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Autore: Marti Lestrange    09/11/2020    9 recensioni
L’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Haydon Hall non è un bel posto, e basta una sola occhiata per dirlo, ma James Sirius Potter è costretto a trascorrervi un intero anno, per scontare una punizione che in fondo sa di meritare. Quando mette piede nella Scuola non si aspetta, però, che l’atmosfera da incubo lo trascinerà in un incubo vero, con radici profonde in parti della storia magica che nessuno vuole più ricordare, segreti di famiglia e purezza di sangue, lacrime e morte. Una storia in cui la giovane Emma Nott, studentessa ribelle appena arrivata alla Scuola, non può non rimanere invischiata, il richiamo del suo stesso sangue troppo forte per opporsi.
[ dal testo: Nessuno sa quando tutto è cominciato, qui alla grande casa. C’è chi dice che l’inverno del 1981 sia stato uno dei più duri, sia per coloro che vivevano al villaggio, sia per chi abitava tra queste mura fredde e spoglie; c’è chi asserisce che non ci sia stata primavera più bella di quella che ne è seguita, quando cespugli di rose sono cresciuti, a maggio, nei giardini e tra le siepi, e si sono arrampicati sulla facciata ovest, per poi morire ai primi freddi successivi. ]
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Sirius Potter, Michael Corner, Nuovo personaggio, Pansy Parkinson, Theodore Nott
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'GENERATION WHY.'
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PRELUDIO

 

 

Casa Potter, 31 agosto 2023

Fu molto strano dover partire il trentuno di agosto, invece che il primo di settembre, come ogni anno da sette anni a quella parte. James si svegliò presto dopo aver dormito poco e male ed essersi rigirato tra le lenzuola stropicciate per tutta la notte. Quel giorno era un giorno bello e luminoso, l’ultimo dell’estate, il primo che James avrebbe trascorso all’Istituto Correttivo per Giovani Maghi e Streghe di Heydon Hall, nel buco-di-culo del Norfolk, lontano da tutto e tutti - lontano dal Quidditch, lontano dalla sua famiglia e i suoi fratelli e i suoi cugini, lontano dai suoi amici. Aveva sempre e solo sentito parlare, di quella scuola, e sempre in termini scoraggianti: un posto dove venivano “spediti” i ragazzi difficili, i teppisti, i piccoli delinquenti e, in generale, tutti i giovani maghi e streghe che si macchiavano di qualche crimine ma che non era il caso di spedire ad Azkaban, la prigione dei maghi. 

Certo, continuava a pensare di esserselo meritato, quell’anno di “servizi utili da prestare alla comunità” che gli era stato assegnato a seguito di ciò che era successo a Hogwarts, ma non poteva fare a meno di pensare a quanto gli rodesse, vedere i suoi amici andare avanti con le loro vite, ricevere i risultati dei M.A.G.O. con una consapevolezza tutta diversa, cioè che un nuovo capitolo delle loro esistenze stava per iniziare, fuori da Hogwarts e nel mondo. Lui invece aveva aperto la lettera con gli esiti senza nessun mordente, aveva letto la sfilza di ottimi, brillanti voti (a dispetto di tutto ciò che era successo, non aveva mancato di eccellere, come sempre) e poi l’aveva mollata sul tavolo della cucina, ed era stata sua sorella Lily a trovarla e a raggiungerlo nella sua stanza e a dirgli per prima quanto fosse stato stupefacente - e «un grande, grandissimo secchione». Sua madre Ginny aveva insistito per festeggiare, quella sera, e aveva preparato la sua torta preferita - la torta alla melassa - solo per lui, e suo padre Harry lo aveva abbracciato e gli aveva detto quanto fosse fiero di lui, e suo fratello Albus aveva borbottato un «grandioso» prima di fiondarsi sulla torta. 

Per lui, non c’era davvero niente da festeggiare, ma si era sforzato di sembrare riconoscente, per gli sforzi di sua madre (non era in grado di preparare una torta alla melassa buona quanto quella di nonna Molly, ma James ripagava sempre il suo impegno mangiandosela tutta) e il sorriso benevolo di suo padre e i battibecchi tra i suoi fratelli, e solo Godric sapeva quanto gli sarebbe mancato, tutto questo! Non aveva fatto altro che ripensare a quanto fosse stato imprudente e stupido e avventato, a fare ciò che aveva fatto, in gennaio, quando sua cugina Rose era corsa a chiamarlo nella loro Sala Comune e lo aveva pregato di seguirla e lui aveva preso il Mantello e non aveva indugiato neanche un solo istante. Ricordava come fosse ieri il corpo di Karl Jenkins (un Serpeverde della stessa età di Albus), steso a terra, immobile nella morte, gli occhi spalancati sulla notte - e i volti terrorizzati e preoccupati dei presenti, della cugina Roxanne, della sua compagna Caitlin Finnigan, di Scorpius Malfoy, e infine di suo fratello Albus, che era l’unico fermo sulle gambe, ma che lo aveva guardato come un condannato a morte guarderebbe la sua unica possibilità di evasione. E così aveva fatto ciò che lo aveva cacciato in quel casino: aveva Trasfigurato il corpo di Jenkins in una pietra e quella pietra era stata gettata da Albus nel Lago Nero, e tutti avevano pensato che fosse finita, che la potessero scampare, e che tutto sarebbe tornato come prima. 

Non avevano però fatto i conti con gli Auror, precisamente con il loro (quasi) cugino Teddy Lupin e il suo fedele collega Roger Davies, che avevano scavato talmente tanto che alla fine il corpo di Jenkins era riaffiorato alla superficie quasi subito e le voci di un possibile assassinio erano corse di bocca in bocca per tutto il castello, provocando una cacofonia di ipotesi, pettegolezzi e illazioni - nonostante fosse stato pienamente appurato che la causa della morte era riconducibile ad un ritorno di fiamma della stessa bacchetta della vittima. 

Il caso aveva trovato una relativamente rapida conclusione, un mesetto dopo, quando lui e Albus erano andati a confessare tutto quanto ai due Auror, e i loro cugini e amici li avevano seguiti a ruota, ché più nessuno era stato in grado di convivere con un tale peso, con la mera consapevolezza di aver taciuto, e di aver nascosto, e con lo stigma di sentirsi colpevoli di qualcosa che in verità nessuno di loro aveva fatto. E così, erano stati tutti puniti: Scorpius, Rose, Roxanne e Caitlin avevano ricevuto la pena più lieve, che consisteva nel rinunciare al Quidditch, a Hogsmeade e a qualsiasi tipo di divertimento e diversivo, a Hogwarts, unito ad una punizione decisa dalla preside McGranitt e un mese di servizio utile; a tutto questo, per Albus, si erano aggiunti due mesi di servizio utile, quindi in totale erano diventati tre. A lui era toccata la fetta più grossa della torta della vergogna: un intero anno di servizi utili, ovviamente unito a tutto il resto del pacchetto. In più, gli avevano piazzato un incantesimo di Localizzazione che gli impediva di uscire dai confini di Hogwarts e, durante i mesi estivi, da quelli di casa Potter, ma che fortunatamente gli avevano tolto prima della sua partenza per il Norfolk. Quindi, non solo lo avevano privato della squadra di Grifondoro (e aveva dovuto guardarla arrivare terza, un risultato ben misero ma che almeno non li aveva visti arrivare ultimi), ma gli avrebbero anche impedito di andare avanti con il suo futuro e con i suoi progetti, che prevedevano che un selezionatore gli offrisse un posto in qualche importante squadra di Quidditch. E invece niente, era andato tutto in fumo. 

Non passava giorno in cui non pensava di esserselo meritato, e non passava giorno in cui non se ne fosse pentito o non si fosse maledetto per la sua avventatezza, ché se solo avesse avvertito il professor Paciock di ciò che era appena successo, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma poi guardava suo fratello Albus e pensava che aveva fatto tutto per lui, per proteggerlo e aiutarlo, e la rabbia e l’amarezza svanivano, e tutto ciò che restava era solo una quieta accettazione e una sorta di magra consolazione: in fondo, sarebbe potuta andare molto, ma molto peggio. 


🥀
 

Theodore Nott, che aveva rappresentato legalmente lui e gli altri al Ministero, lo venne a prelevare intorno all’una. Ginny gli aveva preparato un sandwich veloce, ma James lo aveva spiluccato, senza un reale appetito, e aveva atteso Theodore seduto sul divano di casa, il baule che solitamente usava ad Hogwarts pieno delle sue cose e uno zaino poggiato a terra contro il divano. Aveva salutato Harry quella mattina, prima che l’uomo andasse al lavoro. Quel giorno non poteva proprio mancare, avevano organizzato una riunione importante, altrimenti sarebbe rimasto a casa per vederlo partire. Sotto sotto, James aveva preferito così. Non avrebbe sopportato di vedere suo padre guardarlo andare via, magari con quel suo sguardo dispiaciuto che gli faceva sempre ballare lo stomaco dipinto sul volto. Si erano abbracciati e Harry gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene, che confidava in lui, e che era sicuro che lo avrebbero lasciato andare via prima grazie alla sua buona condotta. James si era chiesto come mai suo padre insistesse tanto nel crederlo un modello indiscusso di comportamento e un figlio perfetto, quando gli aveva dato prova di non esserlo affatto, ma le domande erano state inevitabilmente archiviate, come accadeva sempre da qualche mese a quella parte. 

Udì il “crack” della Smaterializzazione e poi il suono del campanello. Ginny corse alla porta e fece entrare Theodore nel piccolo ingresso ordinato e lo accompagnò fino in salotto. Theodore era proprio lo stesso Theodore di sempre, con i vividi occhi azzurri e il completo d’alta sartoria e l’immancabile valigetta in pelle di drago. Gli sorrise. 

«Eccolo qui», disse. 

James si alzò e gli andò incontro. «Ciao, Theodore», lo salutò allungandogli una mano, che l’uomo strinse amichevolmente. 

«Vedo che sei pronto.»

James annuì. «Ti stavo aspettando.»

«Ottimo, ottimo, allora direi che possiamo avviarci, no?»

«Posso prepararti una tazza di tè, Theodore?» intervenne Ginny, le mani appuntate sui fianchi. 

L’uomo scosse la testa. «No, grazie, Ginny, sono di corsa. Accompagno James e poi torno di filato al Ministero per un’udienza.»

Ginny sembrò deglutire a fatica, forse aveva sperato di trattenerli lì ancora un pochino. James distolse lo sguardo da sua madre e lo puntò sul suo Magi-Avvocato. 

«Possiamo andare.»

In quel momento, Albus e Lily entrarono in salotto. Quella mattina, James li aveva pregati di non scendere, ché non voleva indulgere nei saluti, o si sarebbe solo sentito peggio di quanto già non si sentisse. A quanto pareva, i suoi fratelli avevano l’arte della disobbedienza nel sangue. 

«Albus, Lily», esclamò. «Cosa ci fate, qui?»

«Ti vogliamo salutare, testa di zucca», rispose Albus. «Non è evidente?»

«Hai preso un sacco di E ma rimani uno zuccone, James Sirius Potter», rise Lily. 

Lui li guardò e non potè che sciogliersi in un sorriso e allora loro gli si avventarono addosso per abbracciarlo e si strinsero, tutti e tre insieme, come non facevano da tanto tempo. 

«Prometti di scrivermi?» gli chiese Lily, la testa nascosta nel suo collo.

«Sì, sì, prometto», rispose. 

«Mi dispiace, Jamie», sussurrò Albus senza guardarlo in viso e James si rendeva conto quanto gli fosse costato dirlo, proprio a lui. 

«Non ci pensare, fratellino. Te l’ho detto», rispose altrettanto sottovoce scompigliandogli i capelli, e finalmente Albus alzò lo sguardo, ed entrambi si sorrisero.

«Non vorrei mettervi fretta, ma io temo di averne molta», disse Theodore facendoli tornare alla realtà.

James vide Ginny rivolgergli uno sguardo di fuoco prima di spostarlo su loro tre, sciogliendosi in un sorriso. «Forza, ragazzi, è ora», disse solo. 

James annuì e rivolse un’ultima occhiata ai suoi fratelli, che erano rimasti abbracciati. «Prendetevi cura l’uno dell’altra, voi due. E non litigate troppo.»

Albus mise su il suo solito ghigno d’ordinanza e Lily lo guardò scuotendo la testa, rassegnata ma divertita. James voltò loro le spalle e abbracciò brevemente sua madre, che lo strinse forte e lo baciò su entrambe le guance. James notò che piangeva, lei che non piangeva mai, e sperò solo di uscire di lì quanto prima per non doverla guardare. Non poteva sopportare la vista di sua madre in lacrime per colpa sua. 

«Sta’ attento, okay? E tieniti fuori dai guai. Intesi», disse, perentoria, la voce rotta.

«Tranquilla, Ginny, a Heydon Hall sarà impossibile per lui mettersi nei guai», disse Theodore, ondeggiando sulle gambe. 

Ginny lo guardò di nuovo male e così James intervenne. «Non preoccuparti, starò bene.»

Poi raccolse lo zaino e se lo mise in spalla. Alzò lo sguardo su Theodore e questi si avviò alla porta. Uscirono fuori dai confini di casa Potter, oltre i quali sarebbero riusciti a Smaterializzarsi. Ginny, Albus e Lily li guardavano dal ciglio della porta di casa, la prima in mezzo ai figli, un braccio intorno alla vita del maggiore, che la superava di gran lunga in altezza, e un braccio sulle spalle della minore, che le si accoccolò contro il fianco proprio come quando era piccola. James li guardò un’ultima volta e poi mise una mano sul braccio di Theodore, mentre con l’altra teneva saldamente il suo baule. Avrebbero eseguito una Materializzazione congiunta per raggiungere il Norfolk. James distolse lo sguardo dalla sua famiglia per puntarlo su Theodore. 

«Allora, James, andiamo?»

 

 

 

THE HAUNTING OF HEYDON HALL

 

CAPITOLO UNO

 

 

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, 
e la paura più grande è quella dell’ignoto.”
H. P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature

 

 

Heydon Hall, Norfolk, 31 agosto 2023

«E così questa è la famosa Heydon Hall, eh?»

Theodore gli assestò una pacca sulla spalla che forse voleva essere d’incoraggiamento, ma che James odiò profondamente. Aveva finito per apprezzare Theodore, forse gli voleva anche un po’ di bene, per essergli stato vicino durante il processo e i mesi turbolenti e difficili che erano seguiti, ma in quel momento non riusciva a non sentirsi seriamente demoralizzato. 

 

[HEYDON HALL]

 

Heydon Hall si stagliava davanti a loro in tutta la sua decadente e trionfale e grigia bellezza, proprio oltre i muri che ne delimitavano i confini e oltre i quali i due si erano Smaterializzati. 

«Ti piacerà, ne sono certo.»

James dubitava seriamente che quel posto potesse piacere a chicchessia, ma non replicò. Non ne aveva la forza, in quel momento. Così, Theodore fece levitare il suo baule e insieme percorsero il lungo viale sterrato. A destra e a sinistra si estendeva il parco della vecchia magione e verso est sorgeva un boschetto che sembrava fare tutto il giro della casa. La facciata era imponente, man mano che si avvicinavano, fatta di solidi mattoni rossi che però erano crepati in più punti, come se la manutenzione fosse l’ultimo pensiero dei suoi occupanti. Vi si aprivano grandi finestre cinte da colonnine e numerosi comignoli ne affollavano il tetto. Theodore bussò alla grande porta a due battenti e, nell’attesa, James alzò lo sguardo e gli sembrò di vedere un’ombra muoversi dietro una delle alte finestre dell’ala ovest, ma fu un movimento talmente rapido che alla fine pensò di esserselo immaginato. 

Un vento freddo, inusuale per quella stagione, e che senz’altro anticipava l’autunno, gli scompigliò i capelli, prendendo a soffiare furioso. Le cime degli alberi che si innalzavano proprio dietro l’ampia costruzione si agitavano furiose. Il cielo si rannuvolò all’improvviso, il sole rimase nascosto dietro spesse nuvole nere, portatrici di tempesta. James rabbrividì nella camicia leggera che aveva indossato quella mattina e rivolse un’occhiata a Theodore. Questi teneva le sopracciglia aggrottate e, sentendo addosso lo sguardo di James, si girò e gli sorrise, incoraggiante come sempre.

«Il tempo è pazzo, oggigiorno, non c’è che dire», commentò, ma James non ebbe modo di replicare perché finalmente la porta di Heydon Hall si aprì. Si dischiuse, sarebbe stato meglio dire, su un ingresso immerso nella penombra, quasi come se all’interno fosse già calata la notte e non fosse solo l’una del pomeriggio. Sulla soglia apparve un uomo e James avrebbe potuto giurare che, ad una prima occhiata, gli sembrò di vedere il vecchio Gazza. 

 

[I VECCHI CUSTODI]

 

«Sì?» gracchiò guardandoli da sotto un monocolo. Osservandolo meglio, James realizzò che non era per niente come Gazza: era alto, e ben vestito, nonostante gli indumenti sembrassero provenire da un’altra epoca, la barba non troppo corta ma curata e i capelli che vertevano più al bianco che al nero. James notò inoltre che indossava una giacca da camera rosso bordeaux, di certo non una di quelle giacche che indossi quando aspetti ospiti, ma piuttosto che ti metti addosso appena sceso dal letto la mattina, o per fumare la pipa comodamente seduto in poltrona, magari a sonnecchiare davanti al caminetto acceso. 

Si riscosse quando Theodore parlò. «Sono il MagiAvvocato Nott, signor Pince1. Sono qui per accompagnare il ragazzo, si ricorda?»

Il signor Pince (e il nome non gli era nuovo, ma non ricordava dove lo avesse già sentito) squadrò Theodore dall’alto in basso, dubbioso e confuso. Poi spostò lo sguardo su di lui e James si sentì raggelare. Rabbrividì, ma continuò a fissare Pince a sua volta. 

«Signor Nott», esclamò un’altra voce, una voce femminile. Accanto a Pince si materializzò (e non magicamente) una donna alta quasi quanto lui, tutta vestita di nero, con in testa la sommità di capelli biondi e cotonati più alta che James avesse mai visto. Ora lo fissava attraverso un paio di occhialini sottili, dorati, la bocca inclinata in una linea dritta e dura, ma divertita. «Oh, ecco qui il signorino Potter», continuò. 

«Madama Pince1», la salutò Theodore sporgendosi in avanti e facendole il baciamano. Madama Pince! La vecchia bibliotecaria di Hogwarts! Ecco dove aveva già sentito quel nome. Quella che aveva davanti non era evidentemente la stessa persona che ricordava, e James pensò che, visto che Theodore aveva chiamato “signor Pince” anche il vecchio rimbambito con il monocolo, lei doveva essere la moglie, e lui - il vecchio rimbambito - era quindi il fratello, o un semplice parente, della Madama Pince che ricordava. Ora che aveva ricostruito tutto l’albero genealogico della famiglia Pince, si sentiva ancora più stupido. 

«Perdonate il caro Forrest, il trentun agosto è una giornata sempre molto movimentata, per noi, come sapete», spiegò lei sorridendo a Theodore. «Il viaggio è andato bene?»

«Benissimo, grazie», rispose quindi il MagiAvvocato. «E mi dispiace lasciare qui il signor Potter così, e andarmene su due piedi, ma temo di essere di corsa.»

«Quindi non prende neanche un buon tè?» Madama Pince sembrava delusa, e James pensò a quanto dovesse farle piacere prendere il tè con Theodore, rifacendosi gli occhi e mandando a letto quel gufo del marito. Gli scappò quasi da ridere, ma si trattenne. 

Grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere dal cielo, improvvise e gelide. Picchiavano sul terreno con forza e, in breve, James sentì la camicia più che umida. 

«Sarà meglio che vada», esclamò Theodore. Si girò verso di lui, quindi. «James, mi raccomando, confido in te. Per qualsiasi cosa, non esitare a contattarmi e a mandarmi un gufo. Sapere che tu ed Emma2 sarete nello stesso posto per un anno intero mi consola, e non sai quanto!»

«Emma?» esclamò James scostandosi dalla fronte un ciuffo di capelli ormai bagnato fradicio. «Emma verrà qui?»

«Sì, sì, ma non te l’ho detto? Che sbadato, che sono! Va bene, sarà meglio che mi sbrighi, addio James… i miei omaggi, Madama Pince… signor Pince…» e così dicendo caracollò giù per il viale di corsa - correva bene, Theodore, si vedeva che era allenato - e scomparve non appena ne ebbe varcato i confini. 

«Sarà meglio entrare, signorino Potter», gracchiò Madama Pince.

James, riluttante, la seguì all’interno, mentre il signor Pince richiudeva la porta dietro di lui. Alzò lo sguardo per osservare l’ambiente intorno a sé e dimenticò per un momento Emma Nott: davanti gli si dischiudeva un’ampia hall dalla quale partiva un elegante doppio scalone di marmo che conduceva al ballatoio del secondo piano; dall’ingresso si diramavano quattro corridoi e James pensò a quante volte si sarebbe perso, là dentro. Un grande e sontuoso lampadario di cristallo pendeva dal soffitto decorato con affreschi, disegni di angeli e putti grassi che gli sorridevano benevoli ma che lui trovò soltanto inquietanti. 

«Lasci pure il suo baule accanto alla porta.» Lo riportò alla realtà per l’ennesima volta la voce della Pince. «Lamb3 avrà cura di portarlo nel suo alloggio.»

James si chiese chi diavolo fosse Lamb, ma non lo esplicitò ad alta voce. 

«Forrest, perché non torni di là, eh?» sussurrò quindi la donna al marito, avvicinandoglisi. «Accompagno io il nuovo arrivato dal preside, tu non ti stancare.»

Forrest Pince annuì e il monocolo tremolò per un lungo istante. Poi gli rivolse un’ultima occhiata e se ne andò strascicando i piedi ai quali, James notò solo in quel momento, portava un paio di pantofole. 

«Mi segua, per favore, la accompagno dal preside Corner.»

James si affrettò a star dietro a Madama Pince, che camminava in modo incredibilmente veloce, per una donna della sua età. Da dietro sembrava un piccolo uccellino nero, tutta vestita di scuro e ondeggiante, e camminava a piccoli ma rapidi passi. Imboccò il secondo corridoio a destra e ben presto sbucarono in quella che doveva essere l’ala est della casa, che si apriva in un’altra grande hall, elegante e luminosa, questa volta, nonostante il cielo grigio all’esterno. La Pince procedette e superò un grande tavolo di marmo sul quale erano poggiate delle pergamene, dei volantini Ministeriali e altri fogli che però James non riuscì a decifrare. Si fermò davanti ad una porta a due battenti al fondo di un piccolo corridoio cieco, il cui pavimento era interamente ricoperto di moquette rosso rubino. Si voltò verso di lui e sfoderò la bacchetta e per un istante James pensò che volesse Schiantarlo. Invece la agitò e lui venne investito da un fiato di aria calda e piacevole che, in breve tempo, gli asciugò la camicia e i capelli. «Non avrai mica pensato di presentarti al preside conciato in quel modo, eh, ragazzo?» James non ebbe modo né tempo di replicare: Madama Pince bussò e attese solo qualche secondo prima che una voce dall’interno diede loro il permesso di entrare. 

 

[IL PRESIDE]

 

Sbucarono in un ufficio piuttosto ampio. Le pareti erano letteralmente tappezzate di librerie, scaffali su scaffali, alti fino ai soffitti ariosi, e stipati di libri, antichi volumi e documenti, ma per lo più libri. In un angolo, James individuò un tavolo di marmo molto simile a quello visto nella hall, sopra il quale era poggiata una grossa gabbia dorata, nella quale riposava una splendida civetta dalle lucide piume grigie, sfumate verso il nero, che le donavano un aspetto suggestivo e misterioso. Dietro la grossa scrivania in legno scuro non sedeva nessuno, però, e James si chiese chi avesse risposto e, soprattutto, dove fosse. 

«Grazie, Cordelia, lasciaci», continuò la voce di prima, proveniente da un qualche punto imprecisato del grande ufficio. James si domandò, stupito, quanto effettivamente fosse grande, quel posto.

Cordelia Pince gli rivolse un’ultima occhiata in tralice e poi si ritirò, silenziosa, quasi avesse le rotelle, e richiuse la porta. James rimase solo - o quasi. Rivolse un’altra occhiata alla civetta, sentendola lamentarsi nel sonno, e le si avvicinò. Si chinò ad osservarla, e ad osservarne il magnifico piumaggio. Non aveva mai visto un esemplare così bello, prima. Alla base della gabbia, inciso in armoniose e distinte lettere argentate, c’era scritto solo un nome, che James immaginò fosse il nome dell’animale: Athena.

«Athene noctua.»

James sobbalzò, perché questa volta la voce arrivava proprio da dietro le sue spalle. Si voltò e si ritrovò faccia a faccia con un uomo piuttosto alto, dai capelli scuri spruzzati qua e là d’argento, e due incredibili occhi azzurri, in quel momento cinti da un paio di finissimi occhialini, che minacciavano quasi di spezzarsi da un momento all’altro. Indossava una lunga veste che somigliava in modo spiazzante ad una vestaglia da camera, molto simile a quella del signor Pince, ma più lunga, gli arrivava fin sotto le ginocchia, ed era di un bel blu cangiante trapuntato di stelle dorate. James trovava tutto estremamente bizzarro.

«Come, prego?» rispose quindi, deglutendo.

«Athene noctua», ripetè l’uomo sorridendogli furbescamente. «È il nome latino della civetta, ovviamente. Esemplari affascinanti, non è vero, signor Potter?»

James si strinse nelle spalle. «Be’, immagino di sì…»

«La povera civetta è rimasta avvolta da un alone di mistero e sfortuna per parecchi secoli, sai?» continuò l’altro imperterrito, aprendo la porticina della gabbia senza fare troppo rumore. «Gli Egizi pensavano che un suo verso preannunciasse la morte e nel Medioevo veniva associata niente meno che alla stregoneria. Perspicaci, questi Medievali, eh?» Ridacchiò, e James sorrise, non sapendo bene né cosa dire, né cosa fare.

«Invece nell’Antica Grecia veniva adorata, e associata alla dea Atena, e proprio da qui deriva il nome che le diedero i latini, Athene noctua. Noctua, notturna, della notte. Oggi, comunemente, i Babbani la raffigurano nei portafortuna, ci pensi?»

James, di nuovo, non sapeva cosa dire, e così si limitò ad annuire. L’uomo allungò un dito e carezzò amorevolmente le penne del volatile, che si mosse inquieto nel sonno, ma non si destò. Poi richiuse la gabbia e tornò a guardare James. Rimasero a fissarsi per un lungo istante, durante il quale James si chiese se non fosse un po’ tocco. 

«Molto bene», esclamò quindi l’altro battendo leggermente le mani e avviandosi alla scrivania. Si slacciò la vestaglia e James, seguendolo, ebbe modo di intravedere un pantalone grigio e una camicia bianca, un abbigliamento decisamente sobrio che stonava con tutto il resto. Gli fece cenno di accomodarsi e James, dopo essersi sfilato lo zaino e averlo poggiato a terra, prese posto in una delle due poltroncine di fronte alla scrivania, ovviamente blu. Notò che il piano in legno era letteralmente ricoperto di fogli, pergamene, piume d’oca e libri chiusi o aperti, in un caos indicibile che avrebbe fatto storcere il dritto naso della preside McGranitt. Solo in quel momento fece caso alla parete dietro la scrivania, dove non solo si apriva una grande finestra dalla quale si vedeva, perfettamente simmetrico, il lungo viale che conduceva a Heydon Hall, ma sulla quale era riprodotta la volta celeste, il cielo blu indaco e milioni di stelle. I suoi ricordi di astronomia erano troppo arrugginiti per riconoscere esattamente tutte le costellazioni raffigurate, ma individuò senz’ombra di dubbio quella dello scorpione e della bussola, prima di sentirsi osservato e di spostare lo sguardo sull’uomo che gli sedeva di fronte. Sulla scrivania di fronte a lui era poggiata una targhetta dorata, e sopra era riportato un nome: Michael Corner. Theodore glielo aveva citato, ma se n’era scordato. Quella volta erano presenti anche Ginny ed Harry e ricordò che sua madre si era quasi strozzata con il tè, ma ovviamente non ne aveva capito il motivo. 

«Benvenuto a Heydon Hall, James», esclamò quello sorridendogli. Aveva dei denti piccoli e perfetti, bianchissimi, ma nel complesso gli rivolse un sorriso benevolo che James reputò come sincero e affabile. «Allora, che te ne pare del mio umile istituto?»

«Be’…» cominciò lui grattandosi la nuca. «Ho visto molto poco, venendo qui, ma mi sembra… insomma… bello.»

Si diede mentalmente dello stupido: bello era l’unica cosa che era stato capace di dire? E poi, non era certo l’aggettivo giusto con il quale definire Heydon Hall. Forse inquietante sarebbe andato meglio. O sepolcrale. O sinistro.

«Bene bene, sono sicuro che andremo molto d’accordo, noi due», continuò Corner facendogli l’occhiolino. «Quando Theodore mi ha contattato per chiedermi cosa ne pensassi, all’idea di averti qui un anno intero a renderti utile, be’, non ho potuto fare a meno di accettare di slancio. Quello che è successo non ti definisce, James, come, allo stesso modo, le monellerie dei miei ragazzi non li definiscono, questo è un concetto che ho molto a cuore, e vorrei che ci riflettessi sopra, durante la tua permanenza qui a Heydon Hall.»

James annuì. In fondo, Corner aveva ragione: ciò che era successo con Karl Jenkins non lo definiva, e non lo avrebbe definito mai. Lui non era “colui che aveva Trasfigurato un cadavere”, ma era solo James Sirius Potter, niente di più e niente di meno. 

«Penso che Theodore ti abbia solo accennato quali saranno le sue mansioni, qui…» andò avanti il preside cambiando discorso e appoggiando i gomiti sulla scrivania, le dita cinte le une con le altre. Gli occhialini sobbalzarono leggermente sul naso armonioso. 

James annuì. «Mi ha detto che sarebbe stato lei a illustrarmele, signore.»

Corner si lasciò sfuggire un sorriso e scosse la testa. «Certamente, certamente. In primis, niente “signore”, qui dentro. Non mi reputo così vecchio da necessitare una tale formalità.»

James si limitò a guardarlo, la bocca leggermente aperta. Quell’uomo si stava rivelando una vera sorpresa e si chiese cos’altro ancora stesse riservando per lui sotto quella sua stramba vestaglia. 

«In secundis, le tue mansioni. Ti occuperai principalmente della sorveglianza dei ragazzi durante le ore di buco e nelle ore dedicate allo studio in biblioteca o nelle aule apposite, ma accompagnerai anche gli studenti del primo anno dal loro dormitorio alle aule, ogni mattina, e dalle aule alla sala refettorio, a pranzo, e così via durante tutto il resto della giornata. Così facendo alleggerirai notevolmente il lavoro del signor Pince e della signora Parkinson4

«Il signor Pince, cioè il marito di Madama Pince?»

«Oh, no, non il vecchio signor Pince, ma il giovane. Lambert Pince. È il figlio dei signori Pince, che sono i nostri preziosissimi custodi. Si occupano di Heydon Hall da più di vent’anni, sai?»

Ecco perché il vecchio signor Pince era così decrepito. Avrebbe dovuto immaginarlo. 

«A tale proposito, più tardi Lambert ti mostrerà la tua stanza, che si trova nel corridoio del personale. E avrai modo di conoscere lui e la signora Parkinson, che ti affiancheranno nel tuo lavoro di sorveglianza e scorta. Ti invito ovviamente a rispettare i tuoi colleghi e a seguire i loro consigli e le loro indicazioni, ma riceverai le tue mansioni direttamente da me, e da nessun altro, intesi?»

James annuì prontamente. Sembrava che stesse particolarmente a cuore, a Michael Corner, da chi ricevesse gli ordini, e si chiese cosa questo avrebbe implicato, per lui, nell’immediato futuro. 

«Molto bene. Non credo che tu conosca come funziona qui, ma quando arrivano i ragazzi le loro bacchette vengono prelevate e conservate in un posto sicuro. Vengono restituite loro ogni mattina, subito dopo colazione, prima di scortarli nelle rispettive aule, questo per mantenere alto il livello di sicurezza della scuola ed evitare incidenti di sorta, e voglio che tu capisca l’importanza di questa misura, James. È una delle regole più ferree di Heydon Hall, ma è niente di meno che necessaria.»

«Certo, certo», borbottò James. «Lo capisco, ovviamente.»

«Ben intesi, tu potrai tenere la tua, eh. La regola vale solo per i ragazzi.»

«La ringrazio, sign—», ma Corner alzò le sopracciglia talmente tanto che queste andarono a fondersi con il ciuffo di capelli che gli ricadeva scomposto sulla fronte, e così James lasciò morire la frase. 

«Ottimo, ci sono domande?»

James scosse la testa. «No, per adesso è tutto chiaro.»

«Bene benissimo», esclamò l’altro alzandosi. James lo imitò. «Sai ritrovare la via per l’ingresso principale, vero? Cordelia Pince ti attende là e io devo finire di tradurre un vecchio manoscritto dal sanscrito.»

James inarcò le sopracciglia, non potè farne a meno. 

«Ah, sì, una cosuccia da niente», rispose Corner davanti alla sua espressione mezza stupita e mezza perplessa. Agitò una mano. «Ci vediamo stasera a cena, James. Ciao ciao.»

James agguantò lo zaino e gli diede le spalle, ma venne richiamato dal preside proprio mentre richiudeva la porta. Fece capolino nello studio. «Sì?»

«Dimenticavo un’altra delle importanti regole di Heydon Hall: l’accesso all’ala ovest è severamente proibito. Per intenderci, il corridoio che si apre proprio alla sinistra della porta d’ingresso. È pericolosa, e per questo motivo l’abbiamo chiusa. È sempre stata chiusa.»

«Va bene. Nessun problema», replicò, e un altro cenno da parte del preside gli fece capire che aveva davvero terminato. Chiuse la porta e fece un sospiro. 

Per Godric, non immaginava certo che il preside sarebbe stato un completo scoppiato. Poco male, gli sembrava che fosse decisamente malleabile e che gli avrebbe lasciato più libertà di quella che sperava di ottenere. 

«Salve.»

 

[LAMB]

 

James sobbalzò e quasi urlò per lo spavento, mentre una figura alta e vestita di scuro spuntò letteralmente da dietro una statua. Era un uomo dai capelli castani tagliati corti e gli occhi chiari e lo osservava interessato e incuriosito. 

«Scusa, non volevo spaventarti», continuò. Aveva una voce buona, però, e così James cercò di tranquillizzarsi. «Sono Lambert. Lamb. Il figlio dei coniugi Pince, i custodi.»

Allungò una mano e James gliela strinse. Fu una stretta molle e incerta e la pelle della mano dell’uomo era umidiccia e sudata, così James ritirò subito la sua. 

«Tu devi essere James Sirius Potter, invece.»

«Sì, sono arrivato pochi minuti fa.»

«Mia madre me lo ha detto. Ho portato il tuo baule nella tua stanza. Vieni, ti accompagno.»

James lo seguì di mala voglia, ma cercò di imporsi di essere amichevole e gentile, in fondo Lamb sarebbe stata una delle sue uniche compagnie, durante quell’anno lunghissimo. Ottimo, sembrava promettere proprio bene. 

 

🥀

 

La sua stanza si rivelò essere molto meglio di quanto si fosse aspettato - e di quanto avesse temuto. Era composta da un letto ad angolo proprio sotto la finestra, che affacciava sul parco sul retro della casa e dalla quale, sorprendentemente, James avvistò un campo da Quidditch. Si era portato dietro la sua scopa, nonostante sapesse di non avere alcuna occasione di usarla, ma averla con sé lo faceva sentire al sicuro, quasi come se fosse un amuleto, ma anche una parte di sé che non lo lasciava mai. Nell’angolo opposto c’era un armadio, piccolo ma nel quale sarebbe riuscito a far stare tutte le sue cose e, accanto, uno scrittoio che sembrava antico e una poltrona un po’ sdrucita posizionata vicino ad un caminetto. Certo, non era camera sua, a casa, con i poster del Quidditch e le foto con la sua famiglia e i suoi amici, ma in fondo sarebbe potuta andare molto peggio, visti i preamboli. Non c’erano ragnatele e tracce di polvere e sembrava che fosse stata pulita di recente, in vista del suo arrivo. Il suo baule era stato poggiato ai piedi del letto e James avrebbe avuto modo di sistemare il tutto dopo cena, anche perché venne trascinato da Lamb nella sala del personale, dove ebbe modo di conoscere la sua ultima collega. 

 

[PANSY

 

Pansy Parkinson era una strega alta, vestita di bianco. I capelli castani le ricadevano ai lati del viso in modo ordinato e gli occhi chiari, nonostante fossero glaciali, lo osservarono con interesse e curiosità. Sembrava molto meno inquietante di Lamb - e dei signori Pince - e James sperò tanto di non sbagliarsi. Aveva bisogno di qualcuno di lucido con il quale parlare sensatamente. 

«Andavo a scuola con tuo padre, sai?» gli disse lei con voce bassa e roca, quando si furono seduti a prendere il tè che aveva appena preparato. La stanza consisteva in un piccolo spazio nel quale erano stipati una cucinetta assemblata con scarti provenienti da vari periodi storici non meglio identificabili, un tavolaccio di legno disseminato di righe e profonde (e inquietanti) incisioni, due poltrone piuttosto scolorite ai lati del piccolo camino - che era già acceso nonostante si fosse solo, quasi, in settembre - e alcune sedie scompagnate che avevano visto giorni migliori. Però l’ambiente era caldo e accogliente, e a James ricordò tantissimo La Tana. Dei signori Pince non c’era traccia e già solo per questo, tirò un bel sospiro di sollievo. Aveva capito che il signor Pince gli metteva ansia e che Cordelia Pince gli ricordava un corvo denutrito, e averli intorno sarebbe stata dura, di questo era già sicuro. 

Lamb aveva preso posto sospirando e gemendo e lamentandosi del male alle ossa, mentre Pansy aveva alzato gli occhi al cielo e gli aveva versato del tè, intimandogli di stare zitto o James sarebbe scappato a gambe levate. Gli sembrava una donna insicura, quella Pansy Parkinson, perché le mani le tremavano mentre versava il tè, e aveva rabbrividito quando gli aveva stretto la mano, e ora lo guardava sospettosa, come se lui celasse qualche segreto inconfessabile e violento. Quando gli disse della scuola e di Harry, per poco non si bruciò con il tè. 

«Andava a scuola con mio padre?» esclamò. 

Lei annuì. «Oh, sì, solo che io ero in Serpeverde. Non sono sempre stata gentile con lui, temo.»

«Mio fratello è in Serpeverde», chiarì James, a volerle far capire che nella sua famiglia non si badava più ad un concetto arcaico e ormai superato come la differenza e la rivalità tra case diverse.

«Oh, una volta era diverso», disse Pansy sorseggiando dalla sua tazza, come se gli avesse letto nel pensiero. Si chiese in modo allarmante se la donna praticasse la Legilimanzia, ma scacciò via quel pensiero. Si stava facendo suggestionare da quella casa scricchiolante e sinistra. 

«Non attaccherai con quelle vecchie storie sulla purezza di sangue, eh, Pansy?» abbaiò Lambert ridendo. «Non credo che a James interessino, lui è un ragazzo, solo delle vecchie barbose come te stanno ancora dietro a certe fandonie.»

«Ah, sì?» lo attaccò lei guardandolo malissimo, gli occhi ridotti a due fessure. «Allora quali storie vorresti raccontargli, sentiamo? Le tue bellissime storie di paura, forse?»

James voltò di scatto la testa verso Lambert. L’uomo lo guardava da sotto la sua tazza, e aspettava solo che gli facesse un cenno di assenso. 

«Non ho paura di alcune vecchie storie, ma sono curioso», rispose quindi lui incrociando le braccia al petto, sprezzante del pericolo. Non aveva mai avuto paura dei fantasmi e altre simili fesserie e non avrebbe di certo iniziato ora. 

 

[STORIE DI FANTASMI]

 

«Oh, be’, non c’è molto da raccontare, tranne che questa casa puzzolente è infestata», cominciò Lamb inclinando la testa in modo inquietante. James sentì Pansy sbuffare: non ci credeva, oppure aveva troppa paura per aver voglia di stare a sentire. Probabilmente entrambe le cose. «Un fantasma si aggira tra queste mura vecchie di secoli, trascinandosi dietro la sua infelicità e la sua miseria. C’è chi dice che sia lo spirito di un’amante tradita e abbandonata che ha posto fine alla sua stessa vita tagliandosi le vene, qualcun altro invece asserisce che è il fantasma di un’assassina, che in questa casa ha perpetrato i suoi orridi crimini prima di trovare la morte per mano del marito, disperato davanti ai corpi senza vite delle sue piccole bambine.»

«Certo, ovviamente doveva essere stata per forza una stronza», commentò solo Pansy scuotendo la testa. 

«Le leggende non le ho mica messe in giro io, sai?» si difese Lamb spalancando la braccia, impotente. «In ogni caso, è da anni che non si fa né vedere, né sentire, sembra quasi che abbia trovato la pace, finalmente, ovunque ella sia.»

«Voi l’avete mai vista?» chiese James. Non era rimasto granché impressionato da quella storia. Sembrava che Lamb gli stesse per raccontare chissà quale paurosa sventura, ma non era niente di più di qualsiasi altra cazzata sui fantasmi sentita in vita sua, vero o presunta che fosse. Lui lo sapeva, com’erano fatti i fantasmi, ci aveva convissuto per sette lunghi anni, ed erano tutto tranne che spaventosi. A parte forse il Barone, ma quella era un’eccezione.

I due si scambiarono un’occhiata fugace, prima che Pansy volgesse gli occhi alla finestra e Lamb tornasse a guardarlo. «Io l’ho vista. Ero un ragazzino e ho sempre vissuto qui, sai, insieme ai miei genitori. Non sono mai stato a Hogwarts, ho studiato con mia madre e con i professori dell’istituto.»

James si chiese come fosse possibile non frequentare Hogwarts, ma siccome il pensiero della sua ormai vecchia scuola gli faceva male, lo scacciò dalla mente. 

«Vieni al punto, Lamb», lo incalzò Pansy, spazientita.

«Ci arrivo, ci arrivo», replicò l’altro scocciato. «Insomma, stavo tornando proprio da queste parti, nel corridoio del personale, ed ero da solo, ed era già calato il buio. E l’ho vista. Si stagliava contro la porta che conduce all’ala ovest, alta e grigia e spaventosa.»

L’uomo rabbrividì e James notò che aveva la pelle d’oca, gliela vedeva sul pezzo di avambraccio lasciato scoperto dalla camicia scura. 

«Mi ha guardato con due occhi di fuoco… Ovviamente sono scappato a gambe levate e, quando ho raggiunto mia madre, lei prima è venuta a vedere cos’avessi visto, dopo averla lungamente pregata, piangendo a dirotto, e poi mi ha dato una di quelle sculacciate così epiche che non la scorderò mai e poi mai. Tanto che non ho più visto niente.»

«Non ha perso il vizio di sculacciarti, però, eh Lamb?»

Lamb si girò e questa volta furono i suoi occhi a mandare bagliori. «Non parlare di cose che non conosci, Pansy. Tu non sai niente di mia madre.»

«Sì, sì, a parte che è una vecchia megera», borbottò lei alzandosi e poggiando la tazza ormai vuota nel lavandino.

«Ripetilo!» esclamò Lamb alzandosi in piedi. 

James non sapeva se alzarsi e intervenire o dire semplicemente qualcosa per placare quel battibecco che si stava trasformando in un litigio. Ma ci pensò Michael Corner. Il preside entrò nella stanza (indossava ancora la vestaglia blu, e con la solita disinvoltura di prima) e passò uno sguardo da Pansy a Lamb e ritorno.

«Cosa succede, qui? Ho sentito delle voci alte.»

«Tutto bene», esclamò James alzandosi. «Pansy e Lamb mi stavano raccontando del vecchio fantasma di Heydon Hall.»

Corner lo guardò come non lo aveva mai guardato, durante quella loro prima conversazione, nel suo studio. I suoi occhi azzurri erano gelati, due grossi pezzi di ghiaccio, ma fumavano, letteralmente. Lo guardava come se avesse appena detto che Lord Voldemort era tornato, con un misto di ira, sconcerto e puro e semplice terrore. Michael Corner aveva paura, allora. Aveva paura dei fantasmi.

Quell’ombra strana passò, però, e l’uomo ritrovò il suo sorriso scanzonato. «Il vecchio fantasma? Non esiste nessun fantasma, a Heydon Hall, sono solo delle vecchie e stupide storie di un paesino di campagna. Non farti spaventare dal buon Lamb, lui ama stupire i nuovi arrivati.»

James rivolse uno sguardo a Lambert, che però sembrava tutto, tranne che convinto.

 

🥀

 

[LA PRIMA CENA]

 

Quella sera, cenarono nel refettorio, un’ampia sala disseminata di tavoli, che però in quel momento erano tutti deserti, almeno finché non sarebbero arrivati gli studenti, il giorno successivo. James mangiò bene e si complimentò con Madama Pince, che si occupava della cucina, e lei gli rivolse un raro sorriso. Il preside Corner tenne letteralmente banco, raccontandogli delle sue avventure e delle sue esplorazioni in giro per il mondo, dal Sudafrica alla Tanzania, dalla Mongolia al Brasile. Era un esploratore e uno studioso e conosceva un sacco di lingue e culture diverse. James scoprì che era stato in Corvonero e non se ne stupì affatto. 

Al termine della cena, declinò il caffè offertogli da Pansy e si congedò per andare a dormire. Aveva voglia di starsene un po’ per conto suo, e poi era stanco morto. Durante il resto del pomeriggio, Lamb lo aveva portato in giro per la casa, instancabile, per mostrargli tutto quanto. Durante le loro peregrinazioni, gli aveva spiegato come funzionava la scuola, dettaglio che il preside Corner, nel suo inconcludente benvenuto, si era scordato di esplicitare. Funzionava proprio come ad Hogwarts: gli studenti erano divisi in sette anni, le materie erano pressoché le stesse, ma semplificate (e senza quelle facoltative), e si iniziava il primo settembre e si finiva il trenta giugno. Inoltre, vigeva una disciplina ferrea, soprattutto da parte degli insegnanti, e i ragazzi venivano mandati lì a scontare le pene per i loro piccoli e grandi crimini per decisione dei genitori oppure del Ministero della Magia. In ogni caso, erano come gatti randagi costretti a convivere in uno spazio ristretto, o cani ringhianti che anelavano solo alla libertà. In nessun caso, secondo Lamb, bisognava dar loro confidenza, o avrebbero cercato in tutti i modi di approfittarsi della situazione. Avevano perso la nozione del tempo e James era riuscito giusto a farsi una doccia, nella vasca antiquata ma pulita del suo piccolo bagno personale, prima di cambiarsi per la cena.

«Sicuro che non rischi di perderti, ragazzo?» gli chiese Cordelia Pince sorseggiando il suo caffè e osservandolo da sopra la sua tazzina.

«Ho la mappa di Heydon Hall tutta qui, ormai», rispose lui picchiettandosi la testa. «Merito di Lamb.» E gli rivolse un sorrisone che l’altro ricambiò, raggiante. Aveva capito che ci andava davvero poco, per farselo amico. 

«Allora buonanotte!» esclamò Corner. 

«Buonanotte a tutti.»

«E sta’ attento al fantasma, piccolo Potter», pigolò Pansy  scoppiando a ridere. Lui rise a sua volta e poi uscì. Raggiunse la sua stanza senza problemi e si richiuse la porta alle spalle. 

 

[JAMES VEDE COSE IN CUI NON CREDE]

 

Capì subito che c’era qualcosa di strano: il suo baule non era più ai piedi del letto, chiuso, ma accanto alla vecchia poltrona, aperto. Aggrottò le sopracciglia e si avvicinò per sbirciare all’interno, ma era tutto in ordine. Pensò ad un qualche stupido scherzo di Lamb o, più probabilmente, di Pansy, e lo sistemò dove stava. Ne tirò fuori il pigiama e lo buttò sul letto. Si tolse le scarpe e le calze e si sfilò il maglione dalla testa. Sbottonò la camicia e l’appese nell’armadio. Poi andò in bagno per lavarsi i denti. Si guardò allo specchio, il viso stanco, i capelli spettinati, gli occhi castani accesi. In fondo, non era andata poi così male. Si tolse gli occhiali per sciacquarsi il viso e li poggiò sulla mensola sopra il lavandino. Si lavò la faccia e agguantò un asciugamano, ma proprio in quel momento la vide. Fu solo un’ombra, uno spostamento rapido di oscurità contro la luce della stanza alle sue spalle. Scosse la testa e si rimise gli occhiali in tutta fretta, ma non c’era più nulla. 

Finito di lavarsi, tornò in camera. Il baule era di nuovo accanto alla poltrona, aperto. Si immobilizzò e rimase a guardarlo per un lungo momento, incerto. Si sentiva un vero stupido a pensare ciò che stava pensando: lui che indugiava con la mente su quelle vecchie storie di fantasmi? Si riscosse, però, quando gli venne in mente che Pansy doveva aver atteso dietro la porta della sua stanza che andasse in bagno, per poi entrare e giocargli nuovamente quel terribile scherzo. La immaginò ridersela di gusto. Questa volta lasciò il baule dov’era, però, si tolse i jeans e indossò il pigiama e si mise sotto le coperte. Spenta la luce, ben presto si addormentò.
 


Note.

Prima qualche nota “tecnica”:

1. I signori Pince sono personaggi di mia invenzione; Forrest Pince è il fratello maggiore di Madama Pince, la bibliotecaria di Hogwarts
2. Emma Nott è un personaggio di mia invenzione, figlia minore di Theodore
3. Lamb come Lambert Pince, personaggio di mia invenzione, figlio dei signori Pince
4. Parkinson come Pansy Parkinson, penso non abbia bisogno di presentazioni

 

Allora, intanto bentornati qui su questi lidi ♥︎ Vorrei aprire queste note ringraziando tutti coloro che hanno recensito e seguito il prologo, l’accoglienza è stata più che calorosa e ha superato qualsiasi mia aspettativa (generalmente molto basse, chi mi conosce lo sa). Detto ciò, ecco qui finalmente il primo capitolo di questa storia, che si apre con un doveroso preludio che vuole essere una sorta di introduzione, una “preparazione” al capitolo vero e proprio, con un riassunto veloce di ciò che è successo in “Death in the Night”, che diventa spiegazione per chi non ha letto l’altra long (ho promesso che ogni cosa sarebbe stata chiarita, avete visto?). 

 

Avrete notato la strana “organizzazione” del capitolo, con l’inserimento di questa specie di “sottotitoli” prima di ogni paragrafo: vuole essere un esperimento, un po’ come quando nei vecchi film in bianco e nero facevano passare quelle schermate con i titoli, spero abbiate capito, in caso contrario prendetela come viene, a me piaceva l’idea quindi la manterrò anche nei capitoli successivi.  

 

James giunge finalmente alla scuola di Heydon Hall e fa la conoscenza per prima cosa dei custodi della casa, i signori Pince, che come specificavo nelle note sono imparentati con la bibliotecaria di Hogwarts (che io in “Death in the Night” ho mandato in pensione, ma dettagli), visto che Forrest Pince è il fratello maggiore; Cordelia è la moglie di Forrest, ovviamente. Spero di avervi piacevolmente sorpresi con la comparsa del preside Corner, il caro vecchio Michael. La conversazione con James vuole ovviamente omaggiare quella di Harry con Silente, sono sicura abbiate colto il riferimento. 

Non ho resistito all’idea di introdurre Pansy Parkinson, un personaggio che non richiede presentazioni, e che avrà un ruolo determinante negli equilibri di Heydon Hall. Su di lei non voglio anticiparvi nulla, sappiate solo che ne vedrete delle belle 👀 Le storie di Lamb sul fantasma non corrispondono a verità, nel senso che la storia dietro la dama di Heydon Hall è tutt’altra, ma anche qui ho la bocca più che cucita 🔮

Il capitolo si conclude con una fantasmagorica apparizione, alla quale ovviamente James non crede e che re-interpreta a suo modo.

 

Concludo queste note eterne augurandomi che questo primo capitolo vi sia piaciuto, siamo entrati nel vivo della storia e ci siamo calati nell’atmosfera di Heydon Hall, conoscendone gli occupanti. Nel prossimo capitolo arriverà la nostra Emma, la co-protagonista di James, e sono sicura vi piacerà tantissimo 😏 


Fatemi ovviamente sapere cosa ne pensate ♥︎

A presto, Marti 🐍

 

Ps per anticipazioni e spoiler, potete seguirmi su Instagram.

 
   
 
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