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Autore: AleeraRedwoods    13/11/2020    3 recensioni
Dal testo:
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”
(Revisionata e corretta)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Aragorn, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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-Fratelli-



    Alatar non riusciva ad aprire gli occhi, eppure sentiva chiaramente tutto ciò che accadeva intorno a lui: lo scricchiolare di rami spezzati, calpestati da molti piedi; il grido di un falco, lontano e familiare; il cozzare metallico del ferro pieno e spesso.
    Allo stesso modo, si accorse immediatamente che qualcosa lo stava trasportando, quasi cullando, con un ritmo cadenzato.
    Sentiva male dappertutto, ogni scrollone era una stilettata nelle ossa: un uomo della sua età andrebbe trattato con più riguardo, pensò. Inoltre, un forte odore di erbe curative gli penetrava nelle narici, dandogli il voltastomaco. Comunque, nemmeno quell’odore pungente era sufficientemente forte da coprire quello più prepotente della carne in putrefazione: era con i non morti, questo era chiaro.
    Provò a schiudere le labbra ma non riuscì ad emettere nemmeno un suono. Le sue braccia e le sue gambe, strettamente legate da corde ruvide, non rispondevano ai suoi comandi.
    Come se non bastasse, era stato avvelenato: riusciva a sentire il sapore del veleno sulla lingua, insolitamente sconosciuto anche a un esperto stregone come lui.
    Ricordò i suoi ultimi secondi di coscienza, rivivendo il suo incontro con Lhospen. Già, Lhospen…
    Ora, non era solo il corpo a dolergli oltre il sopportabile.
    Solo che di Lhospen non vi era traccia, al momento. Forse, l’elfo oscuro lo aveva consegnato a una retroguardia, diretta verso Mordor. Imprecò mentalmente, senza riuscire a trovare una possibile via di fuga da quella terrificante possibilità: Mordor era l’ultimo posto che avrebbe voluto rivedere in vita sua.
    Lo stregone rimase in quello stato d’immobilità per parecchio tempo, cercando di tenersi sveglio, concentrato sui suoni e sugli odori attorno a lui.
    Nonostante il suo impegno però, ben presto la sua mente cominciò a scivolare via, tra il dormiveglia e il sonno profondo, scombussolando i suoi pensieri.
    Per un attimo credette persino di riuscire ad aprire gli occhi ma ciò che vide intorno a sé lo spaventò a morte: una cella nera, sbarre di ferro e una mano scheletrica a stringere la sua.
    Fu in quel momento che Alatar capì innegabilmente di aver perso il controllo: quello che vedeva non era reale.
    O almeno, era reale, ma di certo non stava accadendo in quel momento. Erano ricordi.
    La sua mente agitata lo stava intrappolando nell’incoscienza, i ricordi si mischiavano ai sogni e molte visioni di tempi passati ma ancora terribilmente presenti, vivide più che mai, presto lo inghiottirono completamente.
    E per la prima volta dopo decenni, Alatar ricordò.

Mordor; Novembre, anno 3016 T.E.[1]

    Puzza di zolfo, di marcio, di escrementi, di cenere, di legna bruciata e di fumi velenosi. Intorno ad Alatar era tutto nero e caldo, troppo caldo.
    Il clangore delle fucine gli torturava i timpani e l’aria bollente gli ustionava la pelle secca e disidratata. Ed era buio, un buio fuligginoso, tanto che Alatar temeva di aver perso l’abilità di vedere i colori. Non riusciva nemmeno a ricordare quali fossero le tonalità del cielo e dell’erba fresca. Faceva fatica persino a tenere gli occhi aperti, fissi nell’oscurità densa della cella.


    Alatar voleva urlare, svegliarsi. Combatteva per riprendere conoscenza ma persino il suo spirito non aveva più forze. Urlò dentro di sé, terrorizzato: lui non voleva ricordare ma qualcuno lo stava deliberatamente costringendo.

    Rannicchiato sulla pietra nera delle segrete di Barad-dûr, lo stregone poteva solo continuare a respirare, niente di più.
    Sentiva il suono del suo respiro sovrapporsi a quello affaticato di suo fratello, poco distante da lui: a volte riusciva a concentrarsi su quel suono, ignorando tutto il resto e allontanandosi da quella terribile realtà. Provava a estraniarsi, a immergersi nei ricordi dei loro lunghi viaggi, delle loro avventure, dei loro amici tra gli Esterling e gli Haradrim, lontani da quei luoghi maledetti.


    -Pallando, fratello mio, non voglio ricordare! Svegliami ti prego!- Ma le visioni erano troppo chiare e la mente dello stregone coglieva sempre più dettagli, impedendogli di distrarsi.
    Come uno spettatore sospeso nel vuoto e nel buio, Alatar assisteva impotente allo svolgersi della sua storia passata e, questa volta, senza la possibilità di fuggire.

    Poi le urla ricominciavano, come ogni volta.
Alatar si tappò le orecchie, muovendosi a fatica, cercando di richiudersi su sé stesso. Torturavano i prigionieri in continuazione. Sentire tutte quelle urla, quelle richieste di soccorso, giorno dopo giorno per anni, lo stava logorando dentro.
    Avvertì distrattamente le mani scheletriche di Pallando premere sulle sue, a cercare di isolare quel terribile suono.
    Caro Pallando, il suo amato fratello maggiore, la sua luce in quel luogo di sofferenza e morte.
    Se Alatar era più forte fisicamente, Pallando era un’ancora per lo spirito: determinato, gentile e altruista come nessun altro. E come Alatar era impulsività, vigore e destrezza, Pallando era saggezza, compassione e temperanza. I due fratelli erano nati per completarsi a vicenda e solo il fatto che fossero insieme li aveva tenuti in vita in quegli anni di prigionia.
    Dopo un tempo allo stesso modo infinito e breve, le urla cessarono, lasciando nuovamente spazio allo stridio del ferro e ai versi orrendi dei moruruk.
    Alatar cercò tentoni il volto di suo fratello, posando la fronte sulla sua. Sapevano entrambi che, prima o dopo, gli orchi sarebbero tornati a torturare anche loro, era solo questione di tempo: quelle urla atroci sarebbero state le loro, prima ancora che le vecchie ferite fossero guarite del tutto.
    Pallando tremò ma si fece forza per entrambi, drizzando la schiena ossuta. Prese le grandi mani di Alatar tra le sue, fissandolo nella penombra: -G-guarda fratello mio, ho aggiunto un nuovo pezzo al disegno.-
    Alatar a malapena posò lo sguardo sui fogli macilenti sparsi sul pavimento: erano giorni che suo fratello si prodigava a disegnare con quel piccolo carboncino, nonostante gli occhi gli dolessero per l’assenza di luce.
    Alatar era abituato. Decenni prima, Pallando aveva disegnato persino loro, in quella cella.
    Come se avessero potuto evitarlo.
    -Non so ancora cosa verrà fuori.- Continuò il fratello più anziano, tossicchiando per schiarire la voce ormai arrochita: -Però credo di riconoscere una forma umana… Pensi che siano davvero i Valar a mandarmi queste visioni?[2]- Sussurrò, tentando di distogliere l’attenzione del fratello dal ricordo delle urla dei prigionieri.
    L’altro quasi rise: -I Valar? Se proprio vogliono fare qualcosa di utile, che ci mostrino come uscire da questo inferno, vecchio mio.-
Pallando sospirò, lanciandogli un’occhiata di rimprovero: -Sai che non funzionano così. Il futuro che prevedo è sempre lontano. Lontano decenni.-
    Alatar annuì, chiudendo gli occhi e sfregandosi una mano sulla folta barba brizzolata, incolta come i suoi lunghi capelli: -Già. Allora sarà qualcosa che ci riguarderà tra molto tempo, non me ne preoccuperei.- Pallando sorrise, lievemente, ma non rispose e di nuovo il silenzio invase la cella.
    Alatar si massaggiò le tempie, notando all’istante lo sguardo distante e terribilmente preoccupato del fratello. -Dai, fammi vedere quei disegni.- Lo accontentò, con un sospiro.
    D’un tratto, un vociare rozzo e gracchiante li raggiunse, accompagnato da uno sferragliare metallico fin troppo familiare.
    Due individui stavano salendo le scale, avvicinandosi sempre di più alla cella, discutendo nell’oscura lingua morgul: la ronda degli orchi. La luce della loro torcia illuminò la cella, permettendo ad Alatar di scorgere chiaramente le mani nodose di Pallando stringere convulsamente la sua logora tunica blu.
    I due orchi adesso erano abbastanza vicini da consentire ad Alatar di discernere alcuni vocaboli del loro concitato discorso.
    -…e Grishnákh ha scoperto proprio ieri il nome della feccia che possiede l’Unico! Da non credere, dopo tutti questi anni…- Udite quelle parole, Alatar smise per un secondo di respirare e sentì suo fratello irrigidirsi al suo fianco.
    Se l’Unico Anello fosse stato davvero ritrovato, le loro azioni di rivolta contro Sauron, nell’Est e giù nel Sud, sarebbero state completamente vane: le popolazioni che erano riusciti ad allontanare dall’influenza dell’Oscuro Signore sarebbero state nuovamente assoggettate e loro non avrebbero più potuto fare nulla per impedirlo.
    L’orco continuò, ghignando con voce stridula: -Hanno torturato quel piccolo verme strisciante delle montagne per mesi e mesi ma alla fine ha confessato!
[3] Dice che l’Unico è stato rubato da un tale della Contea. Dove sia questo maledetto posto, io proprio non lo so, non ne ho mai sentito parlare.-
    -Voglio sapere il nome! Che nome ha detto, eh!?-
    -Tsk! Biggins, o Baggin, ha detto. Che vuoi che ne sappia io!?-
    -E manderanno noi a cercarlo? Potremmo finalmente gustare della carne umana, eh Drolg?!-
    -Non sbavarmi addosso, idiota! E poi dicono sia un mezz’uomo, non proprio un umano. Beh, non male, non ho mai assaggiato un mezz’uomo.-
    -Non ci spero nemmeno! Di sicuro partiranno i più veloci fra noi. Noi non partiremo mai, vero Drolg?!-
    -Toglimi quelle luride manacce dal braccio, maledetto! L’Occhio comanderà ai Nove di recuperare l’Unico, non è ovvio?!-


    Mentre ricordava, Alatar si sentiva sempre più afflitto.
    A quel tempo non poteva saperlo ma persino lui e suo fratello, udendo quella stramba conversazione, erano stati inconsapevolmente proiettati dentro la storia del Signore di tutti gli Anelli.
    Anche se, con il senno di poi, Alatar ammise a sé stesso che non erano stati utili proprio a niente: stregoni senza un posto o un ruolo nell’epico destino della Terra di Mezzo, soli nel Regno del nemico, impotenti.
    Non c’era da stupirsi se, in tutto questo tempo, nessuno li aveva ricordati. Nessuno li aveva cercati.
    Nessuno li aveva pianti.

    I due orchi si fermarono davanti alla cella e Alatar coprì in propri occhi per non essere accecato dal fuoco della torcia.
    Scorse appena le tre figure scure: una era sottile e alta, curva su sé stessa e tenuta in disparte; le altre due erano più basse e tozze e appartenevano ai due orchi che avevano parlato. Alatar notò che stavano trascinando qualcosa dietro di loro.
    L’orco più grosso indicò i due stregoni all’orco dalla voce stridula, quasi sorpreso: -Ah! Mi ero dimenticato di questi due. Forse Grishnákh ci darà il permesso di mangiarli, c’è sempre meno spazio per i prigionieri, eh Drolg?!-
    L’altro, più piccolo ma decisamente più sveglio, lo colpì sulla spalla, spingendolo di lato: -Stai zitto, idiota! Non possiamo ucciderli, ci servono per gli esperimenti dell’Occhio!- E si rivolse ai due stregoni, ghignando: -Li tortureremo, sì. Li faremo soffrire. Come abbiamo torturato questo elfo bastardo, poco fa!- E risero sguaiatamente, spalancando la porta della cella. -Immerso nell’acido, immerso nel veleno!-
    Infatti, ciò che stavano trascinando dietro di loro non era altro che un elfo. O meglio, quello che restava di lui.
    I due orchi lo avevano trasportato in quel modo, tirandolo per un braccio sottile come un sacco vuoto, salendo gradini e attraversando lunghi corridoi di roccia appuntita e rovente.
    A quella vista, Alatar sentì lo stomaco vuoto rivoltarsi e cadde carponi, scosso da violenti spasmi e sterili conati. Questo provocò ulteriormente le risate dei due orchi, che lanciarono il corpo esamine dell’elfo dentro la cella. Era un corpo talmente martoriato e ustionato da essere irriconoscibile, gli stregoni nemmeno intuirono dove si trovasse la testa. Le vesti corrose si erano fuse alla pelle ustionata, sprigionando sinistri vapori maleodoranti. 
    Gli orchi spinsero dentro anche la seconda figura sottile, sbattendo la porta della cella alle sue spalle: -Buon soggiorno, feccia!- Risero e si allontanarono, parlottando e sghignazzando tra loro.


    Alatar sentì il proprio corpo tremare persino nella realtà, nonostante l’effetto del veleno: -NO! Voglio svegliarmi! Non voglio vederli! Li avevo dimenticati, lo giuro!-

    La figura ancora in piedi attese che la luce della torcia fosse scomparsa in fondo ai corridoi, nel silenzio più assoluto.
    I due stregoni la fissarono, senza sapere cosa dire o cosa fare, quasi spaventati da quella rigidità innaturale.
    Poi, la figura si scostò il cappuccio lercio dal capo, tendendo le mani dai polsi piagati da numerose catene. Si chinò sull’elfo a terra, senza azzardarsi a toccarlo, per paura che si sbriciolasse tra le sue mani come un cumulo di cenere: -Saedor? Saedor?!-
    Anche la figura sottile, dunque, si rivelò essere un elfo, dai lunghi capelli scuri e dalla pelle pallidissima.
    Pallando, con le lacrime agli occhi, strisciò sulle ginocchia fino a raggiungere Alatar, cercando di tirarlo vicino a sé: -Fratello, stai bene?- Sussurrò, sfregando le mani sulla sua schiena ampia per confortarlo.
    Alatar respirò a fondo, incapace di tirarsi nuovamente a sedere ma si pulì il viso come meglio poté.
    Era stanco, tanto stanco. Voleva solo dormire.
    -V-voi chi siete?- Domandò l’elfo pallido, scorgendo le loro ombre muoversi nella penombra della cella.
    Pallando sentì una stretta al petto nell’udire la sua voce flebile e tesa e cercò di non fare movimenti bruschi, abbandonando il fianco di Alatar per avvicinarsi agli elfi: -Noi siamo gli Stregoni Blu. Pallando è il mio nome e lui è Alatar.-
    L’elfo scrutò nell’oscurità, gli occhi spalancati: -I-io sono Lhospen e questo è mio fratello, Saedor.-
    Con uno slancio della mano bianca, cercò Pallando nel buio, afferrandogli la veste: -Ti prego, aiutalo!-


    Era andata così? Ah. Sì, giusto: si erano conosciuti proprio così.
    Due stregoni e due elfi lasciati in balìa degli eventi, prigionieri a lungo torturati nel corpo e nell’animo.
    Avevano così tanto in comune.
    Le immagini si fecero più veloci, Alatar non distingueva più un momento dall’altro, tutti troppo uguali, troppo silenziosi e bui.
    Avevano passato molto tempo in quella cella malsana, insieme, come una cosa sola, questo lo sapeva bene.
    Le immagini dei suoi ricordi rallentarono, fino a soffermarsi su una nuova visione, nitida, che Alatar si arrese ad osservare.

    Alatar bagnò nuovamente la pezza, immergendola nello sporco rimasuglio della loro saltuaria dose di acqua. Sentì il fastidio tormentargli la nuca: l’acqua era sempre stata a malapena sufficiente per lui e suo fratello e ora dovevano condividerla con Lhospen e addirittura sprecarla per ripulire le piaghe dell’elfo avvelenato.
    Con gesti spazientiti allungò la pezza a Pallando, che si affrettò a tamponare con delicatezza estrema il viso dell’elfo a terra:
    -Incredibile! Le ustioni si stanno già cicatrizzando, Saedor. Presto anche il dolore diminuirà.- Lo sentì sussurrare.
    -Mio fratello è molto forte.- Gli fece eco Lhospen. Pallando sorrise, annuendo: -Lo siete entrambi, miei cari.-
    Fastidio. Alatar provava fastidio nel vedere suo fratello prodigarsi per quel moribondo. E odiava vedere la cieca adorazione che i due elfi provavano verso di lui. Verso di loro, in realtà. Anche se Alatar non aveva mai ricambiato un solo sguardo dei due stranieri.
    Inoltre, da parecchio tempo gli orchi parevano essersi dimenticati della loro presenza. Lasciavano quella ciotola d’acqua forse una volta al giorno, forse una volta alla settimana, i prigionieri non avrebbero saputo dirlo: avevano smarrito ogni cognizione di tempo e spazio. Tuttavia, non una volta i carcerieri si erano fermati a schernirli, minacciarli o anche solo guardarli.
    Questo aveva permesso a Pallando di riposare, di utilizzare la sua poca energia per curare le piaghe dell’elfo ferito e continuare i suoi frammentari disegni, diligentemente.
    Alatar non si dava pace, poiché sapeva che quella quiete non prometteva nulla di buono: presto l’Occhio li avrebbe reclamati per nuovi e singolari giochetti e se Pallando non avesse tenuto per sé le energie, non sarebbe sopravvissuto alle innumerevoli torture.
    -Alatar, aiutami a farlo sedere. Devo finire di bendarlo.- Sussurrò Pallando, tendendo una mano nella sua direzione.
    Alatar strisciò fino a loro, ingoiando il boccone amaro. Subito, Saedor puntò i grandi e magnifici occhi color ambra verso di lui, adorante: -Grazie, Alatar.-
    Lo stregone, come al solito, distolse immediatamente lo sguardo, serrando la mascella: -Non c’è problema.-


    Si vide così meschino, ricordando. Che immagine poco lusinghiera di Morinehtar, l’Assassino dell’Oscurità.
    Meschino e debole e non poteva scappare da quella passata ma reale versione di sé stesso.
    E nelle visioni i mesi scorrevano come un fiume d’immagini senza fino, fino a intrappolare un nuovo, atroce dettaglio.

    Lhospen, accanto alla porta della cella, si voltò improvvisamente verso i compagni: -Arriva qualcuno!- Sulle scale, infatti, presto si udì l’inconfondibile sferragliare delle armature dei moruruk.
    I quattro si rannicchiarono contro la parete più distante dalle sbarre, affannosamente.
    Un grosso orco si piantò di fronte a loro, armeggiando con la serratura: -Prendi uno stregone e un elfo, scegli chi vuoi.- Ringhiò, rivolto all’altro orco che era con lui. Questo entrò, puntando la torcia contro i prigionieri e studiandoli con fare critico.
    -Prendo l’elfo ferito e il vecchio.- Dichiarò poco dopo, gracchiando con voce nasale.
    Alatar sbarrò gli occhi, gettandosi in avanti a coprire il corpo di suo fratello con il proprio: -No! Prendi me! Io sono più forte, posso sopportare le torture, tante torture!- Urlò, disperato, cercando di alzarsi in piedi.
    L’orco lo spinse via, come scacciando un insetto: -Nessuno ha detto che deve sopravvivere, stregone bastardo!-
    Pallando strinse piano Saedor a sé, risoluto. -Alatar, spostati. Non cambieranno idea. E io non ti lascerei andare al mio posto, fratello.- Quella scena accese una rabbia sconosciuta dentro Alatar, che prese a strattonare Pallando verso di sé, lontano da Saedor: -Lascialo! Lascialo! Che se lo prendano!-
    Lhospen piangeva in un angolo, irritando ulteriormente Alatar.
Pallando fissò il compagno con gli occhi seri colmi di lacrime e parlò con un tono carico di disappunto: -Ripensa alle tue parole, fratello. E torna in te, non ti riconosco.-
    Così dicendo, fu trascinato fuori dalla cella senza che opponesse alcuna resistenza.


    Di nuovo, le immagini si mossero velocemente: altro tempo era passato nel silenzio della cella, nel buio, un tempo reso ancora più pesante dalla fastidiosa presenza di Lhospen.
    Questo era sempre più bisognoso di stabilire un qualsiasi contatto con Alatar… che diveniva invece sempre più insofferente e scostante.

    Lhospen appoggiò il capo sul suo grembo magro, stringendo la sua veste blu stracciata. Alatar posò istintivamente la mano ruvida sui capelli neri dell’elfo, chiudendo gli occhi.
    Stavano morendo di fame e di stenti e probabilmente anche i loro rispettivi fratelli erano andati incontro allo stesso destino: era tanto tempo che non avevano loro notizie.
    Lhospen tossì, i muscoli contratti e il corpo scosso da tremiti violenti. -Shh, shh…- Ripeteva Alatar, sfinito quanto lui.
    -Caro Alatar, vorrei donarti le mie ultime forze, per non farti soffrire.- Piagnucolò l’elfo, premendosi la mano fredda dello stregone sulla fronte e sugli occhi.
    L’altro non rispose ma a Lhospen questo non importava: Alatar non parlava quasi mai con lui.
    D’un tratto, l’Istar spalancò gli occhi: davanti a loro, nel buio torrido della cella, volteggiava una piccola farfalla variopinta, luminosa e sottile come carta velina. Lo stregone boccheggiò, confuso ma sentì la mano di Lhospen trattenerlo: -Q-questa è solo un’illusione. Ti piace, Alatar?- Respirava a fatica.
    -è opera tua?- Esclamò l’uomo, incredulo.
    -Mhm… Ero molto piccolo, quando ho scoperto di esserne capace. È a causa di questi poteri che siamo stati catturati… Per gli esperimenti…- A quelle parole, la farfalla luminosa prese ad accartocciarsi su sé stessa, scurendosi e tingendosi di un terribile rosso cremisi. Ora sembrava più un gigantesco insetto infernale.
    -Siamo contaminati… dalla malvagità di questo luogo.-
    Alatar deglutì, sentendo più che mai di non aver per nulla compreso la reale essenza di quell’elfo.
    -Anche Saedor sa farlo?- Chiese, cercando di dissimulare il proprio disagio. Lhospen scosse la testa, ancora posata sulle sue gambe, come un bambino con la propria madre: -Lui ha altre capacità… Lui proteggerà Pallando, non devi temere…-


    Quella frase… La voce di Lhospen aveva perseguitato Alatar negli anni a venire. Era stato cieco ed egoista e mai aveva chiesto ai due elfi di parlare della loro storia. Se solo avesse saputo…
    I ricordi scorrevano di nuovo veloci, poi lenti, infiniti, poi nuovamente veloci. Un altro ricordo di quel tempo oscuro irruppe prepotentemente nella mente dello stregone, stordendolo al pari di un colpo d’ascia.

    Pallando fu gettato dentro la cella. Dopo di lui, vi fu spinto dentro anche Saedor. L’orco di scorta richiuse la porta, lasciandoli nuovamente al buio.
    Alatar si avvicinò ai due compagni, finalmente ritornati da loro.
    -Fratello?- Sussurrò. Pallando aveva perso conoscenza ma respirava ancora. Il sollievo distese i lineamenti dello stregone, che si apprestò a valutare il suo stato. Le sue mani erano insanguinate, alcune dita spezzate e mancavano tutte e dieci le unghie. Alatar sentì le lacrime scivolare sulle sue guance ma continuò la sua ispezione sul corpo smagrito del fratello.
    Gli orchi gli avevano strappato alcuni denti e il torace era pieno di lividi ed ematomi. Non lo avevano ferito con armi da taglio, sapevano che in quel caso sarebbe morto dissanguato o per una qualche infezione e, checché ne dicessero, non era certo il loro obbiettivo.
    Nonostante il suo stato pietoso, Alatar sapeva che la parte di Pallando ad aver subito più lesioni fosse la sua mente: nemmeno osò chiedersi come sarebbe stato una volta sveglio.
    Lhospen, intanto, tirò su Saedor, stordito ma cosciente.
    -Pallando è stato portato dall’Occhio…- Tremò questo, parlando con una spaventosa voce metallica.
    Gli altri due lo fissarono con sgomento. Era la prima volta che uno di loro vedeva Sauron in… persona.
    Alatar scosse la mano, scacciando quello spettro dalle loro menti. -Ora pensiamo a farlo rinvenire.-
    Saedor era stato nuovamente avvelenato e Lhospen gli afferrò il viso coperto di cicatrici tra le mani, preoccupato: -Il tuo occhio, fratello…- Saedor sollevò a fatica le spalle, con un gesto di stanca noncuranza, e si schiarì la voce ormai alterata: -Questa volta hanno preferito agire dall’interno, senza infierire sulla mia pelle. Adesso c’è troppo veleno nel mio corpo…- Sbatté velocemente le ciglia, tentando di nascondere l’occhio destro, che iniziava a tingersi di nero: -Ma io sono sempre io fratello, non temere.-
    Lhospen trattenne le lacrime, sorridendo: -Lo so. Lo so, Saedor. Ora ti benderò di nuovo.- I due si rannicchiarono insieme, sollevati dal trovarsi nuovamente vicini.
    Alatar strinse i denti: -Dobbiamo andarcene da qui… Dobbiamo scappare.- Annunciò.
    I due lo guardarono, senza capire: -Scappare è impossibile. Come possiamo superare le guardie? Siamo nelle viscere di Barad-dûr e siamo feriti, stanchi e senza armi.-
    L’Istar scosse la testa con fermezza, percependo un folle piano profilarsi chiaramente nella sua mente.
    -Non senza armi.- Sussurrò.
    In quel momento Pallando tossì, sputo sangue e aprì gli occhi, interrompendo la discussione. Alatar corse ad aiutarlo, tirandolo a sedere. Il suo cuore perse un battito quando vide un grande sorriso dipingersi sul volto tumefatto del fratello.
    -Ho visto Lui… Ho visto L’Oscuro Signore…- Delirava, forse.
    Alatar, ancora tremante, lo prese per le spalle, scrollandolo con delicatezza: -Va tutto bene, ora sei con me!- Ma Pallando non era spaventato, era quasi… euforico. Alatar rabbrividì quando incontrò il suo sguardo allucinato. -Non capisci! Lui ha scoperto molte cose su di me ma non sa che ho fatto altrettanto con Lui! Non sa che cosa ho capito, che cosa ho imparato!-
    Alatar avvertì un rivolo di sudore freddo attraversargli la schiena. -C-cosa intendi, Pallando?-
    L’altro gli afferrò i polsi, stringendolo con le mani insanguinate e senza unghie, tirandolo più vicino a sé. Gli sussurrò all’orecchio: -La magia, Alatar. Magia potente! Mi serve solo tempo. Tempo per imparare! Farò scomparire il dolore, la paura, la sofferenza. Farò scomparire tutto, tutto!-
    Fu allora che Alatar reagì.
    Gli assestò un violento schiaffo sul viso.
    Lo schiocco secco riecheggiò nella cella e i due elfi lì accanto espirarono sconvolti, fissando Alatar e Pallando con apprensione.
    Quest’ultimo, rimasto con la testa voltata a causa della violenza del colpo, si raddrizzò lentamente, massaggiandosi la guancia: -Che male, fratello! Perché mai mi hai tirato un ceffone?- I suoi occhi chiari erano tornati limpidi e sinceri e Alatar sospirò, sollevato. Per un secondo, aveva temuto di averlo perso per sempre: -Scusami, Pallando. Ora stenditi, devi riposare.-

    Altro tempo era passato, da quel giorno. Più volte gli orchi tornarono a prendere Saedor, che veniva restituito ai compagni sempre più piagato, avvelenato, ustionato, irriconoscibile nel corpo e nella mente.
    Ogni volta, i tre compagni fasciavano il suo corpo distrutto; il suo occhio destro, sempre più nero, li fissava con crescente indifferenza, pregno del miasma malvagio di quel luogo.
    Allo stesso tempo, succedeva spesso che Pallando si rannicchiasse in un angolo, ripetendo litanie incomprensibili o scarabocchiando simboli sulla polvere. Non appena Alatar si avvicinava però, l’altro tornava in sé, allontanandosi dall’angolo come fosse rovente, guardandosi le mani come se ne fosse profondamente disgustato. Altre volte, egli piangeva, e chiedeva aiuto. Solo le grandi mani ruvide di Alatar erano in grado di rassicurarlo.
    Ogni tanto, un orco tornava a prendere anche lui e per quanto Alatar combattesse, urlasse o tirasse, riuscivano a portarlo via, rigettandolo poi nella cella dopo un tempo che sembrava infinito.
    E Pallando non voleva mai parlarne, divenendo sempre di più l’ombra di sé stesso.
    Alatar sapeva che lo portavano dall’Occhio e quella consapevolezza gli toglieva il sonno.
    Si rafforzava in lui l’idea di fuggire: Lhospen aveva il dono dell’Illusione! Potevano scappare, divenire invisibili.
    Dovevano solo trovare il modo di aprire quella maledetta porta al momento giusto.
    Intanto, lo stregone più giovane lasciava sempre una parte più abbondante di acqua e di cibo per Lhospen: abbastanza poco perché lui non lo notasse ma sufficiente a fargli riprendere colore e forza. Il momento di agire era vicino più che mai.


    Alatar sentì un forte scossone e tentò di svegliarsi.
    Non aveva ancora idea di dove effettivamente si trovasse o con chi viaggiasse, ma aveva un brutto presentimento.
    Era davvero stanco di quella situazione.
    Non avere il controllo sul proprio corpo lo irritava ma era più preoccupato per il modo innaturale e forzato con cui la sua mente lo teneva saldamente ancorato ai ricordi del passato.
    La sola vista di Lhospen lo aveva sconvolto a tal punto da spedirlo a piè pari in un vortice di angoscia e rimorso tanto profondo da fargli perdere conoscenza? Per quanto vividi e violenti potessero essere i suoi ricordi, non era certo possibile.
    Qualcosa o qualcuno lo stava decisamente imprigionando a forza in quello stato, magari attraverso lo stesso veleno che gli immobilizzava gli arti.
    E forse lo meritava davvero, quel trattamento, perché il peggio doveva ancora arrivare.

Mordor; Febbraio, anno 3019, T.E.[4]

    Alatar si appoggiò alla porta della cella, l’orecchio premuto contro le sbarre: non percepì nessuna vibrazione, nessun movimento. Probabilmente, tutta la zona era sgombera.
    In effetti, erano giorni che non passava di lì anima viva.
    Per parecchio tempo c’era stato un gran fermento in tutta la fortezza, tanto da mobilitare anche i più insignificanti orchi di guardia nelle prigioni. Per Alatar, fu chiaro che doveva essere accaduto qualcosa di veramente grosso là fuori.
    Forse anche l’Anello era implicato.
    Ad ogni modo, nessuno sarebbe andato a raccontarlo proprio a loro quattro.
    Tornò a sedere con gli altri: -C’è sempre silenzio.-
    Lhospen si avvinghiò al suo braccio, com’era solito fare:
    -Sembrerebbe quasi che tutti gli orchi di Barad-dûr se ne siano andati…-
    Pallando, rannicchiato in un angolo, rise piano: -L’Oscurità si muove per sopprimere la fioca luce ad Ovest. Dovremmo esserne meravigliati? Quando gli uomini capiranno che non c’è motivo di ostinarsi a vivere in un mondo così fragile? Ci sono solo morte e sofferenza là fuori, per tutti noi.-
    Lhospen distolse lo sguardo, deglutendo, colpito da quelle dure parole, così insolite se pronunciate dalla morbida voce di Pallando. Ma per dieci lunghi anni l’Istar era stato brutalmente torturato e tre di questi li aveva spesi faccia a faccia con l’Oscuro Signore, come nessun’altro tra loro: chiunque avrebbe perso la speranza.
    Alatar, ben conscio di tutto ciò, fissò il fratello senza rispondere. Doveva portarlo via da lì o la sua mente si sarebbe smarrita nel buio per sempre.
    Si alzò in piedi, per quanto il basso soffitto della cella lo permettesse: -Scappiamo, adesso.- Ordinò, lapidario.
    Gli occhi dei tre compagni saettarono su di lui, il respiro sospeso.
    Pallando, dal canto suo, non si mosse: -Come?-
    Alatar sorrise: aspettava quel momento da tempo, ormai.
    Frugò nella casacca ed estrasse un chiodo, ripetutamente piegato con minuzia estrema: -Ho fatto delle prove, riuscirò ad aprire la porta della cella, datemi solo qualche minuto.- Lhospen cadde nel panico, tirandosi in piedi a sua volta: -C-cosa? No! Fermo, ci troveranno, ci vedranno! Non possiamo rischiare, ti prego Alatar-
    -Cosa?- Lo zittì il più giovane degli stregoni: -Preferisci morire qui senza nemmeno tentare? Beh io no! E non sarà la sorte di mio fratello!- Avanzò di un passo, gli occhi lucenti che fendevano il buio: -Sei con me, Lhospen?-
    L’elfo ricambiò lo sguardo con gli occhi blu sgranati. Poi schiuse le labbra, respirando a fondo: -Sarò sempre con te, lo sai.- Alatar sorrise, tendendo poi la mano a Pallando. -Andiamo, fratello.-L’altro si alzò a fatica, l’espressione carica di sofferenza: -Finché staremo insieme, andrà bene. Finché moriremo insieme…-
    Alatar non si fece abbattere dallo spirito ferito del fratello, dirigendosi con decisione alla porta della cella. Armeggiò con il vecchio chiodo arrugginito, sentendolo scivolare tra le mani umide: un movimento preciso, poi un altro. Alatar sudava, concentrato. Gli altri tre rimasero immobili e in silenzio, mentre i secondi passavano, inesorabili, e la paura che qualcuno li scoprisse attanagliava le loro viscere sempre di più.
    Poi lo scatto secco della serratura riecheggiò nella cella: la porta cigolò e si aprì.
    Dovettero fare appello a tutte le loro forze per riuscire a compiere il primo passo fuori dalla piccola prigione. Quel pavimento era stato la loro casa per così tanto tempo che ora distaccarsene era diventato quasi impossibile e le loro gambe erano deboli e atrofizzate. -Forza, su per queste scale c’è la libertà.- Sussurrò Alatar, stringendo i pugni.
    Con passo malfermo, i quattro s’incamminarono lungo il corridoio buio, senza osare un fiato. Girarono a vuoto per chissà quanto tempo, senza incontrare mai nessuno.
    Barad-dûr era davvero deserta!
    Alatar acquistava fiducia ad ogni passo e la speranza cominciò a pungergli nel petto, rendendolo incauto.
    Trovarono la stanza ove erano rimasti incustoditi i loro effetti. Alatar afferrò il proprio bastone, sentendo l’energia fluire dentro di sé come un fiume in piena: -Pallando, afferra il tuo bastone!- Rise. Pallando non rispose al sorriso caldo del fratello, bensì rimase in disparte, come se la sola vista dei due bastoni gli ferisse gli occhi e la mente: -Non lo voglio.-
    A quelle parole ostinate, l’altro quasi perse le staffe: respirò a fondo e tese il bastone al legittimo proprietario. -Prendi il bastone e torna in te, ti sentirai più forte.- Disse, deciso.
    Pallando, di tutta risposta, colpì la mano del fratello, facendo cadere a terra il proprio, prezioso bastone: -Ho detto che non lo voglio!- Gridò.
    L’urlo spaventò Lhospen, che corse alla porta: -Gli orchi potrebbero essere vicini! Vi prego, non litigate adesso!-
    Alatar calmò il suo tremore, arrendendosi in fretta: non avevano tempo per queste sceneggiate. -Bene.- Disse soltanto, prendendo il bastone del fratello per lui: -Lo terrò fino a quando non lo vorrai.-
    Saedor, rimasto per tutto il tempo in silenzio a fissarli con il suo occhio nero, s’interpose tra i due stregoni, cercando di dissimulare il gesto porgendo loro alcune spade. Alatar assottigliò lo sguardo: stava difendendo Pallando, era chiaro.
    Eppure, andarsene non era forse l’obiettivo di tutti?
    Perché i due non capivano gli immensi sforzi che Alatar aveva compiuto per loro?
    Carichi di tensione, i quattro compagni continuarono la salita.

    Sbucarono infine in una grande sala dalle colonne di pietra scura e, con sgomento, scorsero la pallida luce del giorno entrare da una porta poco distante.
    Un’uscita? Poteva davvero essere così semplice?
    Alatar sentì il sollievo alleggerire le membra stanche e afferrò la mano del fratello, al suo fianco: -Ci siamo! Guarda Pallando, la luce dell’esterno!- Quello non lo stava nemmeno guardando. Egli fissava un punto lontano, troppo lontano perché Alatar potesse raggiungerlo. -Voglio restare qui.- Decretò, infatti, Pallando.
    L’altro non diede di nuovo peso alle sue parole e lo tirò verso la fioca luce delle terre di Mordor.
    Giunsero fino alla porta e Alatar per primo spiò attraverso lo spiraglio luminoso. La luce, per quanto pallida, gli ferì gli occhi arrossati, e impiegò diversi secondi prima di riuscire a mettere a fuoco: rocce a perdita d’occhio circondavano la fortezza, in un paesaggio secco e desolato.
    Poi, un movimento fece sobbalzare lo stregone, che si appiattì nell’ombra. Un orco passò proprio di fronte alla porta socchiusa, gelando il sangue dei presenti.
    Se solo l’orco avesse aperto quella porta un pollice di più, avrebbe scorto i quattro fuggiaschi, dando l’allarme.
    Uscire così scoperti era indubbiamente troppo pericoloso.
    Alatar si rivolse allora a Lhospen, cercando di apparire rassicurante: -Tu puoi celare le nostre figure ai loro occhi. Devi creare l’illusione giusta, una che ci permetta di mimetizzarci con la roccia.- L’elfo spalancò gli occhi blu, terrorizzato: -Ma io non ne sono capace! Non ho mai fatto una cosa del genere!-
    Alatar sentì il panico chiudergli la gola ma non osò cedere:
-Fidati di me! So che puoi farcela. Devi fidarti di me, Lhospen.-
    Saedor, dal canto suo, non disse niente, limitandosi a tenere Pallando per un braccio, sorreggendolo.
    La scelta apparteneva solo a Lhospen.
    L’elfo sottile strinse i pugni, sforzandosi di non piangere: -C-ci proverò, mio caro Alatar… Per voi.- Superò lo stregone e respirò a fondo. Aprì la porta con movimenti lentissimi e azzardò un mezzo passo verso l’esterno. Subito, un grosso moruruk di guardia venne verso di loro, a passo spedito, quasi avesse intuito la loro presenza. Era il momento della verità.
    Lhospen trattenne il fiato, concentrato come non mai: contro ogni aspettativa, l’orco tirò dritto, ignaro della loro presenza.
    L’illusione funzionava! Erano diventati invisibili.
    L’elfo corvino sorrise, incredulo: -Andiamo, veloci! Non so quanto riuscirò a resistere.- Alatar non se lo fece ripetere e trascinò Pallando dietro all’elfo dagli occhi blu.
    Stretti l’uno all’altro, i quattro corsero a perdifiato tra le rocce, allontanandosi passo dopo passo dalla loro terribile prigione.
    Pallando incespicava, senza forze e Saedor, al suo fianco, cominciò ben presto a perdere terreno, piegato dalle profonde ferite. -Forza, non cedere adesso! Ci siamo quasi!- Sussurrò Alatar, stringendo più forte il braccio del fratello.
    -S-Saedor sta male.- Ansimò l’altro, cercando di fermare la folle corsa di Alatar: -Se lo lasciamo indietro non sarà protetto dall’illusione di Lhospen… Non ce la faremo mai…- A quelle parole, Lhospen si voltò di scatto, cercando suo fratello con lo sguardo.
    Alatar imprecò mentalmente: spingeva Lhospen davanti a sé e trascinava Pallando quasi di peso, mentre questo reggeva a sua volta Saedor, sempre più rigido.
    Non sarebbero andati molto lontano, in quelle condizioni.
    Il panico cominciò ad attanagliargli lo stomaco e, come se non bastasse, una ronda fin troppo numerosa di uruk neri era appena apparsa dietro il piccolo crinale brullo alla loro destra.
    Erano in pericolo, dannazione.
    Lhospen tremava per lo sforzo e Alatar intuì che la sua illusione sarebbe durata ancora poco, troppo poco.
    Si guardò intorno febbrilmente, senza rallentare, trascinando tutti quanti come un bue con il carro.
    -Dobbiamo arrivare a quelle rocce! Saremo nascosti, poi potrete tutti riposare.- Sussurrò concitato.
    Non riuscì nemmeno a finire la frase che le sue speranze vennero repentinamente infrante: Saedor cadde prono sulla roccia polverosa, con un tonfo sordo. Pallando fu trascinato a terra a sua volta e l’illusione di Lhospen si lacerò violentemente in due, perdendo la sua efficacia.
    I quattro compagni rimasero immobili come statue di sale per alcuni secondi. Alatar smise persino di respirare, girandosi di scatto verso la ronda degli uruk.
    Forse non li avrebbero notati.
    Forse le rocce erano abbastanza alte da schermarli.
    Purtroppo, il destino era troppo infausto e nemmeno la paura sorda e le mani tremanti riuscirono a impedire a Lhospen di correre verso il fratello caduto.
    Bastò quel movimento, il suono di quei pochi, brevi passi e gli occhi di tutti gli uruk furono su di loro. Il ringhio dei maledetti carcerieri ferì le orecchie dei quattro sventurati compagni e Alatar si affrettò: aveva ancora un po’ di forza in corpo, poteva portare suo fratello sulle spalle. Tirò con violenza Pallando, cercando di farlo alzare: -ANDIAMO VIA!- Urlò, terrorizzato.
    L’altro lo strattonò malamente, tornando a scrollare il corpo sottile di Saedor. L’elfo bendato stava vomitando sangue. -Avanti, alzati fratello, ce la possiamo fare!- Lo incitava Lhospen, tirandolo debolmente per un braccio. Pallando guardò negli occhi i due elfi, il volto contratto dal dolore: -Se stiamo insieme, andrà tutto bene.-
    Alatar era incredulo e spaventato: erano così vicini alla libertà, perché nessuno lo stava ascoltando!?
    Spinse il fratello lontano dagli elfi, trascinandolo quasi di peso.
    -Ormai è finito, dobbiamo lasciarlo qui!- Gridò, fissando gli uruk correre come belve verso di loro.
    Pallando, invece, era di tutt’altro avviso: -Se deve morire, moriremo con lui!- Ringhiò, lasciandosi andare a peso morto, di nuovo a terra. Lhospen arrancava pietosamente verso di loro, reggendo Saedor al suo fianco.
    I due elfi erano un peso.
    Erano solo un dannatissimo peso.
    Li avrebbero catturati di nuovo e Alatar non poteva permetterlo. Guardò con odio crescente quegli elfi inutili serrare le loro dita attorno alla veste lurida di suo fratello, intrappolandolo insieme a loro. Notò il patetico e scheletrico vecchio che Pallando era diventato e sentì il proprio petto lacerarsi quando quello sguardo opaco si posò sui due elfi, lontano da lui.
    Perché in quel momento guardava loro e non lui, il suo unico fratello!? In un ultimo, folle gesto, Alatar sguainò la spada e avanzò con decisione.
    In un battito di ciglia, la lama trafisse il ventre di Saedor come fosse burro, uscendo dalla sua schiena con un violento fiotto di sangue. Era stato così dannatamente facile.
    Per un secondo ci fu silenzio.
    Lhospen continuava a fissare la mano di Alatar, stretta sull’elsa, come se non riuscisse a comprendere del tutto cosa stesse davvero accadendo. Purtroppo, Alatar sapeva bene cosa stava facendo, e non era affatto pentito.
    Aspettò di vedere il corpo bendato dell’elfo cadere al suolo, lasciando libera la veste di Pallando.
    Poi sarebbe toccato a Lhospen.

    Tuttavia, ciò non avvenne mai.
    Anzi, fu proprio Saedor a parlare per primo e la cosa sconvolse Alatar oltre ogni misura.
    Con una mano bendata, l’elfo saggiò il ferro della spada conficcata dentro di sé, con un’espressione indecifrabile: -Lhospen crea illusioni. Questo è il suo talento. Non mi hai mai chiesto quale fosse il mio, Alatar, perciò te lo dirò adesso. Sai perché proprio io subivo le peggiori torture?-
    Nella sua voce non c’era più gentilezza, né comprensione. Saedor sputava quelle parole con un tono rauco, disincarnato, metallico e carico d’indifferenza: -Perché io non posso morire.-
    E Alatar incontrò lo sguardo di quell’inquietante occhio nero come la notte. Sentì la terra mancargli da sotto i piedi, finendo dentro l’incubo peggiore che potesse immaginare.
    Pallando, riscuotendosi, lo spinse via con rabbia, riappropriandosi del proprio bastone di stregone solo per schermare il corpo dell’elfo bendato con il proprio: -Che cosa hai fatto!? CHE COSA HAI FATTO?!-
    Alatar indietreggiò: -I-io volevo…-
    Ma l’altro non lo stava già più ascoltando. Aiutato da un tremante Lhospen, Pallando si affaccendò a sorreggere Saedor, tentando di trascinarlo lontano. Nonostante arrancassero lontano da lui, Lhospen si voltò verso Alatar, cercando ancora il suo sguardo con una fiducia cieca che lo Stregone Blu sapeva di non meritare: -Aiutaci, Alatar!-
    E quella fiducia, il più giovane degli stregoni non l’avrebbe meritata mai, perché in quel momento, quando udì i passi pesanti dei moruruk ormai dietro di loro, egli si voltò di scatto e cominciò a correre.

    Di quello che avvenne in seguito, Alatar ricordò ben poco.
    Vedeva i visi dei tre compagni distendersi per la sorpresa, nel vederlo indietreggiare.
    Poi, dietro di sé, sentiva le loro voci chiamarlo, urlare il suo nome, mentre gli uruk li raggiungevano con le pesanti catene che cozzavano sulla roccia.
    Ma lui aveva corso veloce, lontano, sempre più lontano, finché le voci non erano sparite, riecheggiando solo nella sua mente in subbuglio. Dovettero passare molti giorni prima che i suoi piedi martoriati varcassero il confine di Mordor e lo conducessero attraverso le abbandonate terre dell’Ithilien.
    A quel tempo una grande battaglia si era consumata nei Campi del Pelennor, a Gondor, ma ad Alatar non era importato.
    Vagò per giorni, sempre più lontano, delirando per la forte febbre. Giorni, forse settimane dopo venne a sapere della caduta di Sauron, della distruzione dell’Anello, della disfatta di Barad-dûr. E ancora una volta non gli importò affatto.
    Voleva solo dimenticare; voleva solo cancellare i ricordi e i visi di quelle persone.
    Per anni camminò nell’Ovest, tra genti che non ricordavano più il suo nome, e curò le proprie ferite giorno dopo giorno, ricostruendosi.
    Forse fu per sopprimere il suo enorme e angosciante senso di colpa che s’impegnò ad aiutare il prossimo, non seppe spiegarselo in altro modo.
    Non raccontò mai a nessuno la sua storia. Inventò piuttosto delle utili e credibili bugie, che gli permisero di vivere indisturbato. Smise persino di avere incubi, dopo un po’.
    Trent’anni dopo, quando infine vide la stella cadere, lo stregone si era incamminato verso Nord, deciso a mentire ancora e ancora, per tornare ad essere solo l’Istar Alatar, Morinehtar, l’Assassino dell’Oscurità… L’Unico Stregone Blu.


    Se il suo corpo fosse stato in grado di muoversi, Alatar si sarebbe trafitto il corpo con un pugnale.
    Aveva rivissuto il passato, aveva provato nuovamente tutti i sentimenti che lo avevano piegato allora, ed era stato atroce.
    Si augurò con tutto il cuore che la tortura fosse giunta al termine. L’unica cosa che voleva sapere adesso era come quei tre fossero sopravvissuti sino a quel momento.
    Non avrebbe aspettato ancora molto, scommise tra sé e sé: chiunque avesse creato quella tremenda magia, aveva ormai raggiunto il suo scopo.
    Infatti, ben presto la mente dello stregone tornò a percepire la realtà, e i suoni che aveva udito in principio tornarono a pizzicargli le orecchie. Una ad una, le maglie del suo inconscio si sbrogliarono, concedendogli di aprire gli occhi.
    La prima cosa che vide fu la terra brulla che scorreva lentamente sotto di sé. Era a pancia in giù, sopra un cadavere di qualche genere. Forse un… mannaro?
    Girò poi il viso da una parte all’altra, lentamente, ancora spiacevolmente stordito. Attorno al mannaro marciavano i non morti, silenziosi e diligenti. Erano poco più di due dozzine, forse sarebbe riuscito a scappare.
    Si mosse velocemente, tentando di saltare giù dalla bestia non morta, ma qualcosa lo trattenne. Di nuovo, un inteso odore di erbe curative lo investì ma questa volta non ebbe dubbi in merito.
    Non riuscì a sopprimere un brivido di puro terrore quando chi cavalcava il mannaro tirò violentemente il suo braccio verso di sé, incatenando il suo sguardo nel baratro assoluto di un occhio nero come la notte. -Saedor…-

 


 
[1] Anno 3016 della Terza Era: secondo la cronologia della Terra di Mezzo (le cui date sono tratte dalle appendici A, B e C del Signore degli Anelli), in questo periodo Sauron si stava riorganizzando nella sua fortezza, a Mordor, dispiegando ricerche per ritrovare il suo prezioso Anello. Pressappoco dieci anni prima, Gandalf veniva a conoscenza che quest’ultimo era in possesso di Bilbo Baggins e spediva Aragorn alla ricerca di Gollum, l’unica altra creatura a conoscenza di quel fatale segreto.
 
[2] Le visioni di Pallando: ogni Istar (ovvero i 5 Maiar che facevano parte dell’Heren Istarion, l’ordine degli Stregoni) fu inviato nella Terra di Mezzo come “protetto” di uno specifico Valar. Saruman fu scelto da Aulë, patrono della conoscenza e avido di potere; Gandalf invece fu preferito dal signore di tutti i Valar, Manwë, colui che si fida della bontà dell’uomo ed è il più saggio tra i saggi; Radagast il Bruno fu inviato da Yavanna, protettrice della natura e dei suoi abitanti; Alatar fu scelto= =personalmente da Oromë, il possente cavaliere temuto persino da Melkor stesso. Insomma, sembrerebbe proprio che lo stregone, in parte, rispecchi il Valar di riferimento. Per Pallando la storia è diversa, poiché non è affatto specificato quale tra i Valar fosse il suo protettore. Viene anzi accennato che fu Alatar stesso ad insistere per essere accompagnato da lui e che non fosse stato proprio un Valar in particolare a sceglierlo. Approfittando di questi enigmi, ho scelto io: ad inviarlo fu il Valar Mandos, colui che conosce tutte le cose che sono state che sono e che saranno. Tutto secondo i fini della trama, ovviamente XD Perciò, le sue visioni, seppur deboli e lontane, sono un retaggio del suo legame con il Valar.
 
[3]  L’essere strisciante cui il simpatico orco si riferisce è proprio Gollum. Dopo essere stato derubato da Bilbo, Gollum esce dalle caverne e comincia a cercare il suo tesoro. Più di trent’anni dopo, attratto dall’oscurità di Mordor, fu sorpreso dagli orchi, catturato e torturato, a Barad-dûr. Qui, dopo diversi mesi di agonia, nel 3016, egli confessò: “Contea! Baggins!” e Sauron inviò i Nazgul alla ricerca di Frodo. Ed è così che cominciò l’avventura!
 
[4] Anno 3019 della Terza Era: l’anno in cui ebbe luogo la Guerra dell’Anello e quasi tutti i fatti che vediamo nella trilogia. In questo momento, Barad-dûr si svuotò, poiché la maggior parte degli orchi di Mordor era impegnata nella battaglia dei Campi del Pelennor, dove Theoden di Rohan perse la vita. Solo due mesi dopo, Aragorn fu incoronato Re.



N.D.A

Ciao! Scusatemi per la lunga assenza ma sto scrivendo la Tesi T-T che parto, spero vada tutto bene XD Intanto, come state? Di nuovo in allerta, di nuovo nell’ansia, questo 2020 deve finire! Intanto, seppur a rilento (mooooolto a rilento) continuo a scrivere, spero vorrete perdonare l’attesa! Che ne pensate di questa allegra ripresa, eh? Capitolo difficilissimo ma spero di avervi regalato qualche emozione, dopo tanto tempo. Ringrazio chiunque sia tornato a leggere nonostante le continue sparizioni <3 E grazie infinite a chi ha recensito, seguito e preferito la storia! Vi mando mille baci!
Con affetto,
Aleerah

P.S Dopo questo lungo capitolo, come vedete il nostro Alatar? I vostri sentimenti nei suoi confronti sono cambiati? O eravate sospettosi dal principio? Cosa pensate delle sue scelte? Sono davvero curiosa! Bacii
   
 
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