Fanfic su artisti musicali > Demi Lovato
Segui la storia  |       
Autore: crazy lion    30/10/2020    1 recensioni
Attenzione! Questa mini long si ricollega alla mia fanfiction Cuore di mamma, ancora in corso. Leggete prima quella per evitarvi anticipazioni. La storia si colloca dopo la fine della long. L’unico spoiler che c’è, per i fan, è la presenza del fratellino di Elizabeth, l’amica di Mackenzie, nel capitolo 3. Per il resto, chi sta leggendo Cuore di mamma può seguire senza problemi.
Storia stilata con Emmastory, a cui appartiene la saga menzionata qui e nei capitoli.
La lettura è importante per i bambini. Stimola le loro menti e li fa volare con la fantasia. Lo sanno bene Mackenzie e Hope che, da poco più di un anno, hanno cominciato a leggere assieme a mamma Demi una saga fantasy, Luce e ombra, su un sito di scrittura amatoriale. Da un mese l'autrice, Emmastory come si fa chiamare, ha auto-pubblicato il primo libro. Mackenzie si sveglia pensando che quello sarà un sabato mattina come tanti, ma non sa che uno dei suoi sogni sta per avverarsi. E riguarda proprio Luce e ombra.
Disclaimer: con questo nostro scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendiamo dare veritiera rappresentazione del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demi Lovato, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAPITOLO 2.

 

L’ATTESA

 
Accidenti, volevo tanto che lo sapesse pensò amareggiata, tirandosi appena i riccioli neri.
In parte era fisiologico, aveva senso svegliarsi dopo una buona notte di sonno, ma dall’altra non era affatto giusto. Un attimo prima era davvero alla presentazione di quel libro, mano nella mano con l’autrice che finalmente l’aveva notata nella folla, e quello dopo… di nuovo a casa. Scuotendo la testa, s’impose di non pensarci, poi decise di iniziare al meglio la giornata. Scostò piano da sé le coperte e, sgusciando fuori dal letto, notò che aveva quasi dimenticato di essersi addormentata stringendo il proprio pupazzetto preferito. Un piccolo scoiattolo marrone con una striscia bianca lungo tutta la schiena, un sorrisetto sul muso e i cuscinetti delle zampe rosa. Era Bucky, l’animaletto domestico di Kaleia. In realtà non era suo, l’aveva per così dire rubato a Hope, ma alla piccola non importava. Non che non ci giocasse più, anzi, il contrario, ma tanto impegnate a crescere quanto a vivere una vita piena di sogni, entrambe, lei per prima, ricordavano una delle lezioni più importanti mai imparate sia a scuola che dalla mamma.
“Condividere è amare, signorine” aveva detto una volta, dopo averle sorprese a litigare su chi avesse il diritto di giocare per prima con la nuova console Wii.
“La mamma ha ragione, ora calmatevi. Perché credete che esistano due telecomandi?” aveva risposto Andrew, dando manforte alla compagna, che presto avrebbe voluto veder diventare sua moglie.
Pieni d’impegni, con due carriere e due bambine a cui pensare, non avevano avuto un attimo di tempo per iniziare a concentrarsi su qualcosa di tanto solenne come il matrimonio, ma per il momento non importava. Era strano a dirsi, molte volte erano stati guardati con occhio indagatore da altrettante persone, che veloci a parlare e osservare, avevano lasciato cadere l’occhio sulle loro mani, non trovando altro che anelli di fidanzamento quasi identici. Persa in quei pensieri, Mackenzie sorrise, e recuperato Bucky, infilò le pantofole e uscì dalla stanza.
E se portassi anche te, domani? Dici che le piacerebbe? azzardò, parlando a suo modo con quell’amico di pezza.
Come c’era d’aspettarsi questo non rispose, ma lei immaginò di sentire i suoi squittii e di capirli alla perfezione, proprio come la cara fata.
Sì, eh? E dove vuoi stare? Nel mio zaino, magari? gli propose, sempre sorridente.
Ancora una volta, nessuna vera risposta e soltanto silenzio e, proprio come prima, tutto nella sua mente.
E va bene, zaino sia decise in quel momento, sollevandolo da terra e aprendo la zip.
Lo svuotò dei pochi libri di scuola che conteneva e, con cura quasi maniacale, vi adagiò l’amico scoiattolo così che la testolina spuntasse fuori dalla lampo in parte aperta. In fin dei conti, anche gli animali di pezza avevano bisogno di respirare, vero? Almeno secondo la sua semplice logica di bambina, sì.
Perfetto pensò, pronta a scendere le scale.
Respirando a fondo, si ripeté mille volte di stare calma e non dare di matto, come diceva spesso a Batman, specie quando grattava la porta nella speranza di vederla aperta e correre a passeggiare, ma purtroppo invano. Non aveva senso. E come poteva? A breve avrebbe incontrato il suo idolo letterario, dannazione. Emmastory, che per quanto ne sapeva era solo il nickname a cui rispondeva, ma qual era la verità? Chi era lei in realtà? Come si chiamava? Cosa la spingeva a scrivere tanto e soprattutto così bene? Dove aveva imparato? Come? Da quanto tempo scriveva? Com’era nata la sua passione per la scrittura? Aveva letto su internet che quello pseudonimo era una sorta di strano gioco di parole, ma anche quello era vero? Poteva fidarsi o Google e tutte le sue ricerche le avevano riempito la testa di stupidaggini? Confusa, ebbe più quesiti che risposte, e così concentrata da non guardare dove andava, sbatté contro qualcosa, o meglio, qualcuno.
“Mac, attenta! Santo cielo, finirai per farti male…”
Era papà Andrew, che ancora in pigiama proprio come lei, stava salendo le scale.
Scusa, papà! lasciò intendere con lo sguardo, sperando di non essere stata lei a far male a lui.
“Non fa niente, principessa. Ora vai, la colazione è già pronta e mamma e io abbiamo un’altra sorpresa” le rispose l’uomo, senza alcuna traccia di rabbia o fastidio nella voce.
Alla parola sorpresa il cuore della bambina perse un battito e, con le ali ai piedi, si precipitò giù fino all’ultimo scalino, per poi saltare e atterrare lievemente, senza per fortuna farsi nulla. A quanto sembrava, le lezioni di danza che prendeva dalla sua migliore amica Elizabeth – o Lizzie, come preferiva essere chiamata – stavano iniziando a dare i loro frutti. Avrebbe voluto imparare da una vera insegnante come faceva lei, ma almeno per il momento aveva deciso di accontentarsi. Dedita a quella passione come poche altre bambine del suo corso, Lizzie stessa sembrava rubare il mestiere alla donna con gli occhi e alle volte anche al suo compagno, che si presentava solo quando alle piccole veniva chiesto di trovare un ballerino per gli esercizi di coppia. Divertente, certo, ma per alcune anche imbarazzante. Secondo i racconti che Mackenzie ascoltava ogni giorno durante la ricreazione, non per l’amica, né per Judith, una sorta di ultima arrivata nella loro cerchia di amichette composto da loro due e Katie, in quello che prima o poi avrebbe smesso di essere un trio per diventare un quartetto. Né lei né Lizzie sapevano davvero quando, per ora Judith era soltanto una semplice conoscente con la passione per il balletto, i puzzle, la musica di mamma Demi e della cara Taylor Swift, con uno yorkshire terrier come cagnetto da compagnia e degli ottimi voti in tutte le materie e dolce come lo zucchero filato. Fermandosi a pensare, la bambina ricordò di non mangiarlo da tempo, all’improvviso ne ebbe voglia e, anche se solo per un attimo, sperò che la sorpresa dei genitori consistesse proprio in quello e, quando parve convincersene del tutto, ecco la verità. Non zucchero filato come voleva, ma semplici cereali.
Cosa? E me la chiamano sorpresa? non poté evitare di scrivere e pensare sedendosi, irritata.
Hope la salutò e anche Demi fece lo stesso, poco prima di versarsi una tazza di caffè.
“Tutto bene, Mac?” le chiese, ancora stanca ma felice di vederla.
Diciamo di sì scrisse la bambina, con ancora l’amaro in bocca.
Quello era soltanto un modo di dire, ma dopo quel così brusco risveglio si sentiva strana ed era convinta che non esistesse maniera migliore di descrivere ciò che provava.
“Che c’è, un altro brutto sogno?” tentò allora la donna, non riuscendo a non preoccuparsi.
Molti avrebbero detto che esagerava nel farlo così tanto, ma come poteva rilassarsi sapendo quanto sua figlia avesse sofferto e continuasse a farlo? Gli incubi erano diminuiti e la situazione, per quanto riguardava il resto, migliorata molto, ma comunque quei sogni forse non sarebbero mai scomparsi. A Mackenzie Catherine non l’aveva detto per non spaventarla, ma le aveva spiegato che anche quello era un modo per elaborare il lutto dei suoi genitori. Sognandoli, vedendoli, sentendo le loro voci e rivivendo stralci di quella notte, la sua mente stava male, sì, ma aveva ancora l’illusione di averli più vicini.
“È positivo che tu li sogni, è come se venissero a trovarti, anche se capisco benissimo che vorresti sognarli felici, non così” le aveva detto una volta. “Ma magari succederà, è già accaduto ogni tanto, no?”
Mackenzie aveva sorriso e risposto di sì.
A Demi, ai colloqui mensili che facevano perché Mackenzie era ancora minorenne e la psicologa aveva l’obbligo di tenere la ragazza informata, Catherine aveva spiegato che essendo quegli incubi anche parte del suo trauma, dato che Mac sognava questo, forse non se ne sarebbe mai liberata, perché anche se fosse riuscita ad andare avanti con la sua vita soffrendo di meno, la morte dei propri genitori non si può mai lasciare del tutto alle spalle, soprattutto se avvenuta in modo tanto efferato.
“Me l’aspettavo” aveva risposto lei. “Spero solo saranno meno brutti nel corso del tempo.”
Demetria si riscosse quando sentì la figlia scrivere e tornò al presente.
Quasi. Ho sognato la scrittrice, stavo per dirle una cosa, e poi…
Non riuscì a continuare.
“Vuoi parlarne?” azzardò a quel punto Demi, mesta.
Mackenzie annuì e, tranquilla, riprese a scrivere.
Almeno stavolta è stato bello, mamma. Eravamo già lì, avevo in mano il mio libro e l’aveva autografato, poi mi ha fatto una domanda e non sono riuscita a risponderle. Mi sono svegliata spiegò, fortunatamente felice e non tediata dal timore degli incubi.
Demi sorrise, i suoi lineamenti si rilassarono e tirò un sospiro di sollievo.
“Non sai quanto mi fa piacere sentirlo!”
Almeno per quella notte i brutti sogni l’avevano lasciata in pace, si disse Mac. Gli incontri con la psicologa la stavano aiutando. Ci andava da poco più di un anno e da qualche mese avevano iniziato una sorta di nuova terapia, una che poteva seguire anche da casa, per poi presentarsi all’appuntamento e raccontarle i risultati, e perché no, mostrarglieli. Proprio per quello la mamma le aveva consigliato di riaprire il suo fido diario, e in una sezione separata da quella in cui registrava i pensieri e le emozioni, tenere uno dopo l’altro tutti i ricordi dei sogni che faceva, soprattutto degli incubi. Lì registrava tutto: la situazione che viveva, chi c’era con lei, dove si trovava, come si sentiva dal punto di vista fisico e psicologico, se percepiva un suono, un odore o qualunque altra cosa. Questo la aiutava a fissarli ancora meglio nella memoria e a parlarne con più particolari possibili durante la terapia. In quella parte di diario, però, teneva anche i suoi disegni. Mackenzie non aveva certo perso tempo e, nei momenti di calma, quando gli studi e la scuola non davano l’impressione di volerla soffocare, come per esempio quello della dannata matematica, disegnava. In genere la famiglia o i personaggi dei suoi cartoni animati preferiti, ma più di recente schizzi ispirati al libro che leggeva con la mamma. L’ultimo raffigurava una gatta nera, la cara Willow, per la precisione, seduta vicino all’acqua di un fiume popolato da tre ninfee solitarie e qualche piccola pianta, con lo sguardo leggermente sollevato e fisso sui rami di un ciliegio in fiore visitato da un trio di farfalle che svolazzavano. Un bel disegno, almeno secondo la mamma e il papà, che dopo tanto pensare aveva deciso di completare con una pioggia di stelline all’orizzonte e la sua firma, senza dimenticare la data. Un modo come un altro di ricordare il tempo che passava e continuare a farlo se mai un giorno, da grande, quel quadernino le sarebbe ricapitato fra le mani. Al momento non lo sapeva, non poteva certo prevedere il futuro come la strega Marisa e la madre Zaria, anche loro personaggi di Luce e ombra, ma in un certo senso, era meglio così. Ai semplici umani toccava vivere nel presente senza la possibilità di cancellare il passato e, almeno quella mattina, lei preferiva non pensarci. Scosse la testa e, proprio allora, un suono la distrasse.
“Ho finito, mamma.”
Era Hope che, seduta al suo posto a tavola sotto l’occhio vigile di Demi, stringeva un cucchiaio ancora sporco di latte e cereali. Voltandosi a guardarla, la giovane le sorrise, poi parlò.
“Non ne vuoi più?” chiese, notando che si sfiorava il pancino già pieno.
“No, ma forse Mackenzie sì” rispose la piccola, imitando la mamma in quel sorriso.
Grazie, Hope, ma non ho fame, e poi sono solo cereali, li ho mangiati anche ieri.
Passò quel foglietto a papà Andrew, che quella mattina era impegnato con un sudoku. Troppo difficile per lei ma divertente per lui, a quanto vedeva. Le dispiaceva disturbarlo, ma quello era l’unico modo che aveva di comunicare e, come tutti intorno a lei le dicevano, dagli insegnanti alla psicologa, non era né sarebbe mai stata colpa sua. Hope aveva quasi tre anni – li avrebbe compiuti il 5 gennaio dell’anno seguente – e non sapeva ancora leggere, per cui qualcun altro doveva farlo perché capisse la risposta. Spostando lo sguardo da quell’enigma fatto di numeri al foglietto, Andrew ne lesse ogni parola ad alta voce, poi ridacchiò divertito. Scambiò una veloce occhiata d’intesa con la compagna, che capendo al volo, sorrise ancora.
“Sicura, amore? Guarda meglio la scatola” le disse soltanto, per poi scivolare nel mutismo e studiare la sua reazione.
Confusa, Mackenzie non seppe cosa pensare e, stringendosi nelle spalle, obbedì. Fu questione di attimi, e alla fine, eccola. Grande e colorata, l’unica scritta che non si sarebbe aspettata di vedere, ma che per qualche strana ragione, non così tanto in verità, le dipinse un sorriso in volto e una speranza nel cuore:
Fairy O’s.
Spalancò gli occhi-
Non me li avevi mai presi!
Costavano un po’, la bimba non aveva mai avuto il coraggio di chiederli.
“Sì, ma non sono semplici cereali.”
A giudicare dalla forma e dai gusti dei cereali, tutti diversi in base all’arcobaleno di colori che scoprì nel suo cucchiaio e da una foto della scatola postata su Instagram che la mamma le mostrò, Mac capì che Emmastory aveva ripreso l’idea e il nome Fairy O’s, marca che esisteva davvero, per i suoi libri, in special modo la saga, con l’intenzione di trasformarli in qualcosa di magico. Su Facebook ci aveva addirittura dedicato un post, che Mac lesse, nel quale consigliava di provare quei cereali affermando che erano eccezionali. Probabilmente ne avrebbe cambiato le forme in base al colore rapportandolo agli elementi di ogni fata e folletto, e pur non potendo esserne sicura, Mackenzie si limitò a immaginare. Li aveva visti al supermercato, ma fino a qualche secondo prima non aveva idea che fossero presenti anche in Luce e ombra, il che rendeva quella sorpresa ancora più bella. L’autrice aveva scritto che comparivano nell’ultimo capitolo della terza parte. Lei, la mamma e Hope erano andate a rilento nel leggere le precedenti a causa del lavoro della donna e della stanchezza delle bambine, soprattutto di Mac che, la sera, non aveva sempre voglia di ascoltare qualcosa, ma erano andate comunque avanti e il giorno prima erano arrivate al capitolo quarantacinque.
Ancora cinque capitoli e ne sentirò parlare pensò.
Dormendo aveva sognato e ora era sveglia, certo, ma era possibile vivere un sogno? Non ne era sicura, nemmeno la passione della mamma per la psicologia le aveva mai dato una risposta, ma dopo aver riempito una ciotola di immaginazione infantile, fra un boccone e l’altro, si perse nei suoi pensieri. Stando a ciò che scriveva su Twitter, Emma aveva iniziato a lavorare alla seconda parte della saga, che aveva tolto dal sito per revisionarla e pubblicarla in seguito e nel mentre raccogliendo idee anche per la quinta – la quarta era nel sito di scrittura e ancora in corso. Poteva sembrare sciocco, forse addirittura folle, ma la ragazza era un vero genio e stranamente riusciva a lavorare a più storie contemporaneamente. Altri autori si sarebbero confusi, o avrebbero preferito concentrarsi su un lavoro per volta, ma lo stesso non valeva per lei e, in qualche modo, Mackenzie si sentiva orgogliosa di Emma. Poteva chiamarla così, no?
Continuando a mangiare, rise nel convincersi che i suoi fossero stelline e a pasto concluso rovistò nella scatola, scoprendo che sul fondo si nascondeva una sorpresa. Piccolo e funzionale, c’era da dirlo, un magnete da frigo a forma di fiore, che subito divenne la calamita perfetta per uno dei disegni di Hope già attaccati alla porta. Sorridente, Mackenzie osservò quella casetta dai colori pastello e si divertì a immaginare il suo futuro, o per meglio dire, proprio il giorno della presentazione di quel fantastico libro.
 
 
 
A casa di quell’ormai famosa e al tempo stesso esordiente scrittrice, la situazione è la giornata erano ben diverse. L’orologio del suo cellulare segnava le undici del mattino appena scoccate e, avendo già fatto colazione, era al lavoro. Sbuffando per la noia, navigava sul web in lungo e in largo alla ricerca di una copertina per il secondo libro della saga. In seguito si sarebbe rivolta a un professionista per realizzare quella finale, ma intanto desiderava trovarne una, anche solo per guardarla, che rappresentasse più o meno ciò che lei desiderava, in modo da avere idea di cosa dire al ragazzo che l’aveva aiutata per il libro precedente. Fra un’immagine e l’altra, in attesa di quella perfetta, controllava quasi ossessivamente un documento Word del tutto diverso. Era lì che aveva preso ogni genere di appunti su quanto sarebbe successo il lunedì pomeriggio della settimana seguente, stilando una lista di tutte le cose da fare. Nervosa come non mai, rileggeva di volta in volta gli stessi punti solo per aggiungerne di nuovi, e all’improvviso, l’impensabile. Prima una sorta di calo di tensione e, nel tentativo di salvare quel file, la sua dimestichezza nello schiacciare insieme i tasti Shift ed F12, poi, così com’era stato aperto, il file si chiuse.
“Oh no. Oh no. No, no, no, no! Cielo dei cieli, milord e milady, perché?” sussurrò a denti stretti, con le mani che le tremavano.
Tirò le maniche del pigiama giallo che indossava e si passò una mano fra i capelli neri, mentre i suoi occhi marroni saettavano da una parte all’altra della stanza come alla ricerca di qualsiasi cosa che la aiutasse a risolvere il problema. Con il cuore a mille, afferrò il mouse e sperò di ritrovare quel benedetto file fra i documenti più recenti, ma in alcuni brevissimi istanti quella speranza svanì come fumo. Perché era successo? Perché proprio a lei, e perché proprio quel giorno dopo tanto lavoro? Non lo sapeva, scoprirlo ormai non aveva la minima importanza, e così, senza neanche pensare, iniziò a torturarsi le dita e poi le unghie. Un’abitudine orribile ma ormai radicata in lei, che nonostante i suoi sforzi riaffiorava ogni volta che attraversava e viveva stati d’ansia pari o simili a quello. Non che ne soffrisse, per fortuna, ma comunque con una gravità e un peso tutti loro. Respirando a fondo, chiuse la mano destra a pugno finché le dita le dolsero, poi ricordò. Già inserita nell’apposita porta del PC, una chiavetta USB, in quel momento sua unica salvezza. Velocissima, non perse altro tempo e, controllando una per una tutte le cartelle che conteneva, tirò un sospiro di sollievo nel ritrovare il documento appena in tempo.
Thank God for flash drives, huh? pensò, parlando con se stessa in una lingua non sua ma che comunque sentiva propria.
Fra tante, l’inglese. Frutto di un talento naturale casualmente scoperto all’età di sei anni e coltivato nel tempo, che usava molto spesso e forse addirittura troppo, specie se parlava da sola, come in quel caso, o impartiva ordini agli animali di casa. Più al cane che ai due gatti, ma ad ogni modo una lingua perfetta allo scopo. Più calma, la giovane sospirò. Per fortuna era un file come tanti altri e non uno dei suoi racconti, che quindi dovendo avrebbe anche potuto ricreare, e chiudendo gli occhi, cercò di non pensarci. Distratta, lasciò cadere lo sguardo sulla mano destra. Due dita erano già rovinate, ma era stata in grado di fermarsi in tempo, e se fosse riuscita ad evitare lo zelo che la caratterizzava, forse nessuno se ne sarebbe accorto. Odiava quando succedeva. Nel tempo, amici e familiari le avevano consigliato di smettere, ma come poteva? Come poteva sapendo cosa ci fosse dietro e cosa causasse quello che per altri era solo una sorta di strano tic nervoso? Magari fosse stato quello, il suo unico problema. Sospirando ancora, posò entrambe le mani sulla sua scrivania, e con leggera fatica – capitava se restava seduta per troppo tempo – si rimise in piedi.
“Tutto bene?” le chiese qualcuno poco distante, cogliendola di sorpresa.
“Che?” azzardò lei, spaesata.
Senza dire altro, il giovane indicò se stesso, e in particolare le gambe. Certo, quelle. Come non pensarci? Ci provava, ma era difficile.
“S-sì, non… nessun problema. Non mi alzavo da un po', nient’altro” spiegò, vaga come al solito.
Con gli occhi bassi e fissi sul pavimento, altra abitudine tutta sua e derivante dal leggero handicap motorio di cui soffriva, con un nome troppo lungo e strano per essere pronunciato, capace di stupire chiunque e che lei conosceva in ben due lingue, non vide altro che questo e, tornando finalmente a essere se stessa, lo riconobbe. Jonathan. Dopo tanti anni, sei se ben ricordava, contando il liceo e il primo anno universitario, di totale disinteresse per il sesso opposto e una sfortuna a dir poco nera in quel campo, il suo fidanzato. A essere onesta, non sapeva cosa in passato l’avesse spinta a ignorare totalmente i ragazzi, non l’aveva davvero mai capito e se c’era una, anzi due cose che la facevano sorridere quando ci ripensava, quelle erano un paio di risposte che aveva dato un numero imprecisato di volte.
“Young, single, and totally not ready to mingle” aveva detto a un gruppo di colleghe dell’università, quando una di loro aveva aperto l’argomento sulla via verso una delle aule.
“Sono single, certo, ma per scelta degli altri” scherzava, nel tentativo di fare ironia su qualcosa che altrimenti l’avrebbe fatta star male.
Era tornata al suo lavoro e, aperta stavolta una pagina di Google, ora navigava sul caro vecchio Facebook, e con dita veloci sulla tastiera, sentiva di aver trovato il modo perfetto di passare la mattinata. Già sulla pagina del gruppo che gestiva, scriveva tranquillamente, proponendo ai suoi fan un breve sondaggio con una domanda e due piccoli hashtag: Team Sky o Team Kia. Una sorta di dibattito che sperava di iniziare e che avrebbe moderato, così da evitare commenti troppo scortesi e conseguenti liti. Lento, il tempo continuò a scorrere, e proprio mentre controllava la pagina premendo più volte il tasto di refresh, qualcosa la distrasse. Si era alzata solo per qualche istante, così da arrivare alla cucina e bere un bicchier d’acqua, ma prima che potesse davvero muoversi, eccola.
“Sally! Ehi, bella, dov’eri?” le chiese, parlandole come se fosse stata una persona reale.
A dire il vero era un cane, il suo cane. La cucciola si limitò a guardarla, la medaglietta attaccata al collare che tintinnava con ogni movimento della testolina. Distratta da qualcosa che la ragazza non vide, la cagnolina iniziò a giocare da sola inseguendosi la coda, sperando di acciuffarne almeno la punta bianca. Un modo come un altro di mostrare tutta la propria felicità e, stando alle sue abitudini, anche la voglia di giocare. Sorridendole, Emma si inginocchiò per accarezzarla, e con un gesto della mano, le indicò un cesto pieno di giochi nel salotto poco distante.
“Go get your toy! Get your toy!” le disse, sicura che avrebbe capito.
Drizzando le orecchie, la cucciola non se lo fece ripetere e, ben presto, l’unico suono udibile fu quello delle sue unghiette contro il pavimento.
“Emma, sei seria? Perché continui a parlarle in inglese? Io non lo faccio, e mi capisce comunque.” Commentò il suo Jonathan, sorpreso.
“Beh, ha senso. Io sono praticamente bilingue, quindi anche il cane è bilingue, no?” gli spiegò lei, divertita.
“Anch’io lo sono, ma non mi comporto così.”
“Dai, a lei piace e anche a me. E datti una pettinata, amore” aggiunse con un sorriso. “Togliti quelle scarpe, non stai scomodo?”
“No, va benissimo così.”
Il suo fidanzato si tirò indietro i corti capelli castani, alcuni dei quali prima se ne stavano ritti, e si passò una mano sui jeans bianchi che indossava. Emma non riusciva a capire come facesse a portarli anche in casa, assieme alle scarpe, quando era rilassato. Lei adorava starsene in pigiama.
Essendo entrambi italiani in casa parlavano quella lingua e utilizzavano alla perfezione l’altra in tutti gli altri contesti.
“Vero, ma perché proprio una femmina? E così piccola, poi” continuò il ragazzo, prendendola bonariamente in giro.
“Perché l’ho deciso io. Ho sempre voluto una beagle, e se fosse stato per te avremmo preso un dobermann. E io non voglio un dobermann” replicò lei, del tutto ferma nelle sue convinzioni.
“Come? Non ce n’è almeno uno in quel video musicale che ti piace? Sai, di… Taylor Simms?” tentò allora lui, per provare a farle cambiare idea.
A sentire quel nome, Emma quasi perse le staffe.
“Simms? Jonathan, e che cavolo! È Swift, quante volte devo dirtelo? Swift!” lo corresse, esasperata. “Comunque sì, ma sai che non potremmo permettercelo. Gradirei non essere trascinata per strada, e almeno Sally sa come non tirare” aggiunse, sforzandosi di ritornare calma.
Non voleva essere cattiva, ma era mai possibile che non capisse? Era strano, avevano legato proprio parlando di musica, quel giorno di sei anni prima all’università. Ingenua come al solito, Emma ci mise fin troppo a capire che il ragazzo non faceva che prenderla in giro e, divertita a quel solo pensiero, sorrise ancora, per poi aprire il frigorifero ed estrarne una bottiglia di succo d’arancia. Ormai era ottobre, quasi novembre, e avrebbe potuto benissimo sceglierne una d’acqua, ma certe abitudini erano dure a morire, specie al mattino.
“Ne vuoi un po'?” chiese al fidanzato, che intanto l’aveva raggiunta in cucina.
“No, sto bene così. Ehi, guarda chi arriva.”
Jonathan abbozzò un sorriso tutto suo. Lieve ma genuino, lo stesso che aveva fatto innamorare la fidanzata. Voltandosi, lei lo guardò senza capire, e sorpresa da uno scalpiccio ormai fin troppo conosciuto, abbassò gli occhi. Piccola, giovane e ingenua almeno tanto quanto la padrona, o forse anche di più, la cagnetta di casa, che almeno stavolta non era sola, e anzi, portava con sé uno dei suoi giocattoli preferiti. Una semplice corda colorata e annodata in più punti, che correndo verso i padroni, sbatteva a terra con tenera violenza.
“What’s that? Huh? What’s that?” le chiese allora Emma, dimenticando il succo e abbassandosi al suo livello. Nel farlo batté anche le mani, ma invano. Già decisa, la cucciola aveva puntato Jonathan che, del tutto sovrappensiero, finì quasi per ignorarla. “Dai, dalle un’occasione. Nient’altro, solo un’occasione” gli disse la fidanzata, mossa a compassione da quei tiepidi moti di protesta, se così potevano essere chiamati.
“Perché? È il tuo cane, carina” replicò lui, sempre fingendo astio e indifferenza realmente non provati.
“Mio? Ehi, l’ho scelta, ma in questa casa viviamo insieme, sbaglio?”
“Oh, e va bene!” concesse finalmente il ragazzo, spostando tutta l’attenzione sulla cagnolina ai suoi piedi.
In breve, i due presero a giocare, e restando a guardarli, Emma sentì il cuore gonfiarsi d’amore e gioia insieme. A volte Jonathan esagerava nel continuare a dire che Sally era soltanto di lei, ma la ragazza sapeva che fingeva soltanto di comportarsi da duro e che riusciva a capire quando farlo e quando fermarsi. Era bello vederli in quel modo, concentrati l’uno sull’altra e intenti a formare un legame che si faceva sempre più forte ogni giorno che passava. Sally non era un dobermann, né lo sarebbe mai stata, ma non importava. Proprio come loro, anche lei era un membro della famiglia, e con una piccola lacrima pronta a lasciare i suoi occhi, la ragazza fu costretta a distrarsi e sollevare lo sguardo perché non accadesse.
“Che ti succede?” azzardò poco dopo il ragazzo, notandola.
“Niente, mi fa male il collo” mentì, sbattendo gli occhi nel tentativo di asciugarli e nascondere l’emozione.
“Credo sia perché passi troppo tempo al computer, sai?” le fece notare, serio e preoccupato.
“Buon Dio, sembri mia madre!” esplose lei, alzando le mani in segno di resa.
Trovandola adorabile, Jonathan non riuscì a non ridere, dovendo però trattenersi per non rischiare, e attenta come sempre a ogni minimo movimento, comportamento più che tipico nei cuccioli e ancor di più in quelli della sua razza, Sally cambiò subito obiettivo, dirigendosi invece verso di lei. Eccitata dal prospetto di un gioco tutto diverso, rischiò di scivolare sul pavimento, ma per sua fortuna Emma fu lì per aiutarla. Veloce ma cauta, la invitò ad avvicinarsi, e non appena lo fu abbastanza, le sfiorò piano il collare, per poi afferrarlo saldamente.
“Hai finito? Eh? O scappi di nuovo?” azzardò, accarezzandola appena.
Lasciandola fare, la cagnolina le leccò una mano e poi il viso, e guardandola rialzarsi, piegò la testa di lato.
“Guardala, Em, è completamente confusa!” osservò, trattenendo a stento una risata.
“E non sarà così per molto, sai Jon?” si affrettò a replicare lei, sorridendo con orgoglio. Stranito, Jonathan non seppe cosa pensare, e facendosi da parte, rimase lì a osservarla. Sicura di sé e di ciò che stava facendo, Emma si accostò al piano cottura, e aperto il pensile che aveva accanto, ne estrasse un sacchetto di biscottini per cani. Colta alla sprovvista, Sally si guardò intorno per qualche istante, poi capì.
“Visto?” commentò poco dopo Emma, già orgogliosa di quel terremoto tricolore.
Mantenendo il silenzio, anche Jonathan comprese al volo, e annuendo, si abbassò al livello della cagnetta per afferrarle di nuovo il collare.
“Va’ a nasconderti” disse semplicemente, ormai sicuro di quale gioco la fidanzata stesse pianificando.
Tecnicamente un esercizio di ricerca, ma in altre parole, un gioco fantastico per una beagle come Sally. Annuendo a sua volta, Emma non se lo fece ripetere e sparì dalla vista di entrambi, rifugiandosi in salotto, lo stesso posto dove aveva lasciato computer e cellulare, entrambi sicuramente già pieni di notifiche legate al sondaggio aperto ormai da circa un’ora. Decise di controllare e, non appena Facebook decise di collaborare, rimase colpita dal numero che lesse appena sopra la campanellina delle notifiche. Era incredibile, ma davanti ai suoi occhi campeggiava un numero esorbitante. In un attimo il dito fu più veloce del pensiero, e curiosa, lesse attentamente ognuno dei commenti.
Yes! Team Kia for the win! pensò, sorridendo mentre leggeva righe e righe di veri e propri tratti in onore di Christopher Powell.
Un personaggio come tanti e in un certo senso, prima dell’arrivo di Jonathan nella sua vita, tutto ciò che avrebbe voluto da un ragazzo. Dolce, forte e giudizioso ma soprattutto innamorato, proprio come loro. A trent’anni era laureata ormai da tempo, in Lingue e Culture Moderne, proprio come voleva dopo aver passato i suoi anni di scuola a litigare con l’odiata matematica, e con un ottimo voto dopo tanti, tantissimi sforzi. Ricordava ancora il giorno in cui, camminando per la sede universitaria, aveva conosciuto il suo Jonathan. Era successo per caso, come in ognuno dei suoi libri e, dopo tutti quegli anni passati ad aspettare di incontrare il ragazzo perfetto, c’era riuscita. La sua pazienza era stata ripagata e, spegnendo il cellulare e il portatile prima di voltarsi, si decise. Si erano trasferiti a Los Angeles da pochi anni, quasi tre secondo il calendario in cucina e quello della sua vita, l’Italia le mancava e soprattutto la sua famiglia, dalla quale tornava per Natale e, se poteva, durante le vacanze estive, anche se a volte erano i genitori e i fratelli a raggiungerla. Grazie a Dio li sentiva quasi tutti i giorni. Quella decisione era stata difficile, ma alla fine ne aveva costruita una diversa. Piccola, certo, ma tutta sua. Solo lei, Jonathan e Sally, senza dimenticare, non l’avrebbe mai fatto, Zelda e Grace. Sorelle come lei e la sua gemella, due gatte bianche come colombe e allo stesso tempo nere come catrame. Quasi uguali e legatissime, e a riprova di ciò spesso addormentate come piccole lontre e intente a stringersi le zampe. Sorridendo nel vederle sdraiate sul divano si passò un dito sotto l’occhio, e inginocchiandosi sul tappeto del salotto, si batté piano una gamba.
“Sally, come! Come here, girl!” chiamò, la voce spezzata dall’emozione.
Scivolando nel silenzio attese di sentirla arrivare, di udire almeno il tintinnio della sua medaglietta, e non appena accadde, anche il fidanzato si unì a lei. Insieme, i due non fecero che giocare con la cagnolina sotto lo sguardo delle altre due amiche feline. Felice di poter stare con i padroni, Sally ricevette vari biscotti, seguiti da una generosa dose di coccole che i due riservarono anche alle gattine, affondando le dita nel loro pelo morbido e avendo il piacere di sentirle dare il via a una sinfonia di fusa, tutto mentre il futuro e la presentazione del suo libro venivano dimenticati in favore del presente.
 
 
 
Ore dopo, a Los Angeles era arrivato il pomeriggio. Il sole era spuntato facendo capolino oltre un banco di candide nuvole e, ancora nella sua cameretta, Mackenzie si stava decidendo sul da farsi. Era domenica e no, non riusciva a stare calma. Anche se da poco, aveva riaperto il suo diario e stava per iniziare a scrivere in mano una matita e non una penna così da poter cancellare in caso di errori o ripensamenti e correggersi se mai le fosse servito. Respirando a fondo, si concentrò sul panorama visibile appena fuori dalla sua finestra. Così bello da sembrare irreale o parte di una fotografia, un meraviglioso arcobaleno dopo il temporale appena passato. Capitava di rado che ci fossero tuoni in quel periodo, e ancora meno arcobaleni, perciò Mackenzie se lo godette osservando meravigliata quelle sette bande colorate. Era un peccato non avere vicino il cellulare della mamma o la sua vecchia macchina fotografica, e del tutto rapita da quello spettacolo, lo guardò svanire lentamente.
Cavolo, era bellissimo pensò, parlando con se stessa e improvvisando un disegnino in un angolo della pagina ancora bianca.
Poco dopo, colpita da un vero e proprio lampo d’ispirazione, si decise, e concentrata, prese a scrivere.
 
 
Caro diario,
so di non aver scritto molto negli ultimi tempi. Scusami. Anche se sei un oggetto inanimato, spero capirai che non ne ho avuto bisogno. Ultimamente le visite con la psicologa stanno andando bene e ho meno incubi. Certo, soffro ogni giorno per la morte dei miei genitori, non smetto mai di pensare a loro e di sentire la loro mancanza. Mi dispiace non parlare e a volte ci sto male, ma un giorno forse potrò ricominciare.
In ogni caso, non voglio parlarne oggi.
 
Sai una cosa? In questo momento sono felice. Mi fa strano dirlo. Io felice? Certo, quando mamma Demi mi ha adottata lo sono stata e ho avuto tanti bei momenti, ma dopo quello che mi è successo li ho sempre vissuti con meno gioia di quanto avrei fatto se le cose fossero andate in modo diverso. Comunque, sono contenta. Lizzie non lo sa ancora, e in realtà nessuno dei miei compagni, ma domani conoscerò la mia autrice preferita! La mamma ha comprato il libro che ha pubblicato e non vedo l’ora di andare alla presentazione! Internet e le sue pagine social dicono che è una persona fantastica e domani potrò conoscerla! Chissà, forse anche Lizzie riuscirà a venire, e magari anche Katie. Vedremo cosa mi riserverà il futuro, ma come al solito, tu sarai il primo a saperlo.
Per ora ti saluto.
A presto,
Mackenzie
 
 
Pochi paragrafi, nulla di troppo lungo e impegnativo, ma un modo come un altro di sfogarsi e consegnare alla carta tutte le sue emozioni. Decisa a mostrare il suo disegno alla ragazza, che in breve tempo aveva finito per diventare il suo idolo proprio come la mamma, lo ripiegò e adagiò nello zaino assieme al peluche di Bucky e, con un sorriso perennemente stampato sul volto, se lo mise in spalla, diretta verso il salotto.
Andò in cerca della mamma, incontrandola, com’era successo con il padre quella mattina, proprio sulle scale.
Mamma! Guarda, sono già pronta, guarda! scrisse, felicissima e in continua agitazione.
“Lo vedo, principessa. In anticipo, eh? Lo so che pensi solo a domani, ma sta’ tranquilla, arriverà presto. Anzi, scegli qualche giocattolo, oggi andiamo al parco giochi” le rispose semplicemente Demi, lasciandosi abbracciare.
Davvero? chiese allora la bambina, con gli occhi pieni di stupore e meraviglia.
“Certo! In fondo è domenica, perché non divertirsi?”
Mackenzie gettò le braccia in aria e sempre chiusa nel suo solito silenzio, che – sperava – pian piano avrebbe spezzato come ogni sortilegio assieme alla logopedista, si precipitò di nuovo nella sua stanza alla ricerca dei giocattoli perfetti per divertirsi in quel pomeriggio fuori porta. Aperto il baule dei giochi, tirò fuori un orsacchiotto per la sorellina, la sua corda per saltare e un hula hoop e tornò dalla madre, trovandola in salotto, seduta sul divano e con Danny in braccio. Ora era un bel gattone rosso di sedici mesi. Sdraiato sulle gambe della mamma, era così grande che questa quasi faticava a tenerlo in braccio e sonnecchiava con il musetto appoggiato alla sua mano aperta. Batman, invece, era disteso davanti ai piedi della ragazza, distraendosi con un ossetto di gomma.
“Mac, ora sì che sei attrezzata! Che dici, portiamo anche Batman?” commentò la cantante, contenta di vederla così felice e rilassata.
Ovviamente! si affrettò a scrivere lei, la calligrafia rovinata dal troppo zelo. Vieni bello, andiamo! Andiamo! pregò, battendo le mani per richiamarlo a sé come aveva imparato in un programma alla televisione.
Troppo felice per restare ferma, corse subito verso la macchina della mamma, scegliendo subito il posto davanti e non dimenticando di mettere la cintura. Sporgendosi quanto bastava e ridacchiando sommessamente, completò l’opera dando anche due brevi colpi di clacson.
 
 
 
Rimasta a guardarla sull’uscio di casa, Demi stessa scoppiò a ridere e si arrese all’evidenza. Ogni promessa era debito, e ora toccava rispettarla. Lenta, tolse Hope dal pavimento su cui giocava con un’alta torre di cubi e, prima di uscire, si ricordò di avvisare il compagno.
“Andrew! Dove sei?”
“Nel mio studio!” rispose lui, alzando la voce per farsi sentire anche oltre la porta chiusa.
Si trattava di una stanza, in taverna, che Demi non utilizzava e che da qualche mese avevano adibito a ufficio, in cui l’uomo aveva messo il suo computer. I due stavano insieme da quasi due anni e, pur conoscendosi da una vita, avevano deciso che non era ancora il momento di convivere. La loro storia d’amore era solida, ne avevano affrontate tante insieme, ma volevano comunque andarci con calma, sia per loro che per le bambine che avevano bisogno di stabilità. Per questo non pensavano ancora di andare a convivere, ma di attendere un altro anno.
La ragazza scosse la testa per liberarsi di quei pensieri, meravigliosi ma che, al momento, le stavano facendo perdere tempo. Lo raggiunse e, bussando prima di entrare, gli sorrise.
“Porto le bambine al parco giochi per il pomeriggio, vuoi venire?”
“Vorrei, ma l’ultima pratica è davvero importante. Pensa, un padre del tutto assente ha citato l’ex moglie in giudizio per l’affidamento della figlia. Io sto aiutando questa donna” rispose lui, dispiaciuto all’idea di dover sacrificare il tempo con la sua famiglia per il lavoro.
“Capisco, non preoccuparti. Ci vediamo dopo, d’accordo? Ti amo!” replicò lei, comprensiva come al solito, nonché profondamente innamorata.
“Ti amo anch’io!” fu svelto a replicare Andrew.
Per un istante i loro occhi si incontrarono, verde nel marrone e gli sguardi pieni d’amore si fusero insieme. Demi si sporse per baciarlo, non preoccupandosi di approfondire quel contatto e renderlo il più intenso possibile, tanto le bambine erano fuori e aveva chiuso a chiave le portiere, quindi non avrebbero nemmeno potuto uscire e rischiare di farsi male in strada. Le loro labbra restavano unite e le lingue si incontravano creando baci delicati, mentre intorno a loro iniziava a far caldo, troppo caldo. I cuori dei due battevano all’unisono, stando così vicini sentivano l’uno quello dell’altra e viceversa e brividi e scosse elettriche percorrevano loro braccia e gambe. Demi si allacciò al suo collo e lui la tenne stretta, mettendola poi a sedere sulle sue gambe.
“Ora dovrei… dovrei andare” gli fece notare la ragazza, allontanandosi controvoglia.
“Certo, hai ragione. Scusa.”
“No, ma figurati, questi momenti sono sempre bellissimi, solo che le bambine mi aspettano.”
I loro cuori urlavano ai fidanzati di rimanere a coccolarsi e a baciarsi, ma le menti, recuperata un po’ di lucidità, li facevano ragionare.
“Certo, vai pure. Ci vediamo dopo, divertitevi” la salutò con un sorriso, poco prima di tornare alla sua enorme pila di documenti.
Demetria tornò sui suoi passi e, concentrata sulla promessa fatta alla figlia maggiore, si diresse verso la macchina. Con la destinazione già in mente, guidò in sicurezza e senza distrarsi, neanche quando Hope, al sicuro sul seggiolino adatto alla sua età, continuava a indicare i passanti e i loro cani a passeggio.
“Mamma! Un cane!” ripeteva ogni volta, indicandoli col dito.
“Sì, tesoro, lo vedo. È bellissimo” le rispondeva Demi, parlandole senza distrarsi.
Per loro fortuna il viaggio non fu lungo, e dopo soli dieci minuti di auto, finalmente, eccolo. Il parco giochi. Come c’era d’aspettarsi, già pieno di famiglie e bambini come Hope e Mackenzie, che veloce come un fulmine e con Batman al seguito, fu la prima a scendere dall’auto. Il cane abbaiava festoso nel seguire la padroncina che, trovato per terra un bastoncino, diede subito inizio al gioco preferito del caro amico a quattro zampe. Batman faceva esattamente ciò che Mackenzie chiedeva, lanciandosi ogni volta all’inseguimento di quel rametto, mentre Hope, a poca distanza, provava a giocare, a suo modo, ovvio, con l’hula hoop, improvvisando a volte qualche salto con la corda, oppure si lasciava aiutare dalla mamma, che ridendo con lei, la spingeva sull’altalena.
“Più in alto!” gridava. “Più in alto, mamma!”
Demi sorrideva, ricordando i momenti nei quali, da piccola, anche lei si era comportata così.
“Sì, tesoro, ti spingerò fino al cielo.”
A un certo punto, lasciando il cane alla mamma, Mackenzie fece un giro sullo scivolo.
“Anch’io mamma. Posso?”
La cantante non rispose subito. I tre scivoli presenti erano piuttosto ripidi, purtroppo. Come mai non ne erano stati messi altri meno in pendenza? Non se la sentiva di mandare la sua bambina su uno di quelli per la troppa paura che, pur tenendosi, avrebbe potuto cadere e farsi male.
"No, tesoro, quelle giostre sono per i grandi" mentì.
"Ma io sono grande!" protestò la bimba chiudendo le manine in due piccoli pugnetti.
"Lo so, ma non quanto Mackenzie. Ti prometto che uno dei prossimi giorni to porterò in un altro parco giochi dove ci sono scivoli meno ripidi e potrai provarli anche tu, d'accordo?"
Ne conosceva uno e, anche se era più lontano, avrebbe fatto volentieri quel viaggio per vedere la figlia sorridere.
"D'accordo" le fece eco lei, anche se non sapeva cosa significasse quell'espressione.
"Puoi andare sul cavallino a dondolo, se vuoi."
La piccola lo raggiunse e vi si sedette sopra, prendendo a dondolarsi avanti e indietro.
"Tieniti alla maniglia davanti a te e non lasciarla finché non scendi" le raccomandò la mamma, avvicinandosi per controllarla meglio. Mackenzie, nel frattempo, correva su per le scale dello scivolo e scendeva a velocità sempre più elevata e Demi, anche a costo di sembrare una madre ripetitiva nelle sue raccomandazioni, le disse di non esagerare. Si zittì e lasciò che le bambine si divertissero, continuando a osservarle e facendo camminare e correre Batman, bisognoso di muoversi. Per fortuna quello era un parco dove erano ammessi i cani, ne conosceva uno in cui purtroppo questo non era possibile e non ne comprendeva il motivo. Era anche più vicino a casa sua di quello in cui si trovava adesso, ma dato che pensarci non avrebbe cambiato le cose, alla fine non importava. Ciò che contava era che la giornata fosse splendida, il sole, seppur pallido, scaldava un po', non c'era molto vento, l'aria era piena di risate di bambini che facevano sorridere anche lei, il cane camminava felice e le sue figlie si stavano divertendo come matte e si sentivano benissimo. Certo, se ci fosse stato Andrew quel pomeriggio sarebbe risultato perfetto, ma andava bene anche così e una volta a casa l'avrebbero rivisto.
 
 
 
Tranquille e senza alcun pensiero a turbare le loro piccole menti, le sorelle giocarono fino a restare senza fiato e, fra una corsa assieme a Batman e l’altra, Mackenzie aspettava l’indomani, chiedendosi cosa, in quella domenica pomeriggio, la sua scrittrice preferita stesse facendo. Poco dopo, però, un suono la distrasse da quel pensiero, e sollevando lo sguardo, lo riconobbe all’istante. Rumoroso e colorato, un vero e proprio furgoncino dei gelati. Era strano vederne uno d’autunno, nonostante il clima mite di Los Angeles. Probabilmente quelli sarebbero stati gli ultimi del 2020.
“Mamma! Gelato! Gelato! Lo prendiamo? Dai, per favore!” non poté evitare di chiedere Hope, golosa e contenta.
“Va bene, Hope. Uno a testa, però, d’accordo?” concesse Demi, mettendo quasi immediatamente mano alla borsa, alla ricerca del portafogli.
“D’accordo.”
La piccola le porse la mano per stringere quel patto. Lasciandola fare, Demi la strinse davvero e insieme madre e figlie camminarono verso il furgoncino. Il suo arrivo aveva attirato molte più persone del previsto e, dopo interi minuti passati in fila, arrivò il loro turno.
“Che gusto volete, piccole?” chiese il gelataio, regalando loro un sorriso.
“Vaniglia!” rispose subito Hope, già decisa.
Al contrario della sorellina, però, Mackenzie non riusciva a decidere. C’erano davvero troppi gusti, ed erano troppo buoni per sceglierne uno solo. Indecisa, si mordicchiò un labbro, poi, all’improvviso, un lampo di genio.
Stracciatella scrisse su uno dei suoi soliti foglietti, che poi consegnò all’uomo.
Lui prese quel foglio fra le dita non riuscendo a mascherare uno sguardo interrogativo – non si aspettava di certo che lei non parlasse e forse se ne chiedeva il perché – e, letto il suo ordine, si preparò a servire il gelato alla bambina.
“Cono o coppetta?”
“Due coppette, grazie” disse Demi, facendo le veci delle piccole.
“E per lei, invece?” azzardò a quel punto il gelataio, notando che non aveva ancora ordinato nulla.
“Nulla, la ringrazio, non ne ho molta voglia” si limitò a dire lei, sincera e per una volta non condizionata da tutti i suoi problemi.
Annuendo, l’uomo smise di fare domande e, senza dire altro, Demi pagò per quelli delle figlie.
“Buona giornata!” disse poi, salutando educatamente.
Hope finì per imitarla, rischiando di arrossire quando quell’uomo tanto gentile le sorrise e la salutò con la mano. Rimaste sole con i propri pensieri, madre e figlie decisero di fare una passeggiata fino a una panchina dove finalmente, sedendosi, le piccole gustarono quei gelati. Guardandole mangiare, però, anche a Demi venne fame, o forse voglia, chi poteva dirlo? Dato che il gelataio era ancora lì, si diresse verso di lui con le bambine e, in breve, tornò a sedersi con in mano un cono con nocciola e cioccolato. Fra un freddo morso e l’altro, Mackenzie non smise di sorridere mentre, proprio come prima, la sua mente volava di nuovo verso la cara scrittrice.
 
 
 
Libera dagli impegni della giornata e sicura di aver messo a punto ogni singola strategia per affrontare al meglio un ormai sempre più vicino lunedì, Emma se ne stava sdraiata a letto e, con la testa su un morbido cuscino e la canonica luce azzurra del proprio cellulare riflessa negli occhiali, leggeva. Riga dopo riga, la storia che aveva iniziato la intrigava sempre di più. Una lettura leggera e semplice, scelta per staccare la spina da trame più complesse, e c’era da dirlo, cervellotiche. Una storia in cui amore e fortuna trovavano ognuna il loro posto, affiancandosi a un umorismo sottile ma comunque apprezzabile. Fra una pagina e l’altra nel silenzio della sua stanza, però, qualcosa di diverso da quel libro attirò la sua attenzione.
“Toc toc” azzardò una voce alle sue spalle, cogliendola di sorpresa.
“Who’s there?” rispose lei senza pensare, parlando automaticamente in inglese come d’abitudine.
“Io e il branco, Emma. Posso?”
“Jon, che domande, vieni! Anzi, venite!” fu svelta a rispondere lei, felice di vedere il fidanzato seguito dagli animali di casa.
Sally era in testa alla marcia, Zelda e Grace a poca distanza da lei. Agili e aggraziate per natura, le gatte furono le prime a trovare un posto sulla coperta, massaggiandovi sopra con le zampe – o facendo la pasta, come la ragazza aveva sentito dire spesso – prima di acquietarsi. Troppo debole per arrampicarsi a dovere, invece, Sally ricorse a un trucco già testato e, posando le zampe sulla coperta, ruppe il silenzio con un debole uggiolio.
“Come here, sweetie” sussurrò la padrona, sollevandola piano e issandola sul letto, così che come Zelda e Grace, anche lei trovasse un posto al suo fianco.
“Che ne dici, a questo punto c’è spazio anche per me?” scherzò il fidanzato, rimasto a guardarla fino a quel momento.
Lei gli sorrise e annuì, mentre accarezzava la coperta con dita delicate. Ridacchiando divertito, Jonathan non si fece attendere e, ben presto, i due fidanzati furono insieme, legati dall’amore che provavano l’uno per l’altra e circondati dall’affetto di una vera e propria famiglia a quattro zampe. Di lì a poco, il silenzio tornò a regnare nella stanza e, scambiandosi un bacio passionale, Emma il suo Jonathan dimenticarono ogni cosa. Lui le prese la mano e lei gli si fec più vicina, sentendosi protetta con lui al suo fianco. Gli prese la mano e il ragazzo gliela accarezzò con il pollice. Lei sospirò a quel contatto e socchiuse gli occhi.
“Buonanotte, amore” gli sussurrò all’orecchio.
“Buonanotte, principessa. Fai bei sogni.”
La sera, il suo tono pacato aveva qualcosa che le conciliava il sonno.
Mentre si addormentavano pian piano i due si dissero che, all’improvviso, nulla importava. Non la notte che stava già scendendo e e no, neanche la presentazione. Erano emozionati, vero, ma continuare a pensare con così tanta insistenza avrebbe soltanto rovinato le loro aspettative. Era meglio godersi ogni cosa momento dopo momento. Ora l’amore e l’attesa erano le uniche cose a contare davvero.
 
 
NOTE:
1. i Fairy O’s non esistono. Sono cereali presenti nella saga che qui abbiamo invece trasportato nella realtà, facendo finta che ci siano davvero e che fosse stata Emmastory a prenderne solo il nome e a trasformarli in cereali magici.
2. Il video al quale Jonathan si riferisce è quello di Blank Space, in cui sono presenti tre dobermann.
3. Thank God for flash drives, huh? = Grazie al cielo esistono le pen drive, eh?
4. “Young, single, and totally not ready to mingle.” = “Giovane, single e non pronta a buttarmi nella mischia.”
5. “Go get your toy! Get your toy!” = “Va’ a prendere il tuo giocattolo! Prendi il tuo giocattolo!”
6. “What’s that? Huh? What’s that?” = “Cos’è quello? Eh? Cos’è quello?”
7. Yes! Team Kia for the win! = Sì! Il team Kia per la vittoria!
8. “Sally, come! Come here, girl!” = “Sally, vieni! Vieni qui, bella!”
9. “Who’s there?” = “Chi c’è?”
10. “Come here, sweetie.” = “Vieni qui, tesoro.”
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Demi Lovato / Vai alla pagina dell'autore: crazy lion