,
così come i suoi
organi interni.
«Brutto
risveglio?» mormorò una voce roca al suo fianco,
strappandola a quei lugubri
pensieri.
Sobbalzando
leggermente, Liza levò il capo per inquadrare gli occhi
verde prato di Mark
che, nell’accomodarsi al suo banco, la gratificò
di uno dei suoi rari sorrisi e
aggiunse: «Hai una faccia un po’ sbattuta. Avete
continuato a festeggiare anche
ieri?»
Magari,
pensò
lei prima
di dire: «Ah, no… ma credo che l’incubo
che ho avuto possa dipendere dalla cena
luculliana che abbiamo fatto. Mescolare pizza, tacos e burritos fa un
brutto
effetto al mio stomaco.»
Mark
levò un sopracciglio con evidente sorpresa e, lasciandosi
sfuggire un risolino,
asserì: «Sì, forse erano un
po’ troppe cose messe insieme.»
Allungandosi
sopra al banco, Liza poggiò la fronte sulla sua superficie
liscia e fresca e
borbottò: «Devo ricordarmi che il tabasco mi
ribalta le budella, ecco cosa.»
A
quel punto, Mark si lasciò andare a una risata spensierata e
Liza, suo
malgrado, se ne abbeverò come una spugna. Per quel che la
riguardava, Mark era
innocente con formula piena, indipendentemente da cosa fosse venuto
fuori al
termine delle loro indagini.
Una
persona crudele non avrebbe mai potuto farla sentire così
bene. Era
impossibile. O almeno, lei lo sperò ardentemente.
Non
aveva nessuna intenzione di entrare a far parte di quei gruppi di groupie che seguivano i pazzi e gli
assassini.
L’arrivo
della professoressa di inglese interruppe la risata di Mark –
risata che aveva
attirato più di uno sguardo incuriosito – e, per
le successive due ore, Liza
ideò mille modi diversi per darsi alla fuga. In vita sua,
non aveva mai
assistito a lezioni più soporifere di quelle di inglese, e
quelle della
professoressa Robinson non facevano eccezione.
***
Poggiato
sul banco il corpulento lavoro di indagine che aveva svolto per la
professoressa Kaneq, Liza lanciò un’occhiata
orripilata all’indirizzo di
Meredith, il loro manichino, e sperò che quella mattina non
venisse sventrato
di nuovo.
Dopotutto,
la lezione di anatomia umana era già stata fatta e, da quel
poco che aveva
capito, la professoressa si sarebbe soffermata sulle parti esterne del corpo umano, tralasciando
quelle interne.
Poteva
sopportare di parlare di pelle, capelli e unghie. Ci aveva a che fare
tutti i
giorni, dopotutto. Quel che non voleva vedere erano le interiora.
«A
quanto pare, hai lavorato parecchio per la Kaneq»
mormorò Chanel, passandole
accanto e indirizzando un’occhiata ammirata alla ricerca di
Liza.
«O
questo, o sorbirmi San Valentino di Sangue senza avere le forze per
reggerne la
vista» sottolineò Liza mentre la professoressa
entrava nel laboratorio di
biologia.
Chanel
– una delle prime amiche che Liza si era fatta a Clearwater
– ridacchiò di quel
commento e la ragazza, nel fare spallucce, si limitò al
silenzio. Non ci poteva
fare niente. Lei e le parti molli del corpo umano – e non
– avevano un rapporto
davvero difficoltoso.
La
professoressa, nel frattempo, chiuse le veneziane alle finestre,
collegò il suo
PC alla lavagna multimediale e infine disse: «Oggi parleremo
del primo soccorso
dal punto di vista biologico. Vi spiegherò quindi le
tecniche di rianimazione
combinate alle reazioni fisiche di ciascuna di queste
pratiche.»
Un
corale sospiro di sollievo si sollevò tra i presenti
– quel giorno, si sarebbe
fatta solo lezione, senza la pratica sul manichino con le interiora di
gomma –
ma, quando apparve l’immagine del desktop del PC della
professoressa sulla
L.I.M., Liza raggelò.
Lì,
in bella vista tra le varie icone delle cartelle che la professoressa
aveva
preparato per loro, apparve uno dei simboli che Iris aveva mandato loro
dall’Irlanda.
Subito,
lo sguardo le corse all’altro lato dell’aula, dove
Mark sedeva accanto a Fergus
ma, almeno a giudicare dalla sua aria tranquilla, quel simbolo non gli
disse
nulla. Era chiaro che, durante le loro molte ricerche, non erano mai
incappati
in niente del genere.
Oppure,
era l’attore migliore del mondo e meritava un Oscar per la
recitazione.
Stringendo
le mani sul banco mentre le prime slide
comparivano sulla lavagna, Liza si domandò cosa potesse
significare, per la
professoressa, quel simbolo, e se fosse da considerare anche lei una
potenziale
nemica.
Dimmi
di no,
dimmi di no, dimmi di no, pensò tra sé
la giovane come in un mantra senza
fine.
Per
tutta la durata della lezione, a cui la professoressa
intervallò alcune
spiegazioni al di fuori del concetto elencato nelle slide,
Liza sentì il cuore batterle frenetico nel petto. La sua
mente stava percorrendo mille e più scenari, mille e
più combinazioni di
fattori finché Muninn, preoccupato da
quell’andirivieni di messaggi
contrastanti, non le disse: “Mamma,
calmati!”
Quell’intrusione
imprevista, per poco, non la fece balzare dalla sedia per lo spavento
e, nel
prendere un gran respiro per calmarsi, borbottò: “Bussa, la prossima volta… per
poco non sono morta d’infarto.”
“Lo
stavi già
ampiamente facendo bene da sola, mamma, credimi. La tua testa sembrava
un campo
di battaglia. Si può sapere cos’è
successo?”
“Ho
appena visto
uno dei simboli che ci hanno mandato dall’Irlanda sul
computer della mia
insegnante, perciò capirai la mia ansia!” sbottò Liza, pur sapendo
che
Muninn non aveva colpa alcuna. Era lei a doversi dare un contegno, non
lui a
sapere cose che non poteva ovviamente sapere.
Il
corvo, comunque, non se la prese per la sua tirata e, calmo,
asserì: “Chiedile
perché ce l’ha. Mi sembra chiaro,
no?”
“E
con che
scusa?”
“Se
non ha
ancora capito che sei una curiosa patologica, non è una
brava insegnante” ironizzò
Muninn.
Liza
si trattenne a stento dal mandarlo a quel paese ma, tra sé,
dovette ammettere
che il suo corvo aveva ragione. Quel simbolo era comparso davanti agli
occhi di
tutti, non era stata lei a sbirciare sul suo PC, perciò
chiedere diventava
assolutamente lecito e per nulla strano.
“Grazie,
Muninn…
e scusa se ho alzato la voce.”
“Di
nulla,
mamma. So che è una situazione assurda.”
Ciò
detto, annullò il contatto mentale con lei e Liza, vagamente
più rasserenata,
poté finalmente ascoltare almeno la seconda parte della
lezione. Per la prima
parte, si sarebbe rivolta a Chanel, o avrebbe chiesto le slide
per un ripasso.
Quando
infine suonò la campanella, gli studenti iniziarono a
muoversi per uscire e
recarsi alla mensa, seguendo le note di Staying
Alive1 come visto nei filmati della
professoressa.
Liza
si limitò a osservarli sorridente – non aveva mai
pensato che una canzone
potesse andare bene per tenere il ritmo del massaggio cardiaco
– ma rimase in
aula. Complice la sua ricerca, si avvicinò quindi alla
cattedra e, cercando di
apparire rilassata e tranquilla, esordì dicendo:
«Con la sua lezione ha
smascherato i segreti di Hollywood, professoressa.»
La
donna sorrise divertita, a quell’accenno e, annuendo nel
risistemare il
portatile nella sua apposita tracolla, ammise:
«L’ho sempre trovato assurdo ma,
per esigenze di copione, capisco che non possano fare il massaggio
cardiaco e,
nel contempo, avere sempre un defibrillatore sotto mano2.»
«Sì,
non ce lo vedo The Rock mentre se ne va in giro per una Los Angeles
distrutta
dallo tsunami con la valigetta del DAE a tracolla. Non sarebbe sembrato
altrettanto macho»
ammiccò la
ragazza, facendo ridere sommessamente l’insegnante.
«E’
il minore dei problemi, in San Andreas»
chiosò la donna prima di scrutare la carpetta nelle mani di
Liza. «E’ la tua
ricerca?»
Annuendo,
Liza gliela porse prima di domandare con tono curioso ma casuale:
«Professoressa, non ho potuto fare a meno di notare un
simbolo tribale, sul suo
desktop. Che cos’è?»
«Oh,
intendi il simbolo dell’orca?» esalò
sorpresa la professoressa. «Neppure mi
ricordavo di averlo messo. Comunque, quel disegno stilizzato
simboleggia
Akhlut, ed è uno dei mostri mitologici della cultura inuit.»
Sbattendo
le palpebre per la sorpresa, Liza mormorò confusa:
«E come mai… oh, ma un
momento, il suo cognome è…»
L’insegnante
annuì compiaciuta, asserendo: «Sì,
Kaneq è un cognome inuit
e la mia famiglia è originaria di Renana, in
Alaska.»
Ciò
detto, sbirciò alle spalle di Liza prima di sorridere
divertita e, abbassando
la voce, aggiunse: «Se ti interessa saperne di
più, ne parleremo ancora, ma
credo che adesso qualcuno ti stia aspettando per andare in
mensa.»
Subito,
Liza si volse a mezzo per scoprire cosa intendesse dire la
professoressa e,
quando vide Mark sulla soglia dell’aula, lo sguardo basso e
imbarazzato, non
poté che sorridere con calore.
No,
Mark non era cattivo. E si sarebbe battuta per provarlo.
***
Dopo
aver salutato Sasha, Chanel e Fergus sulla soglia della scuola
– che
costituivano un trio comico davvero insospettabile, ormai –,
Liza si incamminò
assieme a Mark per rientrare a casa. Chelsey, quel giorno, era uscita
prima per
fare visita sia ai nonni materi che paterni, perciò si
trovava già all’atelier
di Beth, dove ben presto Liza le avrebbe raggiunte.
Nell’imboccare
il marciapiede che solevano usare di solito per raggiungere la casa dei
Sullivan, Mark le disse: «Sembri stare meglio,
adesso.»
«Sì,
in effetti va molto meglio» assentì lei. Scoprire
quel particolare su uno dei
simboli scovati da Iris e Dev, avrebbe facilitato il compito di Curtis.
Sbirciandola
da dietro l’orlo del cappuccio della felpa, come sempre posto
sul capo ogni
qualvolta uscivano da scuola, lui domandò: «Ti
va… di parlarne?»
Storcendo
il naso, Liza reclinò il viso a sbirciarsi i piedi, quasi
che sul selciato vi
fossero nascosti i segreti dell’universo. Era difficile
esprimere a parole
l’accozzaglia di immagini e sensazioni provate durante
quell’infernale incubo,
ma non se la sentiva di mentirgli anche su
quello.
Quella
missione aveva finito ben presto con il diventare
un’autentica battaglia contro
se stessa e, se le cose fossero perdurate ancora per molto, lei sarebbe
sicuramente impazzita.
«Non
ricordo esattamente cosa ho sognato, quanto piuttosto come
mi sono sentita» iniziò col dire lei, sbirciandolo
con lo
sguardo. «Era tutto buio, attorno a me, a parte rari flash
che mi accecavano e
mi stordivano sempre più. Sentivo qualcosa si viscido
attorno a me, sotto di me e, quando
i flash mi
permettevano di vedere qualcosa, vedevo solo sangue.»
Mark
si accigliò nel sentire quel particolare inquietante e,
stringendo le mani a
pugno lungo i fianchi, mormorò: «So cosa si
prova.»
Lei
annuì, ben sapendo a cosa si stesse riferendo e, nel
proseguire il suo
racconto, aggiunse: «Sentivo che qualcuno mi stava
osservando, ma non avevo
idea di chi fosse e, ogni volta che tentavo di capirlo,
l’ombra che mi spiava
sfuggiva alla mia vista.»
«Devi
assolutamente smetterla con il tabasco» dichiarò
lapidario Mark, facendola
scoppiare in una risata sgangherata quanto liberatoria.
Lui
accennò un sorrisino quando la udì ridere e, pian
piano, si unì a lei in quello
sfogo sincero e che sembrò aiutare entrambi a rilassarsi.
Quando
infine raggiunsero lo svincolo ove, di solito, si salutavano, Mark le
disse:
«Quando ho gli incubi, mi aiuta sempre parlarne
perciò, se succederà ancora e
ne vorrai parlare, io sarò qui, va bene?»
Lei
assentì, un nodo alla gola a bloccare le mille parole che
avrebbe voluto dire
per scusarsi con lui, per tutte le bugie che stava dicendogli ma, alla
fine,
riuscì solo a mormorare: «Tu con chi
parli?»
«Con
Diana. Lei riesce a capire» ammise lui, lanciando
un’occhiata verso casa. Mamma
li stava spiando, quel giorno ma, per qualche strano motivo, Mark
desiderò
fosse successo. Così da trattenere ancora un po’
Liza, così da avere una scusa
per farla entrare a parlare con Diana, e non doverla lasciare andare da
sola
fino all’atelier.
Quel
giorno, non voleva lasciarla sola. Sapeva – percepiva
– che, quel giorno in particolare, lei aveva
bisogno di appoggio e nessuno
dei loro compagni avrebbe potuto darglielo.
Non
come sperava potesse darglielo lui, per lo meno.
Fu
per questo che, d’impulso, disse: «Ti accompagno
io, stavolta. Tanto, mamma è
al cantiere insieme ai clienti del signor Saint Clair e mio padre ha
una
riunione con gli insegnanti, perciò non ho nessuno ad
aspettarmi.»
Sorpresa
da quell’offerta, Liza annuì prima ancora di
rendersene conto e Mark,
soddisfatto, tornò ad affiancarla sul marciapiede e si
avviò con lei per raggiungere
il centro del paese.
***
Quando
Liza e Mark fecero il loro ingresso nell’atelier, alle
poltrone si trovavano un
paio di donne alle prese con la messa in piega, mentre Chelsey era su
un
divanetto di fronte alla vetrina, il volto piegato su un libro di testo.
Tra
le clienti, Liza riconobbe subito l’altra nonna di Chelsey
– Jennifer – e, nel
salutarla, esordì dicendo: «Rinnovo del colore,
nonna Jenny?»
«Ciao,
tesoro! No, non proprio, in effetti. E’ che ho visto una
tinta spettacolare, al
matrimonio dei ragazzi, e volevo replicarla sulla mia chioma,
così ho chiesto a
Samantha di farmela» le spiegò la donna,
indirizzando un sorriso adorante a una
delle dipendenti di Beth.
Sorridendo
indulgente, vista la passione della donna per i cambi di colore, Liza
assentì
divertita e si scostò appena per mostrarle Mark, - visto lo
sguardo curioso che
Jennifer le tributò - dicendo: «Lui è
un amico mio e di Chelsey, e si chiama
Mark.»
La
donna, letteralmente, si illuminò in viso e, battendo
delicatamente le mani tra
loro, esalò: «Oh, ragazzo, ma che colore splendido
di capelli! Averli avuti io,
da giovane! Avrei fatto ammattire frotte di ragazzi!»
Il
commento scatenò l’ilarità generale e
Beth, nell’ammiccare all’amica di vecchia
data, replicò: «E poi, tuo marito chi lo
sentiva?»
«Si
sarebbe dovuto guadagnare la mia mano faticando molto di più
di quanto non
abbia fatto, ecco tutto» si limitò a dire
Jennifer, strizzando l’occhio a Mark,
che arrossì copiosamente e abbassò ancora un poco
il cappuccio della felpa per
nascondere le poche ciocche di capelli visibili.
«Nonna,
smettila…» la richiamò
all’ordine Chelsey, sollevando per un momento lo sguardo
dal libro su cui stava studiando. «… magari a Mark
non piacciono, i suoi
capelli. Io, per esempio, detesto i miei.»
Jennifer,
allora, replicò indulgente alla nipote: «Solo
perché tu sei in fase di
ribellione su tutto, ma ben presto capirai che i tuoi capelli neri e
mossi sono
splendidi, cara, così come sono splendidi quelli di Mark,
che può vantare una
bellissima varietà di rosso.»
Liza
scrutò curiosa Mark, che ormai aveva raggiunto la stessa
tinta dei suoi capelli
e, spiacente, mormorò: «Sono delle fanatiche,
qualora non lo avessi capito.»
Lui
si limitò ad assentire e Beth, indulgente, sorrise al
giovane e disse: «Siamo
innocue, te lo giuro. Se ti va, lì accanto a Chelsey ci sono
bibite e biscotti
per fare merenda.»
«Ah,
grazie, ma…» tentennò il giovane con un
sussurro timido.
Beth
ammiccò simpaticamente al suo indirizzo, impedendogli di
fatto di replicare con
un no e, sorridendo maggiormente,
aggiunse: «Davvero. Non farti scrupoli e, se vuoi, dopo
possiamo sistemarti
quel ciuffo sbarazzino con qualcosa di più adatto al tuo
volto, va bene?»
«Beh,
ecco…» tentennò ancora Mark, subito
subissato di consigli, complimenti e
incitamenti da parte delle donne presenti.
Liza
scosse il capo per l’esasperazione e, nel trascinarlo verso
Chelsey, mormorò:
«Capito cosa succede, quando un uomo entra qui?»
«Comincio
ad averne una vaga idea» assentì scombussolato
Mark, lasciandosi cadere sul
divanetto accanto a Chelsey.
Liza
rise nel vederlo così sconvolto ma, non potendo dimenticare
neppure per un
istante i suoi doveri di Geri, si scusò con loro per un
istante con la scusa di
dover usare il bagno e, in fretta, si dileguò.
Una
volta raggiunti i servizi, si assicurò di essere sola,
dopodiché chiamo Curtis
e, ansiosa, attese che lui le rispondesse.
Al
terzo squillo, la voce profonda del poliziotto inondò il suo
padiglione
auricolare, domandandole quale fosse il problema e lei, subito, disse:
«I simboli
che cerchiamo appartengono agli inuit.»
Un
attimo di silenzio, dopodiché Curtis domandò:
«A scuola vi insegnano Storia
delle tribù?»
Sorridendo
per quella battutina, lei scosse il capo e replicò:
«No. A dir la verità, l’affronteremo
nel secondo trimestre. Comunque, la mia insegnante di biologia ha
origini inuit e, guarda caso, sul
desktop del
suo PC c’era proprio uno dei simboli che ci hanno trasmesso
Iris e Dev.»
Ciò
detto, gli narrò brevemente come fosse giunta a quella
scoperta, e cosa
rappresentasse nello specifico il simbolo che lei aveva visto, trovando
il
plauso totale di Curtis.
Liza
sorrise soddisfatta, lieta di aver scoperto qualcosa di utile, ma la
sua
felicità fu di breve durata. Curtis, infatti, le disse
subito dopo: «Sarebbe
meglio se tu non entrassi troppo in
confidenza con il giovane Sullivan. Potresti farti male, Liza. E non
intendo
fisicamente.»
«Come…?
Cosa…?» esalò lei, prima di rammentare
un particolare non di poco conto. Anche lei
era pedinata, per la sua
stessa incolumità, e le orecchie di un lupo potevano
cogliere suoni anche da
grandi distanze. «Cosa ti hanno detto?»
La
voce di Curtis suonò gentile, alle sue orecchie e, per
qualche strano motivo,
questo rinfocolò l’ira di Liza, invece di
smorzarla.
«Non
hai fatto nulla di male, nel tentare un approccio più
diretto con lui ma stai
attenta, Liza. Rischi di affezionarti a qualcuno che potrebbe essere un
tuo
nemico, e niente è più terribile del dover
colpire qualcuno con cui si ha un
legame.»
«Grazie.
Lo so» bofonchiò la ragazza, suo malgrado irritata.
«No
che non lo sai, Liza, perché sei Geri da pochi mesi e non ti
è mai capitato di
doverti mettere in gioco a questo modo» replicò
con gentile fermezza il
poliziotto. «Nessuno di noi desidera che tu soffra, e
sapevamo bene fin
dall’inizio che questo compito sarebbe stato gravoso, per
te.»
«Perché
sono una femmina?» sbottò lei, ora piena di rabbia.
«Perché
hai un cuore grande, e sei una persona gentile»
replicò Curtis con tono
affabile, niente affatto irritato dalle risposte nervose di Geri.
«Proteggi il
tuo cuore, Liza, te ne prego.»
Lei
allora sospirò, si lasciò andare contro la porta
del bagno e mormorò con voce
incrinata dall’ansia: «Curtis, io lo farei anche,
ma sento che non è
malvagio! Che non può essere un nostro nemico… e
non te lo dico perché mi piace come persona.»
Curtis
attese qualche attimo prima di parlare e, quando lo fece,
tornò a essere il
Capo della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater e una delle sentinelle
del
branco, non solo l’investigatore che si stava occupando di
quel caso spinoso.
«Non
si tratta di sensazioni… ormonali,
quindi.»
Liza
trovò assurda tutta quella discussione, ma sapeva bene che i
tabù di un lupo
erano diversi da quelli di un umano, perciò
tralasciò quello sconfinamento
nella sua sfera privata e ammise: «Ci sono entrambe, ma
riesco in qualche modo
a distinguere le due cose. Forse, perché ho anche Muninn
nella testa, quando
penso a Mark, o lo ascolto parlare, perciò le sensazioni
– e le risposte a tali
sensazioni – sono molteplici.»
«Uhm…
il legame col tuo corvo si è fatto così
forte?» domandò a quel punto Curtis,
incuriosito da quel risvolto della situazione.
«In
effetti, sì. Si è intensificato molto, col
passare del tempo e…» ammise Liza
prima di interrompersi ed esclamare: «Cazzo! Non ci avevo
pensato, prima!»
«A
cosa?» volle subito sapere Curtis.
«Non
ha a che fare direttamente con quello di cui stiamo parlando. Te ne
parlerò
un’altra volta. Comunque sì, le reazioni di Muninn
mi aiutano a disgiungere ciò
che provo da ciò che penso, e questo mi facilita nel compito
di capire Mark.»
«D’accordo.
Terrò per buona la cosa. Tu, comunque, non fidarti a
piè pari. Anche i
Cacciatori possono essere brave persone con il resto del mondo, ma
odiosi
nemici per noi, è chiaro?»
«Chiarissimo»
assentì lei, prima di chiudere con Curtis. Non poteva
rimanere in bagno in
eterno, dopotutto.
Nell’uscire,
però, domandò a Muninn: “Senti
un po’… ma
tu e Huginn riuscite a leggervi nella mente anche durante il
sonno?”
“Intendi
se io
riesco a vedere le sue visioni?” volle sapere il corvo.
“Esatto.”
“Sì,
certo che
riesco a vederle” disse
il corvo prima di esclamare a sua volta, colto probabilmente dalla
stessa
intuizione che aveva sorpreso Liza poco prima.
“Quello
che ho
sognato ieri notte era la visione di Huginn, vero?”
“Temo
di sì. Io mi
sono svegliato quando tu eri già sveglia e urlante,
perciò non ho visto
cos’avevi nella mente poco prima, ma immagino che cose simili
possano
spaventare parecchio.”
“Voi
non vi
siete spaventati?” esalò
sorpresa Liza.
“Abbiamo
un
concetto della paura diverso dal vostro. Noi siamo molto più
fatalisti” le spiegò il
corvo.
Liza
prese per buona quella risposta ma, quando tornò
nell’atelier, non poté che
accantonare ogni pensiero e ogni paura, non appena vide Mark su una
poltrona e
intento a scegliere il taglio migliore per lui.
Nel
vederla, lui le sorrise contrito, scrollò le spalle e disse:
«Mi hanno
sequestrato.»
«Sapevo
che sarebbe successo» ammise lei, avvicinandosi al gruppetto
formatosi attorno
alla poltrona di Mark.
«Quale
dovrei scegliere, secondo te?» le chiese a quel punto il
giovane, mostrandole
la rivista che Beth gli aveva fornito per scegliere il suo taglio.
Ciò
che non disse fu, ti prego, salvami!
Liza
non poté che provare un’immensa pietà
per lui, perché sapeva quanto potevano
essere ossessive le donne, in merito alla moda e ai tagli di capelli.
In quel
caso, però, poteva fare ben poco.
Una
volta che quel treno era partito, era impossibile fermarlo.
«Non
a spazzola. Tutto il resto va benissimo» replicò a
quel punto Liza.
Ciò
detto, si sistemò su una poltrona e, in silenzio,
osservò Chelsey, le sue
nonne, le dipendenti e la clientela divertirsi a dare consigli e a fare
osservazioni sulla nuova capigliatura di Mark.
Curtis
aveva ragione. I Cacciatori non erano necessariamente persone malvage a prescindere, pur se odiavano i
licantropi, e Mark e suo padre potevano rientrare in quella categoria.
Brave
persone prese in sé e per sé, ma loro acerrimi
nemici se presi nello specifico.
Liza,
però, continuava a essere convinta che Mark non
fosse un Cacciatore, e non lo pensava soltanto
perché quel ragazzo
cominciava a piacerle davvero.
Qualcosa, nel suo comportamento, le diceva che lui e suo padre non
avevano
nulla a che fare coi Cacciatori di cui parlava Curtis.
Senza
scoprire chi stessero cercando realmente, sarebbe stato però
impossibile
provarlo coi fatti e scagionarli.
Il
trillo del cellulare la strappò a quei pensieri, facendola
sobbalzare e,
nell’afferrarlo, si sorprese un poco quando vide il numero di
Rock sullo
schermo. Accettata perciò in tutta fretta la chiamata,
esordì dicendo: «Ehi,
ciao! Qual buon vento?»
«Ciao
a te, mia giovane padawan. Sei in
un
posto dove puoi parlare agevolmente?»
Ridendo
sommessamente, si guardò intorno ed esalò:
«Direi proprio di no. Sono nel bel
mezzo di una discussione tra donne, tutte prese dal voler rendere al
meglio la
nuova pettinatura di un mio amico.»
Rock
scoppiò in una grassa risata di gola, a
quell’accenno e, divertito, esalò: «Non
ne uscirà vivo, il poveretto. Puoi sganciarti da lui per un
attimo, in ogni
caso?»
«Esco
subito» acconsentì lei, dando una pacca sulla
spalla a Chelsey per indicarle
che stava uscendo dall’atelier per rispondere alla telefonata.
Mark
la seguì con lo sguardo, preoccupato – anzi no,
terrorizzato –, ma lei gli
promise un pronto ritorno, dopodiché uscì nella
frescura della sera, che
giungeva molto in fretta, in quel periodo, e disse: «Eccomi,
mio maestro jedi. Cosa passa il
convento?»
Tornato
serio, Rock disse: «Oggi ero al cantiere assieme alla madre
di Mark, il tuo
amico e, visto che c’era anche George, con noi, i due si sono
messi a parlare
delle rispettive protesi, neanche stessero discorrendo di auto sportive
o che
so io.»
Annuendo
tra sé, Liza ammise: «Sì, Diana
è il tipo che non si pone troppi problemi in
merito alla protesi. Che si sono detti, per
curiosità?»
«A
parte parlare di leghe metalliche e di protesi cinematiche –
roba, per me,
incomprensibile – hanno più che altro discusso sul
modo migliore di curare i
moncherini» le spiegò Rock. «A un certo
punto, Diana si è tolta la protesi,
passandomela come si passerebbe il caffè,
dopodiché ha mostrato il suo
moncherino a George e gli ha spiegato come lo massaggia. E’
stata una cosa
surreale.»
Liza
scoppiò a ridere, rammentando un’accusa mossale
dal figlio proprio in merito a
giochetti simili e, divertita, asserì: «Mark mi
ha detto che lo fa, ogni tanto, giusto per mettere alla prova le
persone.»
«Beh,
di sicuro ha messo alla prova me»
ironizzò Rock. «Comunque, questo sketch mi ha
permesso di indagare un po’ in
merito alla sua misteriosa ferita e, strano a dirsi, Diana non ha avuto
alcun
problema ad ammettere con me di essere stata aggredita da un
lupo.»
Annuendo
torva, Liza mormorò: «Questo scagionerebbe i
licantropi a prescindere, e
metterebbe i Sullivan nella posizione di non essere dei Cacciatori veri
e
propri, ma solo delle persone alla ricerca della verità.
Cos’altro ti ha
detto?»
«Mi
ha detto che il lupo, dopo averla aggredita ed essersi accanito sulla
sua
gamba, all’improvviso si è discostato da lei, come
se avesse udito un rumore
percepibile solo da lui, dopodiché è fuggito
via» le spiegò Rock. «Ha anche
ammesso che, una simile spiegazione, non è mai stata presa
in considerazione da
coloro che hanno gestito il caso e che, persino le guardie parco, le
hanno
detto che era stata sicuramente la paura, a farle credere
di aver notato un simile comportamento.»
Levando
un sopracciglio con evidente sorpresa, Liza esalò:
«E’ stato… richiamato
all’ordine?»
«Bella
domanda. Comunque, questo farebbe pensare che gli assassini che cercano
i
Sullivan sono almeno in due, e solo uno comanda.»
«Un
alfa e un beta, quindi» chiosò Liza, pensierosa.
«Già.
E confermerebbe anche un potenziale mistico delle due bestie, visto che
Diana
ha detto di non aver udito nulla, quando
il lupo si è scostato da lei all’improvviso.
Né un ululato, né altro»
mormorò
Rock, pensiero. «Dio! Sembrava così abbattuta,
quando me lo ha detto… come se
il fatto di non essere creduta le pesi tutt’ora.»
«Non
stento a crederlo» assentì Liza. «Ergo,
ci sono dei lupi che non sono licantropi
come voi, ma che hanno dei tratti magici di qualche tipo.»
«Così
sembrerebbe. Non appena sapremo qualcosa di più sui simboli
che ci hanno
inviato dall’Irlanda, potremo farci un quadro più
completo. Non che voglia dire
che i due fatti sono necessariamente collegati, ma dubito che abbondino
i lupi
magici, in giro per il continente Americano.»
«Lo
spero, o mi verranno cose peggiori degli incubi, a breve»
sospirò afflitta
Liza.
Rock
rise sommessamente, replicando: «Respira, giovane padawan, e ascolta la Forza dentro di
te.»
«La
stai prendendo un po’ troppo seriamente, questa cosa del
maestro jedi. Non è che
la prossima volta che ci
alleneremo, mi regalerai una spada laser?»
brontolò Liza, pur apprezzando i
tentativi di Rock di sdrammatizzare.
«Non
confermo né smentisco» celiò lui per
tutta risposta.
Liza
allora sospirò esasperata e borbottò:
«Me ne torno nell’atelier. Ormai fa un
freddo becco, qui fuori, e io sono uscita senza cappotto. Alla
prossima,
maestro.»
«Ciao,
allieva.»
Chiusa
la comunicazione con uno sbuffo, Liza tornò
all’interno e, dopo un sospiro,
domandò: «Allora… come siamo
messi?»
Beth
si scostò per permetterle di vedere meglio e Liza, con un
tuffo al cuore, non
poté che trovare bellissima la nuova acconciatura che stava
prendendo forma sul
capo di Mark.
Dopo
aver ripulito la nuca del giovane con un abile colpo incrociato di
forbici e
rasoio, la donna si stava concentrando sulla parte alta del capo, dove
aveva cominciato
a ridimensionare la chioma per creare un effetto stropicciato.
Ora,
i capelli rossi di Mark rifulgevano, liberati in parte dal loro stesso
peso
perché potessero accogliere appieno la luce e risplendere
del loro colore più
vivace. A quel modo, il viso era diventato protagonista indiscusso, non
più
relegato dietro ciocche disordinate e che tentavano di nasconderlo.
Nel
complesso, quel viso dagli zigomi alti e il mento squadrato, era
perfetto.
Liza
non poté che annuire, forse anche un po’
scioccamente, non seppe dirlo. Quel
che però le fece piacere fu vedere il rossore sulle gote di
Mark e sì, anche il
suo sorriso soddisfatto.
1
Staying Alive: Attualmente, questa canzone viene utilizzata come
esempio per “tenere
il ritmo” durante i corsi di Primo Soccorso, per insegnare il
massaggio
cardiaco. Le battute corrispondono a 90 compressioni al minuto (secondo
le
attuali norme di Primo Soccorso).
2
“…defibrillatore in mano”: Mi riferisco
alle molte scene nei film in cui ci
fanno credere che una persona venga rianimata con il semplice massaggio
cardiaco. Se avviene, la persona in realtà non era in
arresto. Diversamente,
serve per forza una scarica del defibrillatore, o del DAE (il
defibrillatore
semi-automatico) perché, per ripartire, il cuore ha
necessariamente bisogno di
elettricità. (fonte; Croce Rossa Italiana, corso Primo
Soccorso 2018)