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Autore: L S Blackrose    29/10/2020    1 recensioni
Quello che era iniziato come un normale viaggio post diploma si era presto tramutato in un incubo. Era successo tutto in un istante, un singolo attimo che aveva cambiato per sempre il corso degli eventi. Per quanto Isabella Swan non avesse mai pensato seriamente alla propria morte, di certo non credeva che avrebbe incrociato così presto il suo cammino. Né che sarebbe stata salvata da qualcuno molto più temibile della morte stessa. Un qualcuno che aveva il potere di donarle una nuova vita e di togliergliela altrettanto facilmente.
*
« Finalmente! » esclamò Tanya, sparendo in un lampo. Si diresse verso il limitare della radura, dov'era appena spuntato qualcun altro. Non appena lo misi a fuoco, un sibilo mi scivolò tra i denti. I miei occhi vennero calamitati da uno sguardo dorato, nel quale lessi lo stesso stupore che dovevo avere dipinto in viso. Tanya si lanciò verso il nuovo arrivato, che la afferrò con prontezza e si lasciò abbracciare. Mentre scambiava qualche parola con lei, tuttavia, il suo sguardo rimase incatenato al mio.
Era il vampiro della sera prima, quello che mi aveva inseguita fino alla costa. E il suo nome era...
« Cara Isabella, ti presento Edward Cullen ».
Genere: Fantasy, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clan Cullen, Clan Denali, Edward Cullen, Isabella Swan, Volturi | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 1

 

Whenever wind is blowing




Recensioni


 
Fuoco e sangue. Erano i primi ricordi della mia nuova vita, immagini vivide e sensazioni che, per quanto a lungo avessi vissuto, non avrei mai potuto dimenticare.

Presi un profondo respiro, sebbene non ne avessi bisogno. Un'altra abitudine umana che con il tempo sarebbe scomparsa. Secondo Caius, ero ancora troppo legata agli aspetti della mia vita precedente, quella patetica vita mortale che non mancava mai di nominare con palese disgusto.

Un refolo di vento mi sfiorò il viso, scompigliandomi i capelli. Una cascata di capelli ondulati che viravano dal castano al rosso a seconda della luce, talmente lucidi e perfetti che, a distanza di quasi due anni dalla mia trasformazione, ancora faticavo ad associare a me. Alla me stessa che scorgevo negli occhi altrui. La vampira immortale.

Un odore familiare filtrò tra le mie narici, mescolandosi ai vari profumi che aleggiavano nella notte. Era un'essenza che avrei riconosciuto tra mille, perché apparteneva a colui che mi aveva donato la seconda possibilità che tanto desideravo.

Dalle mie spalle giunse un basso mormorio. «Sapevo che ti avrei trovata qui».

Mi limitai ad annuire, tenendo lo sguardo puntato sul gruppetto di giovani intenti a chiacchierare ai piedi della torre. Studenti, a giudicare dai loro discorsi incentrati su corsi da seguire e tesine da scrivere.

Da quando la mia vita era stata stravolta ed ero stata catapultata, mio malgrado, in un mondo dove i vampiri camminavano indisturbati tra gli umani, c'erano molte cose che non mi era permesso fare. Uscire a mio piacimento da quel palazzo, ad esempio, se non per casi di stretta necessità. Quindi, avevo dovuto trovare – o, meglio, inventare – dei passatempi per non perdere completamente la ragione. Di giorno mi dedicavo ad approfondire la mia cultura personale, dato che, per come stavano le cose, non avrei più potuto intraprendere la carriera universitaria che sognavo fin da bambina. Non nell'immediato futuro, perlomeno. Di notte invece...mi concentravo su una questione più importante, una sorta di studio antropologico.

Trascorrevo interminabili ore in cima alla torre, seduta sul cornicione ad osservare gli umani che transitavano per le vie del centro di Volterra. Ero sempre ben attenta a non farmi notare, anche se era quasi impossibile per loro vedermi, nascosta com'ero tra le ombre. E io ne approfittavo per inspirare a fondo i loro odori, per analizzare i dettagli fisici e affinare il mio autocontrollo. Ero una neonata, per cui la sete era più forte per me che per gli altri vampiri di cui ero circondata. Eppure, sin dal primo istante in cui mi ero resa conto di avere delle armi da taglio al posto dei denti, il pensiero di uccidere non mi aveva mai sfiorata.

Purtroppo, il fatto che non considerassi gli umani delle prede era un problema. Per questo ero tenuta prigioniera, come una principessa ribelle che si teme possa fuggire col figlio del mugnaio.

Dal gruppetto di studenti si alzò un coro di risate. Scoccai un'occhiata ai loro volti spensierati e sentii le labbra curvarsi in un sorriso involontario.

«Vorrei poterti dare molti più motivi per sorridere così, Isabella».

Quell'ammissione sincera mi colse di sorpresa. Distolsi lo sguardo dagli umani e puntai gli occhi sulla figura ammantata di nero, in piedi a qualche metro dal cornicione su cui ero appollaiata. Saltai giù e andai incontro al vampiro dai lunghi capelli scuri, il mio creatore.

Il sospiro di Marcus si perse nell'aria fresca della notte. «So che sei diversa da noi, Isabella. L'ho capito dal primo momento. Se non lo fossi stata...». Lasciò la frase in sospeso, ma sapevo cosa intendeva dire.

Se non avessi posseduto quel qualcosa che mi distingueva dalla massa, a quell'ora non mi sarei trovata su quella torre. Se quella sera di due anni prima Demetri non mi avesse trovata agonizzante, se il mio sangue non avesse attirato la sua attenzione, so bene dove mi troverei oggi.

Sarei morta.
Come era morto Charlie, mio padre.

Strinsi gli occhi quando nella mente tornarono ad affacciarsi i ricordi. Era accaduto tutto durante il mio primo viaggio all'estero, un regalo dei miei genitori per il diploma. Mia madre non aveva potuto accompagnarmi – era sempre in giro per gli Stati Uniti al seguito del nuovo marito –, quindi Charlie si era offerto volontario. Avevamo visitato Londra, poi Parigi e, infine, eravamo giunti a Firenze, tappa finale del nostro tour europeo. Mancavano pochi giorni al nostro ritorno in America, eravamo usciti a cena e stavamo tornando in hotel, quando all'improvviso eravamo stati accerchiati da una decina di uomini armati a volto coperto.

I miei ricordi di ciò che è accaduto in seguito, prima e dopo i colpi di arma da fuoco, sono nebulosi. So solo che mi ero lanciata contro mio padre, un attimo prima che uno dei criminali iniziasse a sparare. Avevo intuito le sue intenzioni e volevo togliere Charlie dalla linea di fuoco, ma da lì in avanti le cose erano precipitate.

C'erano stati altri spari, poi urla disumane e infine il silenzio, rotto soltanto dal mio respiro affannoso. E lo sguardo vacuo di mio padre, steso a terra al mio fianco, la camicia candida inzuppata di sangue...

A quel pensiero sentii il petto contrarsi per il dolore. Era strano: un essere immortale scolpito nella pietra non avrebbe dovuto poter soffrire in quel modo. Il mio corpo sovrumano non poteva essere scalfito, se non dai denti dei miei simili; non potevo ammalarmi, non dovevo temere incidenti, eppure riuscivo ancora a provare emozioni.

Ma, a giudicare dalle grida soffocate che sentivo giungere dai piani inferiori del palazzo, in quel posto ero l'unica.

Mi riscossi dalle mie riflessioni e annuii in direzione di Marcus. «Lo sai come la penso sulla nostra dieta. Rispetto le vostre...», esitai un istante, alla ricerca del termine più appropriato, «...preferenze, ma non fanno per me».

Il sospiro di Marcus si trasformò in uno sbuffo divertito. «Bella, cara, lo sai che puoi parlare liberamente con me. Non temere di offendermi, non sono permaloso quanto Aro, né...irascibile come Caius».

Storsi la bocca. Irascibile non rendeva nemmeno l'idea. Caius era temibile e letale quanto un cobra a digiuno da mesi. A suo confronto, Aro appariva quasi...indulgente.

I Volturi, il clan di vampiri che mi avevano salvato la vita e poi accolta nella loro antica dimora, non erano degli immortali qualunque. Erano un gruppo numeroso, capeggiato da un triumvirato formato da Aro, Caius e Marcus. Abitavano a Volterra da secoli, ben nascosti dagli umani, in agguato nell'ombra come voraci predatori. I miei simili li consideravano una sorta di famiglia reale, incaricata di vigilare sulla razza dei vampiri. Per questo le nuove trasformazioni e le ammissioni nel clan erano centellinate: i Volturi accettavano soltanto chi dimostrava di possedere un determinato talento. Molti dei miei fratelli adottivi erano straordinariamente dotati: Demetri era un ottimo segugio; Jane riusciva a stendere gli avversari con un solo sguardo; Alec, il suo gemello, era specializzato nella deprivazione sensoriale; Felix e Santiago erano guerrieri formidabili.

Ed io ero uno scudo. Nessuno poteva giocare con la mia mente e i miei pensieri. I poteri di Jane, Alec – perfino quello di Aro – non avevano alcun effetto su di me.

Marcus si appoggiò al muro al mio fianco e mi posò con delicatezza una mano sulla spalla. Alla luce delle stelle la sua pelle aveva il colore della neve, liscia e priva di imperfezioni come lo era la mia. Solo che la sua era molto più fragile. Forse era per quel motivo che rischiavo meno di altri l'ira di Caius. Ero una neonata vampira, molto più forte fisicamente di qualsiasi altro membro del clan dei Volturi. A parte Felix, forse.

Gli occhi rossi di Marcus si specchiarono nei miei. «Sono venuto a cercarti perché devo parlarti di una cosa. Una sorta di...proposta a cui penso da un po' e che, inspiegabilmente, ha ottenuto l'approvazione di Aro».

Inarcai le sopracciglia. Quella era una novità non da poco: sapevo quanto fosse difficile ricevere un sì da Aro, qualsiasi fosse la domanda. Sembrava che il vampiro si divertisse immensamente a cestinare una richiesta dopo l'altra e nessuno era così stupido – o incosciente – da riproporla una seconda volta.

Marcus si chinò verso di me, i lunghi capelli scuri che ondeggiavano nella brezza. «Abbiamo in programma per te una piccola gita. Anzi, potremmo chiamarlo...viaggio di formazione».

A quelle parole la mia curiosità si accese, scacciando l'ondata di malinconia di cui ero prigioniera da giorni. Fissai Marcus, trattenendo a stento l'impazienza di saperne di più.

«Ho convinto Aro a lasciarti partire per il Nuovo Continente. Avevo proposto di lasciarti libera di viaggiare per qualche anno, darti il tempo di conoscere un po' il mondo prima di richiamarti qui». Un altro breve sospiro, stavolta di frustrazione. «Ma, naturalmente, Caius si è opposto. Con estrema fermezza, aggiungerei. Ti ritiene instabile, troppo giovane per essere lasciata da sola, e Aro si è dichiarato d'accordo».

Annuii, per nulla sorpresa. Intuivo che Marcus stava tenendo per sé gran parte della loro discussione, scegliendo con cura le parole per non offendermi. Conoscendolo, di certo Caius aveva usato espressioni molto più brutali per definirmi. Non aveva mai fatto mistero della sua avversione nei miei confronti, né aveva mai perso l'occasione per lanciarmi addosso offese o recriminazioni, o per sottolineare quanto fosse contrario alla mia trasformazione sin dal principio. Ero abituata alle sue minacce costanti, ma riuscivano comunque ad intimorirmi.
Con i Volturi non c'era da scherzare, l'avevo imparato da tempo.

Ma...un viaggio in America? Avrei potuto tornare a casa, anche solo per un breve periodo? Mi sembrava troppo bello per essere vero. Se non avessi saputo che era impossibile, avrei giurato di star sognando.

Cercai di non lasciarmi trasportare troppo dall'entusiasmo, mentre Marcus mi illustrava il programma. «Avevamo già deciso di fare visita a qualche nostra conoscenza in America, un...controllo che non può più essere rimandato». L'espressione di Marcus si incupì appena. «Ho pensato che un cambiamento di ambiente ti avrebbe fatto bene. E poi conoscere altri di noi, vampiri che condividono il tuo punto di vista...».

«Il mio punto di vista?», ripetei, confusa.

Il sorriso di Marcus si fece comprensivo. «I vampiri di cui sarai ospite non si cibano di esseri umani. Hanno scelto di ripiegare sugli animali, proprio come te».

Quella rivelazione mi colpì con la forza di un tornado. Quindi davvero ne esistevano altri! Vampiri che, come me, non condividevano la sete di sangue dei Volturi, che riuscivano a sopravvivere senza commettere un massacro dopo l'altro. Credevo che Carlisle Cullen, a cui Aro aveva accennato in passato, fosse l'unica eccezione.

Marcus chiuse un attimo gli occhi. «Demetri e Santiago partiranno tra qualche giorno, e tu andrai con loro. Ti condurranno da uno dei clan con cui siamo rimasti in contatto, un gruppo di vampiri che vivono stabilmente in Alaska. Rimarrai con loro fino al ritorno dei tuoi fratelli, poi tornerete insieme a Volterra. Si tratta di qualche mese, al massimo». Arricciò le labbra, scoprendo i denti. Di sicuro stava ripensando alla discussione con Caius: il fratello era l'unico che riusciva a infrangere l'aura pacata che avvolgeva sempre Marcus. «Avrei voluto concederti più tempo, una maggiore libertà, ma a quanto pare questo è il massimo che possa ottenere».

«È fantastico», fu tutto quello che mi uscì di bocca. Ero a corto di parole, ma Marcus sembrò percepire la mia sincera gratitudine. Lasciò sfumare l'irritazione e mi rivolse uno dei suoi rari sorrisi. Dubitavo che un altro membro del clan avesse mai avuto l'opportunità di vederne uno. Marcus era ben lungi dal mostrarsi felice, specie se nei paraggi c'erano Aro e Caius.

Come dargli torto.

«E come viaggeremo? Di certo non posso imbarcarmi in un aereo pieno zeppo di umani...». Il solo pensiero scatenava in me un profondo orrore, a cui faceva eco il bruciore incessante della sete. Sapevo controllarmi, di certo meglio di altri neonati che mi era capitato di incrociare nel palazzo. La maggior parte veniva giudicata troppo instabile e abbattuta senza ulteriori indugi.

La reale portata del mio autocontrollo, del tutto innaturale per un neonato, aveva stupito non poco i Volturi. Ero un esemplare anomalo già da umana e da vampira non facevo eccezione. Eppure conoscevo i miei limiti: non avrei mai potuto rimanere rinchiusa per ore assieme ad un folto gruppo di umani. Lo stesso doveva valere per Demetri e Santiago, che di certo non avevano mai tentato di controllare la loro sete e i loro impulsi.

Il sorriso di Marcus si trasformò in una debole risata. «Userete il mezzo meno rapido, temo. Impiegherete più tempo, ma almeno non rischieremo incidenti. Sono sicuro che nuotare nell'oceano sarà un'esperienza che non dimenticherai tanto presto».

Risi con lui. Nella mia mente si formarono immagini di squali giganti e onde alte come palazzi. Niente di tutto quello ora poteva nuocermi, realizzai con entusiasmo. Avrei potuto trattenere il respiro e immergermi sott'acqua per chilometri, fino a toccare il fondo dell'Atlantico. Avrei potuto...assaporare di nuovo la libertà, dopo due anni prigioniera in quel palazzo del terrore.

Ed era tutto merito di Marcus.  

Senza pensare, mi allungai e lo avvolsi in un abbraccio. Non ero mai stata un tipo espansivo, neanche da umana, e sapevo di dover dosare bene la mia forza per non fargli male, ma in quel momento ero talmente felice che avrei potuto persino baciare Aro. Non Caius, no. Lui mi avrebbe volentieri strappato braccia e gambe, se solo avessi osato avvicinarmi.

Marcus mi diede qualche colpetto incerto sulla spalla. Nemmeno lui era abituato a gesti tanto spontanei, né a ricevere dimostrazioni d'affetto. «Grazie», mormorai, stringendo appena la stretta sulla sua schiena. Affondai la guancia nella morbida stoffa del suo mantello, chiudendo gli occhi. «Grazie davvero, Marcus. Non sai quanto significa per me».

Il suo fiato freddo mi sfiorò l'orecchio. Nelle sue parole si celava l'eco di un'antica sofferenza. «Promettimi solo che tornerai, Isabella. Sana e salva».

Le mie dita si contrassero tra le pieghe del mantello. «Lo prometto».

E avrei fatto il possibile per mantenere la parola.





*





 
Stavo trattenendo il respiro, cercando dentro di me il coraggio necessario ad aprire gli occhi. Ero ferma immobile davanti allo specchio da qualche minuto, divisa tra impazienza e preoccupazione. Ai miei piedi era posata una piccola sacca, contenente quelle poche cose di cui avrei avuto bisogno durante il viaggio. Almeno fino al nostro tuffo nell'oceano.

Avevo ripassato accuratamente il programma stilato da Demetri. Sapevo cosa aspettarmi: mi ero preparata mentalmente ad ogni possibile scenario. Ero andata a caccia ogni giorno nell'ultima settimana. Anche se ci saremmo tenuti a debita distanza dagli umani, preferivo non correre rischi. Non più di quelli che erano già in gioco.

Nei giorni precedenti mi ero dovuta subire ore e ore di assidue raccomandazioni da parte di Aro, intervallate dalle abituali minacce – neanche troppo velate –, di Caius. Ero stata informata di cosa mi sarebbe accaduto se avessi disobbedito a una qualsiasi delle loro disposizioni, una lista talmente lunga che perfino il mio cervello immortale si era rifiutato di continuare a memorizzare.

Se un mio errore, una qualsiasi mia azione, avesse compromesso la missione di Demetri e Santiago, o avesse messo in pericolo l'esistenza del clan, la mia sarebbe terminata in un battito di ciglia. Non erano raccomandazioni da prendere alla leggera: anche se ero stata catapultata in una non-vita che non avevo scelto, volevo comunque continuare a camminare su questo pianeta il più a lungo possibile. Nonostante le privazioni forzate, la continua sete bruciante e il dolore per la perdita della mia identità passata, era pur sempre un destino preferibile alla morte, all'oblio.

Scrollai la testa e aprii finalmente gli occhi. Dopo la mia trasformazione, quei tre giorni in preda alle fiamme e al delirio, avevo evitato di incrociare il mio riflesso su qualsiasi superficie. Mi bastava cogliere lo scintillio cremisi delle mie iridi riflesse in quelle degli altri vampiri per provare orrore. Due anni non erano serviti per farmi accettare quel piccolo particolare, che, in confronto al resto, avrebbe dovuto apparirmi insignificante. Eppure per me non lo era affatto, il che testimoniava ancora una volta quanto fossi diversa dagli altri della mia razza.

Adoravo il colore dei miei vecchi occhi, che viravano dal verde al marrone a seconda della luce. Grazie alla mia dieta a base di sangue animale, con il passare dei mesi quel rosso inquietante si era ridotto, ma non abbastanza da svanire del tutto. Ne restava una vaga traccia ai margini dell'iride, che forse sarebbe scomparsa se mi fossi nutrita con regolarità, invece di attendere troppo da una battuta di caccia alla successiva.

«Lo posso fare», ripetei tra me, forzandomi di non distogliere lo sguardo dal mio riflesso. «Non sono come loro. So controllarmi. Non metterò in pericolo nessuno».

Nonostante sapessi di essere stabile, di aver dimostrato di poter gestire i miei impulsi anche in presenza di umani, una voce dentro di me continuava ad instillarmi il dubbio. E se durante il viaggio mi fossi imbattuta in qualche umano ferito, avrei saputo trattenere la sete e allontanarmi senza prima esporre uno di noi?

Una parte della mia insicurezza era generata da quella che avevo percepito negli altri miei compagni. Dopo l'annuncio ufficiale da parte di Aro, sia Jane che Alec si erano mostrati alquanto dubbiosi. Avevo persino udito Felix lamentarsi con Marcus per la propria esclusione da quel viaggio, sebbene sapesse che i suoi servigi erano necessari a palazzo. Era una delle guardie con più esperienza e forza: Aro non gli avrebbe mai permesso di allontanarsi per lunghi periodi da Volterra.

Scossi ancora la testa, scacciando quel garbuglio di pensieri ansiosi. Marcus aveva fatto in modo di assicurarmi un periodo di libertà: avrei impiegato ogni goccia di autocontrollo per non deluderlo. E per non dare a Caius il giusto pretesto per la mia esecuzione. Nell'immaginare quel possibile esito, sentii i miei sensi affinarsi e la mia concentrazione divenne granitica.

Non gli avrei mai concesso la soddisfazione di eliminarmi.

Un lungo rintocco risuonò nel salone deserto, il segnale che stavo aspettando. Afferrai la sacca, me la gettai in spalla e mi avviai alla porta. Avevo già avuto modo di porgere i miei rispetti ad Aro e Caius – come prevedeva il loro ridicolo cerimoniale –, e di salutare senza troppa enfasi il resto del clan. Non ero particolarmente affezionata a nessuno di loro, quindi avevo impiegato poco tempo.

L'unico vampiro da cui mi sarei separata a malincuore mi stava attendendo appena fuori dal salone, all'inizio della scalinata che conduceva ai piani inferiori. Marcus mi rivolse un sorriso e un debole cenno del capo. Non disse nulla, non ce n'era bisogno. Sapevo che la mia assenza avrebbe riacceso l'antica sofferenza per la perdita di Dydime, la sua amata compagna. Dopo la sua scomparsa, Marcus non aveva più conosciuto la vera felicità. Tuttavia, diceva che la mia presenza contribuiva a scacciare il dolore di cui era preda da secoli. Ero quanto di più vicino ad una figlia avesse mai avuto, una dei pochi che aveva scelto spontaneamente di trasformare.

Mi allungai per premere le labbra sulla sua guancia e udii distintamente i sibili infastiditi delle sue guardie. Li ignorai, tirandomi indietro con voluta lentezza. Marcus sorrise con più convinzione, divertito come sempre dalla mia intraprendenza. Risposi al suo cenno, poi mi voltai per raggiungere il gruppetto che sostava ai piedi della scala.

Lo sguardo rosso brillante di Jane si soffermò per un istante sui miei abiti, prima di alzarsi per incrociare il mio. «Hai finalmente imparato a vestirti», fu tutto ciò che disse.

Alzai gli occhi al cielo. «Apprezzo che tu lo abbia notato, Jane». La conoscevo abbastanza da sapere che quello era il massimo che mi potessi aspettare da lei, quanto a complimenti. Ma aveva ragione, avevo davvero imparato da poco ad adeguare i miei abiti alla stagione, per non dare nell'occhio in caso qualche umano mi avesse vista. Il che accadeva talmente di rado da non valere lo sforzo. Per il viaggio mi ero limitata ad indossare dei vestiti casual, dal taglio anonimo. Se avessi avuto bisogno di qualcos'altro, ero certa che sarei riuscita a procurarmelo.

Al suo fianco Felix aveva l'aria contrariata. «Avrei tanto voluto accompagnarti, Bella. Non mi sento...sicuro a saperti così lontana e circondata da estranei. Saprei proteggerti molto meglio di Demetri e Santiago».

Trattenni un ringhio. Felix era quello che, più di tutti lì dentro, cercavo di evitare. Sin dai miei primi giorni come vampira aveva dimostrato uno spiccato interesse nei miei confronti. Un interesse che non ricambiavo affatto. Gli lanciai un'occhiataccia, poi lo superai a grandi passi, borbottando un saluto.

Come se avessi bisogno della sua protezione. L'unica vera minaccia per la mia incolumità ero io stessa.

I miei due compagni di viaggio mi attendevano poco più avanti, frementi d'impazienza. Puntai gli occhi sulle loro figure slanciate, sulle spalle larghe di Demetri e sulle braccia scoperte di Santiago. Indossavano degli abiti sportivi, nero pece, molto simili ai miei. Santiago non diede segno di aver notato la mia presenza: prima che potessi accennare un saluto, si voltò e si diresse verso l'uscita secondaria del palazzo. Demetri si limitò a chinare la testa, per poi imitarlo.

Date le premesse, mi si prospettava un viaggio lungo e molto stressante. Forse non avrei dovuto concentrarmi sul non far fuori gli umani, ma trattenermi dal mordere i miei due accompagnatori. Sospirai e scoccai un'occhiata a Jane, ancora immobile al mio fianco. Teneva gli occhi scarlatti puntati su di me e, nel notare la sua espressione corrucciata, mi sfuggì un sibilo di irritazione. Sapevo cosa stava tentando di fare e non mi piacque affatto.

Lei rispose alla mia occhiata seccata con un sorriso luminoso. «Tranquilla, Bella. Stavo solo controllando che fosse tutto a posto, come sempre. A quanto pare il tuo scudo regge». Poi mi precedette, scortandomi fino all'uscita posteriore del palazzo, suscitando un grugnito di fastidio da parte di Santiago. Demetri aprì il pesante portone e uscì nel vicolo buio.
Era scesa la notte, il momento giusto per mescolarci agli umani.

Quando le passai accanto per scavalcare il muro che delimitava il cortile interno, Jane sventolò le dita e mi fece l'occhiolino. «Buon viaggio, Bella. E ricordati di portare i nostri saluti a Tanya e Carlisle».

Esitai un istante. C'era qualcosa che non mi convinceva nel suo tono. La sua voce da bambina era percorsa da una nota ilare, come se in qualche modo mi stesse prendendo in giro. Corrugai le sopracciglia, ma poi decisi di lasciar correre. Mi limitai a un rigido cenno del capo, prima di dileguarmi nel buio.




*




A quell'ora della notte i dintorni del palazzo erano deserti. Se prestavo attenzione, potevo udire distintamente i battiti dei cuori degli umani che abitavano nelle case adiacenti.

Anime ignare e innocenti, che non si rendevano conto di trovarsi a pochi passi dalla morte. Nel percorrere i vicoli stretti, illuminati soltanto dalla tenue luce lunare, procedemmo a velocità umana, tanto per non rischiare che qualcuno ci vedesse. Mantenemmo quell'andatura di una lentezza estenuante fino ai confini della città. Non appena ci lasciammo alle spalle le ultime abitazioni e ci inoltrammo nella placida campagna toscana, percepii il sollievo dei miei due accompagnatori. Raggiunti i primi filari di alberi, abbandonammo ogni finzione e cominciammo a sfrecciare, finalmente liberi di assecondare la nostra natura.

Correre era una delle mie attività preferite nella mia nuova vita. Da umana ero sempre stata troppo pigra per appassionarmi a un qualsiasi sport: di certo la mia imbarazzante goffaggine non aiutava nell'intento. Adesso avrei potuto correre per ore, per giorni interi, senza avvertire la minima fatica. Nuotare in acque ghiacciate, scalare montagne, tuffarmi da una scogliera.

Avrei potuto fare qualsiasi cosa, se avessi voluto.

No, mi corressi: se me lo avessero permesso. Purtroppo la mia libertà, il mio intero futuro, erano nelle mani di Aro. Uscivo dal palazzo soltanto per cacciare, sempre accompagnata da uno del clan e sempre rimanendo nelle vicinanze di Volterra. Quello era uno dei motivi che mi spingevano ad affamarmi, ad attendere molto più del dovuto per nutrirmi. La sete era tremenda, ma dover supplicare Aro per ore era molto peggio. Il capo clan non approvava il mio atteggiamento, quell'ostinata ribellione sul piano della dieta, e mi faceva letteralmente supplicare per ottenere il permesso di uscire da palazzo.

Tuttavia, se da un lato tentava con ogni mezzo di piegarmi e costringermi ad assecondare il suo volere, dall'altro cercava di andarci cauto con me. Dopotutto ero una risorsa preziosa per lui, una pedina che avrebbe arricchito la sua personale scacchiera in vista di minacce future.

Il mio dono era risultato evidente sin dal primo istante in cui le sue dita mi avevano sfiorata. Grazie al suo tocco, Aro poteva leggere tutti i pensieri mai formulati da un individuo, quindi non osavo immaginare quanto dovesse essere rimasto sorpreso ed estasiato nel ritrovarsi tra le mani un'umana che ne era immune. Non mi aveva concesso di diventare una vampira soltanto per pietà, o per pura curiosità: lui aveva scorto un potenziale in me e intendeva usarmi, sfruttare il mio dono per i propri scopi. Stava solo aspettando che mi stabilizzassi a sufficienza, per poi procedere all'addestramento vero e proprio. Ero sicura che fosse soltanto una questione di tempo e le proteste mie – e di Marcus – non sarebbero valse a nulla.

Ma forse quel viaggio avrebbe fatto la differenza.

Mentre correvo nel bosco seguendo la scia di Demetri, mi imposi di scacciare completamente qualsiasi pensiero riguardasse i Volturi. Intendevo godermi la poca libertà che mi era stata concessa, quella breve parentesi in una vita fatta di ordini e imposizioni. Non mi facevo illusioni, ma una parte di me non poteva fare a meno di chiedersi chi avrei incontrato al di là dell'oceano.

E se quel qualcuno avrebbe potuto aiutarmi.  
 





* * *



 
Recensioni-2

 
 
Se mai avessi cessato di esistere, ero certo sarei finito in quello che gli umani chiamavano inferno. Ed ero piuttosto sicuro si sarebbe rivelato un posto molto più interessante di quello in cui mi trovavo al momento.

Liceo. Avevo perso il conto di quante volte, nel corso dell'ultimo secolo, mi fossi iscritto al liceo. Una parentesi non indifferente per un umano, ma per un vampiro con più di cent'anni e due lauree in medicina alle spalle si poteva riassumere in due parole: pura tortura.

Era trascorso qualche mese dal nostro ritorno a Forks, una cittadina di cui serbavo ricordi contrastanti. Quanti anni erano trascorsi dall'ultima volta in cui vi avevo messo piede? Di sicuro qualche decennio, forse un po' di più. Ma ricordavo molto bene in cosa – anzi, in chi – la mia famiglia ed io ci eravamo imbattuti lì in passato. Era un ricordo lontano, eppure sorprendentemente vivido...

Quanto è bello. Vorrei trovare il coraggio di parlargli, ma è così...

Repressi l'istinto di voltarmi in automatico, quando captai il mio nome fra i pensieri della ragazza seduta al tavolo accanto al mio. Mi pareva si chiamasse Jessica. Trattenni a malapena l'esasperazione. Nel giro di mezz'ora aveva architettato un centinaio di metodi diversi per attaccare bottone con me. Li aveva scartati uno dopo l'altro, infastidita dalla propria mancanza di coraggio. Avrei voluto darle una pacca paterna sulla spalla, sottolineandole che non era la propria codardia a tenerla lontana da me, ma puro istinto di sopravvivenza. Se avesse saputo cosa le sarebbe accaduto se si fosse trovata troppo vicina ai miei denti, di certo avrebbe smesso di pensare a me in modo così...ossessivo.

Cercando di smorzare il tono della sua voce mentale, mi presi qualche attimo per valutare il resto dei presenti. La classe di chimica era l'ultimo corso a cui mi ero iscritto e ospitava una ventina di ragazzi. Quel giorno era in programma un esperimento, che ovviamente avrei dovuto svolgere da solo. Dato che mi ero trasferito a metà dell'anno scolastico, ero l'unico a non avere un compagno di laboratorio e dubitavo che qualcuno avrebbe deciso di propria iniziativa di spostarsi al mio fianco. Dal giorno in cui ero arrivato, pochi degli studenti erano stati tanto temerari da avvicinarsi e parlarmi. La maggior parte di loro faticava persino ad alzare gli occhi su di me, figuriamoci starmi vicino più dello stretto necessario.

Per me non era affatto un problema, tutt'altro. Ero abituato a controllare i miei istinti, a tenere sotto controllo la sete, ma non era saggio rischiare. Instaurare una relazione con un qualunque umano poteva rivelarsi pericoloso e controproducente. Inoltre, stando ai pensieri che captavo nella scuola, nessuno di loro valeva un tale rischio.

Nel percepire i pensieri del professor Banner, che in quel momento stava passando tra i banchi per controllare i risultati dell'esperimento, mi affrettai ad abbassare lo sguardo sul microscopio. In pochi secondi riempii il foglio delle risposte e, non appena il professore si avvicinò alla mia postazione, glielo porsi ancora prima che potesse chiedermelo. I suoi occhi scorsero attentamente il foglio, poi si spostarono su di me e mi osservarono con stupore. Nei suoi pensieri aleggiavano incredulità e sospetto, ma anche una riluttante ammirazione.

Tutto corretto, di nuovo. Non mi era mai capitato uno studente tanto brillante. Se non sapessi che è impossibile, giurerei che...

«Molto bene, signor Cullen», borbottò, prima di passare oltre.

Annuii e ritornai alle mie cupe riflessioni, tentando di fare del mio meglio per ignorare il chiacchiericcio mentale del resto della classe. Per quanto fossi ormai abituato ad escludere le voci altrui dalla mia testa, il ronzio di fondo rimaneva costante. E a volte, come accadeva dal primo giorno di scuola, certe voci erano particolarmente insistenti. Con la coda dell'occhio intercettai lo sguardo adorante di Jessica Stanley e sospirai. Sarebbe stata un'ora molto lunga.


 
*


Alle fine delle lezioni mi feci largo tra la calca degli studenti che sciamava nel parcheggio e raggiunsi in pochi passi la mia auto. I miei fratelli sarebbero arrivati da lì a poco – li sentivo ed erano tutti a poca distanza. Emmett e Jasper avevano in programma una battuta di caccia per quella sera, ma non ero esattamente dell'umore. Mi sentivo irrequieto e non capivo da cosa scaturisse quella sensazione. Accesi lo stereo, sintonizzandolo sulla mia stazione di musica classica preferita.

«Mozart? Ah, non ancora», fu il saluto di Alice, la prima a raggiungermi in auto. Si appropriò del posto del passeggero con evidente soddisfazione e cominciò a canticchiare sopra la melodia. Quando Bach lasciò il posto alla Sonata n. 11 di Mozart, Alice schioccò le dita. «Eccolo qui. Mi piace questa stazione radio. Teniamola accesa, tra poco metteranno il mio pezzo preferito di Chopin».

Alzai gli occhi al cielo. Quel pomeriggio Alice era stranamente loquace. Non che non lo fosse sempre, ma adesso pareva quasi si stesse trattenendo dal mettersi a saltellare per l'entusiasmo. Gli occhi le luccicavano e in me cominciò a germogliare il sospetto.

Inarcai le sopracciglia e chinai la testa verso di lei. «C'è qualcosa che devi dirmi?», chiesi, più per educazione che altro. Sapevamo entrambi che avrei potuto estrarre da solo la risposta, direttamente dalla sua testa.

E infatti Alice trincerò i propri pensieri dietro le sue solite, irritanti barriere. Nello specifico, si concentrò a ripetere mentalmente delle assurde filastrocche in coreano. «Non ora», si limitò a rispondere, le labbra incurvate in un sorrisetto di sfida.

Prima che potessi replicare, arrivarono gli altri. Rosalie entrò per prima nella Volvo, Emmett e Jasper si piazzarono ai suoi lati. Rose scoccò un'occhiata irritata ad Alice: il posto davanti era una sua prerogativa, l'avevano stabilito dopo accese discussioni.

Sospirai e misi in moto. Ero certo che l'atmosfera serena che regnava in auto fosse opera di Jasper: una volta arrivati a casa, Rosalie avrebbe iniziato a rispolverare la sua serie infinita di lamentele. Era ancora arrabbiata per il divieto che aveva imposto Carlisle: vietato farsi notare troppo e dare nell'occhio, almeno finché gli umani non si fossero abituati alla nostra presenza in città. Dovevamo mantenere un basso profilo, era logico. Anche non volendo, attiravamo l'attenzione: non avevamo bisogno di dare agli umani altri motivi per spettegolare su di noi e suscitare sospetti. Una coppia “giovane” con cinque figli adottivi? Era sufficiente quel dettaglio a scatenare una valanga di commenti e sproloqui di varia natura. E dire che non era che la punta dell'iceberg. Chissà cosa avrebbero detto gli ingenui cittadini se avessero saputo quanto poco giovane fosse Carlisle in realtà...almeno secondo le loro aspettative di vita.

Percorsi a velocità sostenuta il vialetto che conduceva alla nostra nuova casa. L'ansia che avevo cominciato ad avvertire nel parcheggio si era amplificata, fino a raggiungere il picco massimo non appena avvertii un brandello dei pensieri di Carlisle.

A quel punto sgranai gli occhi e inchiodai bruscamente. Non prestai attenzione alle proteste soffocate dei miei fratelli: lasciai la Volvo parcheggiata in diagonale davanti al garage e mi precipitai in casa, raggiungendo i miei genitori. Erano in cucina – una stanza che non usavamo mai, ovviamente. Faceva tutto parte della facciata che dovevamo costruire per non destare sospetti negli umani, sebbene nessuno di loro avesse (né avrebbe) mai messo piede in casa nostra.

Carlisle ed Esme non furono sorpresi di vedermi arrivare di corsa. Mi fermai accanto a quello che, ormai da quasi un secolo, consideravo come un padre, e lo guardai negli occhi. Avvertivo i pensieri di Esme e i suoi tentativi di dissimulare l'apprensione che provava. Era inutile, avevo già sentito quello che mi serviva sapere.

«Quando?», chiesi, rivolto a Carlisle.

Lui ricambiò il mio sguardo e sospirò. «Fra qualche giorno».

«Quanti?».

«Soltanto una. E, prima che tu lo chieda, no, non si fermerà molto». Il suo tono era pacato come al solito, ma i suoi pensieri erano velati di preoccupazione. «Qualche mese, forse meno».

Dalle labbra mi sfuggì un sibilo. Ci mancava solo quello. Proprio adesso che ci eravamo trasferiti e dovevamo stare attenti ad ogni singola mossa...

«Di cosa state parlando?», domandò Emmett spazientito, interrompendoci. Non li sopporto quando fanno così, continuò tra sé. Come se fossimo tutti capaci di leggere nel pensiero...Edward, se questa cosa riguarda la famiglia, abbiamo tutti il diritto di dire la nostra!

Era fermo accanto alla porta, assieme agli altri. Rosalie ci fissava, incuriosita e perplessa; Jasper era circospetto, stava studiando il clima presente nella stanza grazie al suo dono speciale, quanto ad Alice...lei sorrideva con aria saputa.

Ridussi le palpebre a fessura, concentrandomi su di lei. Stava di nuovo eludendo la mia lettura mentale, stavolta elencando i suoi stilisti italiani preferiti e i nomi dei modelli delle nuove collezioni in ordine alfabetico.

Feci una smorfia e tornai a concentrarmi su Carlisle. Nella sua testa lessi parte della conversazione avvenuta tra lui e Aro, il capo dei Volturi. Erano un clan di vampiri sedentario, come il nostro e quello di Tanya a Denali. Una famiglia allargata, molto numerosa, e si consideravano da secoli una sorta di custodi della nostra razza. Imponevano le regole e le facevano rispettare, usando la forza se necessario – il che avveniva il più delle volte. Non avevo mai avuto la possibilità di incontrarli di persona – e di quello non potevo che rallegrarmi –, ma li conoscevo. Li avevo visti attraverso i ricordi di Carlisle, quando mi aveva parlato del proprio passato. Aveva trascorso un lungo periodo tra loro, a Volterra. Purtroppo i loro punti di vista si erano rivelati inconciliabili: i Volturi non approvavano la visione del mondo e i valori di Carlisle, e le loro strade si erano presto separate.

Perché farsi vivi dopo tutto quel tempo? Per quale motivo riallacciare i rapporti ora? Quali insidie nascondevano quelle strane richieste che udivo riecheggiare tra i pensieri di Carlisle?

Lui circondò con un braccio le spalle di Esme, poi si voltò verso il resto della famiglia. «Stamattina ho ricevuto una telefonata dall'Italia», annunciò. «Si tratta dei Volturi. Aro ha chiamato per chiedermi un favore. Tra pochi giorni arriveranno alcuni dei suoi: due guardie e una...neonata».

Il ringhio di Jasper sovrastò l'imprecazione di Emmett e il sibilo attonito di Rosalie. Con la coda dell'occhio vidi Alice dare una pacca incoraggiante sul braccio del compagno. Jasper si girò a guardarla e, nel notare la sua posa rilassata, si calmò. Sapevo che si fidava ciecamente di Alice e delle sue visioni: se lei si mostrava così tranquilla, significava che quell'imprevisto non ci avrebbe causato problemi. Non alla nostra famiglia, perlomeno. Ma agli umani?

Carlisle intercettò il mio sguardo. «Aro mi ha assicurato che la neonata non rappresenterà un problema per noi. Rimarrà a Denali, affidata al clan di Tanya. L'ho chiamata poco fa e mi ha detto di aver dato il proprio consenso, senza ricevere imposizioni dai Volturi».

«Sì, come no», borbottò Emmett. «E' ovvio che è stata costretta. Nessuno può rifiutare qualcosa ad Aro senza subire conseguenze».

Carlisle corrugò la fronte. «Forse, o forse no. Mi è parsa nervosa, ma entusiasta della novità».

Roteai gli occhi. «Lo sai com'è fatta Tanya. La prudenza non è mai stata il suo forte», puntualizzai.

Carlisle scosse la testa. «Aro mi ha anche chiesto di recarmi a Denali per incontrare la neonata. Ho accettato», dichiarò, suscitando lo sconcerto generale e un'altra imprecazione da parte di Emmett. Mio padre alzò una mano, placando le proteste. «Andrò a Denali la prossima settimana. Mi prenderò qualche giorno di permesso dall'ospedale».

«Verrò con te», mi affrettai a specificare. Carlisle non tentò nemmeno di contraddirmi: mi conosceva bene e sapeva che sarei stato irremovibile su quel punto.

«Anch'io», si inserì Emmett, beccandosi un'occhiataccia da parte di Rosalie.

«Non potrebbe trattarsi di una trappola? Un qualche tranello ai nostri danni?», rifletté Jasper, mentre in testa gli scorrevano immagini della sua vita passata. Decine di neonati dagli occhi cremisi e dallo sguardo allucinato per la sete che lo circondavano, i denti scoperti e pronti a mordere. Tra noi era il più esperto nella lotta e formidabile nelle tattiche difensive contro i nostri simili. I suoi pensieri si fecero frenetici: si mise a fare congetture sui possibili scenari in cui un neonato poteva rivelarsi una minaccia, per noi e per gli umani.

I vampiri appena trasformati erano molti più forti di noi sul piano fisico – quella neonata avrebbe potuto battere anche Emmett, il più muscoloso di noi, in un corpo a corpo. Ma i neonati avevano anche un grosso punto debole, ed era la sete. Noi, come i vampiri di Denali, eravamo allenati a sopportare la vicinanza degli esseri umani e l'incessante sofferenza che ne derivava, ma un nuovo vampiro possedeva impulsi molto più pronunciati. Cacciare, uccidere, sfamarsi: quelle erano le occupazioni principali di un neonato. Se uno di loro si avvicinava ad un essere umano, molto difficilmente avrebbe avuto la forza di controllarsi ed evitare di cedere all'istinto predatorio. Quando c'erano di mezzo i nuovi vampiri, specie se appartenevano ad un creatore negligente che non forniva loro le regole di base, accadevano spesso errori catastrofici. Troppe morti o sparizioni sospette avrebbero potuto smascherarci. Era proibito rivelare la nostra esistenza – in modo diretto o indiretto – agli umani. La presenza della nostra specie sul pianeta doveva rimanere segreta e il compito dei Volturi consisteva nel far rispettare questa legge. Non erano previsti processi democratici, né erano accettate giustificazioni: ogni errore esigeva l'eliminazione immediata dei colpevoli.

Per questo, se non si voleva coinvolgere i Volturi, gli errori andavano evitati ad ogni costo.

La voce sicura di Alice spezzò il momento di tensione. «Andremo tutti», decretò, prima che il commento di Jasper desse il via ad un'accesa discussione. Quella di Alice non era una richiesta, ma un semplice dato di fatto. La sua espressione denotava sicurezza e una vaga traccia di impazienza, che a malapena riusciva a nascondere.

Come se...non vedesse l'ora di incontrare quella nuova vampira.  

Bastò quella minuscola incertezza a causare una frattura tra i vari scudi mentali che aveva innalzato per tagliarmi fuori. Vidi solo un'immagine, un rapido flash di una visione futura, prima che Alice tornasse ad applicare le sue irritanti barriere.

Quello che avevo scorto nello spiraglio era...sconvolgente.
Rimasi talmente turbato che faticai non poco per riprendere la compostezza.

Una distesa bianca, fiocchi di neve che turbinavano nel vento. Lampi di luce verde e viola che danzavano sul ghiaccio, illuminando un me stesso sorridente e...una mano delicata e pallida posata sulla neve accanto alla mia.












* * * * * * *

Eccomi di ritorno con il primo capitolo! Come vi sembra la storia finora? Ringrazio mille volte Giulia, la mia fidata beta reader, per i preziosi consigli. Ho cercato di impostare il tutto affinché la storia potesse essere letta (e capita) anche da chi non ha letto i libri della saga. Come avrete notato, i tempi sono leggermente modificati: in questo contesto i Cullen si sono appena trasferiti a Forks, ma Bella ha già preso il diploma.

Ringrazio le persone che hanno cominciato a seguire la storia e chi ha recensito!
La storia avrà una decina di capitoli e conto di aggiornarla una volta a settimana.

Baci da Lizz.


p.s. per restare aggiornati e leggere i miei vaneggiamenti vari, questa è la mia pagina fb. Il resto lo trovate qui e sul mio blog.







 
   
 
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